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Autore: Old Fashioned    12/08/2016    14 recensioni
Seconda guerra mondiale, battaglia di Inghilterra. Un leggendario quanto inafferrabile pilota della Luftwaffe, soprannominato "Cavaliere di Valsgärde", compare durante le battaglie più cruente, abbatte il suo avversario e subito dopo scompare senza lasciare traccia.
Il Maggiore Stuart, del 19° Squadron, riesce finalmente ad abbatterlo con uno stratagemma, ma quando l'Asso tedesco sarà al suo cospetto le cose si riveleranno molto diverse da come se le aspettava...
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Capitolo 17

Provvidenzialmente, l'Intelligence arrivò proprio il mattino dopo. Tornarono i due ufficiali che aveva già conosciuto, e che frattanto aveva scoperto chiamarsi rispettivamente capitano Benson e maggiore Linwood, entrambi col sorriso delle grandi occasioni stampato in volto.
“Salve, vecchio mio!” salutò il maggiore scendendo dalla macchina. “Le porto delle ottime notizie!”
“Che genere di notizie?” chiese Stuart vagamente sospettoso.
“Notizie di suo gradimento, vedrà. C'è un posto dove possiamo parlare?”
Si spostarono nella baracca del comando.
“Ecco qui, guardi!” esclamò il maggiore Linwood non appena si furono seduti intorno al tavolo. “Guardi che bellezza.”
Solennemente tirò fuori dalla sua cartella portadocumenti un astuccio di velluto e lo fece scivolare verso Stuart.
Questi lo fissò perplesso e poi alzò gli occhi sul collega.
“Lo apra, lo apra!” disse Linwood con fare incoraggiante.
L'altro fece ciò che gli veniva suggerito: all'interno della scatoletta, adagiata su un prezioso letto di seta color porpora, c'era una croce latina d'argento. Al centro aveva un serto di foglie che conteneva le lettere R.A.F. ed era sormontato da una corona reale. Lungo i bracci orizzontali della croce si allargavano due ali.
Stuart riconobbe la decorazione: si trattava di una DFC, Distinguished Flying Cross, e veniva assegnata solo per atti di valore, coraggio o dedizione al dovere compiuti nel corso di voli di guerra contro il nemico.
Alzò gli occhi per fissare in viso il suo parigrado. “Che significa?” chiese serio.
“Questa le verrà conferita nel corso di una cerimonia ufficiale.”
“Non ne vedo il motivo.” Chiuse la scatola con un gesto secco e la rispedì al mittente.
“Oh, via, non sia modesto,” rispose Linwood, “in fin dei conti ha abbattuto un pericoloso pilota nemico.”
“Sarebbe a dire?”
“Ma il Cavaliere di Valsgärde, no?”
“Vi ho già detto che non è lui,” replicò Stuart alzando leggermente la voce. Poteva anche aver deciso di consegnare von Rohr, ma non gli andava di prestarsi a quella farsa.
Linwood assunse l'aria di paterna benevolenza che era solito opporre alle affermazioni di principio di Stuart. “Suvvia, maggiore, gliel'ho già spiegato,” disse in tono amichevole, come a cercare una qualche forma di complicità. “In realtà non importa a nessuno se quel crucco sia davvero il Cavaliere o no. L'importante è come lo presenteremo alla gente. Mostreremo un Unno cattivo che viene punito per la sua perfidia, tutti saranno felici e contenti e odieranno il dannato Terzo Reich con rinovellato vigore.”
Il maggiore Stuart lo fissò meditabondo. Dopo qualche secondo di silenzio chiese: “Non gli farete niente, vero? Intendo, niente di male.”
I due dell'Intelligence si scambiarono un'occhiata. “Assolutamente nulla,” gli assicurò il maggiore.
“Niente di niente,” ribadì il capitano, che apriva bocca per la prima volta.
“Voglio dire, non vi metterete a picchiarlo o cose del genere per fargli confessare che è il Cavaliere di Valsgärde, spero.”
Linwood parve addirittura offeso. “Che sciocchezza, non siamo mica nel Medioevo!” protestò.
Sul gruppo calò di nuovo il silenzio. Stuart avrebbe dovuto provare sollievo per quello che stava per succedere, ma chissà perché la cosa invece gli comunicava una sorda inquietudine. Fissava ora l'uno ora l'altro dei suoi interlocutori alla ricerca di una conferma che von Rohr sarebbe stato trattato adeguatamente, ma la loro espressione non lo rassicurava per nulla.
Aprì la bocca per parlare, ma prima che potesse proferire verbo Linwood lo precedette: “E c'è anche una promozione nell'aria,” disse con una strizzata d'occhio. “Dia retta a me, se gioca bene le sue carte si ritroverà tenente colonnello prima della fine del mese.”
In quel momento un aereo passò a bassissima quota sul campo, facendo tremare i vetri col rombo del motore.
Stuart non alzò nemmeno la testa, sicuramente si trattava di uno dei suoi ragazzi in vena di bravate, ma i due dell'Intelligence, non abituati a tali spettacoli, corsero alla finestra.
Vedendoli distratti, il maggiore ne approfittò per sbirciare i dattiloscritti che spuntavano dalla cartella di cuoio. Lo strano atteggiamento mellifluo dei suoi ospiti l'aveva insospettito e voleva vederci chiaro.
Sfilò un documento e gli diede una scorsa. Subito lo sguardo gli cadde su una parola: impiccagione.
“Che significa?” esclamò, balzando in piedi senza abbandonare il foglio.
Tutti i suoi bei castelli in aria crollarono miseramente: altro che strapazzarlo un po' e mandarlo in un campo prigionieri in Canada, quelli volevano ammazzarlo!
I due ufficiali dell'Intelligence si girarono bruscamente verso di lui.
“Che cosa significa tutto questo?” ripeté Stuart indietreggiando col documento sgualcito in mano.
Linwood sospirò. “Via, maggiore, non faccia il bambino.”
“Come sarebbe a dire ‘non faccia il bambino?’ Volete processare e uccidere un innocente, io non sarò mai complice di una cosa del genere, nemmeno se mi offrite dieci medaglie e il grado di generale!”
I due dell'Intelligence si scambiarono uno sguardo a metà fra il perplesso e l'esasperato. “Questa è guerra, maggiore Stuart,” cominciò poi pazientemente Linwood. “Guerra, ha presente?” Sembrava che parlasse a un bambino ritardato. “E noi avremmo anche intenzione di vincerla, possibilmente. Giusto?”
Si fermò in attesa di una risposta, ma il pilota si limitò a guardarlo torvo.
Imperterrito, Linwood riprese: “Capisce anche lei che non possiamo permetterci di perderla. È in gioco la sopravvivenza della civiltà come noi la conosciamo, e se il prezzo da pagare per mantenere le cose come sono è la testa di due o tre innocenti, chiamiamoli così, io lo accetto ben volentieri.”
Stuart continuava a tacere. I suoi occhi mandavano lampi.
“Ma insomma!” sbottò alla fine Linwood. “Mi sembra che lei gli abbia sparato per abbatterlo, no? Non ha rischiato di ucciderlo in quel frangente?”
“Non è la stessa cosa,” fu la cupa risposta. “Quello era uno scontro onorevole, questo sarebbe un assassinio.”
A quelle parole l'ufficiale dell'Intelligence si irrigidì. L'aria da curato di campagna scomparve come per incanto e lasciò il posto a un cipiglio da freddo burocrate.
“Basta così,” disse asciutto. “Il suo romanticismo mi commuove, ma io sono pagato per distruggere il Terzo Reich, non per recitare melodrammi.”
Sfilò dalla sua cartella una busta e la porse al maggiore.
“Questi sono gli ordini. Abbia la compiacenza di attenersi ad essi, se non vuole finire sotto processo per insubordinazione.”
Attese che Stuart prendesse i documenti, quindi girò sui tacchi e uscì seguito dal capitano Benson.
Dalla soglia, Stuart gli gridò dietro: “Ha sbagliato, Linwood! Invece di una medaglia e una promozione, avrebbe dovuto propormi trenta denari!”
Dopodiché chiuse la porta con un tonfo.

Per svariati minuti non fece altro che aggirarsi furente per la stanza. Camminava su e giù come una belva in gabbia senza riuscire a capacitarsi di quello che aveva appena udito.
Quel ragazzo sarebbe stato impiccato come un criminale e lui non avrebbe potuto fare niente per impedirlo.
Guardò fuori dalla finestra quasi augurandosi che qualche Heinkel 111 della Luftwaffe avesse a bordo delle bombe di troppo e decidesse di mollare l'eccedenza proprio sopra la macchina dei due ufficiali di rientro a Londra.
Com'era possibile far la guerra in quel modo?
Lui combatteva tutti i giorni contro i tedeschi. Ne aveva abbattuti parecchi, certo, sicuramente ne aveva anche uccisi, esattamente come i tedeschi avevano abbattuto e ucciso tanti dei suoi, ma non aveva mai provato odio nei loro confronti, né tentato di vincere le battaglie con gli inganni che l'Intelligence voleva portare avanti.
A suo modo di vedere ci dovevano essere delle regole nella guerra, che anche negli scontri più cruenti facevano sì che gli uomini non si trasformassero in bestie.
Sospirò interrompendo il suo nervoso aggirarsi. L'avevano definito romantico. Con disprezzo, come se fosse stata una cosa di cui vergognarsi, quando gli unici che avrebbero dovuto vergognarsi erano loro.
Scosse desolato la testa, impotente a contrastare ciò che stava accadendo, ma al tempo stesso disgustato e furioso.
Lesse gli ordini che gli erano stati lasciati: si trattava di un'asettica serie di istruzioni circa il trasferimento del prigioniero. Rifletté che se non fosse riuscito a sfilare quel foglio dalla cartella del maggiore non avrebbe mai saputo cosa stava per accadere a von Rohr. Quella era la considerazione che l'Intelligence manifestava nei confronti degli ufficiali delle Forze Armate: galoppini idioti, da tenere il più possibile all'oscuro delle sue mene.
Ripensò al giovane pilota della Luftwaffe. Era terribile che dovesse fare quella fine: accusato ingiustamente di essere un criminale di guerra e giustiziato. Si chiese per l'ennesima volta se ci fosse un modo per evitarlo, ma per quanto ci ragionasse non gliene veniva in mente nessuno.
Aprì un cassetto della scrivania per riporre la busta con gli ordini e nel movimento gli rotolò sotto gli occhi un distintivo che vi aveva dimenticato dentro giorni prima. Lo raccolse con un vago sorriso e se lo infilò in tasca, poi abbandonò la baracca del comando per andare alla ricerca di Poynter.

Quel giorno c'era burrasca sulla Manica, il che erigeva un muro pressoché invalicabile tra la caccia della RAF e quella della Luftwaffe. Condannati all'inattività, i piloti del 19° Squadron cercavano di ingannare il tempo in qualche modo. Alcuni ne approfittavano per recuperare un po' di sonno arretrato, altri scrivevano a casa, altri ancora se ne stavano semplicemente a ciondolare in giro senza saper bene che fare.
Poynter stava giocando a golf. Aveva tirato fuori il suo fedele wedge e con quello cercava di spedire delle palline dentro una tinozza. Siccome non ci riusciva quasi mai, c'erano palline disseminate un po' dappertutto in un raggio di dieci metri intorno a lui.
“Qualcuno potrebbe inciampare,” disse Stuart avvicinandosi.
Il capitano interruppe il suo allenamento. Si voltò senza fretta verso di lui e rispose: “Anch'io sono felice di vederti, George.”
Si appoggiò alla mazza assumendo una posa vagamente simile a quella del Re Sole.
“Qual buon vento?” chiese poi, visto che il suo interlocutore continuava a fissarlo cupo senza proferire parola.
“Quei bastardi!” sbottò allora Stuart.
“Prego?”
“Sono degli schifosi bastardi, non meritano di indossare l'uniforme.”
Poynter inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione di cortese interesse. “Si può sapere di chi stai parlando?”
“I due ufficiali dell'Intelligence. Schifosi, stavolta hanno passato ogni limite.”
Il capitano notò che nel parlare l'amico stringeva nervosamente i pugni, cosa che faceva unicamente quando era fuori di sé dalla rabbia.
“Cos’è successo?” gli chiese.
“Ti conosco, alla fine darai ragione a loro,” brontolò Stuart per tutta risposta. “Dirai che non ti aspettavi niente di diverso e che è un modo molto razionale di fare la guerra.”
“Ma di cosa stai parlando, in nome di Dio?”
“Lo vogliono ammazzare!” rispose il maggiore con improvvisa veemenza. “Organizzeranno un processo farsa in cui lo faranno passare per criminale di guerra e poi lo impiccheranno.”
Prima di rispondere, Poynter si prese un mezzo minuto di riflessione. Colpì una pallina, che rimbalzò sulla tinozza e rotolò via, quindi proferì: “Non si può negare che sia una porcata.”
Tornò a concentrarsi sul golf.
“Ma?...” buttò lì Stuart, consapevole che il parere dell’amico non si sarebbe limitato a quella scarna constatazione.
“Ma non mi aspettavo niente di diverso,” rispose il capitano con un’alzata di spalle. “Hanno un’occasione e la sfruttano, tutto qui.”
Altro colpo, altra pallina a rotolare sul prato. “Piuttosto…” riprese poi cautamente.
“Cosa?”
“Forse ti stai prendendo la faccenda un po’ troppo a cuore.”
Stuart gli rivolse uno sguardo torvo e ringhiò: “Sarebbe a dire?”
“Suvvia, hai capito benissimo,” replicò Poynter prendendo di mira l’ennesima pallina, “von Rohr è un prigioniero di guerra, non hai nessun motivo per tenerlo qui.”
“Ma lo vogliono uccidere!” insisté indignato il maggiore.
“Posso ricordarti che tu hai cercato di fare la stessa cosa non più di dieci giorni fa?”
Et tu, Brute!”
“Non cominciare col latino,” lo ammonì Poynter, che ben conosceva la tendenza dell’amico a ricorrere alle citazioni classiche quando si trovava a corto di argomenti. “Te lo tieni in gabbia come una specie di animale da compagnia e sai benissimo che è una cosa fuori da ogni regola. Sicuramente in altre circostanze avrei giudicato von Rohr un simpatico giovanotto e un abile pilota, ma purtroppo adesso siamo in guerra e lui è un ufficiale nemico.”
“E quindi?”
“E quindi? Sai quanti dei nostri avrà fatto fuori? Lascialo perdere, è una porcata accusarlo ingiustamente, ti capisco, ma non è nemmeno opportuno che tu ti faccia tutti questi scrupoli per lui.”
“Oh, scusa tanto,” replicò Stuart sarcastico, “probabilmente hanno ragione quelli dell’Intelligence, sono un romantico.”
“Temo proprio di sì.”
Detto questo, Poynter riprese gli allenamenti di golf. Stuart fece qualche tentativo di proseguire il discorso, ma l’udienza era terminata. Il suo amico gli aveva già detto quello che aveva da dire, e ora lo lasciava libero di ragionarci sopra.

Il maggiore rimase per un po' a guardarlo mentre provava il suo celebre swing, poi tornò rassegnato e deluso sui propri passi. Avvertiva una sgradevole sensazione di solitudine: lui era lontano mille miglia da quei prosaici ingegneri della guerra, gente per cui lealtà e onore non erano altro che ingranaggi da oliare adeguatamente per far funzionare meglio la macchina.
Non aveva niente da spartire con loro.
Paradossalmente, gli parve di avere molte più cose in comune con von Rohr, che in fin dei conti come lui era un romantico che combatteva mosso da ideali.

   
 
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