•••
Londra vide l’alba sei volte prima che il destino bussasse alla porta
di Baker Street. Hope si levò di buonora quella mattina e non fu
sorpresa di non trovare Sherlock Holmes nella stanza da letto. Si vestì
con cura, lisciando ogni piega del vestito color edera, e acconciò i
capelli in una treccia. Rimase a mirarsi nella specchiera. Sul volto
erano sempre visibili i segni della recente sventura, che ancora
accompagnava i suoi incubi. Nessuno di loro aveva riportato ustioni
importanti, ma le pelli non avevano ripreso del tutto il loro colore
naturale nelle zone offese ed escoriazioni di varia natura si stavano
ancora rimarginando. Hope accarezzò con l’indice mancino un livido
sotto lo zigomo e il suo sguardo cadde sul riflesso dell’anulare.
Osservò gli anelli con cura, prima nello specchio e poi nella realtà,
come se li vedesse per la prima volta. Sospirò, per poi sfilarli
lentamente e poggiarli entrambi sulla superficie del mobile. Il giorno
era arrivato. Si incamminò fuori dalla stanza fino ad entrare nella
sala, dove trovò Watson seduto a fare colazione.
“Buongiorno.”
Lo salutò, con un breve sorriso di circostanza che venne ricambiato.
“Buongiorno anche a lei.”
Hope non sapeva cosa fosse successo prima del suo risveglio, ma
certamente il buon dottore non aveva lo stesso comportamento cui
l’aveva abituata: non sarebbe stata spesa altra parola, infatti, per
lei nel resto della giornata, almeno che non si trattasse di un saluto
cordiale o di una breve risposta a una sua domanda. La situazione la
infastidiva più di quanto avrebbe mai ammesso, perché non riusciva a
intendere cosa fosse accaduto – che la incolpasse per quello che era
successo, forse? – e non aveva materialmente il tempo per dare risposta
ai suoi dubbi.
Non si sedette con lui e raggiunse la finestra, dove scostò
leggermente la tenda con due dita per guardare fuori e lasciarla aperta.
“Non si unisce a me per la colazione?”
Hope si voltò, guardandolo con genuino stupore e curiosità.
“Non ho appetito.” Rispose.
“La vedo piuttosto pallida. È sicura di non voler mangiare
qualcosa?”
Lei sorrise brevemente. “È molto gentile a preoccuparsi.”
“Non ha risposto alla mia domanda.”
“Ha ragione. Sì, sono sicura. Ma prenderò posto insieme a lei.”
Watson la seguì con lo sguardo mentre copriva la distanza dalla
finestra alla sedia all’altro capo del tavolo. Era ben conscio di aver
mantenuto un comportamento scorretto nei suoi confronti; ne aveva
meditato tutta la notte e aveva deciso che non era giusto punirla – per
così dire – per una cosa di cui non aveva direttamente colpa. Non era
colpa sua se era stato così sciocco da innamorarsi del suo migliore
amico e a dare per scontato che l’altro sarebbe stato accanto a lui per
sempre. Era stato sciocco ed egoista, per non parlare della sua
ipocrisia: lui era stato il primo ad allontanarsi per stare affianco ad
un’altra persona, anche se lo aveva fatto per mantenere le apparenze.
Hope era davvero molto pallida. Vagava con occhi stanchi lungo la
superficie del tavolo, tenendo le mani intrecciate in grembo e senza
mai incrociare il suo sguardo.
“Qualcosa la turba?”
Lei sorrise brevemente ed alzò gli occhi su di lui. “No.”
Watson attese, ma la risposta non proseguì. Finì la sua colazione
nel silenzio più totale, osservando di tanto in tanto il comportamento
dell’altra. Non era intenzionato a porle altre domande cui sicuramente
non avrebbe risposto, ma non poté fare a meno di iniziare a
preoccuparsi. A distoglierli dai loro pensieri fu l’arrivo di Mrs.
Hudson, che li coinvolse in una sorridente conversazione fatta di
leggerezze mentre raggruppava le stoviglie da portare al piano di
sotto. Qualche istante dopo che la padrona di casa ebbe lasciato la
stanza Holmes fece il suo ingresso: aveva un sorriso furbo e gli occhi
accesi di soddisfazione.
“Sono felice di trovarvi qui riuniti.” Camminò a passo svelto nel
mezzo della stanza. “È giunto il momento che condivida con voi tutto
ciò cui le mie indagini hanno portato. Ma vi prego, mettetevi comodi!
Non c’è alcun motivo per cui dobbiate rimanere all’impiedi!” Il
detective gesticolò verso le poltrone e il divano ed attese che i due
compagni prendessero posto prima di ricominciare a parlare:
“Il giro di affari di Timothy Carlton ha da sempre squisitamente
attirato la mia attenzione. Un magnate che lavora di sotterfugi e
inganni, con capacità intellettive e criminose inferiori solo a quelle
del Professore. Il dottore può confermare quanto queste qualità
solletichino il mio genio. Ed è per questo motivo che anche l’attuale
più famoso ladro di Inghilterra ha attirato la mia attenzione.”
“The Man?” Chiese Watson.
“Esattamente.”
“Questo cosa ha a che fare con Carlton?”
“Mio caro amico, è legato a questo caso molto più di quanto
possiate immaginare.” Guardò rapidamente Hope prima di tornare a
parlare. “Abbiamo a che fare con un ladro molto astuto, dalle
indiscutibili capacità atletiche e dalle tempistiche ammirevoli. In
media è riuscito a svaligiare due ville a settimana nell’arco di un
mese, tra cui quella del nostro Carlton che è stata l’ultima.”
“Una concentrazione altissima di furti conclusasi repentinamente.”
“E ricorda quanto tempo è trascorso?”
Watson si mise a riflettere. “Più o meno da quando siete partito
per la Francia.”
“Non lo trova curioso?”
“Si tratta sicuramente di una coincidenza.”
“Le coincidenze non esistono, raramente l’universo è così pigro.” [11]
“Con i vari bottini potrebbe essersi sistemato per tutta la vita.
Oppure potrebbe-” Il dottore si bloccò.
Credo conoscerà il magnate
Timothy Carlton, sì? Ebbene, ho effettuato una rapina a suo danno
qualche settimana fa, venendo a conoscenza che la maggior parte degli
oggetti d’arte che commercia sono dei falsi. [12]
Si voltò leggermente verso Hope; la donna era immobile, la schiena
ritta e rigida, con le mani incrociate tenute in grembo.
“Oppure potrebbe aver scoperto qualcosa che lo ha portato alla
necessità di sparire.” Concluse la frase e Holmes lo guardò provando
una punta di orgoglio per quello che il compagno era riuscito ad
imparare nel corso di quegli anni.
“Un’altra cosa che aveva attirato la mia attenzione era la
necessità di marcare il fatto che si trattasse di un individuo maschio
a compiere questi furti. L’ottusità degli Yarder non li avrebbe mai
portati su una strada diversa, ma il ladro ha avuto l’accortezza di
plagiare la mente di ogni singolo cittadino. Chi mai potrebbe credere
che il colpevole sia una donna se sulla scena del delitto viene
espressamente detto che si tratta di un uomo.”
“Nessuno, a parte Sherlock Holmes.” Hope uscì dal suo silenzio, ma
non rilassò le spalle.
“Mi hai dato tutti gli indizi giusti. Durante il nostro primo
colloquio mi hai esplicitamente detto da chi stavi cercando di fuggire
e perché.”
“Le cose stavano così.”
“Una persona così accorta come te non si sarebbe lasciata sfuggire
un dettaglio così rilevante. Hai lavorato attentamente per restare
completamente nell’ombra, avresti potuto inventare qualsiasi cosa per
far sì che ti dessi il mio aiuto.”
“Sono certa lo avresti scoperto.”
“E allo stesso tempo” continuò, “saresti potuta sparire nel nulla
nel momento stesso in cui hai scoperto che Carlton conosceva la tua
vera identità. Certo, lui è un uomo molto influente e avrebbe potuto
darti la caccia, ma nessuno ha tentato di seguirci quando ci siamo
ritirati in Francia.”
“Devi averci riflettuto molto. A che conclusione sei giunto?”
“Carlton voleva che venissi da me.”
“Cosa?” Watson passò lo sguardo dall’uno all’altra con le
sopracciglia corrugate. “Quale motivo avrebbe avuto?”
“L’unico problema più grosso di una ladra con grandissime doti che
ha scoperto il tuo segreto è un detective che sta cercando di
incastrarti e distruggere tutto ciò che hai creato. Quale modo migliore
di liberarsi di entrambi in un colpo solo. Ho ragione?”
Hope non rispose. Si limitò a sostenere il suo sguardo con
espressione neutra, così in contrasto con la sua postura.
“Sta dicendo che Carlton vuole uccidervi entrambi?”
“Sto dicendo che Carlton ha mandato Hope ad uccidermi.”
Il silenzio cadde su di loro.
“Tutto questo è assurdo!” Watson si mosse a disagio e si rivolse
alla ragazza: “È vero ciò che dice? Si è infiltrata qui con l’intento
di uccidere?”
La giovane donna mantenne lo sguardo su Holmes, ignorando la
domanda del dottore. Poi parlò:
“Quando lo hai capito?”
“Ne ho sempre avuto il sospetto e ne ho avuta la conferma con
l’irruzione in questa casa. Non erano venuti con l’intento di
perpetrare un omicidio, ma come avvertimento. Il tempo scorreva e tu
non gli stavi dando ciò che voleva.”
“Quegli sciocchi omuncoli non conoscono il concetto di piano a
lungo termine come noi. È stato un vero tedio tentare di fargli capire
come stavo agendo…” Si alzò in piedi. Watson si mise sulla difensiva,
pronto ad agire nel caso ce ne fosse stato bisogno. Aveva visto Hope in
azione e non era più sicuro di sapere cosa o non cosa sarebbe stata in
grado di fare ora che Holmes aveva scoperto il suo gioco.
“In particolar modo perché quello non era il tuo piano. Sono
rimasto davvero colpito dal tuo scaltro e il tuo ingegno. Per non
parlare della capacità di tirare i fili di un teatrino del genere.
Ammetto di aver impiegato più del dovuto a capire come stavano
realmente le cose. Far credere a Carlton di stare al suo gioco, di
acconsentire alle sue richieste, montando uno scenario che ai suoi
occhi doveva essere a danno del sottoscritto e a suo beneficio. Ma
l’unica persona che può trarre beneficio da questa storia non è
nessun’altra se non te.”
Hope sorrise tristemente. “La cosa è opinabile.”
Ed accadde.
•••
“Non
ricordo con piacere la mia infanzia. Sono nata e cresciuta in un circo,
sempre errando di città in città. Mio padre era una brava persona, ma
dopo la morte di mia madre l'alcol lo rese manesco e molto irritabile.
Ben presto mio fratello ed io iniziammo a sfruttare tutto ciò che
avevamo imparato dal circo per guadagnarci da vivere da soli; eravamo
due piccoli acrobati con una grande propensione alla recitazione e una
buona memoria visiva: non usare queste qualità ci sembrò un sacrilegio,
un'opportunità sprecata. E crescendo non abbiamo abbandonato il
mestiere. È stato Nicholas[13] ad
avere l'idea.”
“Infiltrarsi all'interno per poter fare il colpo del secolo.”
“Sapevamo che non sarebbe stato facile e che avrebbe richiesto una
lunga attesa, ma eravamo pronti a tutto.”
“Tranne che a trovarvi tra le mani della refurtiva composta da
falsi. Per quanto tempo Nicholas è stato un sottoposto di Carlton?”
“Tredici mesi, e lo è ancora adesso. Siamo venuti a sapere troppo
tardi che tutte le opere d'arte nella villa di Londra sono tutti dei
falsi.”
“A tue spese.”
Sorrise amaramente. “Non so come fecero a trovarmi quella sera. So
solo che ero certa non avrei più rivisto la luce del sole.”
“Ma Carlton aveva altri piani.”
“Ho fatto molte cattive azioni nella mia vita: ho truffato,
mentito, rubato, ma non ho mai ucciso nessuno. Non sarei mai riuscita a
toglierti… a toglierle la vita.”
“Quella notte, quando sei venuta da me, non hai mentito, volevi
realmente essere protetta. Hai portato avanti la messa in scena perché
ti osservavano. E questo era ciò che lui si aspettava da te.”
“Speravo con tutto il cuore che la situazione si risolvesse da
sola. Che riuscisse ad incastrare Carlton-”
“Sei tornata a darmi del lei.”
Hope lo guardò in silenzio per qualche secondo, non aspettandosi
un’affermazione del genere. “È vero.”
“Non è cambiato niente.” Iniziò Holmes.
“Come può affermare una cosa del genere?” Domandò lei, lasciando
trasparire il rimorso dagli occhi e dalla voce. “Le ho mentito a bella
posta, con l’egoistico intento di salvare la mia pelle e la mia anima!
Ho rischiato di farvi uccidere entrambi dentro quel magazzino!” Spostò
lo sguardo, ormai lucido, sulla parete. “Non merito il vostro aiuto.
Non merito di stare qui…”
“In fede mia, sarei la più crudele delle persone se ti lasciassi
al tuo destino precludendoti il mio aiuto!”
Holmes le sorrise, cercando di rassicurarla.
“Puoi esserti nascosta dietro tanti volti,” la interruppe “ma c’è
stato un momento, da quando tu e John siete stati attaccati in casa, in
cui hai smesso di mentire. O quasi del tutto.”
Si sporse verso di lei.
“Qual è il tuo nome?”
La ragazza esitò, stringendo le lenzuola tra le dita.
“Charlie.” [14]
•••
Era
successo tutto troppo in fretta. Troppo
in fretta. John Watson non sapeva con certezza, in vita sua,
quante persone aveva visto morire davanti ai suoi occhi. Troppe morti. Ma quella sensazione
di nausea mista a rabbia e senso di colpa era una cosa a cui non si era
mai abituato, e in quel momento era forte e prepotente in lui, tanto
che avrebbe voluto urlare.
La finestra era esplosa in mille pezzi quando il proiettile vi
aveva impattato contro, per poi concludere la sua corsa nel corpo di
Hope, che si era accasciata sul tappeto di pelle di tigre. Non c’era
stato nulla da fare.
“Watson.”
Il dottore non si mosse. Rimase con la schiena appoggiata al muro
esterno dell’obitorio, lo sguardo perso in un punto imprecisato. Holmes
entrò nel suo campo visivo, fermandosi dritto in piedi davanti a lui.
Lo osservò: niente in lui dava l’idea di un possibile cedimento, della
possibilità che si lasciasse emotivamente struggere come stava facendo
lui. Non era un comportamento da Sherlock Holmes.
“Watson…”
“È sempre così difficile.”
“A cosa si riferisce?”
“Al convivere col senso di colpa.”
“Non si dia colpe che non ha, dottore. Non poteva fare niente per
salvarla.”
“Questo non mi fa sentire meglio.” Chiuse gli occhi per un
istante. “Ha cercato aiuto in noi, ed è morta nell’unico posto in cui
pensava di essere al sicuro. E dopo il giorno dell’esplosione io…”
Holmes lo interruppe afferrandolo fermamente per le spalle.
“Non hai niente da rimproverarti, John. Devi credermi.”
Si guardarono negli occhi per un tempo che parve eterno, fino a
quando Watson non si costrinse ad abbassare lo sguardo, perché il
desiderio di far sua la bocca del detective stava diventando
irrefrenabile.
Holmes distolse lo sguardo a sua volta, schiarendosi la voce, e
fece scivolare le mani via dalle sue spalle con una carezza leggera. “È
ora di rientrare, dottore. Mrs. Hudson sarà in pena per ciò che è
successo.”
In risposta ottenne solo un lieve cenno del capo, ed insieme si
avviarono verso Baker Street.
•••
“È una cosa che mi sta bene… morire per
te.”
Che cosa stupida e sentimentale. Holmes sbuffò vistosamente mentre
scioglieva il bendaggio che gli era stato fatto all’avambraccio. Il
dottore che si era occupato di Watson e di Hope aveva insistito per
medicare anche lui e a niente erano valse le sue proteste. Per cui, ora
si trovava lì, a eliminare quelle fastidiose bende. Se John
avesse saputo che si era tolto le fasce appena messe gli avrebbe fatto
una ramanzina lunga secoli. Sorrise all’idea, ma il pensiero di quello
che era successo lo colpì come uno schiaffo. Si voltò: Watson giaceva
tranquillo nel suo letto, con le braccia adagiate sulla coperta, come
era stato lasciato dal medico.
Nella mente del detective era ancora viva l’immagine del suo
Boswell immobile ed inerme sotto quella trave in fiamme. Chiuse gli
occhi e prese un respiro profondo, per poi andare a sedersi sul bordo
del letto. Aveva rischiato di perderlo per sempre. Sarebbe bastato che
fosse tornato in dietro con qualche minuto di ritardo e Watson non ce
l’avrebbe fatta. Non avrebbe mai
potuto perdonarselo.
Dopo qualche istante di esitazione poggiò la mano su quella
dell’amico.
“Te lo avevo detto: io mantengo sempre la parola.” [15]
In risposta ottenne solo il silenzio assordante della stanza.
Rimase in quella posizione a lungo, osservando l’amico inerte,
finché il suo corpo non reclamò a gran voce l’attenzione su di sé. Le
pareti della gola erano ancora irritate dal fumo inalato e le ferite
pizzicavano la pelle in maniera fastidiosa. Fece una smorfia. Non aveva
nessuna intenzione di costringersi in quelle bende quando aveva così
tante cose di cui occuparsi. Decise però che poteva concedersi un sorso
d’acqua e si alzò per prendere la caraffa che Mrs. Hudson aveva
lasciato sul canterale del dottore. Quando ne afferrò il manico la vide
tremare. I suoi nervi stavano venendo messi duramente alla prova. Si
morse il labbro inferiore con rabbia. Come
aveva potuto essere così sprovveduto? Come aveva potuto permettere che
accadesse? Versò con impeto il liquido nel bicchiere, facendone
cadere un po’ sul pavimento, e bevve. Doveva assolutamente mettere in
chiaro le cose con Hope – sempre se quello era il suo vero nome – e
renderla partecipe del fatto che lui sapeva. Questo probabilmente
avrebbe facilitato le cose. Li avrebbe aiutati a concludere il caso.
Si voltò nuovamente verso di Watson. Lasciarlo da solo in quello
stato non era una cosa che lo rendeva tranquillo, avrebbe preferito
vegliarlo fino a che non avrebbe aperto gli occhi, ma la situazione
stava precipitando di minuto in minuto e non poteva permettersi di
restare. Rimise il bicchiere al suo posto e uscì.
•••
“Holmes!”
Il dottor Watson era entrato nella sala da pranzo con l’aspetto e
l’agitazione di chi aveva appena appreso qualcosa di estremamente
importante: gli abiti erano leggermente scomposti e il respiro
affannato, segno evidente che aveva camminato e salito le scale con
passo svelto, ed i suoi occhi erano sgranati, colmi di sorpresa e
incredulità. Si tolse il cappello con una mano, mentre con l’altra
sventolava il giornale del mattino.
“Avete letto la notizia in prima pagina? È davvero incredibile!”
Il detective, dal canto suo, rimase impassibile nella sua
poltrona, continuando a fumare una sigaretta.
“In nome del Cielo, Watson! Sì, ho letto l’articolo. Ora si
ricomponga e venga a sedersi.”
Watson lo guardò incredulo. “Se lo ha letto come può essere così
calmo?”
“Perché mai non dovrei esserlo?”
Il dottore poggiò il giornale sul tavolo e si tolse il cappotto,
prima di prendere posto di fianco al suo amico.
“Carlton è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa e
questo non la fa scomporre minimamente?”
“Watson,” piegò la testa di lato per guardarlo meglio. “parla come
se non mi conoscesse.”
L’altro aprì la bocca per ribattere, ma esitò quando notò che lo
sguardo del detective si era spostato in quel punto del pavimento in
cui un tempo vi era stata la pelle di tigre. Erano passati cinque giorni.
“Era un caso che ti stava molto a cuore.” Disse infine.
Holmes strinse gli occhi, per poi lanciare la sigaretta contro la
grata del camino.
“Mio caro amico.” Si voltò interamente verso il coinquilino, con
espressione seria sul volto. “Nel corso di questi mesi non sono stato
del tutto sincero con voi. Ritengo sia arrivato il momento di metterla
al corrente di tutti i fatti.”
•••
“Facciamo
un riepilogo della situazione, vuoi? Carlton ti ha mandato qui con
l’intento di eliminarmi in cambio della tua libertà, ma sappiamo
entrambi che c’è un’alta probabilità che non mantenga la parola data.
Tuo fratello Nicholas è sempre un suo sottoposto fidato, sì? Bene,
questo potrebbe tornarci molto utile. La domanda ora è: come?”
“In realtà la mia domanda è: di cosa stai parlando?”
Holmes rise genuinamente. “Come facciamo a far credere a Carlton
che tu sia morta.”
“Oh.” Hope lo guardò accigliata. “Devo supporre che ti piaccia
simulare morti nel tempo libero?”
“Vedo con piacere che ti è tornata la voglia di essere ironica con
me.”
Le guance di lei si colorirono vistosamente. “Mi dispiace.”
“Non devi.”
“La tua genialità mi ha confuso.”
“Ne sarei lusingato se fosse la verità.”
“Lo è.”
“Bene allora.”
Gli occhi di Holmes brillarono improvvisamente. “Il miele pazzo.
Blackwood si finse morto in questo modo. Potrebbe funzionare.”
“Ammetto che sto realmente faticando a starti dietro questa volta.”
Il detective si mosse sulla sedia, visibilmente esaltato per ciò
che la sua mente stava elaborando. “Quante probabilità ci sono che tuo
fratello riesca a convincere Carlton a permettergli di ucciderti?”
Il volto di Hope si incupì. “Vuoi che… Nick finga di uccidermi?”
“È l’unico uomo che abbiamo all’interno.”
La ragazza masticò leggermente il labbro inferiore con gli
incisivi, ragionando su quello che aveva appena appreso.
“Sì. Sì, potrebbe funzionare.”
Holmes sorrise sornione. “È un mio piano: funzionerà senz’altro.”
•••
“Io
non riesco a crederci!”
“Watson ha intenzione di farsi sentire da tutto il vicinato?!”
Il dottore era diventato paonazzo. Il racconto di Holmes lo aveva
sconvolto, non riusciva a credere che gli avesse mentito così
spudoratamente di nuovo. Ora
erano entrambi in piedi, fronteggiandosi. “Avevo bisogno che anche lei
credesse a ciò che era successo.”
“In questi ultimi cinque giorni mi sono lasciato logorare dai
sensi di colpa!”
“Le avevo detto che non ce ne era motivo.”
“Sì, già, perché se lei mi dice una cosa del genere omettendo il
fatto che Hope è viva io
automaticamente non mi sentirò in colpa!”
“Uh…”
“Senza contare il come mi sono sentito per lei.” Gesticolò verso di lui.
“Me?”
“Sì, per te! Dio…” Si
passò una mano sul volto.
Holmes lo fissò in silenzio per qualche istante, poi parve capire:
“Crede ancora che io avessi un vero interesse amoroso nei confronti di
Hope?”
Watson si sentì arrossire leggermente. “Miss Hope è una bella
donna e ha una mente perfettamente in sintonia con la sua.”
Il detective rise, indispettendo l’altro. “Non mi derida in questo
modo!”
“John.” Il tono con cui
il suo nome uscì dalle labbra di Holmes lo fece fremere. “Non ricorda
niente di quando sono tornato a prenderla?”
Il dottore lo guardò confuso. “No, io ero svenuto, non se lo
ricorda?”
In quel momento, se non lo avesse conosciuto bene, Watson avrebbe
giurato che Holmes stesse provando dell’imbarazzo. Il detective si
passò una mano tra i capelli, spostando lo sguardo al camino.
“Non importa.” Tornò a guardarlo. “Io però ricordo perfettamente
le parole che tu mi hai detto.”
Il cuore di Watson perse un battito. “Holmes, credevo che non ne
avremmo-”
Il detective percorse la distanza che si era creata tra di loro e
prese le sue mani.
“Mi dispiace di averle causato tutto questo dolore, John.”
Il dottore rimase immobile, pietrificato, con il cuore che batteva
ridicolmente forte. E quando la speranza crebbe di nuovo dentro di lui
si sentì uno stolto. Holmes non aveva smesso di guardarlo nemmeno un
istante, tenendo quello sguardo profondo intrecciato al suo.
“Ammetto che all’inizio volevo prendermi una specie di rivalsa.
Ripagarla con la stessa moneta per farle capire cosa avevo provato
quando lei si è sposato. Col senno di poi, credo sia stata una delle
cose più puerili che abbia mai fatto. In ogni caso era importante che
anche lei lo credesse vero: se riuscivo a convincere lei che Hope era
mia moglie potevo convincere chiunque. E, allo stesso modo, se avesse
saputo che avevamo architettato una farsa per ingannare Carlton non ne
sarebbe uscita una recita perfetta. Aimè, visti i recenti fatti, sono
abbastanza sicuro che il fratello di Hope abbia preferito la salvezza
di sua sorella alla sua anima, ma confido che siano già in viaggio per
le Americhe e che non verranno accusati di alcun omicidio.”
Watson ingoiò un paio di volte prima di commentare: “Deve esserle
costato uno sforzo enorme parlarmi così apertamente.”
Sorrise. “Tremendamente.”
“Ma perché uccidere Carlton, dopo tutto quello che avete fatto?”
“Posso solo supporre che Nicholas abbia voluto vendicare la
sorella e assicurarsi di non avere spiacevoli sorprese in futuro.”
“Ha avuto gran coraggio e sangue freddo.”
Holmes aumentò leggermente la presa sulle sue mani. “Non si può
mai sapere come reagirà una persona pur di salvare i propri cari.”
“Questo è indubbiamente vero.”
Si creò un silenzio pieno di domande e aspettative, fatto di
pensieri rumorosi e sguardi ansiosi.
“Se devo essere del tutto onesto.” Esordì Holmes d’improvviso.
“Ritengo che Hope abbia realmente una bella mente in sintonia con la
mia. È davvero affascinante.” Sentì le mani di Watson irrigidirsi nelle
sue. “Ma c’era un piccolo e
non facilmente trascurabile dettaglio che non mi avrebbe mai permesso
di accompagnarmi realmente a lei.”
“E quale sarebbe?”
“Lei non è te, John.”
Fece appena in tempo a finire di pronunciare quell’ultima
sillaba che Watson lo aveva già tratto di più a sé e si era
appropriato delle sue labbra in un bacio carico di frustrazione e
attesa mal celata. I denti cozzarono e le lingue si intrecciarono,
danzando in una passione che infiammò i petti dei due uomini. Le loro
mani scivolarono via le une dalle altre per concedersi finalmente il
lusso di andare ad esplorare il corpo della persona tanto bramata. Le
dita di Holmes si mossero veloci e discrete sui bottoni del gilet del
dottore, senza mai smettere di carezzare con la lingua la sua, ed
iniziò a spogliarlo, passando alla camicia. Il dottore emise un suono
strozzato quando il detective spostò l’attenzione alla sua cintura.
“Sherlock–”
“Uhm?” Gli morse la mandibola.
“Non staremo correndo un po’ troppo?”
Holmes si fermò ed indietreggiò di un passo. “Al contrario,
ritengo che abbiamo atteso fin troppo.”
Gli regalò un sorriso sporco, mentre continuava ad indietreggiare
ed iniziava a spogliarsi della camicia a sua volta. “E poi, dopo un
caso del genere, ci meritiamo di festeggiare,
non credi anche tu?”
Aveva ragione. Quanto tempo avevano perso cercando di fuggire da
un sentimento considerato impuro e malato. Quanto tempo sprecato nel
cercare di salvare le apparenze, e vissuto nella paura che l’altro non
ricambiasse ciò che in realtà entrambi provavano. Watson ricambiò il
sorriso.
“Se la metti in questi termini.”
Holmes gli porse una mano e lui lo raggiunse in pochi passi, per
poi lasciarsi condurre nelle sue stanze. I respiri iniziarono a farsi
più pesanti, le pupille dilatate e i corpi frementi, mentre finirono di
togliersi i vestiti a vicenda e si lasciarono crollare sul letto uno
sopra l’altro. Si muovevano con movimenti impacciati, travolti da
un’emozione troppo forte da contenere, fatta di desiderio e timore.
Watson sovrastò il compagno, reggendo il peso del corpo sulle braccia,
e si concesse il lusso di osservare quelle splendide labbra gonfie di
baci e morsi e quegli occhi scuriti dalla passione: non credeva che si
sarebbe mai trovato davanti a spettacolo così bello. Holmes ricambiò il
suo sguardo, respirando velocemente, e gli accarezzo le labbra con le
dita.
“Sei spaventato.” Non era una domanda, ma una constatazione.
Watson sorrise lievemente. “Anche tu.” Si azzardò a rispondere.
Holmes non replicò in alcun modo, continuando a scrutarlo con
attenzione.
“Oh, John Watson.” Esordì a un tratto. “Nessun’altra persona al
mondo avrebbe mai potuto stravolgere il mio essere in tal modo come hai
fatto tu.”
Neanche la più accorata delle dichiarazioni sarebbe potuta essere
più esplicita di quelle semplici parole dette da lui, e questo Watson
lo sapeva bene. Si sporse verso di lui per lasciargli un bacio a fior
di labbra. “Lo so.”
E poi i muscoli si contrassero, le schiene si arcarono e i gemiti
lievi e mal repressi riempirono l’aria, mentre le lenzuola si
inumidivano.
•••
Sherlock
Holmes non era il tipo di persona facile alla resa e in quell’occasione
non fu da meno. Mentre l’edificio collassava lentamente su se stesso,
il detective non aveva pensato nemmeno una volta di tornare indietro:
avrebbe continuato la sua avanzata anche a costo di morire, non avrebbe
lasciato nulla d’intentato. Ma, nonostante tutto, vacillò quando si
trovò nuovamente davanti a un muro di fuoco. Aveva perso il conto di
quante volte aveva già dovuto cambiare direzione sebbene ricordasse
perfettamente la strada percorsa in precedenza. Chiuse gli occhi per un
istante. La vista si stava annebbiando e l’ossigeno cominciava a
mancare. Doveva resistere. Ricominciò a correre, ignorando le fiamme
che si aggrappavano al suo cappotto.
Passò quello che parve un tempo lunghissimo prima che lo
scorgesse: Watson aveva nascosto la testa sotto le braccia nel
tentativo di ripararsi dal fumo, ma non era certo che fosse ancora
vigile. Si lanciò verso di lui.
“Watson!” Gridò, come quando lo aveva trovato la prima volta, ma
il dottore non si mosse.
Le travi che lo avevano intrappolato erano andate in buona parte
distrutte, e Holmes non ci mise molto a liberarsene, sebbene lo sforzo
fu ugualmente notevole.
Si inginocchiò accanto a lui e cercò di voltarlo. “Watson!...
Watson!... John!”
Il dottore contrasse i muscoli facciali e aprì debolmente gli
occhi. Holmes si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
“Grazie al Cielo è vivo!” Si tolse rapidamente il cappotto e lo
usò per coprire la testa e le spalle del compagno. “Coraggio amico mio,
si appoggi a me!”
Lo caricò sulla schiena, benché il dottore fosse più alto di lui,
e ricominciò la traversata dell’Inferno. Si trovava a metà strada
quando una gamba cedette sotto il peso dello sforzo, facendoli rovinare
a terra. Holmes fece leva sugli avambracci, ansimando leggermente.
Respirava a malapena.
“Io non-” Digrignò i denti per la rabbia e la frustrazione. “Non
ti lascerò morire qui!” Colpì il terreno con il pugno. Iniziò a
tremare. Non doveva arrendersi. Non
poteva arrendersi. Con tutta forza che riuscì a trovare si issò
nuovamente sulle gambe. Doveva portare John fuori da quel posto. Arrancò
diversi minuti prima di riuscire a scorgere uno spiraglio di cielo.
“Ci siamo John.” Rantolò.
Impiegò tutto quello che era rimasto delle sue forze per
percorrere quell’ultimo metro di agonia e quando finalmente fu fuori
all’aria aperta crollò su se stesso, stremato. Cercò di nutrire i
polmoni con ossigeno il più possibile prima di scivolare da sotto il
corpo del dottore e trascinarlo lontano dal rogo come aveva fatto con
Hope, per poi lasciarsi nuovamente cadere accanto a lui.
“John!” Gli sbottonò i primi bottoni della camicia e si affrettò
ad accertarsi che stesse respirando. Ma
non accadde niente. Il volto di Holmes divenne di pietra.
“No no no no,” un sorriso folle gli salì alle labbra “non può
lasciarmi così adesso!” Si
mise in ginocchio, cercando di tenersi in equilibrio ponendo i palmi
sul petto del dottore. “E poi sarei io l’egoista bastardo!?”
Si mise in posizione, una mano intrecciata sull’altra, ed iniziò
con la compressione del torace. La testa gli girava, non aveva ancora
immagazzinato abbastanza ossigeno, ma questo non lo trattenne un solo
istante dal poggiare disperatamente le labbra su quelle dell’altro nel
tentativo di aiutarlo a respirare. Ripeté quelle azioni più volte.
“Non… Ti prego…”
Sherlock Holmes non ricordava di essersi mai sentito così in
tutta la sua vita. Il dolore acuto che provava nel petto era atroce,
superava il limite di qualsiasi sopportazione. Tempo addietro aveva
preso la solenne decisione di nascondere le emozioni in una stanza
remota del suo essere; stavano lì, discrete, nascoste dietro una
maschera di indifferenza. Poi John Watson aveva aperto la porta.
Premette ancora una volta sullo sterno e soffiò altra aria nei
polmoni con disperazione. Fu in quell’istante che il corpo sotto di lui
ebbe uno spasmo e Watson tornò a respirare. Iniziò a tossire
convulsamente, tanto che Holmes dovette afferrarlo per le spalle.
“Va tutto bene! Tutto bene…”
Il dottore sgranò gli occhi, mentre l’istinto di sopravvivenza lo
spingeva a cercare l’aria con la bocca.
“È tutto finito. Tutto finito.” Gli sussurrò rassicurante il
detective, che non poté fare a meno di chiedersi se non lo stesse
ripetendo a se stesso. Si mosse di lato per far sì che il capo di
Watson potesse adagiarsi sulle sue gambe, mentre lui teneva le mani
poggiate ai lati del suo viso aspettando che il respiro dell’amico
tornasse regolare. Passò qualche istante prima che si sporgesse fino a
permettere alle loro fronti di sfiorarsi.
“Non puoi concederti il lusso di lasciarmi dopo quello che mi hai
detto.” Gli confessò a mezza voce.
Quando tornò con lo sguardo su di lui, John Watson aveva perso
nuovamente conoscenza, ma il suo petto si alzava e abbassava in maniera
cadenzata. Holmes non era certo che lo avesse sentito. Tuttavia l’unica
cosa che gli importava in quel momento era che lui fosse lì, vivo, e il
resto non contava.
•••
Le
ombre ballavano distrattamente sul soffitto, creando strane figure
fantastiche e al contempo lievemente ipnotiche secondo l’opinione del
dottor Watson, che le osservava mutare sopra di sé mentre carezzava
pigramente i capelli del compagno sdraiato sul suo petto. Il silenzio
che li avvolgeva era quasi surreale, dopo che i loro nomi si erano
rincorsi e fusi così tante volte, accompagnati da ansiti spezzati e
promesse a mezze voci.
“Un penny per i tuoi pensieri.”
Watson sorrise. Il silenzio non l’aveva mai vinta con Sherlock
Holmes.
“Sono solo felice.”
Il detective alzò la testa per guardarlo in volto.
“Nessuna domanda esistenziale riguardo a cosa sarà del nostro
rapporto d’ora in avanti?”
“Dovevo immaginare che saresti stato così fastidioso anche in
questo frangente.” Rispose con un sorriso.
L’altro alzò le spalle con fare noncurante. “Conoscendoti, vecchio
mio.”
Il dottore gli diede un leggero pizzicotto su una guancia ispida,
guadagnandosi uno sguardo di disappunto che gli diede un moto di
ilarità.
“Non vedo cosa ci sia di così divertente.”
“Hai ragione. Non c’è nulla di divertente. Ma come ricorderai sono
felice, e quindi mi sono lasciato trasportare.”
“Suppongo che ormai dovrei arrendermi al non comprendere le tue
stranezze.”
“Ah! Questa è proprio bella! Sarei io quello strano dei due?”
“Senza alcun dubbio, dottore!” Holmes lo guardò con fare serio.
“Nessuno sano di mente si sarebbe mai innamorato del sottoscritto. Ma
infondo nel corso della nostra lunga amicizia hai ribadito più volte il
tuo essere psicologicamente disturbato. Contrariamente, invece-” Si
zittì, resosi conto di star parlando troppo.
Watson si sistemò per riuscire a guardarlo meglio. “Continua,
Holmes.”
“Niente. Il mio discorso è finito.”
“Questa è una menzogna che non cerca minimamente di sembrare la
verità.”
“E invece è così ti dico!”
Il dottore rise lievemente e lasciò che il discorso cadesse come
desiderava il compagno.
Tornò il silenzio per un lungo periodo di tempo, prima che Holmes
decidesse che poteva valere la pena lasciare uno spiraglio aperto alla
stanza delle emozioni.
“Suppongo che ciò che volessi dire fosse” si schiarì la voce,
vagando con lo sguardo sulla stanza, “che è assolutamente folle pensare
che qualcuno possa anche solo pensare di potersi innamorare di un tipo
come il sottoscritto. Ma è altrettanto folle pensare che qualcuno non
possa innamorarsi di una persona come te.” Tentennò un attimo. “Sempre
che esista un altro uomo come te.” Concluse, posando gli occhi sui
suoi, con un sorriso quasi timido sulle labbra.
Dopo un attimo di genuina sorpresa, il dottore gli sorrise
apertamente e si sporse a cercare le sue labbra, col cuore colmo di
gioia. Holmes allungò il collo verso di lui a sua volta, trovandolo a
metà strada per un bacio pieno di parole.
“Sai, dovresti smetterla con queste criptiche dichiarazioni
d’affetto. Potrei farci l’abitudine.” Ironizzò il dottore, sapendo che
per Holmes risultava arduo da affrontare l’argomento in cui si erano
addentrati.
“Quali dichiarazioni?” Rispose prontamente lui, con un sorriso di
scherno.
“Nessuna.” Si chinò a baciarlo nuovamente. “Ovviamente nessuna.”
•••
Al
di fuori dell’intima stanza, Londra urlava e viveva con tutte le sue
forze. Tra i passanti chioccianti di Baker Street, un ragazzo dagli
abiti sgualciti e sporchi osservava con calcolata noncuranza le
finestre del 221B da sotto la corta visiera del berretto. Accanto a lui
un giovane uomo alto e dinoccolato, dai vestiti molto simili ai suoi,
si guardava intorno cercando di non dare nell’occhio.
“Odio metterti fretta, ma è esattamente ciò che farò”. Esordì
l’uomo. “È davvero ora di andare, Charlie.”
Hope Castiel sorrise, sentendo la pelle sotto al silicone tirare
leggermente.
“Precedimi di qualche passo.” Rispose al fratello, che si avviò
lungo la strada con le mani in tasca e l’aria annoiata. La ragazza
diede un ultimo lungo sguardo all’edificio che era stato il
palcoscenico di quegli ultimi difficili mesi e poi si incamminò a sua
volta.
Tutto finì come era iniziato: una ragazza in fuga, Baker Street e
un segreto da celare. Ma nell’appartamento di Sherlock Holmes e John
Watson le cose non sarebbero più state le stesse.
[11] Scambio di battute tra Sherlock
e Mycroft nella 3x02 della serie tv Sherlock.
[12] Dal capitolo #04. Anche se la
frase è estrapolata dal discorso avvenuto tra Hope e Holmes, quel
passaggio sostituisce nell’arco temporale della storia il momento in
cui la ragazza racconta a Watson come stanno realmente le cose tra lei
e il detective. Per questo motivo ho ripreso quella citazione
nonostante non sia un ricordo diretto del dottore.
[13] Per chi non ricordasse o si
fosse perso quello che la mia mente contorta ha fatto: Nicholas compare
nel capitolo #05, è uno degli uomini che scorta Hope
[14] Charlie è un nome usato sia al
maschile che al femminile. L’ho scelto per mantenere il binomio
uomo-donna che ha accompagnato la ragazza per tutta la storia.
[15] “Tornerò a prenderti e ritornerai a Baker
Street con noi. Lo giuro, Watson, ed io mantengo sempre la parola.”
••End••
Haibara Stark
~ Tre anni. Sono quasi passati tre anni dall’ultimo aggiornamento di
questa storia. Non so sinceramente come sia potuto accadere, visto che
sapevo fin dall’inizio che questo sarebbe stato l’ultimo capitolo e mi
ero ripromessa di pubblicarlo al più presto. Per quanto si possa
credere, ho iniziato a scriverlo ancor prima di aver pubblicato il
settimo. Ero partita bene, convinta, ma poi mi sono bloccata, non
riuscivo a scrivere quello che avevo in mente. Questa cosa mi è
successa due o tre volte nel corso dei due anni passati. Poi qualche
tempo fa ero a letto e ho pensato “Hey! Ma perché mi sono arenata in
quel punto? Potevo risolverlo così!”. Imbarazzante. Davvero
imbarazzante, credetemi. Sono stata ferma per due anni e dieci mesi su
un punto che sono riuscita a districare in un secondo nel dormiveglia.
Ribadisco: imbarazzante.
Avrete notato che non mi sono ancora scusata con voi per questa
lunghissima attesa. Ritengo non ci siano parole di scuse valide, in
realtà. Quell’Ottobre del 2013 ha portato una svolta nella mia vita che
mi ha allontanato dal mondo delle fanfiction. Arriva sempre quel
momento in cui la tua vita sociale reclama a gran voce la tua
attenzione e non puoi fare a meno di concedergliela. Questo non
significa che non sia costernata per essere riuscita ad aggiornare solo
adesso, tutt’altro. Mi prostro ai vostri piedi e vi chiedo perdono!
Ad essere del tutto onesti, la cosa che mi terrorizza di più è che
questo capitolo vi abbia deluso. Sia per come è scritto sia per come si
è svolto. Ho una predilezione per le storie un po’ contorte, però non
so se il mio intento sia andato a buon fine. Spero di esserci riuscita
almeno in parte.
Non mi resta che salutarvi e ringraziarvi di cuore per aver letto e/o
recensito questa long, e di aver avuto la pazienza di aspettare.
Un
abbraccio!
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