Capitolo
20
Il
mattino dopo i voli di guerra cominciarono presto: un allarme
antiaereo spinse tutti fuori dagli alloggi alle prime luci dell’alba
e fin quasi a mezzogiorno il maggiore Stuart, esausto e frastornato
per non aver chiuso occhio tutta la notte, non ebbe modo di indugiare
sui propri guai.
Al
venir meno della pressione nemica, però, i pensieri che aveva
accantonato tornarono uno dopo l’altro, e ricominciarono a far
scempio della sua anima come un branco di lupi affamati.
Non
aveva ancora ricevuto notizie di Poynter, tanto per cominciare, e
ormai anche le più tenaci speranze di ritrovarlo in vita stavano
cominciando a vacillare.
E se il
timore – ormai quasi certezza – di aver perso un amico non fosse
stato sufficiente, ci si metteva anche il dannato von Rohr a
complicargli l’esistenza. Gli aveva parlato, avevano bevuto
insieme, alla fine avevano addirittura riso insieme, seppur
brevemente.
Era un
ragazzo bello, coraggioso e determinato, orgoglioso e con le idee
chiare.
Ed era
un morto che camminava.
Capì
perché quando era piccolo i suoi genitori gli proibivano di giocare
con gli agnellini e i vitellini della tenuta.
Mentre
era immerso in quelle angosciose considerazioni, un improvviso suono
di tromba lo fece quasi sobbalzare. Alzò lo sguardo stupefatto e
vide entrare nel piazzale una monumentale Bentley nera lucida come
uno specchio, con le cromature che brillavano al sole e un autista in
livrea alla guida.
Per un
attimo pensò che fossero tornati quelli dell’Intelligence, ma era
una macchina troppo lussuosa per qualsiasi rango delle Forze Armate.
Nemmeno un capo di Stato Maggiore avrebbe potuto permettersi di
andare in giro a bordo di una vettura del genere.
Sotto
il suo sguardo perplesso la Bentley si fermò, l’autista scese e
aprì con deferenza la portiera.
Ne uscì
John Poynter, che si stirò, si guardò intorno con aria soddisfatta
e disse: “Ciao, George.”
Il
maggiore Stuart lo fissò senza proferire parola.
L’altro
stava per replicare quando dal finestrino della vettura uscì
un’avvizzita mano femminile che sventolava un fazzolettino di
chiffon.
“Au
revoir, mio
caro!” disse una voce chioccia, “à bientôt,
j’espère!”
“Lady
Fetherstonhaugh,” spiegò Poynter in risposta all’occhiata
interrogativa del maggiore. “Ci invita tutti alla prossima caccia
alla volpe, a proposito.”
Si
chinò per salutare la nobildonna e continuò a fare ampi gesti con
la mano anche mentre la Bentley ripartiva.
“Milady
è stata molto gentile,” disse quando la vettura fu scomparsa alla
vista.
Stuart
continuava a tacere.
“Vecchio
mio, il gatto ti ha mangiato la lingua?” s'informò cortesemente
Poynter al protrarsi del silenzio.
“Ti
credevo morto.”
“E
invece sono qui, come vedi,” rispose il capitano con un sorriso.
“Potevi
anche degnarti di dirci qualcosa,” replicò Stuart con ira
repressa. Tutta la tensione accumulata nelle ultime ventiquattro ore
gli si stava scaricando in rabbia.
“Scusa,
George, avrei tanto voluto,” disse l'altro con un sorriso
disarmante, “ma vedi, quando mi sono buttato col paracadute sono
atterrato dritto dritto nella serra di quella vecchia contessa un po'
eccentrica. Per un bel po' sono rimasto svenuto, poi verso sera mi
sono ripreso e Milady ha voluto assolutamente invitarmi a cena. Le ho
suggerito di avvertire qualcuno, e lei ha convenuto che sarebbe stata
una cosa molto appropriata. Purtroppo ho scoperto solo stamattina che
l'unica persona che ha pensato di avvertire è stato il giardiniere,
affinché rimpiazzasse quanto prima i vetri rotti e le piante che
avevo rovinato nella caduta.”
Stuart
avrebbe voluto dire qualcosa, ma di fronte a tanto candore tutte le
sue reprimende si dissolsero come neve al sole. “Sei ferito?” si
limitò a chiedergli.
“Neanche
un graffio!” rispose l'altro trionfante, allargando le braccia in
un gesto vagamente messianico.
Come se
quello fosse stato un segnale, tutti coloro che avevano assistito al
ritorno del figliol prodigo gli corsero incontro e cominciarono a
fargli festa. Poynter era benvoluto, e non c'era militare della base
che non volesse almeno dargli una pacca sulla spalla o stringergli la
mano.
Ancora
sotto l'effetto dei sentimenti tumultuosi di poco prima, Stuart lo
lasciò al suo bagno di folla e si allontanò di qualche passo.
Pensava
di nuovo a von Rohr. Perché non riusciva a smettere di pensare a
lui?
Von
Rohr, frattanto, si aggirava per la sua cella egualmente spiazzato.
Si
spostò ansante nella chiazza di sole che entrava da una delle
finestre sfondate. Si terse il sudore dal corpo con un asciugamano e
cercò di normalizzare il ritmo del respiro. Per mantenere intatta
l’efficienza fisica passava le giornate di prigionia allenandosi.
Faceva addominali, piegamenti sulle braccia, esercizi a corpo libero
e cose del genere. Tutto ciò che gli veniva in mente pur di temprare
il corpo.
Quella
mattina, però, si era allenato con tale energia che adesso era
completamente esausto e grondante di sudore.
Si era
svegliato con la testa pesante per colpa dell’alcol bevuto la sera
prima. La sensazione, per lui completamente sconosciuta, non gli era
piaciuta per nulla. Odiava anzi l’idea di non essere perfettamente
lucido e padrone di sé, perché quella era la via che portava a
perdere il controllo e trovarsi in balia della volontà altrui.
Per
nulla al mondo avrebbe accettato di essere soggetto a volontà
diverse dalla sua, quindi aveva deciso che doveva depurarsi, e come
diretta conseguenza l’allenamento era stato molto più intenso del
solito.
Ricordò
che aveva bevuto il primo sorso per compiacere Stuart, ma poi il vino
gli era piaciuto e aveva esagerato.
Strinse
le labbra, si buttò a terra prono e ricominciò a fare piegamenti
sulle braccia doloranti, stando ben attento a tenere la schiena
dritta e gli addominali tesi. Tocca terra col
mento! si
ordinò
inflessibile, devi farne
cinquanta, non uno di meno!
Quando
ebbe finito si abbandonò esausto sulle pietre fredde del pavimento.
Nonostante tutto, i suoi pensieri continuavano a tormentarlo: avrebbe
fatto così anche con l’altra cosa? Avrebbe cominciato con un sorso
e poi non sarebbe più stato in grado di porsi un limite?
Le
chiazze di sole sul pavimento si spostarono e si allungarono,
divennero aranciate e infine scomparvero lasciando il posto a una
penombra silenziosa. A questo punto von Rohr, che nel corso della
giornata le aveva seguite con crescente apprensione, prese a
passeggiare su e giù per la navata come faceva sempre quando era
nervoso.
Giunse
il buio che stava ancora camminando. Arriverà? pensava.
Quando
arriverà?
Non
aveva orologi, e immerso nelle tenebre com'era non aveva alcun modo
per misurare il passare del tempo, quindi poteva solo aspettare.
Si
chiese di nuovo se il maggiore sarebbe arrivato. Viene qui tutte
le notti,
si disse pragmatico, perché stanotte non
dovrebbe?
Si
sorprese a considerare con un'ombra di apprensione che ogni giorno
l'inglese poteva cadere in combattimento.
E se
fosse stato abbattuto?
Quel
pensiero gli diede un tale inspiegabile disagio che interruppe il suo
passeggiare e rimase fermo nel buio come un cavallo bendato. Se
fosse stato abbattuto, addio possibilità di fuga, considerò
concreto, ma il disagio non si risolse. C'era qualcos'altro che lo
preoccupava, qualcosa di strano, che al momento non gli era ben
chiaro ma gli comunicava una sconosciuta inquietudine.
Toccò
il distintivo della Hitlerjugend che portava sul petto come un fedele
avrebbe toccato in un momento di particolare apprensione la croce che
teneva al collo.
Nervi
a posto, si
ripeté, non
farti prendere dalla smania.
Nel
silenzio udì il ben noto passo che si avvicinava, e prima di
rendersi conto di ciò che stava facendo era al cancello e scrutava
ansioso la tenda.
Non fu
deluso: subito udì lo scatto del catenaccio e lo sfregamento del
fiammifero sulla scatola, quindi il chiarore dorato della candela
filtrò da sotto la spessa cortina.
Si
morse nervosamente il labbro inferiore nell'attesa di ciò che
sarebbe successo.
La
stoffa nera si spostò da una parte e apparve il maggiore Stuart con
una bottiglia in mano. “Buona sera, tenente,” lo salutò, “ha
voglia di ripetere la conversazione di ieri sera?”
“Se a
lei va”, rispose von Rohr dopo qualche secondo di esitazione,
indietreggiando di un passo.
“Certo
che mi va,” rispose l'altro con un sorriso, “altrimenti non
gliel'avrei chiesto, non le pare?” Poi, dopo una pausa: “Mi dia
giusto il tempo di preparare il nostro piccolo boudoir e sarò
subito da lei.”
Scomparve
prima che il tenente potesse replicare, stette via qualche minuto e
tornò con la chiave del cancello.
“Inutile
ricordarle che sono armato e non ci sono vie di fuga, giusto?” gli
domandò prima di far scattare la serratura.
Von
Rohr non rispose.
Stuart
lo condusse nella stanza della sera prima. Lì c'era già il tavolino
preparato con la bottiglia e i due bicchieri, ma stavolta al posto
della candela c'era un candelabro a tre braccia, col risultato che
l'ambiente era molto più luminoso.
“Si
sieda, tenente” lo invitò l'altro.
Il
tedesco obbedì. “Dove siamo, qui, maggiore?” chiese dopo essersi
guardato intorno.
“Nel
mio alloggio, come vede.”
Von
Rohr ebbe un moto di impazienza. “Non mi dia risposte da
inglese, la
prego. Intendo dove siamo geograficamente, in quale
località.”
“Ovviamente
non glielo posso dire,” rispose l'altro con un sorriso, “sarebbe
contro le procedure.”
“Anche
tenermi qui è contro le procedure, eppure lo fa.”
Stuart
esitò qualche secondo prima di replicare. “Si lamenta della
sistemazione, tenente?” gli chiese poi senza smettere di sorridere.
“Preferirebbe dividere una camerata sporca con altri cinquanta
prigionieri?”
“Mi
dica dove siamo”, insisté von Rohr imperterrito.
Il
maggiore sospirò con fare indulgente. “Lei è davvero un tipo
caparbio”, osservò. Nella pausa che seguì stappò la bottiglia e
versò due bicchieri di vino. “Ci beva sopra”, gli consigliò
porgendogliene uno.
“Che
intende dire?”
“Si
rassegni, non posso dirle dove ci troviamo, lei è pur sempre un
nemico.”
A
quelle parole, il carattere focoso di von Rohr prese il sopravvento
nonostante ogni suo buon proposito: “E allora mi riporti in gabbia,
no? Visto che sono un nemico, che senso ha tutta questa commedia?”
Rimase
a fissare il suo interlocutore con gli occhi che mandavano lampi e le
mani puntate sui braccioli come se fosse in procinto di scattare in
piedi.
“Non
ha molto senso, in effetti,” ammise il maggiore dopo un lungo
silenzio, “ma sa, io sono un romantico, e mi piace pensare
che nonostante tutto si possa fare la guerra in modo onorevole,
combattendo per i propri ideali senza perdere umanità e
compassione.”
“Mi
scusi allora se non lo sono altrettanto,” rispose sarcastico von
Rohr, sempre teso come per balzare via da un momento all’altro, “ma
il romanticismo è un lusso che chi combatte per la sopravvivenza non
può permettersi.”
“Non
mi sembra proprio il caso di voi tedeschi, tenente,” replicò il
maggiore, “avete invaso Polonia e Francia. Questa non è certo la
condotta di chi lotta per sopravvivere.”
“Immagino
che a voi faccia comodo considerare la faccenda in questo modo,”
rispose l'altro, tornando lentamente alla posizione rilassata, “il
cattivo Terzo Reich che opprime le povere nazioni confinanti. Posso
ricordarle che quelle stesse nazioni qualche decennio fa hanno messo
in ginocchio la Germania con debiti di guerra esorbitanti?”
“La
Polonia no.”
“Ma
la Francia sì.”
“Beh,
in realtà l'Impero Tedesco se l'è cercata, non le pare, von Rohr?”
“Forse
dal vostro punto di vista,” rispose l'altro imperterrito, “e di
certo i debiti e gli obblighi che ci sono stati imposti erano al di
fuori di ogni ragionevolezza. Come si sentirebbe per esempio lei,
maggiore Stuart, se le potenze straniere venissero in Inghilterra con
la pretesa di regolare persino i trasporti fluviali? Se a voi inglesi
venisse impedito di avere un esercito degno di questo nome e
un'aviazione militare, se vi venisse tolta la maggior parte del
frutto del vostro lavoro, se foste costretti a raccogliere gli avanzi
per mangiare mentre avvoltoi stranieri si ingrassano col vostro
sangue? Non le verrebbe voglia di ribellarsi e far valere il suo buon
diritto?”
Di
nuovo fissò il maggiore con lo sguardo acceso e un'espressione
spaventosamente risoluta sul volto pallido. Stuart ebbe quasi paura
di lui, perché si rese conto di avere di fronte una persona disposta
a combattere fino alla morte per i propri ideali.
“Beva
qualcosa, tenente,” gli disse porgendogli il bicchiere.
“Ma
certo, meglio evitare il discorso, vero?” lo sfidò l'altro.
“Come
oratore non valgo nemmeno la metà di lei,” replicò l'inglese con
un sorriso, “l'esito dello scontro sarebbe troppo scontato.”
Poche
ore dopo, nel buio opprimente della camera oscurata, il maggiore
Stuart si rivoltava fra le coltri in preda ad una sorda angoscia.
Cercava disperatamente di distogliere il pensiero da Hans von Rohr,
ma per quanto ci provasse esso tornava sempre a lui, con la
pervicacia di un animale sitibondo che ha finalmente trovato una
polla d'acqua.
Riuscì
faticosamente ad addormentarsi, sudato e agitato, e fece sogni
terribili. Vide la sua fidanzata morta, adagiata su un letto di rose
rosso sangue, coperta da una bandiera della Hitlerjugend che lasciava
visibile solo il volto.
Poi
vide se stesso nudo, al centro dello spiazzo che si trovava di fronte
alla baracca del comando. Tutti gli uomini dello Squadron lo
insultavano e lo deridevano, mentre seduto nella sua solita poltrona,
sordo alle sue richieste di aiuto, Poynter beveva un Old Fashioned e
con un risolino diceva: “Me l'aspettavo.”
Vide
anche il ragazzo di cui si era invaghito in accademia, il Fair Youth
di shakespeariana memoria, che indossava l'uniforme della Luftwaffe e
teneva in mano un calice di vino dal colore rosso cupo.
L'ultimo
sogno però fu il più spaventoso di tutti: era nel salotto del suo
alloggio e sedeva in una delle poltrone con uno strano senso di
angosciosa aspettativa. Era come se sapesse che sarebbe accaduto
qualcosa di molto brutto ma avesse nel contempo la consapevolezza di
non poter fare nulla per evitarlo. Quel pensiero lo rendeva inquieto,
era sicuro che avrebbe dovuto tentare di fare qualcosa per
scongiurare ciò che stava per accadere, tuttavia non riusciva a
muoversi.
Fissava
poi lo sguardo sulla porta della camera da letto, certo che da lì
sarebbe uscito qualcosa di terribile. Aveva paura, ma al tempo stesso
avvertiva una sorta di morbosa curiosità. Ad un certo punto la porta
si apriva lentamente ed egli vedeva uscire un altro se stesso. Un se
stesso strano, dall'espressione viziosa, quasi laida. Con i capelli
spettinati e gli abiti discinti.
Senza
degnarlo di attenzione, il suo doppio andava a staccare dal chiodo
cui era appesa la chiave della prigione di von Rohr, e poi si
dirigeva con sicurezza al cancello che la chiudeva.
Stuart
a questo punto lo seguiva ed era testimone impotente di un episodio
orribile: il suo alter ego entrava deciso
nella chiesa e
raggiungeva il letto sul quale von Rohr stava dormendo. Dalla
posizione in cui si trovava, Stuart vedeva bene il ragazzo
addormentato, con il bel corpo parzialmente coperto dal lenzuolo in
un seducente gioco di trasparenze.
L'alter
ego afferrava il giovane ufficiale per un polso, tirandolo poi
brutalmente verso di sé. Svegliato di soprassalto, l'altro cercava
di divincolarsi, ma il misterioso doppio sembrava dotato di una forza
sovrumana e rintuzzava facilmente i suoi sempre più convulsi
tentativi di liberarsi.
Il
maggiore vedeva la rabbia negli occhi di von Rohr mutarsi in paura
nel momento in cui egli raggiungeva la consapevolezza di non essere
in grado di difendersi.
I due
comunque lottavano brevemente e alla fine l'alter ego immobilizzava
al suolo von Rohr, che rimaneva a divincolarsi invano con la faccia a
terra e le mani bloccate dietro la schiena.
Sotto
il suo sguardo attonito, il suo doppio si calava i pantaloni,
rivelando un fallo enorme, che svettava turgido e pulsante. Poi gli
rivolgeva un sorriso che aveva un'odiosa connotazione di complicità
e con un esperto colpo di ginocchio allargava le gambe del giovane
prigioniero.
“No!”
gridò il maggiore Stuart svegliandosi di soprassalto. Si rizzò
bruscamente a sedere e cercò a tentoni il bicchiere d'acqua che
teneva sempre sul comodino. Lo bevve affannosamente, tutto d'un
fiato, con tale impeto che gliene colò addirittura un rivolo lungo
il mento.
Si
passò una mano fra i capelli sudati. Stava ansimando ed era –
orrore – eccitato. L'erezione gli pulsava dolorosamente,
obbligandolo a rievocare suo malgrado i particolari di quel sogno
terribile.
Eppure
era stato uno spettacolo rivoltante. Come poteva essersi eccitato
assistendo ad una scena così efferata?
Rivide
Hans von Rohr prono sul pavimento, nudo e immobilizzato, e con suo
sconcerto un brivido di colpevole piacere gli percorse la spina
dorsale.
Ne
rimase allibito. Davvero nel suo subcosciente albergavano desideri di
quel tipo? Non riusciva a crederci.
Si
lasciò ricadere sdraiato e giacque nel buio disteso sulla schiena,
cercando di ignorare ciò che aveva fra le gambe.
È
stato solo un sogno, si ripeteva, niente di ciò è
accaduto
realmente. È stato uno scherzo della tua immaginazione.
Uno
scherzo talmente realistico che doveva fare appello a tutta la sua
forza di volontà per impedirsi di andare a controllare che von Rohr
stesse bene.
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