Capitolo
24
Lo
ritrovarono il mattino dopo, alle prime luci dell'alba. Era nel bel
mezzo dello sbarramento di filo spinato, così tenacemente avvinto
dalle spire di metallo che per liberarlo furono necessarie le cesoie.
Era
stato colpito a una spalla, e per quanto la ferita non fosse
particolarmente grave, probabilmente il colpo l'aveva sbilanciato e
fatto cadere sui cavalli di Frisia. Il giovane aveva poi
spasmodicamente cercato di liberarsi, ma nel buio e ferito, alle
prese con il tipo di filo spinato detto 'a rasoio', non aveva fatto
altro che avvilupparsi sempre di più, ridursi a brandelli gli abiti
e tagliarsi dappertutto.
Dovettero
far venire una barella e portarlo via così, semisvenuto e
sanguinante, talmente stremato da non reggersi neppure in piedi.
Prontamente
chiamato, il maggiore raggiunse la piccola processione a metà del
suo percorso verso l’infermeria.
“È
vivo?” fu la prima cosa che domandò, osservando preoccupato il
prigioniero.
Von
Rohr giaceva immobile, gli occhi socchiusi avevano uno sguardo vacuo.
Il volto era di un pallore mortale.
“Vivo,
sissignore,” rispose subito il caporale Grice, che aveva sovrinteso
all’operazione di recupero, “anche se non particolarmente
vegeto.” Fece una breve risata, che provocò un’occhiataccia di
Stuart.
“Cos’è
successo?” chiese dopo qualche secondo l’ufficiale.
“L’idiota
è finito lì in mezzo.” Il graduato fece un cenno con la testa
verso gli sbarramenti di filo spinato. “E invece di starsene buono
e fermo come avrebbe fatto qualsiasi militare di buon senso, si è
agitato tutta la notte come una volpe presa al laccio.”
“Poteva
ammazzarsi,” constatò il maggiore quasi parlando fra sé e sé. Si
accese nervosamente una sigaretta, pregando che Grice non si
accorgesse del tremito che l’aveva invaso.
Lungi
dal notare simili bazzecole, il caporale rispose: “Già, peccato
che non abbia finito il lavoro, non è vero, signore?” Poi si
guardò intorno e con aria astuta soggiunse: “Ma stia tranquillo,
possiamo pensarci io e i ragazzi. Lei vada là in fondo a fumare la
sua sigaretta, e le garantisco che quando torna non dovrà più
preoccuparsi di questo nazista bastardo.”
“Caporale
Grice, le proibisco di parlare in questo modo,” disse freddamente
Stuart.
“Mi
scusi, signore,” rispose il graduato. Al maggiore parve di cogliere
una nota di impertinenza nella voce dell’uomo.
Così
parlando avevano infine raggiunto l’infermeria. Per vari motivi,
Stuart preferì non entrare. Primo, il tono che il caporale aveva
usato per rispondergli suggeriva di dimostrare apertamente che lui
non era interessato al giovane tedesco. Secondo, non era certo che
sarebbe riuscito a rimanere più a lungo impassibile. Vedere von Rohr
ferito e sofferente l’aveva inaspettatamente gettato nello
sconforto più completo: di colpo aveva realizzato che avrebbe potuto
perderlo, e che se l’avesse perso avrebbe sofferto orribilmente.
Quella
consapevolezza assunse la connotazione della tragedia. Che cosa gli
stava succedendo? Si era davvero innamorato di quel ragazzo?
Diede
un ultimo tiro nervoso alla sigaretta e si allontanò rapido,
augurandosi solo che il suo cuore smettesse di martellare come se
avesse voluto uscirgli dal petto.
Verso
metà mattina si presentò in pompa magna l'Intelligence militare: in
fila indiana arrivarono una macchina con a bordo Linwood e Benson, un
furgone per il trasporto del prezioso prigioniero e un'intera
camionetta di soldati per scortarlo.
I due
ufficiali smontarono nervosi, al solito senza nemmeno aspettare che
l'autista aprisse loro la portiera. Questa volta non recavano doni e
fecero addirittura fatica a rispondere al saluto che Stuart rivolse
loro intercettandoli in mezzo al piazzale.
“Siamo
qui per portare via il prigioniero,” disse brusco Linwood,
aggirando subito dopo il parigrado e dirigendosi spedito verso la
baracca del comando.
“Non
ne dubito,” rispose Stuart raggiungendolo. Poi, con una vaga nota
di soddisfazione nella voce aggiunse: “Ma temo che oggi non sia
possibile trasportarlo.”
“Non
ricominci con le sue geremiadi sull'onore,” ringhiò l'altro, “le
ho già sentite in tutte le salse, e la avverto che la misura è
colma.”
Il
pilota lasciò passare qualche secondo, poi con tono neutro replicò:
“Non intendevo tirare in ballo concetti così alieni alla sua
mentalità. Al momento il tenente von Rohr è in infermeria e non può
essere spostato.”
Linwood
si fermò. “Che cosa ci fa in infermeria?”
“È
ferito.”
Il suo
interlocutore ebbe un moto di impazienza. “E si può sapere come
mai è ferito?”
“Ha
tentato la fuga,” lo informò il maggiore Stuart, col tono che
avrebbe usato per parlare del tempo. E al protrarsi del silenzio
dell’altro, premurosamente aggiunse: “Secondo la Convenzione di
Ginevra, è diritto di ogni soldato prigioniero tentare la fuga.”
“Conosco
la Convenzione di Ginevra,” tagliò corto il maggiore Linwood.
“Perfetto,
allora saprà che ho ragione.”
Di
nuovo calò un silenzio greve come una lastra di piombo. Sembrava che
anche gli uccelli si fossero zittiti. Solo il vento faceva frusciare
appena le foglie degli alberi.
All'apparenza
perfettamente calmo, Stuart avvertiva in realtà la tensione tipica
dei voli di guerra. Stava conducendo una partita pericolosa, che
rischiava di terminare in una corte marziale con l’accusa di alto
tradimento.
L’Intelligence
per ora non se la prendeva con lui, ma probabilmente solo perché
l’effetto negativo sul morale delle truppe di un comandante di
Squadron arrestato per alto tradimento avrebbe eliso quello positivo
derivante della cattura del Cavaliere di Valsgärde.
Era
solo una questione di algebra, in fin dei conti.
La voce
di Linwood lo richiamò bruscamente alla realtà: “È stata messa
in atto ogni necessaria misura per impedire la fuga al prigioniero?”
“Ovviamente
sì.”
“Sa
che questo andrà nelle sue note caratteristiche, vero, maggiore?”
Per
tutta risposta Stuart si strinse nelle spalle con l’espressione di
chi si sottomette all’ineluttabile.
Un
altro silenzio.
“Conosceva
l’importanza di quel prigioniero,” riprese poi Linwood, sempre
più esasperato dal menare colpi e vederli andare a vuoto uno dopo
l’altro, “eppure l’ha lasciato scappare.”
“Non
mi sembra di averlo lasciato scappare,” replicò il pilota
con distacco, “tant’è che adesso non sta correndo libero per
l’Inghilterra ma è in infermeria ferito.”
“Voglio
vederlo.”
“Come
preferisce.”
L'infermeria
era una palazzina a due piani un po' distaccata dal resto degli
edifici. Per volere del capitano medico Allen, che la gestiva in
osservanza ai più rigidi principi ippocratici, essa era mantenuta in
uno stato di scrupolosa pulizia ed era circondata da un piccolo orto
di piante medicinali, destinate ad alleviare coi loro effluvi le
sofferenze degli infermi.
Sulla
porta c'era un soldato di guardia, che scattò sull'attenti e salutò
all'approssimarsi dei tre ufficiali.
“Riposo,
Curtis,” disse il maggiore rispondendo al saluto, “abbiamo
bisogno del capitano Allen.”
“Sissignore.
Lo chiamo subito, signore!”
Il
soldato scomparve all'interno dell'edificio. Con sollievo, suppose
Stuart, dal momento che a nessuno piaceva avere a che fare con
l'Intelligence.
Poco
dopo arrivò il capitano, che invece si dimostrò molto meno
impressionato dagli inattesi ospiti. Era un uomo di circa
trentacinque anni, alto e magro, che portava un camice completamente
abbottonato e occhiali dalla sottile montatura d'oro. Dava
l'impressione di trovarsi quasi per sbaglio all'interno dei ranghi
militari.
“Buon
giorno, signori,” salutò tranquillamente.
Linwood
aggrottò le sopracciglia a quell'atteggiamento decisamente poco
marziale. “Siamo qui per vedere il prigioniero,” disse.
Il
medico annuì, ma subito dopo rivolse lo sguardo al maggiore Stuart,
come per chiedergli la conferma che doveva davvero introdurre
estranei – e probabilmente profani – all'interno
dell'asklepieion.
Precedendolo
nell'atrio dell'edificio, il comandante del 19° Squadron spiegò: “I
signori sono venuti a controllare le condizioni del tenente von
Rohr.”
Non
aggiunse altro, lasciando che l'assurdità di due ufficiali del
servizi segreti che fanno visita a un prigioniero ferito dilagasse
come acqua da un vaso rovesciato.
“Sì,
signore” rispose dubbioso Allen. Si voltò verso i nuovi arrivati.
“Certo, signore,” ripeté, ancora poco convinto, “è di sopra.
Se i signori hanno la compiacenza di seguirmi...”
Si
incamminò rapido su per le scale senza terminare la frase.
Condusse
i tre ad una stanza che conteneva sei letti, uno solo dei quali
occupato. “Eccolo là,” disse semplicemente, fermandosi sulla
soglia.
“Bene,
ora vediamo,” disse Linwood senza preoccuparsi di nascondere la
propria diffidenza, quindi si diresse verso il ferito seguito
dall'immancabile e silenzioso Benson.
Von
Rohr era ancora di un pallore mortale. Era stato ripulito dal sangue,
ma su ogni parte visibile del corpo aveva medicazioni e fasciature,
alcune già macchiate di rosso. Era immerso in un profondo torpore.
“Gli
ho dato un po' di morfina,” disse Allen in risposta allo sguardo
preoccupato del maggiore Stuart.
“È
così grave?” domandò l'altro sforzandosi di mantenere un tono
neutro.
“Non
particolarmente, ma avevo paura che si agitasse e ho preferito
sedarlo.”
A
quelle parole intervenne Linwood: “Bene, se non è così grave
faccia il favore di impacchettarcelo, dottore, perché lo dobbiamo
portare via.”
Il
capitano medico inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione a
metà fra lo stupore e l'indignazione. Dunque aveva ragione: erano
due profani!
“Il
mio paziente non si muove di qui,” si limitò a rispondere, e anche
da quelle poche parole trasparivano una costernazione e uno sdegno
senza fine.
Linwood
sospirò ostentando esasperazione. “Dottore, dobbiamo portare via
questo nazista oggi,” ripeté con studiata lentezza, scandendo ogni
parola. “Sia così cortese da metterlo in condizioni di viaggiare,
prego.”
“No.
Ha numerose medicazioni che richiedono assoluta immobilità, non è
possibile spostarlo.”
Gli
occhi dell'altro divennero due fessure. Con voce minacciosamente
bassa chiese: “Che cosa fa, dottore, protegge un nazista?”
“Curo
un ferito,” fu la risposta, pronunciata con ammirevole fermezza.
In quel
momento von Rohr gemette piano, distogliendo per fortuna il medico
dalla sua pericolosa presa di posizione.
“Si
sta svegliando,” disse Allen dopo aver tastato il polso e sollevato
una palpebra al giovane ufficiale.
“Bene,
allora ce lo portiamo via,” insisté Linwood imperterrito.
Per
tutta risposta, il dottore prese un oggetto che si trovava sul
comodino e glielo mostrò. Era un sottile nastro metallico dai bordi
irregolari, sporco di sangue.
“Che
cos'è?” chiese perplesso il maggiore.
“Filo
spinato a rasoio,” spiegò Allen. “Lo vede com’è fatto? È
roba che taglia a guardarla. Il tenente si è dibattuto tra queste
spire tutta la notte cercando di liberarsi. Questo pezzo ce l'aveva
conficcato in una coscia, e non è l'unico che gli ho tolto.”
“Quindi
in pratica si è macellato da solo,” non poté fare a meno di
osservare Benson, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del suo
superiore.
“Precisamente,”
confermò il medico.
A quel
punto i due ufficiali dell'Intelligence si appartarono e si misero a
confabulare animatamente a bassa voce.
Rimasto
accanto al letto assieme ad Allen, Stuart abbassò gli occhi sul
ferito e si sentì stringere il cuore. Era terribile vederlo così.
Allungò lentamente una mano e con delicatezza gli prese il mento tra
le dita, voltandogli poi adagio la testa fino a mettere in evidenza
una fasciatura sul collo.
“Poteva
ammazzarsi,” disse alle sue spalle il capitano medico, “quella
ferita ha praticamente sfiorato la carotide, ed è un miracolo che
non si sia sfigurato o accecato.”
“Povero
ragazzo,” mormorò Stuart abbandonando la presa. Ricordava le
serate trascorse con lui nella canonica, il suo sguardo ardente, la
sua fermezza carica di sfida...
“Le
fa impressione?” gli chiese improvvisamente Allen.
Stuart
avvampò. “No di certo, perché?”
“È
impallidito.” Poi, dopo una pausa: “Forse è meglio che venga
fuori.”
“Ma
no, le assicuro che sto benissimo.”
“Il
ferito ha bisogno di riposare,” tagliò corto l'altro, “quindi
ora sarà meglio uscire.” L'ultima frase la pronunciò alzando
leggermente il tono della voce a beneficio dei due ufficiali
dell'Intelligence.
Uscirono
tutti dalla camera di degenza e si ritrovarono nella stanza attigua,
che era quella da cui partiva la scala per andare al piano inferiore.
Ritenendo
chiusa la questione del trasferimento di von Rohr, il capitano medico
salutò e tornò alle sue occupazioni.
“Un
bel tipo anche quell’Allen,” osservò Linwood sarcastico quando
il dottore se ne fu andato. “Siete tutti cavalieri della Tavola
Rotonda, qui? Non c'è nessuno che si limiti ad eseguire gli ordini
senza sentire il bisogno di fornire il proprio parere in merito?”
“Probabilmente
siamo gente un po' all'antica,” rispose Stuart sullo stesso tono,
“non molto al passo con i tempi. Crediamo ancora che l'onore e il
rispetto valgano qualcosa, pensi un po' quanto siamo strani.”
A
quelle parole Linwood strinse gli occhi fino a renderli due
minacciose fessure. “Non tiri troppo la corda, Stuart,” sibilò
lentamente, “la mia pazienza non è infinita e comincio ad averne
abbastanza delle sue sparate moraliste.”
“Che
coincidenza,” replicò l'altro senza lasciarsi impressionare,
“anch'io sono piuttosto stanco del suo cinismo e della sua
grettezza.”
“Ma
c'è una differenza fra noi due: io posso farla condannare per alto
tradimento, lei no.”
“Ma
certo, lei è Dio, può fare quello che vuole!” rispose Stuart
alzando la voce a quell'ennesima minaccia. “Lei può anche prendere
un prigioniero, farlo passare per criminale e impiccarlo senza
perderci un minuto di sonno!”
“La
smetta con queste idiozie! Stiamo combattendo una guerra, non una
partita di cricket, e dobbiamo vincerla a qualsiasi costo, con
qualsiasi mezzo!”
“Anche
mentendo e ingannando?”
“Certo,
se sarà necessario! E le dirò una cosa: se tirando il collo a quel
maledetto crucco fossi sicuro di salvare anche una sola vita inglese,
lo farei adesso con le mie mani!”
“Von
Rohr non è un criminale di guerra! Lei vuole uccidere un innocente!”
“In
guerra gli innocenti non esistono!”
La lite
andò avanti su quei toni per un po', poi i due tacquero, ansimanti e
rossi in viso, e per lunghi secondi rimasero a fissarsi immobili.
“Basta
così,” disse infine Linwood, “tra una settimana verrò a
prendere quel dannato nazista, e lei me lo farà trovare pronto per
il trasporto, oppure ci saranno due esecuzioni e non una.”
Se ne
andò senza attendere risposta.
Padrone
del campo dopo una disastrosa vittoria di Pirro, per un tempo
imprecisato il maggiore Stuart rimase semplicemente immobile al
centro della stanza. Si guardava intorno attonito, come se stentasse
a riconoscere ciò che lo circondava.
Gli
sembrava di vivere in un sogno, infatti. O più che altro in un
incubo. Si sentiva come un animale braccato che vede le vie di fuga
chiudersi una dopo l'altra.
Che
fare? Aveva sette giorni, poi Linwood sarebbe tornato per portare via
von Rohr. Lo rivide come gliel'avevano mostrato all'alba, stremato e
coperto di sangue, e si rese conto che non sarebbe riuscito a
sopportare per la seconda volta uno spettacolo del genere.
Stava
angosciosamente ragionando fra sé e sé quando sentì dei rumori
provenire dall'altra stanza. In preda ad un orribile presentimento
tornò nella camera di degenza e trovò von Rohr seduto sul letto.
Era
spaventoso a vedersi: aveva lo sguardo febbrile e ansava per quello
che doveva essere stato un tremendo sforzo. Alcune ferite si erano
riaperte e il sangue scuro rigava una pelle altrimenti bianca come
gesso.
“Maggiore...”
mormorò faticosamente, con una voce roca che metteva i brividi.
“Io... non sono un criminale di guerra. Io ho combattuto secondo le
regole.”
“Ha
sentito tutto?” domandò Stuart correndo verso di lui, anche se il
profondo turbamento del ragazzo appariva una risposta più che
eloquente.
“Non
sono un criminale di guerra,” ripeté il tedesco caparbio, “non
ho paura di morire, ma il disonore non lo accetto.”
In
preda a chissà quale inquietudine, d'impulso si alzò in piedi. Il
maggiore, che ormai era a pochi metri da lui, lo vide farsi
d'improvviso cereo e barcollare alla ricerca di un appiglio.
“Tenente!”
gridò raggiungendolo, “Hans!”
Lo
afferrò un attimo prima che crollasse al suolo e lo strinse a sé.
Istintivamente
il ragazzo gli circondò il collo con le braccia e rimase
pesantemente appoggiato a lui, così vicino che il maggiore sentiva
il suo cuore battere all'impazzata.
E anche
il proprio, per inciso.
“Hans,”
ripeté piano, “non devi alzarti.”
L'altro
rinsaldò per tutta risposta la stretta intorno al suo collo. “Non
lasciarmi,” mormorò con voce appena udibile.
A quel
punto, le difese che entrambi avevano faticosamente eretto giorno
dopo giorno crollarono di colpo, come una diga cede improvvisamente
alla pressione dell'acqua tumultuosa. Come guidate dall'attrazione
reciproca, le loro bocche si unirono in un lungo bacio ardente e
disperato.
Un
rumore al piano di sotto li fece trasalire. Con le labbra che
ancora sfioravano quelle del ragazzo, Stuart mormorò: “Non qui. Se
ci scoprissero sarebbe la fine.”
Ma non
si risolveva a lasciare von Rohr.
Qualcuno
stava salendo. Con la stessa sofferenza che avrebbe provato
strappando via una parte di sé, Stuart si obbligò infine a
sciogliere l'abbraccio e aiutò il ragazzo a sdraiarsi nuovamente sul
letto.
Un
attimo dopo entrò il capitano medico dicendo: “Mi sembrava di aver
sentito qualcuno litigare.” Poi fissò il maggiore e si accorse che
aveva il volto acceso e l'uniforme macchiata di sangue.
“Che
è successo?” chiese stupito.
“Il
tenente von Rohr voleva alzarsi,” rispose l'altro, col tono più
neutro che riuscì a tirare fuori, “ho dovuto afferrarlo per
evitare che cadesse a terra.”
“Oh,
capisco.” disse Allen. Si avvicinò al prigioniero. “Lei deve
rimanere sdraiato,” lo redarguì, “è ancora troppo debole. E poi
guardi cos'ha fatto: alcune ferite si sono riaperte. Se si comporta
così le resteranno delle brutte cicatrici.”
“Lo
terrò presente, signor capitano medico,” mormorò il giovane
tedesco, ancora turbato per quanto era accaduto solo poco prima.
Chiuse
gli occhi con un sospiro lasciando che Allen gli sistemasse le
medicazioni.
Stuart
capì che era il momento di andarsene. Il giovane aveva interrotto
volontariamente il contatto visivo per permettergli di allontanarsi
prima che l’ attrazione reciproca lo rendesse impossibile.
Lasciò
precipitosamente la stanza, scese incespicando le scale e uscì
dall'infermeria col cuore in tumulto, pregando che il capitano medico
non avesse capito il vero motivo del suo turbamento.
Una
volta all'esterno, si accese una sigaretta con mani tremanti,
aspirando il fumo come ossigeno dopo una prolungata apnea.
Si
ravviò nervosamente i capelli, inspirò ad occhi socchiusi come per
calmarsi. Doveva cambiarsi subito l'uniforme, ma dove mettere quella
insanguinata che aveva addosso? Non poteva certo lasciarla da lavare,
si sarebbero fatti delle domande, ma d'altra parte non poteva nemmeno
lavarla lui stesso, anche quello avrebbe suscitato domande.
Sospirò
irresoluto, con la sensazione di essere un assassino che tenta di
nascondere le prove del delitto commesso.
Andò
svelto alla canonica, deciso perlomeno a riconquistare il decoro
prima che qualcuno dei suoi uomini lo vedesse in quelle condizioni.
Volutamente
evitò di pensare a von Rohr. Erano tali e tante le implicazioni di
ciò che era appena accaduto che al momento non se la sentiva di
affrontarle.
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