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Autore: Old Fashioned    25/08/2016    14 recensioni
Seconda guerra mondiale, battaglia di Inghilterra. Un leggendario quanto inafferrabile pilota della Luftwaffe, soprannominato "Cavaliere di Valsgärde", compare durante le battaglie più cruente, abbatte il suo avversario e subito dopo scompare senza lasciare traccia.
Il Maggiore Stuart, del 19° Squadron, riesce finalmente ad abbatterlo con uno stratagemma, ma quando l'Asso tedesco sarà al suo cospetto le cose si riveleranno molto diverse da come se le aspettava...
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Capitolo 24

Lo ritrovarono il mattino dopo, alle prime luci dell'alba. Era nel bel mezzo dello sbarramento di filo spinato, così tenacemente avvinto dalle spire di metallo che per liberarlo furono necessarie le cesoie.
Era stato colpito a una spalla, e per quanto la ferita non fosse particolarmente grave, probabilmente il colpo l'aveva sbilanciato e fatto cadere sui cavalli di Frisia. Il giovane aveva poi spasmodicamente cercato di liberarsi, ma nel buio e ferito, alle prese con il tipo di filo spinato detto 'a rasoio', non aveva fatto altro che avvilupparsi sempre di più, ridursi a brandelli gli abiti e tagliarsi dappertutto.
Dovettero far venire una barella e portarlo via così, semisvenuto e sanguinante, talmente stremato da non reggersi neppure in piedi.
Prontamente chiamato, il maggiore raggiunse la piccola processione a metà del suo percorso verso l’infermeria.
“È vivo?” fu la prima cosa che domandò, osservando preoccupato il prigioniero.
Von Rohr giaceva immobile, gli occhi socchiusi avevano uno sguardo vacuo. Il volto era di un pallore mortale.
“Vivo, sissignore,” rispose subito il caporale Grice, che aveva sovrinteso all’operazione di recupero, “anche se non particolarmente vegeto.” Fece una breve risata, che provocò un’occhiataccia di Stuart.
“Cos’è successo?” chiese dopo qualche secondo l’ufficiale.
“L’idiota è finito lì in mezzo.” Il graduato fece un cenno con la testa verso gli sbarramenti di filo spinato. “E invece di starsene buono e fermo come avrebbe fatto qualsiasi militare di buon senso, si è agitato tutta la notte come una volpe presa al laccio.”
“Poteva ammazzarsi,” constatò il maggiore quasi parlando fra sé e sé. Si accese nervosamente una sigaretta, pregando che Grice non si accorgesse del tremito che l’aveva invaso.
Lungi dal notare simili bazzecole, il caporale rispose: “Già, peccato che non abbia finito il lavoro, non è vero, signore?” Poi si guardò intorno e con aria astuta soggiunse: “Ma stia tranquillo, possiamo pensarci io e i ragazzi. Lei vada là in fondo a fumare la sua sigaretta, e le garantisco che quando torna non dovrà più preoccuparsi di questo nazista bastardo.”
“Caporale Grice, le proibisco di parlare in questo modo,” disse freddamente Stuart.
“Mi scusi, signore,” rispose il graduato. Al maggiore parve di cogliere una nota di impertinenza nella voce dell’uomo.
Così parlando avevano infine raggiunto l’infermeria. Per vari motivi, Stuart preferì non entrare. Primo, il tono che il caporale aveva usato per rispondergli suggeriva di dimostrare apertamente che lui non era interessato al giovane tedesco. Secondo, non era certo che sarebbe riuscito a rimanere più a lungo impassibile. Vedere von Rohr ferito e sofferente l’aveva inaspettatamente gettato nello sconforto più completo: di colpo aveva realizzato che avrebbe potuto perderlo, e che se l’avesse perso avrebbe sofferto orribilmente.
Quella consapevolezza assunse la connotazione della tragedia. Che cosa gli stava succedendo? Si era davvero innamorato di quel ragazzo?
Diede un ultimo tiro nervoso alla sigaretta e si allontanò rapido, augurandosi solo che il suo cuore smettesse di martellare come se avesse voluto uscirgli dal petto.

Verso metà mattina si presentò in pompa magna l'Intelligence militare: in fila indiana arrivarono una macchina con a bordo Linwood e Benson, un furgone per il trasporto del prezioso prigioniero e un'intera camionetta di soldati per scortarlo.
I due ufficiali smontarono nervosi, al solito senza nemmeno aspettare che l'autista aprisse loro la portiera. Questa volta non recavano doni e fecero addirittura fatica a rispondere al saluto che Stuart rivolse loro intercettandoli in mezzo al piazzale.
“Siamo qui per portare via il prigioniero,” disse brusco Linwood, aggirando subito dopo il parigrado e dirigendosi spedito verso la baracca del comando.
“Non ne dubito,” rispose Stuart raggiungendolo. Poi, con una vaga nota di soddisfazione nella voce aggiunse: “Ma temo che oggi non sia possibile trasportarlo.”
“Non ricominci con le sue geremiadi sull'onore,” ringhiò l'altro, “le ho già sentite in tutte le salse, e la avverto che la misura è colma.”
Il pilota lasciò passare qualche secondo, poi con tono neutro replicò: “Non intendevo tirare in ballo concetti così alieni alla sua mentalità. Al momento il tenente von Rohr è in infermeria e non può essere spostato.”
Linwood si fermò. “Che cosa ci fa in infermeria?”
“È ferito.”
Il suo interlocutore ebbe un moto di impazienza. “E si può sapere come mai è ferito?”
“Ha tentato la fuga,” lo informò il maggiore Stuart, col tono che avrebbe usato per parlare del tempo. E al protrarsi del silenzio dell’altro, premurosamente aggiunse: “Secondo la Convenzione di Ginevra, è diritto di ogni soldato prigioniero tentare la fuga.”
“Conosco la Convenzione di Ginevra,” tagliò corto il maggiore Linwood.
“Perfetto, allora saprà che ho ragione.”
Di nuovo calò un silenzio greve come una lastra di piombo. Sembrava che anche gli uccelli si fossero zittiti. Solo il vento faceva frusciare appena le foglie degli alberi.
All'apparenza perfettamente calmo, Stuart avvertiva in realtà la tensione tipica dei voli di guerra. Stava conducendo una partita pericolosa, che rischiava di terminare in una corte marziale con l’accusa di alto tradimento.
L’Intelligence per ora non se la prendeva con lui, ma probabilmente solo perché l’effetto negativo sul morale delle truppe di un comandante di Squadron arrestato per alto tradimento avrebbe eliso quello positivo derivante della cattura del Cavaliere di Valsgärde.
Era solo una questione di algebra, in fin dei conti.
La voce di Linwood lo richiamò bruscamente alla realtà: “È stata messa in atto ogni necessaria misura per impedire la fuga al prigioniero?”
“Ovviamente sì.”
“Sa che questo andrà nelle sue note caratteristiche, vero, maggiore?”
Per tutta risposta Stuart si strinse nelle spalle con l’espressione di chi si sottomette all’ineluttabile.
Un altro silenzio.
“Conosceva l’importanza di quel prigioniero,” riprese poi Linwood, sempre più esasperato dal menare colpi e vederli andare a vuoto uno dopo l’altro, “eppure l’ha lasciato scappare.”
“Non mi sembra di averlo lasciato scappare,” replicò il pilota con distacco, “tant’è che adesso non sta correndo libero per l’Inghilterra ma è in infermeria ferito.”
“Voglio vederlo.”
“Come preferisce.”

L'infermeria era una palazzina a due piani un po' distaccata dal resto degli edifici. Per volere del capitano medico Allen, che la gestiva in osservanza ai più rigidi principi ippocratici, essa era mantenuta in uno stato di scrupolosa pulizia ed era circondata da un piccolo orto di piante medicinali, destinate ad alleviare coi loro effluvi le sofferenze degli infermi.
Sulla porta c'era un soldato di guardia, che scattò sull'attenti e salutò all'approssimarsi dei tre ufficiali.
“Riposo, Curtis,” disse il maggiore rispondendo al saluto, “abbiamo bisogno del capitano Allen.”
“Sissignore. Lo chiamo subito, signore!”
Il soldato scomparve all'interno dell'edificio. Con sollievo, suppose Stuart, dal momento che a nessuno piaceva avere a che fare con l'Intelligence.
Poco dopo arrivò il capitano, che invece si dimostrò molto meno impressionato dagli inattesi ospiti. Era un uomo di circa trentacinque anni, alto e magro, che portava un camice completamente abbottonato e occhiali dalla sottile montatura d'oro. Dava l'impressione di trovarsi quasi per sbaglio all'interno dei ranghi militari.
“Buon giorno, signori,” salutò tranquillamente.
Linwood aggrottò le sopracciglia a quell'atteggiamento decisamente poco marziale. “Siamo qui per vedere il prigioniero,” disse.
Il medico annuì, ma subito dopo rivolse lo sguardo al maggiore Stuart, come per chiedergli la conferma che doveva davvero introdurre estranei – e probabilmente profani – all'interno dell'asklepieion.
Precedendolo nell'atrio dell'edificio, il comandante del 19° Squadron spiegò: “I signori sono venuti a controllare le condizioni del tenente von Rohr.”
Non aggiunse altro, lasciando che l'assurdità di due ufficiali del servizi segreti che fanno visita a un prigioniero ferito dilagasse come acqua da un vaso rovesciato.
“Sì, signore” rispose dubbioso Allen. Si voltò verso i nuovi arrivati. “Certo, signore,” ripeté, ancora poco convinto, “è di sopra. Se i signori hanno la compiacenza di seguirmi...”
Si incamminò rapido su per le scale senza terminare la frase.
Condusse i tre ad una stanza che conteneva sei letti, uno solo dei quali occupato. “Eccolo là,” disse semplicemente, fermandosi sulla soglia.
“Bene, ora vediamo,” disse Linwood senza preoccuparsi di nascondere la propria diffidenza, quindi si diresse verso il ferito seguito dall'immancabile e silenzioso Benson.

Von Rohr era ancora di un pallore mortale. Era stato ripulito dal sangue, ma su ogni parte visibile del corpo aveva medicazioni e fasciature, alcune già macchiate di rosso. Era immerso in un profondo torpore.
“Gli ho dato un po' di morfina,” disse Allen in risposta allo sguardo preoccupato del maggiore Stuart.
“È così grave?” domandò l'altro sforzandosi di mantenere un tono neutro.
“Non particolarmente, ma avevo paura che si agitasse e ho preferito sedarlo.”
A quelle parole intervenne Linwood: “Bene, se non è così grave faccia il favore di impacchettarcelo, dottore, perché lo dobbiamo portare via.”
Il capitano medico inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione a metà fra lo stupore e l'indignazione. Dunque aveva ragione: erano due profani!
“Il mio paziente non si muove di qui,” si limitò a rispondere, e anche da quelle poche parole trasparivano una costernazione e uno sdegno senza fine.
Linwood sospirò ostentando esasperazione. “Dottore, dobbiamo portare via questo nazista oggi,” ripeté con studiata lentezza, scandendo ogni parola. “Sia così cortese da metterlo in condizioni di viaggiare, prego.”
“No. Ha numerose medicazioni che richiedono assoluta immobilità, non è possibile spostarlo.”
Gli occhi dell'altro divennero due fessure. Con voce minacciosamente bassa chiese: “Che cosa fa, dottore, protegge un nazista?”
“Curo un ferito,” fu la risposta, pronunciata con ammirevole fermezza.
In quel momento von Rohr gemette piano, distogliendo per fortuna il medico dalla sua pericolosa presa di posizione.
“Si sta svegliando,” disse Allen dopo aver tastato il polso e sollevato una palpebra al giovane ufficiale.
“Bene, allora ce lo portiamo via,” insisté Linwood imperterrito.
Per tutta risposta, il dottore prese un oggetto che si trovava sul comodino e glielo mostrò. Era un sottile nastro metallico dai bordi irregolari, sporco di sangue.
“Che cos'è?” chiese perplesso il maggiore.
“Filo spinato a rasoio,” spiegò Allen. “Lo vede com’è fatto? È roba che taglia a guardarla. Il tenente si è dibattuto tra queste spire tutta la notte cercando di liberarsi. Questo pezzo ce l'aveva conficcato in una coscia, e non è l'unico che gli ho tolto.”
“Quindi in pratica si è macellato da solo,” non poté fare a meno di osservare Benson, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del suo superiore.
“Precisamente,” confermò il medico.
A quel punto i due ufficiali dell'Intelligence si appartarono e si misero a confabulare animatamente a bassa voce.
Rimasto accanto al letto assieme ad Allen, Stuart abbassò gli occhi sul ferito e si sentì stringere il cuore. Era terribile vederlo così. Allungò lentamente una mano e con delicatezza gli prese il mento tra le dita, voltandogli poi adagio la testa fino a mettere in evidenza una fasciatura sul collo.
“Poteva ammazzarsi,” disse alle sue spalle il capitano medico, “quella ferita ha praticamente sfiorato la carotide, ed è un miracolo che non si sia sfigurato o accecato.”
“Povero ragazzo,” mormorò Stuart abbandonando la presa. Ricordava le serate trascorse con lui nella canonica, il suo sguardo ardente, la sua fermezza carica di sfida...
“Le fa impressione?” gli chiese improvvisamente Allen.
Stuart avvampò. “No di certo, perché?”
“È impallidito.” Poi, dopo una pausa: “Forse è meglio che venga fuori.”
“Ma no, le assicuro che sto benissimo.”
“Il ferito ha bisogno di riposare,” tagliò corto l'altro, “quindi ora sarà meglio uscire.” L'ultima frase la pronunciò alzando leggermente il tono della voce a beneficio dei due ufficiali dell'Intelligence.

Uscirono tutti dalla camera di degenza e si ritrovarono nella stanza attigua, che era quella da cui partiva la scala per andare al piano inferiore.
Ritenendo chiusa la questione del trasferimento di von Rohr, il capitano medico salutò e tornò alle sue occupazioni.
“Un bel tipo anche quell’Allen,” osservò Linwood sarcastico quando il dottore se ne fu andato. “Siete tutti cavalieri della Tavola Rotonda, qui? Non c'è nessuno che si limiti ad eseguire gli ordini senza sentire il bisogno di fornire il proprio parere in merito?”
“Probabilmente siamo gente un po' all'antica,” rispose Stuart sullo stesso tono, “non molto al passo con i tempi. Crediamo ancora che l'onore e il rispetto valgano qualcosa, pensi un po' quanto siamo strani.”
A quelle parole Linwood strinse gli occhi fino a renderli due minacciose fessure. “Non tiri troppo la corda, Stuart,” sibilò lentamente, “la mia pazienza non è infinita e comincio ad averne abbastanza delle sue sparate moraliste.”
“Che coincidenza,” replicò l'altro senza lasciarsi impressionare, “anch'io sono piuttosto stanco del suo cinismo e della sua grettezza.”
“Ma c'è una differenza fra noi due: io posso farla condannare per alto tradimento, lei no.”
“Ma certo, lei è Dio, può fare quello che vuole!” rispose Stuart alzando la voce a quell'ennesima minaccia. “Lei può anche prendere un prigioniero, farlo passare per criminale e impiccarlo senza perderci un minuto di sonno!”
“La smetta con queste idiozie! Stiamo combattendo una guerra, non una partita di cricket, e dobbiamo vincerla a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo!”
“Anche mentendo e ingannando?”
“Certo, se sarà necessario! E le dirò una cosa: se tirando il collo a quel maledetto crucco fossi sicuro di salvare anche una sola vita inglese, lo farei adesso con le mie mani!”
“Von Rohr non è un criminale di guerra! Lei vuole uccidere un innocente!”
“In guerra gli innocenti non esistono!”
La lite andò avanti su quei toni per un po', poi i due tacquero, ansimanti e rossi in viso, e per lunghi secondi rimasero a fissarsi immobili.
“Basta così,” disse infine Linwood, “tra una settimana verrò a prendere quel dannato nazista, e lei me lo farà trovare pronto per il trasporto, oppure ci saranno due esecuzioni e non una.”
Se ne andò senza attendere risposta.

Padrone del campo dopo una disastrosa vittoria di Pirro, per un tempo imprecisato il maggiore Stuart rimase semplicemente immobile al centro della stanza. Si guardava intorno attonito, come se stentasse a riconoscere ciò che lo circondava.
Gli sembrava di vivere in un sogno, infatti. O più che altro in un incubo. Si sentiva come un animale braccato che vede le vie di fuga chiudersi una dopo l'altra.
Che fare? Aveva sette giorni, poi Linwood sarebbe tornato per portare via von Rohr. Lo rivide come gliel'avevano mostrato all'alba, stremato e coperto di sangue, e si rese conto che non sarebbe riuscito a sopportare per la seconda volta uno spettacolo del genere.
Stava angosciosamente ragionando fra sé e sé quando sentì dei rumori provenire dall'altra stanza. In preda ad un orribile presentimento tornò nella camera di degenza e trovò von Rohr seduto sul letto.
Era spaventoso a vedersi: aveva lo sguardo febbrile e ansava per quello che doveva essere stato un tremendo sforzo. Alcune ferite si erano riaperte e il sangue scuro rigava una pelle altrimenti bianca come gesso.
“Maggiore...” mormorò faticosamente, con una voce roca che metteva i brividi. “Io... non sono un criminale di guerra. Io ho combattuto secondo le regole.”
“Ha sentito tutto?” domandò Stuart correndo verso di lui, anche se il profondo turbamento del ragazzo appariva una risposta più che eloquente.
“Non sono un criminale di guerra,” ripeté il tedesco caparbio, “non ho paura di morire, ma il disonore non lo accetto.”
In preda a chissà quale inquietudine, d'impulso si alzò in piedi. Il maggiore, che ormai era a pochi metri da lui, lo vide farsi d'improvviso cereo e barcollare alla ricerca di un appiglio.
“Tenente!” gridò raggiungendolo, “Hans!”
Lo afferrò un attimo prima che crollasse al suolo e lo strinse a sé.
Istintivamente il ragazzo gli circondò il collo con le braccia e rimase pesantemente appoggiato a lui, così vicino che il maggiore sentiva il suo cuore battere all'impazzata.
E anche il proprio, per inciso.
“Hans,” ripeté piano, “non devi alzarti.”
L'altro rinsaldò per tutta risposta la stretta intorno al suo collo. “Non lasciarmi,” mormorò con voce appena udibile.
A quel punto, le difese che entrambi avevano faticosamente eretto giorno dopo giorno crollarono di colpo, come una diga cede improvvisamente alla pressione dell'acqua tumultuosa. Come guidate dall'attrazione reciproca, le loro bocche si unirono in un lungo bacio ardente e disperato.

Un rumore al piano di sotto li fece trasalire. Con le labbra che ancora sfioravano quelle del ragazzo, Stuart mormorò: “Non qui. Se ci scoprissero sarebbe la fine.”
Ma non si risolveva a lasciare von Rohr.
Qualcuno stava salendo. Con la stessa sofferenza che avrebbe provato strappando via una parte di sé, Stuart si obbligò infine a sciogliere l'abbraccio e aiutò il ragazzo a sdraiarsi nuovamente sul letto.
Un attimo dopo entrò il capitano medico dicendo: “Mi sembrava di aver sentito qualcuno litigare.” Poi fissò il maggiore e si accorse che aveva il volto acceso e l'uniforme macchiata di sangue.
“Che è successo?” chiese stupito.
“Il tenente von Rohr voleva alzarsi,” rispose l'altro, col tono più neutro che riuscì a tirare fuori, “ho dovuto afferrarlo per evitare che cadesse a terra.”
“Oh, capisco.” disse Allen. Si avvicinò al prigioniero. “Lei deve rimanere sdraiato,” lo redarguì, “è ancora troppo debole. E poi guardi cos'ha fatto: alcune ferite si sono riaperte. Se si comporta così le resteranno delle brutte cicatrici.”
“Lo terrò presente, signor capitano medico,” mormorò il giovane tedesco, ancora turbato per quanto era accaduto solo poco prima.
Chiuse gli occhi con un sospiro lasciando che Allen gli sistemasse le medicazioni.
Stuart capì che era il momento di andarsene. Il giovane aveva interrotto volontariamente il contatto visivo per permettergli di allontanarsi prima che l’ attrazione reciproca lo rendesse impossibile.
Lasciò precipitosamente la stanza, scese incespicando le scale e uscì dall'infermeria col cuore in tumulto, pregando che il capitano medico non avesse capito il vero motivo del suo turbamento.
Una volta all'esterno, si accese una sigaretta con mani tremanti, aspirando il fumo come ossigeno dopo una prolungata apnea.
Si ravviò nervosamente i capelli, inspirò ad occhi socchiusi come per calmarsi. Doveva cambiarsi subito l'uniforme, ma dove mettere quella insanguinata che aveva addosso? Non poteva certo lasciarla da lavare, si sarebbero fatti delle domande, ma d'altra parte non poteva nemmeno lavarla lui stesso, anche quello avrebbe suscitato domande.
Sospirò irresoluto, con la sensazione di essere un assassino che tenta di nascondere le prove del delitto commesso.
Andò svelto alla canonica, deciso perlomeno a riconquistare il decoro prima che qualcuno dei suoi uomini lo vedesse in quelle condizioni.
Volutamente evitò di pensare a von Rohr. Erano tali e tante le implicazioni di ciò che era appena accaduto che al momento non se la sentiva di affrontarle.

   
 
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