Valsgärde 27
Capitolo
27
Silenzioso
come un’ombra, il capitano Poynter scivolò all’interno
dell’hangar principale. Era pomeriggio inoltrato, quell’ora a
cavallo delle effemeridi in cui non si facevano più voli di guerra
ma non era ancora completamente buio, ed era proprio il momento in
cui i meccanici tendevano a manifestare minore entusiasmo per il loro
dovere.
Se
potevano sgattaiolavano via, o tiravano fuori qualche bottiglia,
oppure si mettevano a fumare e a chiacchierare fra loro.
Il che
alla fin fine non era poi così grave, si trattava perlopiù di bravi
ragazzi volonterosi e a quell’ora avevano senz’altro diritto a un
po’ di riposo, ma non era comunque male fare ogni tanto qualche
controllo a sorpresa, giusto per tenere alto il livello di
attenzione.
Il
capitano percepì immediatamente una conversazione sulla quale si
inserivano risatine soffocate.
Si
avvicinò con cautela.
“Ehi,
guardate questa!” diceva uno.
“Che
roba, da non crederci!” rispondeva un altro.
Altre
risate, altri commenti increduli e divertiti.
“Ma
sul serio?”
“Se
te lo dico io!”
I
meccanici sembravano spassarsela un mondo.
Poynter
stette ad ascoltare per un po’. I ragazzi non si erano accorti di
lui, per cui ebbe modo di avvicinarsi cautamente e buttare uno
sguardo a quello che stavano facendo.
C’era
una bottiglia che passava di mano in mano, ma quello al momento gli
parve il problema minore. Addirittura le sigarette accese all’interno
dell’hangar, che normalmente scatenavano la sua ira funesta, erano
poco più che bazzecole, paragonate ai disegni che gli avieri stavano
con grande ilarità ammirando.
“Datemi
subito quei fogli!” intimò bruscamente, palesandosi
all’improvviso.
Colti
di sorpresa, i ragazzi sussultarono e rimasero a fissarlo immobili,
senza nemmeno fare un tentativo di nascondere i vari ‘corpi del
reato’ sparsi in giro.
Il più
alto in grado, un caporale, con gran sfoggio di buona volontà gli
tese la bottiglia mezza vuota, ne recuperò un’altra piena e gli
consegnò anche quella, poi spense la propria sigaretta e ordinò a
tutti gli altri di fare altrettanto.
A
questo punto lo fissò speranzoso.
Ma
Poynter non era più il buon vecchio Poynter sempre pronto a
scherzare. Aveva anzi un cipiglio che metteva i brividi.
“I
fogli,” ordinò inflessibile, “datemeli tutti.”
“Ma
signore…”
“Adesso.”
Tese la
mano, che rimase immobile a mezz’aria minacciosa come un’arma.
“Signore,
per favore,” tentò di nuovo il graduato, “passeremo i guai.”
“È
esattamente quello che vi meritate.”
“I
ragazzi non volevano fare niente di male…”
“E
lei, caporale, che cosa pensava di fare?” lo interruppe bruscamente
il capitano, “Perché non è intervenuto quando si è accorto di
questo scempio? Perché invece di stare qui a ridacchiare come una
specie di scimmia non ha preso i nomi dei colpevoli e non ha fatto
rapporto?”
Seguirono
alcuni lunghi secondi di silenzio.
“Io…
credevo che non fosse così grave, signore,” si decise a dire il
giovanotto, col tono di chi affronta la morte.
“Ah,
lei credeva?” Fuori di sé dalla rabbia, con gli occhi che
mandavano lampi e le mascelle contratte, il gioviale capitano era
irriconoscibile. “Ora queste cose andranno a finire dal comandante,
e vedremo cosa ne pensa lui delle sue credenze. Voglio i nomi di
tutti i presenti, tanto per cominciare.”
Tirò
fuori dalla tasca un minaccioso taccuino.
Una
volta uscito dall’hangar, Poynter andò subito alla ricerca di
Stuart.
Lo
trovò che si stava recando al circolo ufficiali. “Devo parlarti,”
gli disse asciutto, fermandolo mentre aveva già un piede sulla
soglia.
L’altro
parve piuttosto disorientato da quell’insolita risolutezza. “Che
c’è?” gli domandò perplesso.
“Devo
parlarti subito.”
“Ma…
certo, entriamo e sediamoci.”
“Devo
parlarti da solo.”
Incurante
delle occhiate perplesse che gli rivolgevano gli altri piloti, il
capitano lo afferrò per un braccio e si diresse rapido verso la
baracca del comando, che a quell’ora era vuota. Lo spinse dentro.
“In
nome di Dio, vuoi dirmi cosa c’è?” gli chiese il maggiore
facendo qualche passo nella stanza semibuia.
Senza
una parola, Poynter trasse di tasca i fogli e li sparse sulla
scrivania.
Quando
ebbe visto di cosa di trattava, Stuart ringraziò che ci fosse poca
luce, perché era sicuro di essere sbiancato.
Erano
caricature, che ritraevano in modo grottesco lui e von Rohr impegnati
in attività erotiche di ogni genere.
“Io…
non capisco,” balbettò, appena si fu ripreso abbastanza da
ritrovare la voce.
“Detesto
dire ‘te l’avevo detto’, George,” rispose Poynter.
Stuart
non replicò. Andò a passi lenti verso la finestra e rimase a
fissare ostinatamente il campo che andava scomparendo nel crepuscolo.
Alle
sue spalle si fece nuovamente udire la voce dell’amico: “Sono
ragazzi semplici, non puoi pretendere che capiscano certe cose.”
“Che
intendi dire?”
“Beh…”
cominciò Poynter con un certo imbarazzo, “non hai smistato von
Rohr con gli altri prigionieri di guerra, te lo sei tenuto nella
chiesa, hai preso a male parole quei due dei Servizi Segreti che se
lo volevano portare via. Sono tutte cose che facilmente si possono
prestare ad interpretazioni errate.”
“Devo
preoccuparmi dell’opinione degli avieri, adesso?” ringhiò
Stuart, sempre senza voltarsi.
“Non
sei tenuto a farlo,” concesse l’altro, “ma tu sai bene che per
un comandante di Squadron avere il rispetto degli uomini è di
importanza vitale.”
Di
nuovo, il maggiore non rispose. Non avrebbe saputo cosa rispondere,
in effetti. Si sentiva sul ponte di una nave che affonda, o
all'interno di un palazzo che sta crollando: sapeva che avrebbe
dovuto fare qualcosa, ma al tempo stesso gli era chiaro che nulla di
ciò che avrebbe potuto fare l'avrebbe salvato.
La voce
di Poynter gli calò sulla nuca come la mannaia del carnefice:
“Lascialo perdere. Forse siamo ancora in tempo a salvare la
situazione, ma bisogna che ti liberi di lui.”
“Tu
non puoi capire,” rispose Stuart.
E
davvero era convinto che il bravo Poynter, così pieno di buon senso
e ironia, non avrebbe mai capito il piacere al tempo stesso demoniaco
e divino di stringere quel corpo muscoloso, di divorare di baci
quelle labbra che riuscivano ad essere contemporaneamente severe e
sensuali, di ascoltare sospiri che da soli valevano la dannazione
eterna della sua anima.
Rievocò
con un brivido di voluttà l'istante in cui si era appoggiato contro
il suo corpo fremente apprestandosi a penetrarlo per la prima volta.
Aveva ancora davanti agli occhi il suo volto arrossato dal piacere,
sul quale si leggeva un commovente misto di risolutezza, curiosità,
timore e desiderio.
“Nessuno
può capire,” disse.
A
quelle parole il capitano lo fissò come se lo vedesse per la prima
volta. “Gesù Cristo, George, non puoi parlare sul serio!”
protestò raggiungendolo.
Lo
prese per le spalle, e scuotendolo vigorosamente esclamò: “Diamine,
ragiona! Sei un ufficiale, sei un comandante! Siamo in guerra! Ti
sembra il momento di metterti a giocare al Battaglione Sacro? Con un
nemico, per di più?”
Stuart
si lasciò scrollare senza opporre resistenza, ascoltò l'altro con
volto singolarmente inespressivo e alla fine lapidario proferì: “Non
è un gioco.”
Poynter
lo mollò come se scottasse. “Come sarebbe a dire che non è un
gioco?”
Poi,
senza attendere risposta, rapidamente aggiunse: “Beh, lascia
perdere. Qualsiasi cosa sia, qui dobbiamo salvare il salvabile.
Mandalo via, liberati di lui, fatti visitare dal dottor Allen e digli
che ti serve una licenza perché hai i nervi scossi, io intanto
cercherò di far calmare le acque...”
S'interruppe:
sembrava di parlare con un manichino. Il maggiore aveva di nuovo lo
sguardo perso fuori dalla finestra.
“George?”
Nessuna
risposta.
“George,
Dio santo, tu ti sei bevuto il cervello!”
Il
maggiore rimase ancora una volta in silenzio. Poynter stette per un
po' a fissarlo preoccupato, ma era come se l'amico avesse eretto un
muro fra sé e lui.
Non
poté fare altro che stringergli amichevolmente il braccio e dirgli:
“Non venire in mensa stasera. Hai una faccia che spaventerebbe
Belzebù in persona, sembra che tu abbia visto un fantasma. Vattene
da qualche parte a riflettere, io inventerò una scusa qualsiasi per
giustificare la tua assenza.”
“D'accordo.”
“E
pensa a quello che ti ho detto.”
Stuart
non rispose.
Rimasto
solo nella baracca del comando ormai buia, Stuart in effetti pensava.
Tutto
stava andando a rotoli, inutile negarlo. Gli uomini sapevano. O se
non sapevano, immaginavano, il che all'atto pratico faceva poca
differenza.
La
mattina aveva richiuso in cella von Rohr per salvare le apparenze, ma
in una sorta di autodistruttiva noncuranza non gli era venuto in
mente di togliere gli indizi di quello che era successo durante la
notte. Cosa poteva aver pensato il suo attendente, trovando un
flacone di olio per armi sul comodino e due asciugamani con macchie
inequivocabili in giro per la stanza?
Non ci
voleva molta fantasia per indovinarlo.
Del
resto, se giravano disegni come quelli che gli aveva mostrato
Poynter, era segno che gli uomini avevano già capito cosa stava
succedendo.
Presto
avrebbero saputo anche gli ufficiali, se non sapevano già, e poi i
suoi superiori, i suoi familiari e infine Margaret.
La
tragedia era che non gliene importava niente.
Per
quanto ci ragionasse, per quanto pensasse alle conseguenze
potenzialmente gravissime – disonore, vergogna, corte marziale –
di quello che stava accadendo, tutto ciò scompariva come neve al
sole allorquando rivolgeva il pensiero a Hans von Rohr.
Di più:
visto che il tedesco aveva consapevolmente scelto la morte e il
disonore per salvarlo, era come se lui volesse in qualche modo
emularlo.
Una
cosa perfettamente irrazionale, questo era chiaro, che come minimo
vanificava il sacrificio di von Rohr, ma era come se una voce gli
ripetesse costantemente che se non potevano salvarsi insieme almeno
avrebbero bevuto insieme l'amaro calice.
Uscì
dalla baracca del comando e andò alla canonica come un drogato si
sarebbe diretto ad una fumeria d'oppio, consapevole che vi avrebbe
trovato il più inebriante piacere ma anche la più abietta rovina.
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