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Autore: Old Fashioned    31/08/2016    12 recensioni
Seconda guerra mondiale, battaglia di Inghilterra. Un leggendario quanto inafferrabile pilota della Luftwaffe, soprannominato "Cavaliere di Valsgärde", compare durante le battaglie più cruente, abbatte il suo avversario e subito dopo scompare senza lasciare traccia.
Il Maggiore Stuart, del 19° Squadron, riesce finalmente ad abbatterlo con uno stratagemma, ma quando l'Asso tedesco sarà al suo cospetto le cose si riveleranno molto diverse da come se le aspettava...
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Valsgärde 27 Capitolo 27

Silenzioso come un’ombra, il capitano Poynter scivolò all’interno dell’hangar principale. Era pomeriggio inoltrato, quell’ora a cavallo delle effemeridi in cui non si facevano più voli di guerra ma non era ancora completamente buio, ed era proprio il momento in cui i meccanici tendevano a manifestare minore entusiasmo per il loro dovere.
Se potevano sgattaiolavano via, o tiravano fuori qualche bottiglia, oppure si mettevano a fumare e a chiacchierare fra loro.
Il che alla fin fine non era poi così grave, si trattava perlopiù di bravi ragazzi volonterosi e a quell’ora avevano senz’altro diritto a un po’ di riposo, ma non era comunque male fare ogni tanto qualche controllo a sorpresa, giusto per tenere alto il livello di attenzione.
Il capitano percepì immediatamente una conversazione sulla quale si inserivano risatine soffocate.
Si avvicinò con cautela.
“Ehi, guardate questa!” diceva uno.
“Che roba, da non crederci!” rispondeva un altro.
Altre risate, altri commenti increduli e divertiti.
“Ma sul serio?”
“Se te lo dico io!”
I meccanici sembravano spassarsela un mondo.
Poynter stette ad ascoltare per un po’. I ragazzi non si erano accorti di lui, per cui ebbe modo di avvicinarsi cautamente e buttare uno sguardo a quello che stavano facendo.
C’era una bottiglia che passava di mano in mano, ma quello al momento gli parve il problema minore. Addirittura le sigarette accese all’interno dell’hangar, che normalmente scatenavano la sua ira funesta, erano poco più che bazzecole, paragonate ai disegni che gli avieri stavano con grande ilarità ammirando.
“Datemi subito quei fogli!” intimò bruscamente, palesandosi all’improvviso.
Colti di sorpresa, i ragazzi sussultarono e rimasero a fissarlo immobili, senza nemmeno fare un tentativo di nascondere i vari ‘corpi del reato’ sparsi in giro.
Il più alto in grado, un caporale, con gran sfoggio di buona volontà gli tese la bottiglia mezza vuota, ne recuperò un’altra piena e gli consegnò anche quella, poi spense la propria sigaretta e ordinò a tutti gli altri di fare altrettanto.
A questo punto lo fissò speranzoso.
Ma Poynter non era più il buon vecchio Poynter sempre pronto a scherzare. Aveva anzi un cipiglio che metteva i brividi.
“I fogli,” ordinò inflessibile, “datemeli tutti.”
“Ma signore…”
“Adesso.”
Tese la mano, che rimase immobile a mezz’aria minacciosa come un’arma.
“Signore, per favore,” tentò di nuovo il graduato, “passeremo i guai.”
“È esattamente quello che vi meritate.”
“I ragazzi non volevano fare niente di male…”
“E lei, caporale, che cosa pensava di fare?” lo interruppe bruscamente il capitano, “Perché non è intervenuto quando si è accorto di questo scempio? Perché invece di stare qui a ridacchiare come una specie di scimmia non ha preso i nomi dei colpevoli e non ha fatto rapporto?”
Seguirono alcuni lunghi secondi di silenzio.
“Io… credevo che non fosse così grave, signore,” si decise a dire il giovanotto, col tono di chi affronta la morte.
“Ah, lei credeva?” Fuori di sé dalla rabbia, con gli occhi che mandavano lampi e le mascelle contratte, il gioviale capitano era irriconoscibile. “Ora queste cose andranno a finire dal comandante, e vedremo cosa ne pensa lui delle sue credenze. Voglio i nomi di tutti i presenti, tanto per cominciare.”
Tirò fuori dalla tasca un minaccioso taccuino.

Una volta uscito dall’hangar, Poynter andò subito alla ricerca di Stuart.
Lo trovò che si stava recando al circolo ufficiali. “Devo parlarti,” gli disse asciutto, fermandolo mentre aveva già un piede sulla soglia.
L’altro parve piuttosto disorientato da quell’insolita risolutezza. “Che c’è?” gli domandò perplesso.
“Devo parlarti subito.”
“Ma… certo, entriamo e sediamoci.”
“Devo parlarti da solo.”
Incurante delle occhiate perplesse che gli rivolgevano gli altri piloti, il capitano lo afferrò per un braccio e si diresse rapido verso la baracca del comando, che a quell’ora era vuota. Lo spinse dentro.
“In nome di Dio, vuoi dirmi cosa c’è?” gli chiese il maggiore facendo qualche passo nella stanza semibuia.
Senza una parola, Poynter trasse di tasca i fogli e li sparse sulla scrivania.
Quando ebbe visto di cosa di trattava, Stuart ringraziò che ci fosse poca luce, perché era sicuro di essere sbiancato.
Erano caricature, che ritraevano in modo grottesco lui e von Rohr impegnati in attività erotiche di ogni genere.
“Io… non capisco,” balbettò, appena si fu ripreso abbastanza da ritrovare la voce.
“Detesto dire ‘te l’avevo detto’, George,” rispose Poynter.
Stuart non replicò. Andò a passi lenti verso la finestra e rimase a fissare ostinatamente il campo che andava scomparendo nel crepuscolo.
Alle sue spalle si fece nuovamente udire la voce dell’amico: “Sono ragazzi semplici, non puoi pretendere che capiscano certe cose.”
“Che intendi dire?”
“Beh…” cominciò Poynter con un certo imbarazzo, “non hai smistato von Rohr con gli altri prigionieri di guerra, te lo sei tenuto nella chiesa, hai preso a male parole quei due dei Servizi Segreti che se lo volevano portare via. Sono tutte cose che facilmente si possono prestare ad interpretazioni errate.”
“Devo preoccuparmi dell’opinione degli avieri, adesso?” ringhiò Stuart, sempre senza voltarsi.
“Non sei tenuto a farlo,” concesse l’altro, “ma tu sai bene che per un comandante di Squadron avere il rispetto degli uomini è di importanza vitale.”
Di nuovo, il maggiore non rispose. Non avrebbe saputo cosa rispondere, in effetti. Si sentiva sul ponte di una nave che affonda, o all'interno di un palazzo che sta crollando: sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma al tempo stesso gli era chiaro che nulla di ciò che avrebbe potuto fare l'avrebbe salvato.
La voce di Poynter gli calò sulla nuca come la mannaia del carnefice: “Lascialo perdere. Forse siamo ancora in tempo a salvare la situazione, ma bisogna che ti liberi di lui.”
“Tu non puoi capire,” rispose Stuart.
E davvero era convinto che il bravo Poynter, così pieno di buon senso e ironia, non avrebbe mai capito il piacere al tempo stesso demoniaco e divino di stringere quel corpo muscoloso, di divorare di baci quelle labbra che riuscivano ad essere contemporaneamente severe e sensuali, di ascoltare sospiri che da soli valevano la dannazione eterna della sua anima.
Rievocò con un brivido di voluttà l'istante in cui si era appoggiato contro il suo corpo fremente apprestandosi a penetrarlo per la prima volta. Aveva ancora davanti agli occhi il suo volto arrossato dal piacere, sul quale si leggeva un commovente misto di risolutezza, curiosità, timore e desiderio.
“Nessuno può capire,” disse.
A quelle parole il capitano lo fissò come se lo vedesse per la prima volta. “Gesù Cristo, George, non puoi parlare sul serio!” protestò raggiungendolo.
Lo prese per le spalle, e scuotendolo vigorosamente esclamò: “Diamine, ragiona! Sei un ufficiale, sei un comandante! Siamo in guerra! Ti sembra il momento di metterti a giocare al Battaglione Sacro? Con un nemico, per di più?”
Stuart si lasciò scrollare senza opporre resistenza, ascoltò l'altro con volto singolarmente inespressivo e alla fine lapidario proferì: “Non è un gioco.”
Poynter lo mollò come se scottasse. “Come sarebbe a dire che non è un gioco?”
Poi, senza attendere risposta, rapidamente aggiunse: “Beh, lascia perdere. Qualsiasi cosa sia, qui dobbiamo salvare il salvabile. Mandalo via, liberati di lui, fatti visitare dal dottor Allen e digli che ti serve una licenza perché hai i nervi scossi, io intanto cercherò di far calmare le acque...”
S'interruppe: sembrava di parlare con un manichino. Il maggiore aveva di nuovo lo sguardo perso fuori dalla finestra.
“George?”
Nessuna risposta.
“George, Dio santo, tu ti sei bevuto il cervello!”
Il maggiore rimase ancora una volta in silenzio. Poynter stette per un po' a fissarlo preoccupato, ma era come se l'amico avesse eretto un muro fra sé e lui.
Non poté fare altro che stringergli amichevolmente il braccio e dirgli: “Non venire in mensa stasera. Hai una faccia che spaventerebbe Belzebù in persona, sembra che tu abbia visto un fantasma. Vattene da qualche parte a riflettere, io inventerò una scusa qualsiasi per giustificare la tua assenza.”
“D'accordo.”
“E pensa a quello che ti ho detto.”
Stuart non rispose.

Rimasto solo nella baracca del comando ormai buia, Stuart in effetti pensava.
Tutto stava andando a rotoli, inutile negarlo. Gli uomini sapevano. O se non sapevano, immaginavano, il che all'atto pratico faceva poca differenza.
La mattina aveva richiuso in cella von Rohr per salvare le apparenze, ma in una sorta di autodistruttiva noncuranza non gli era venuto in mente di togliere gli indizi di quello che era successo durante la notte. Cosa poteva aver pensato il suo attendente, trovando un flacone di olio per armi sul comodino e due asciugamani con macchie inequivocabili in giro per la stanza?
Non ci voleva molta fantasia per indovinarlo.
Del resto, se giravano disegni come quelli che gli aveva mostrato Poynter, era segno che gli uomini avevano già capito cosa stava succedendo.
Presto avrebbero saputo anche gli ufficiali, se non sapevano già, e poi i suoi superiori, i suoi familiari e infine Margaret.
La tragedia era che non gliene importava niente.
Per quanto ci ragionasse, per quanto pensasse alle conseguenze potenzialmente gravissime – disonore, vergogna, corte marziale – di quello che stava accadendo, tutto ciò scompariva come neve al sole allorquando rivolgeva il pensiero a Hans von Rohr.
Di più: visto che il tedesco aveva consapevolmente scelto la morte e il disonore per salvarlo, era come se lui volesse in qualche modo emularlo.
Una cosa perfettamente irrazionale, questo era chiaro, che come minimo vanificava il sacrificio di von Rohr, ma era come se una voce gli ripetesse costantemente che se non potevano salvarsi insieme almeno avrebbero bevuto insieme l'amaro calice.
Uscì dalla baracca del comando e andò alla canonica come un drogato si sarebbe diretto ad una fumeria d'oppio, consapevole che vi avrebbe trovato il più inebriante piacere ma anche la più abietta rovina.

   
 
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