Chiedo infinitamente
perdono per il MOSTRUOSO ritardo, ma ahimé una serie di
piccoli inconvenienti mi ha impedito la pubblicazione del capitolo
(già pronto dal 25 di aprile). Comunque sia, ora eccomi qui
col capitolo primo della fiction che, spero, non vi
deluderà.
I
LA FIGLIA DELLA NUTRICE
MENTRE con passo strascicato scendo
giù in sordina, il chiassoso ribollire della tempesta va
smorzandosi. Eccettuato il fragore di qualche tuono e l’eco
attutito di voci allarmate, sottocoperta regna un silenzio immobile e
pesante.
Scendendo le traballanti scale, odo il rumore dei passi echeggiare
nella stiva piena solo per metà. Ciak… Ciak! È
quasi angosciante.
Il sentore di chiuso e pesce marcio colpisce le mie narici con violenza
nell’istante medesimo in cui giungo nel ventre della nave. La
luce è stentata, donataci da un misero mozzicone di candela.
Il resto è buio.
Celati nell’ombra, viaggiatori fuggitivi come me riposano. Mi
chiedo come riescano a farlo, quando la nave su cui viaggiano
è in balia degli elementi. Per conferma al mio pensiero, non
faccio in tempo a muovere un passo che d’improvviso il
pavimento s’inclina, tant’è che sono
costretta ad aggrapparmi ai pioli della scala per non scivolare. Ed
ecco che la nausea mi assale; sento la gola pizzicarmi fastidiosa e un
sapore acido in bocca. Se non mi controllo presto darò di
stomaco. Odio le navi!
Decido di sedermi; prima, però, attendo qualche secondo
cercando di ritrovare l’equilibrio e non appena mi sento
più sicura, lascio la presa e mi avvicino lentamente alla
parete opposta, proprio dove si trova la candela –o quel che
ne resta-. Questa notte è molto fredda e voglio godere un
po’ del calore offertomi dalla fiammella. So che è
poco, ma in simili casi bisogna accontentarsi.
Sono molto vicina, mancano pochi passi alla meta, quando con un nuovo
scossone, l’imbarcadero oscilla un’altra volta e
cado bocconi. Gli Dèi ce l’hanno proprio con me!
Vorrei urlare per la frustrazione, ma il quieto russare dei compagni di
viaggio mi frena. Così, impreco a bassa voce per non
disturbarli e carponi raggiungo la candela traballante su una cassa.
Schiena alla parete, siedo a gambe incrociate cercando una posizione
comoda… per quanto il pavimento di legno viscido e sporco
può offrirmela…
Alla luce della fiamma, appena riscaldata dal suo calore, provo a
dormire. Ne ho bisogno: è un mese e più che
viaggio per mare, sono stremata ed il peso del passato
m’opprime ed aggiunge anni alla mia già avanzata
età. Chiudo gli occhi, cerco di rilassarmi, ma per quanti
sforzi io faccia Morfeo sembra riluttante ad accogliermi fra le sue
braccia.
Sospiro spazientita e arresa. So cosa mi frena, cosa scaccia il sonno
ristoratore: i ricordi.
Ah, i ricordi! Il dono più bello e al tempo il
più spregevole che gli Dèi potessero offrirci.
Molte cose non sarebbero accadute se la memoria dei torti passati non
fosse perdurata, ed io avrei ancora il mio sonno.
Da un lato, comprendo che serbare memoria di ciò che
è stato può essere un insegnamento di cui godere
in futuro, un balsamo nella sconfitta, ma dall’altro so che
può dar adito a un odio sconfinato. Si, molte cose
è bene dimenticarle. E che Calcante dica ciò che
vuole; qui il Fato centra poco o nulla!
In quarant’anni di età ho veduto molto e, per
aggiunger danno alla beffa, la mia memoria si mostra assai duratura.
Solitamente il tempo cancella i ricordi sbiadendoli poco a poco, come
affreschi esposti alle intemperie, ma nel mio caso le esperienze
vissute e gli esecrabili orrori di cui sono stata al tempo stesso
partecipe e spettatrice tardano a svanire. Ciò nonostante,
in questa coltre di amarezze scorgo la fioca luce dei miei primi
ricordi, dolci, legati all’infanzia, quando ancora vivevo con
la mia famiglia in una casupola di vimini e argilla
sull’isola di
Creta...
***
Fra i pochi episodi della fanciullezza che ancora la memoria si ostina
a serbarmi, il giorno in cui conobbi Limnorea di Eleusi è
certamente quello che rivedo con maggior vividezza, soprattutto ora che
ritorno per sostituirla. Ho conosciuto gli uomini e le donne
più potenti del mio tempo eppure, nessuno mai
riuscì ad eguagliare Limnorea ai miei occhi. La sua
bellezza, il portamento fiero, mi colpirono nel primo istante e so che
il mio essere sacerdotessa di Demetra lo devo principalmente a lei.
Se vi dicessi che sono figlia di un pescatore ed una levatrice
nullatenenti, che sono nata e cresciuta in una casupola misera con un
fratello gemello e che mia madre non voleva che diventassi sacerdotessa
opponendosi alla sola idea, ci credereste? Probabilmente no, ed
è certo che mi guardereste perplessi, interdetti nel
ritenere le mie parole come una burla o un’improbabile
verità. Almeno, questo è quel che accade la
maggior parte delle volte. Eppure, è così che
stanno le cose.
Sono nata nei pressi di Amnisos, una gran città portuale a
nord-est di Cnosso, e come già detto, nulla della mia
nascita lasciava presagire un avvenire da Melissa eleusina.
Personalmente ho sempre ritenuto Amnisos un posto delizioso e mai
provai vergogna per i miei natali sebbene, lo ammetto, ne parlai solo
occasionalmente e a pochi. Quei poveretti! Sorrido ancora al ricordo
delle facce profondamente imbarazzate, contratte dal fiato mozzo per la
sorpresa. Ah, quant’è grande
l’ingenuità umana! Sovente si preferisce ignorare
la realtà se non corrisponde alle costruite aspettative.
In verità non so perché la gente mi ritenesse di
sangue nobile; forse per via dei miei abiti o dell’educazione
impartitami al tempio. Fatto sta che se pensarono questo, nondimeno mi
premurai di disilluderli. Non ho mai dato eccessivo peso alle stime
della gente. Credo piuttosto d’aver fatto sempre il contrario
di ciò che si aspettavano.
Sino all’età di dieci anni vissi con la mia
famiglia nella piccola casa appollaiata come un nido di gabbiano in
cima alla scogliera, perpetuamente squassata dai venti caldi del mare.
Non era molto grande per la verità, tuttavia non ebbi
occasione di vivere in un luogo più ampio sino a che non
lasciai Creta. E poi in quattro ci stavamo comodi. Ivi trascorsi
un’infanzia serena, anche se non priva di occasionali
imprevisti, passando le ore liete della giornata giocando per la
campagna o lungo la spiaggia con i miei amici, sotto il caldo sole
dell’isola.
Mio padre si chiamava Ideo, figlio a sua volta di Giasione il marinaio,
dal quale aveva ereditato tutto nei modi e nell’aspetto
fuorché l’altezza. Ideo era basso, scuro di
carnagione e capelli, con una folta barba ricciuta, spalle larghe, mani
callose, occhi perpetuamente rivolti al mare e un perenne odore di
salmastro addosso. Non lo si poteva giudicare bello, piuttosto
l’aspetto selvatico e la scarsa statura gli conferivano
un’aria simile a quella di certi satiri rappresentati nelle
teche che custodiscono le statue degli dei. Ma per quanto faunesco
potesse essere nelle fattezze, di converso nell’animo mio
padre era buono: sempre allegro, straordinariamente dolce con me e mio
fratello e inoltre, amava nostra madre immensamente.
Una sera, chiesi proprio a quest’ultima, cosa
l’aveva spinta a sposare mio padre. Ero curiosa
poiché nel pomeriggio avevo udito delle vecchie signore,
alcune case più in la della nostra, discuterne animatamente
senza giungere, tuttavia, ad una conclusione. Mia madre Ianira, in
effetti, era una donna molto bella, dal volto fine e gli occhi bruni,
dunque non stranisce il fatto che la gente s’interrogasse su
come fosse nato un connubio sì tanto singolare. La risposta
che Ianira mi diede fu semplice:
“L’amore” né più
né meno, quasi scontato direste voi. Non ci vuol molto a
dedurre che quella striminzita risoluzione non mi bastò,
anche perché come tutti a quell’età,
desideravo capire. Le chiesi ulteriori spiegazioni, ma ella con un
gesto spazientito mi zittì replicando: -Da grande capirai.
Per il momento pensa ad andare a dormire, il sole è
già calato-. E lì terminò la nostra
discussione.
Da quella volta evitai di far domande in merito e non seppi nulla a
riguardo sino al giorno in cui, come vi dicevo, conobbi Limnorea.
Avevo raggiunto da poco i sei anni e già mia madre
s’apprestava ad introdurmi all’arte della nutrice,
di cui era esperta, quando il mio destino (se legittimo è
usare tale parola) prese a delinearsi. Era il mese di
tragelione¹ e già il caldo s’era fatto
afoso, previa avvisaglia di un’estate torrida. Borea giungeva
in soccorso soffiando brezza fresca, trasportando fin dentro le case il
profumo dei fiori e l’odore salso del mare, ma era questa ben
poca cosa contro l’implacabile calura del sole. Invece, la
natura sembrava rigogliosa ed affatto infastidita dalla temperatura
scottante. La campagna si tingeva poco a poco del color dorato delle
spighe tant’è che se si spingeva lo sguardo sino
al mare nelle ore meridiane si vedevano la terra e l’acqua
fondersi in una unica vasta piana del biondo color del vino.
Il pomeriggio precedente, mio fratello Nico s’era ferito al
ginocchio giocando con i suoi amici. Sconosco le dinamiche
dell’accaduto; lui affermò d’essere
scivolato sulle rocce, ma il livido nero che gli cerchiava
l’occhio destro lasciava supporre tutt’altro. Ma i
miei genitori preferirono non indagare oltre.
Ad ogni modo, sebbene all’inizio parve un semplice graffio,
la ferita nel giro di mezza giornata s’infettò e
in mancanza delle erbe adatte mia madre si vide costretta a recarsi in
città per comprarle; mi chiese così, di farle
compagnia. Inutile dire che ne fui contenta. Per quanto la vita
all’aria aperta non mi fosse negata, amavo andare
là dove proprio la vita sembrava esprimersi nella sua
più vigorosa forma. Oltre a ciò, sin dalla
mattina percepivo qualcosa di diverso nel vento, quasi delle voci, ma
poiché ero piccola non vi feci molto caso. Capirete, dunque,
quale spirito sovreccitato mi animava quel dì.
-Forza madre, andiamo!- esclamai mentre mia madre si attardava
sull’uscio di casa parlando con Ida, una vecchia sorella di
mio padre venuta in visita da Cnosso.
-Abbi pazienza Elena- mi disse lei per l’ennesima volta. -La
città non fuggirà via-.
Io sbuffai infastidita e mi sedetti ai piedi del cedro che cresceva
accanto alla nostra casa, osservando agognante il mare e la sabbia
rilucente. Non ero molto paziente prima di diventare
sacerdotessa… e nemmeno dopo.
Mia madre mi lanciò un’occhiata di traverso,
sorridente, e tornò a rivolgersi a mia zia.
-Hai capito tutto?-.
-Sì, Ianira, non temere- rispose mia zia con voce
gracchiante -Se tuo figlio sentirà ancora dolore,
applicherò sulla ferita una tintura di melissa. Di quella ne
hai in abbondanza in casa, sta’ tranquilla… e tu!- riprese acida
verso di me, inquisendomi un dito. -Sii buona e cerca di non far
stancare troppo tua madre, capito?-.
In risposta le feci una linguaccia.
Mia madre non aggiunse altro e dopo aver ringraziato Ida,
c’incamminammo.
Il sole era già alto e il cielo azzurro, chiazzato qua e
là da nuvole bianche. Il vento dondolava le spighe come onde
in bonaccia. Il profumo del mare s’avvertiva intenso,
accompagnato dallo stridere acuto dei gabbiani.
Discendemmo la collina, godendoci il calore e gli odori soavi del
dì; mia madre camminava con passo cadenzato, né
troppo rapida né troppo lenta, con me che le trotterellavo a
fianco. Ogni gesto suo era elegante, fluido come l’acqua e la
schiena alta, ritta, in un portamento orgoglioso.
Mentre le stavo accanto, aggrappandomi di tanto in tanto alla sua veste
azzurra, mi sorprese a fissarla e sorrise facendomi arrossire fino alla
radice dei capelli. Tutto in lei esprimeva munificenza, bellezza ed una
innata sacralità. La luce del sole lungo la strada polverosa
le contornava il capo come un’aureola e la lunga chioma
castana brillava, fluttuante al vento, faticando a rimanere compatta
nell’acconciatura. Il chitone di lino, morbido e profumato,
frusciava lievemente ad ogni passo, esaltandole con delicatezza le
forme armoniche. Quanti la conobbero non cessarono mai
d’encomiarla definendola come la più bella di
Creta, di certo nata sotto il favore di Afrodite. Beh, personalmente
dubito che quest’ultimo asserto sia giusto; la Splendida non
ha mai mostrato simpatie per chi serve la Grande Dea Madre come noi.
-Venite signore, venite! Osservate i miei gioielli! Vere
rarità provenienti dalla terra d’Egitto!- vociava
un vecchio mercante, occhietti slavati e aria rapace, mentre un nugolo
di donne faceva ressa attorno al suo barroccino rilucente di gioie.
Era mezzodì quando raggiungemmo il mercato accanto al porto.
La calca era incredibile: gente di tutte le razze, uomini alti e
biondi, uomini tozzi e dalla pelle scura, donne dagli abiti colorati e
acconciature stravaganti, e poi animali e una infinità di
bancarelle e merci belle ed esotiche. Un miscuglio caotico di voci,
parole, risate, urla e odori (non tutti piacevoli) talvolta
così intensi da farti venire continui capogiri. Dalla strada
di terra battuta saliva un nuvolone di polvere, smossa da centinaia di
piedi, che andava adagiandosi sugli abiti e la mercanzia bellamente
esposta. Io guardavo confusa quella fiumana tumultuosa che si
spintonava, coinvolta com’era dalla frenesia per gli
acquisti. Intimorita e spaesata, mi aggrappai con forza alla gonna di
mia madre.
-Stammi vicina- proferì lei perentoria. -E non allontanarti
per alcuna ragione-.
Annuii in silenzio, strizzando gli occhi; non avevo la minima
intenzione di disubbidirle, di questo poteva star certa. Frattanto, i
suoni e le immagini mi arrivavano confusi e la testa
cominciò a dolermi.
Avanzammo con cautela fra la gente; ogni tanto qualcuno ci urtava
abbaiando improperi in lingue sconosciute e più volte
rischiai di cadere. Fortunatamente mia madre aveva buoni riflessi oltre
che una presa salda e, manovrandomi alla stregua di un burattinaio col
suo bamboccio, mi scostava all’occorrenza evitandomi
d’esser travolta.
Mentre percorrevamo la via principale in cerca di un erborista, una
voce implorante richiamò la nostra attenzione.
-Oh mia signora, beneditemi ve ne prego!-.
Ci voltammo. Una vecchia, avviluppata ad un logoro himation²,
s’era prostrata ai piedi di mia madre posando le mani rugose
sulla polvere. Aveva la pelle bianca, quasi cinerea, piena di macchie
scure e gli occhi di un verde slavato. Sembrava molto afflitta.
-Concedetemi una benedizione dalla mia Signora... ahimè la
mia unica figlia è sposata da lungo tempo, ma non riesce ad
aver bambini. Vi prego beneditemi, desidero tanto avere nipoti che mi
allietino la vecchiaia-.
All’inizio mia madre osservò turbata la donna,
sorpresa quanto me da quell’improvvisata, poi mi
lasciò la mano avvicinandosi a lei con un sorriso, congiunse
le proprie e gliele impose sul capo. Non era la prima volta che
accadeva una cosa del genere; mia madre era una Ilizia, una nutrice al
servizio della Dea Hera, e spesso le altre donne (ed anche alcuni
uomini) le chiedevano speciali benedizioni.
Vi aspetterete ora la descrizione onirica di una visione, forse, di
luci sfolgoranti e potenze divine scendere sulla vecchia attraverso le
mani mediatrici e sante di mia madre. Beh, mi spiace deludervi ma
raramente assistetti ad eventi mistici di tal fatta e mai a quel tempo.
Se qualche prodigio si manifestò ai miei occhi, fu solo
diversi anni dopo, quando già servivo ad Eleusi.
Ciò non toglie che vedere Ianira esercitare i suoi poteri
sacerdotali non fosse per me uno spettacolo privo di fascino. La
già figura nobile di mia madre si rivestiva improvvisamente
della dignità propria di una Ilizia, risplendente al pari
della Dea stessa e, concedetemelo, forse era proprio la Sua maestosa
aura a discendere su di lei.
-Che la benedizione della Grande Madre Hera scenda su te e su tua
figlia, sorella mia, e che tu possa avere molti nipoti come desideri-
disse mia madre in tono ieratico -Al tramonto recati con tua figlia
presso il tempio ed implora la Dea d’esaudirti, poi chiedete
consiglio alle Ilizie mie sorelle ed esse vi diranno cosa
fare-.
-Grazie madre Ianira- disse l’anziana signora, ancora scura
in volto. -Che la Madre sia sempre con te…- poi, con uno
strano brillio nelle iridi, mi rivolse un occhiata attenta e misteriosa
-E che tua figlia ottenga la tua stessa saggezza, se non una
maggiore…-.
Tum. Il mio
cuore perse un battito d’improvviso. Un brivido freddo mi
scosse mentre l’augurio, volando al mio orecchio,
sembrò trasformarsi in una maledizione. Rimasi in silenzio,
nascondendomi istintivamente dietro le gambe di mia madre, spaventata,
confusa da quel sudore diaccio.
Suppongo che il disagio dovesse palesarsi sul mio volto
perché, subito dopo, Ianira mi chiese preoccupata:
-Elena, sei stanca? Hai il viso pallido…-.
Scossi il capo. -No- bisbigliai.
Non riuscivo a capire cosa fosse accaduto. Avevo ancora la pelle
d’oca. Guardai davanti a me, ma la vecchia era scomparsa.
-Allora proseguiamo. Prima ci sbrighiamo prima faremo ritorno a casa-.
Riprendemmo a camminare in silenzio: Ianira concentrata nella cerca fra
le bancarelle ed io, ancora un po’ stordita, rimuginavo
sull’accaduto.
Verso la terza ora dopo il mezzodì, quando il sole si fece
meno intenso e la folla cominciò a scemare, mia madre volle
fare una sosta. Inutile dire che fui ben lieta alla notizia, avevo i
piedi in fiamme e la gola secca.
Oltrepassammo in fretta la piazza principale dove il mercato
convergeva, ancora enormemente affollata, e ci dirigemmo verso i
Giardini, ai piedi della Villa dei Gigli, dimora di Eurito il damos³
locale. Lì la vegetazione era florida e gli alberi facevano
molta ombra, c’erano diverse fontane dalle quali poter bere e
rinfrescarsi. Stranamente quel giorno vi era poca gente e subito
trovammo posto sotto i rami di un nodoso ulivo.
Mangiammo rapidamente le focacce con le olive comperate lungo la
strada, chiacchierando allegramente. Poi mia madre si
addormentò ed io, sazia e nuovamente in forze, decisi di
esplorare il posto.
Mi alzai, ben attenta a non svegliare Ianira, e cominciai la
perlustrazione: il vociferare della gente in fiera che tanto
m’aveva stordita a primo acchito, adesso giungeva distante e
vacuo, mischiato allo stormire delle fronde.
Un’altra caratteristica di Creta è proprio il
soffiare incessante del vento che non smette un istante
d’increspare la superficie dell’Egeo.
Quand’ero piccina, zia Ida mi narrò che quello era
il respiro di un Dio che abitava una grande caverna ad ovest.
Raccontò che quando la brezza spirava leggera Egli era
assopito, mentre se tirava tempestoso il Dio nella Caverna
s’era adirato e gli ululati rabbiosi che lanciava facevano
tremare il cielo e gli abissi. Allora occorreva restare in casa, al
caldo e al sicuro, sperando che le preghiere dei sacerdoti ne
chetassero la collera.
Non so perché questa favola mi affascinava tanto, ed anche
se ormai adulta e distante dal mondo colorato delle favole, ogni volta
che percepivo il tocco del vento sulla pelle mi sembrava
d’avvertire delle dita morbide e forti accarezzarmi, giocare
coi miei capelli, o una voce dolce sussurrare al mio orecchio migliaia
di parole, inudibili agli altri. Forse queste cose le prendereste come
fantasie d’una bimbetta o magari, considerando gli anni
successivi, le allucinazioni d’una pazza…
sentitevi pur liberi di pensarlo, risentimento non ne proverei,
né mi rechereste offesa: ad oggi sono dell’idea
che tutti gli uomini, chi più chi meno, sono pazzi;
perché, dunque, dovrei far la differenza?
Passeggiai, sbocconcellando con poco interesse un dolce alla frutta che
Ianira m’aveva comprato.
Tutto m’appariva bello e tranquillo in quel momento, avvolto
dalla quiete sonnacchiosa delle prime ore del pomeriggio.
Un’arietta fresca cominciava a spirare, trasportando seco il
suono armonico del mare e le migliaia di profumi delicati dei fiori in
boccio. Qua e là tra i rami, uccellini dalle piume scure
canticchiavano festaioli, tutti intenti a realizzare nidi; un fare e
disfare continuo, nel quale ponevano un’attenzione quasi
maniacale, scegliendo il rametto giusto, la foglia perfetta da apporre
al proprio ricovero. Io mi soffermai ad osservarli, divertita dal quel
frenetico svolazzare e istintivamente cominciai a cinguettare con loro,
giocando a quello strano modo dialogico, seguendoli con lo sguardo,
spostandomi dabbasso d’albero in albero, divertita
dall’infantile passatempo che solitario non mi sembrava. Al
contrario, avevo come l’impressione, forse fantasiosa, che i
passeri e gli altri uccellini mi assecondassero rispondendomi col loro
ciangottio brioso.
Ad un tratto m’accorsi che sul più basso ramo di
un ulivo, una giovane passera stava accovacciata nel proprio nido,
tutta gonfia e con le piume ritte: deponeva le uova, assistita a poca
distanza dal maschio che, imperterrito, continuava di tanto in tanto a
rimestare i secchi rametti, quasi fosse quella la giusta distrazione
per scaricare la nevrosi del momento. Fu immediato e spontaneo il
paragone fra questa e altre scene a cui avevo assistito presso le case
di giovani partorienti, accucciata dietro una porta, con orecchio teso,
giacché l’accesso m’era negato dagli
adulti, e compresi, con la mente di bambina, che non
v’è poi tanta differenza fra l’uomo e
l’animale, negli aspetti quotidiani così come
negli atteggiamenti più brutali. Non me ne vogliate per tale
paragone che, ai vostri orecchi, potrebbe suonare oltraggioso. Non
è nelle mie intenzioni offendervi, ma più volte,
negli anni, ne ebbi conferma.
Vinta dalla curiosità, volli assistere anch’io a
quell’evento, ed intestardita, conservai ciò che
rimaneva del dolce nel tascapane che tenevo annodata in vita, e presi
ad inerpicarmi con non poche difficoltà su per il nodoso
tronco. Benché fossi avvezza a certe sconsideratezze e per
quanto agile di natura, i movimenti mi risultarono impacciati e goffi
avviluppata com’ero nell’abito di lino consunto,
per non parlare poi dei sandali che rendevano la mia scalata ardua e
scivolosa.
Sbuffai spazientita mentre mi ritrovavo per la terza volta, sconfitta
ma per nulla arresa, ai piedi dell’albero. Togliendomi le
foglie dai capelli optai per una risoluzione definitiva. Sciolsi
celermente i sandali, gettandoli via con stizza, annodai la gonna poco
sopra le ginocchia e, finalmente libera da impedimenti, mi diedi alla
scalata, attenta però a causare il minor numero di scossoni
così da non disturbare la coppia di passeri. Proposito ad
esito fallimentare; infatti, giunta che fui in cima, scoprii che gli
uccelletti erano volati via, spaventati proprio dai miei molteplici
tentativi d’arrampicarmi. Immaginatevi la delusione nel
vedere il nido pieno solo di piume e foglie morte. Aggrottai con
disappunto la fronte, contrariata per la fatica inutilmente spesa e
m’accinsi a scendere quando, con la coda
dell’occhio, colsi celato dal fogliame nel nido, un uovo. Era
piccolo e rotondo con macchioline castane a punteggiarne il guscio
bianco. Era stato dimenticato dai genitori nella fretta della fuga e
ora se ne stava lì, triste e solo, impossibilitato a
schiudersi, col rischio di divenir presto cibo per qualche serpente. Lo
guardai rattristata e contrita: con la mia caparbietà ed
irruenza avevo causato l’abbandono e forse anche la morte di
un pulcino non ancora nato.
Colta da pena, assunsi la decisione di prenderlo meco assolvendo il
compito lasciato in sospeso dai genitori uccelli. In fin dei conti, io
li avevo spaventati, dunque toccava a me rimediare. Inoltre, ammetto
che non mi dispiaceva l'idea di avere un animaletto da compagnia, anche
se, già la figuravo, mia madre non ne sarebbe stata per
niente entusiasta.
In bilico sul vuoto, cercai di allungare le braccia così da
prendere l’uovo, ma la loro cortezza e
l’inquietante scricchiolio del ramo sul quale appoggiavo mi
fecero desistere, costringendomi a cambiare dapprima posizione.
Guardai a destra e a sinistra, in alto ed in basso, in cerca di un
sicuro appiglio e trovandolo in una frasca poco più in alto,
sopra la mia testa. Tesi il braccio libero, il destro, mentre con
l’altro m’aggrappavo al ramo sul quale si trovava
il nido. Puntai i piedi issandomi, bene attenta a non forzare troppo
col peso rimanendo sospesa alcuni istanti prima di atterrare sul ramo
di mio interesse. Avevo raggiunto la meta, ma l’operazione di
salvataggio però non poteva ancora dirsi conclusa.
Con passo precario e alquanto nervoso, gattonai sino al ricovero per
uccelli, evitando accuratamente di guardare in basso ove il suolo duro
e polveroso m’attendeva, provai a prendere il piccolo cocco
allungando il braccio destro, ma appena potei sfiorarne coi
polpastrelli il guscio, una voce dabbasso mi sgridò.
-Che cosa fai ragazzina? Scendi giù e lascia stare quel
nido!-.
Ciò che seguì, accadde come a rallentatore: colta
di sorpresa sobbalza, picchiando violentemente la testa contro un ramo.
Istintivamente portai le mani a riparar la parte lesa, ma
così facendo rinunziai all’unico appiglio che
avevo. Il ramo scricchiolò sinistro. Un piede infame
scivolò sbilanciandomi sicché la mia schiena
fletté all’indietro e, con un acceso mulinar di
braccia, vidi il mondo ruotarmi attorno prima di ritrovarmi senza
accorgermene ai piedi dell’ulivo, sotto una pioggia di foglie.
Devo ammettere che l’altezza non era poi così
spropositata, almeno oggi non mi risulterebbe tale, ma per
l’età che avevo i due metri e mezzo erano anche
troppi per non farsi male ed io, rispetto ai miei coetanei, ero
bassina. Fortuna volle almeno che atterrassi su un cespuglio; ebbene,
mi ritrovai al fine col sedere per terra, un dolore acuto alla parte
suddetta e alla testa ed i capelli arruffati, pieni di rametti e
fogliame.
Pochi passi in là, la sconosciuta mi fissava serafica,
lievemente soddisfatta dallo spavento causatomi e sue conseguenze. Per
un secondo rimasi colpita dalla figura alta e imperiosa, dai lineamenti
decisi, con i capelli acconciati in riccioli scuri e lucidi. Indossava
la veste antica, di foggia cretese, con il corpetto stretto in vita e
la gonna a balze dai colori diversi. Intorno ai polsi e al collo
portava ricchi monili e sul capo era cinta da un diadema
d’oro ed ossidiana. Compresi che doveva trattarsi di una
persona di nobile rango.
-Così impari a rapinar ciò che non ti appartiene-
sancì severa, avvicinandosi con grazia superba.
-Non stavo rubando nulla!- replicai piccata, voltandomi in sua
direzione. -Volevo solo salvare quel povero uovo-.
Ella mi guardò perplessa qualche istante, con un
sopracciglio scuro inarcato, quasi soppesando con attenzione
ciò che le avevo detto; me ne risentii di
quell’aria scettica dacché sembrava metter in
dubbio la mia onestà. Orgogliosamente non mi reputavo
affatto una bugiarda, detestavo quando mi consideravano tale, e non
mancai di farglielo presente.
-Non sono una bugiarda!-
-Oh, di questo ne sono sicura. Non ne hai l’aspetto-
ribatté la donna sarcastica, senza smettere di fissarmi. La
fissai a mia volta, affatto intimorita. Dovevo farmi valere!
I nostri sguardi s’incontrarono a mezz’aria, anzi
sarebbe meglio dire che si scontrarono stimata l’occhiata
torva che le lanciai, rimarcando così il concetto che: no!
Non ero né una bugiarda né tanto meno una ladra!
La misteriosa interlocutrice, di rimando, non sembrò
turbarsi come avevo sperato e rispose con egual durezza oculare. Senza
che ce ne accorgessimo, s’aprì fra noi una lotta
di sguardi in cui le parti contendenti tentavano di prevalere
l’una sull’altra esibendo con minacciose guardate
autorevole supremazia, sfidando l’avversaria a dimostrare il
contrario; lotta che, in effetti, da quel dì non ebbe mai
fine tra noi.
Fu in quel modo che la conobbi: Limnorea, Somma Sacerdotessa di Demetra
ad Eleusi e mio precursore.
Restammo così parecchi minuti, immobili come statue,
studiandoci, sfidandoci, legandoci indissolubilmente. Fronte
aggrottata, occhi ridotti a sottili lame, concentrate
nell’ostentare l’espressione più truce
che tenevamo, sembrò che il mondo in torno a noi smettesse
di muoversi. Solo il vento osava spirare smovendo vesti, chiome scure e
foglie. Per il resto, nulla sembrava voler interferire in quello
scontro epocale.
Beh, almeno così parve all’inizio…
Free tolk
¹ Il mese di tragelione
era, nel computo temporale di Atene, quel periodo dell’anno
associabile per noi tra i mesi di aprile e maggio. Ho dovuto usare il
termine greco attico perché non sono riuscito a trovare (e
forse non esiste al momento) un elenco dei mesi in epoca micenea.
Perdonate questa possibile incongruenza storica.
² L’himation
era, per chi non lo sapesse, un particolare tipo di mantello uguale per
ambo i sessi di ampio uso nell’età elladica
acheo-micenea e classica. Indossato, soprattutto dalle donne, in varie
fogge e talvolta come vero e proprio abito poteva essere utilizzato
tutto l’anno, realizzato per la gran parte in lana e lino,
raramente in cotone.
³ Il damos
(plurale damoi)
era un non ben definito capo locale, una sorta di duca o proprietario
terriero nel periodo miceneo, sottoposto direttamente al wànax
(il sovrano) e membro dell’aristocrazia locale.
Parto col ringraziare quanti hanno letto lo scorso capitolo ed il
presente, chi ha inserito la storia nei preferiti e poi il mio primo
(ed al momento unico) recensore Kronos333
al quale rispondo che mi fa molto piacere che la storia ti sia piaciuta
e lo ringrazio per i complimenti, mi rendo benissimo conto che il
prologo lascia il lettore un po’ confuso, ma questo era il
risultato che volevo. Non voglio lasciar trasparire nulla
all’inizio.
Vi avviso che probabilmente anche la pubblicazione del prossimo
capitolo avverrà in ritardo e questo perché
l’università chiama. Quindi chiedo venia in
anticipo.
Saluti e alla prossima,
SILENCIO
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