Capitolo
ventidue
Pista
Silye
strinse la presa sull'arco e sull'estremità della freccia,
inspirando profondamente. Il solo contatto con la sua arma le dava un
senso di sicurezza e tranquillità, facendole dimenticare
qualsiasi
problema e immergendola nel dolce flusso dei ricordi delle sue
abitudini ed esperienze ordinarie, in cui la caccia aveva sempre
avuto un ruolo preminente. Si aggirò con movimenti lenti
nella
foresta, nel tentativo di cogliere il più piccolo rumore.
A
un tratto captò il suono quasi impercettibile di un ramo
spezzato.
Si voltò di scatto e si ritrovò davanti gli occhi
ambra di Vidar.
Questo, prima che lei avesse modo di allontanarsi o parlargli, le
tappò la bocca con una mano. Quando Silye cercò
di ribellarsi,
lanciandogli uno sguardo a metà tra la confusione e la
collera, lui
le intimò di fare silenzio, mormorando un Shh,
per poi fare
un cenno con la testa verso qualcosa che stava alle spalle di Silye.
La ragazza scansò bruscamente la mano di Vidar dalla sua
bocca e si
voltò nel punto in cui il dio stava guardando, dove ora si
trovava
un giovane cerbiatto, di cui Silye non si era accorta prima,
perché
coperto dalla boscaglia. L'animale era totalmente concentrato nel
brucare l'erba e a quella distanza non sembrava essersi accorto della
loro presenza.
Silye
si accostò con lentezza maniacale all'albero più
vicino e si
abbassò, preparando la sua arma. Posizionò la
freccia e flesse il
filo dell'arco, mirando esattamente con la punta al petto. Quindi,
rilasciò la freccia, che partì sibilando
nell'aria, fino a
conficcarsi nel bersaglio. Il cerbiatto sollevò di scatto la
testa e
bramì per l'incredulità e l'improvviso dolore.
Prima che avesse il
tempo di fuggire, Silye prese un'altra freccia e la tirò con
la
medesima precisione, tanto che penetrò nella pelle
dell'animale poco
lontano dal punto in cui si trovava la prima. La ladra
scattò e si
avvicinò al cerbiatto, che si era gettato al suolo, in preda
all'agonia per le ferite. Silye sentì montarle nel petto uno
strano
e improvviso sentimento, che inizialmente non fu in grado di
decifrare. Dopo pochi attimi, man mano che si faceva più
forte,
comprese di cosa si trattasse: senso di colpa.
Rimase
stupita da quella nuova sensazione, comprendendo solo in un secondo
momento che era per l'uccisione del cerbiatto. Probabilmente era uno
degli effetti del suo rafforzato legame con la foresta e ogni suo
elemento, inclusi gli animali. Eppure, mai avrebbe abbandonato la
caccia, neanche se ciò significava vivere per sempre in
preda al
rimorso per le sue azioni. Si sedette a terra, accanto al cerbiatto
morente, e tirò fuori il pugnale. Si lasciò
andare, tuttavia, ad un
atteggiamento diverso dal solito: iniziò ad accarezzare il
manto
dell'animale, come a volerlo rassicurare per rendergli la morte meno
dolorosa, e, mentre continuava a passare con delicatezza la mano sul
suo petto, che si alzava e riabassava a ritmo sempre più
lento, calò
la lama nel punto in cui era certa che si trovasse il cuore. Il
cerbiatto emise un ultimo verso di dolore, poco prima che la vita
venisse prosciugata via dal suo corpo. «Kvedju,
félagi¹»
mormorò Silye, tanto piano da non essere udita neanche da
Vidar. Non
sapeva che cosa l'avesse spinta a dirlo, poiché non aveva
mai
pronunciato parole del genere, ma le venne come naturale. Forse anche
quello era uno dei tanti lasciti del suo oscuro passato da völva.
Quindi,
Silye, quando fu certa che l'animale fosse morto, estrasse il pugnale
e ne pulì in modo superficiale la lama sul suo mantello.
Solo con
l'acqua sarebbe riuscita a lavare via tutto lo sporco. «Mi
serve aiuto per trasportarlo a casa» disse poi a Vidar, che
per
tutto il tempo era rimasto in disparte ad osservare, con le mani
puntate sui fianchi. «In fondo, non hai detto tu stesso che
un tempo
eri il più forte tra gli dei?»
«Sì»
assentì Vidar, avvicinandosi alla carcassa e afferrando le
zampe
dell'animale, per poi buttarsi tutto il peso sulle spalle.
«Ora
andiamo.»
«Grazie»
esclamò all'improvviso la ladra.
Vidar
si fermò, voltandosi a guardarla con un'espressioe
incredula: di
certo non si sarebbe mai aspettato che Silye sarebbe mai arrivata a
ringraziarlo per qualcosa.
«Se
non ci fossi stato te, forse non avrei mai visto quel
cerbiatto.»
«Beh...
prego» rispose lui, prima di girarsi e incamminarsi
nuovamente.
Silye
si assicurò l'arco alla schiena e ripose il pugnale nella
sacca, ma,
quando fece per avviarsi, sopraggiunse il consueto torpore e il
successivo annebbiamento e si sentì presa e sbalzata in un
altro
posto, lontano dal bosco di Hoddmímir.
Il
luogo era tetro, colmo di sole tenebre. La völva
non
riusciva a vedere altro che un nero angosciante e senza fine. Dopo
pochi minuti, i suoi occhi iniziarono ad abituarsi al buio e i
contorni del posto si andarono a delineare con sempre maggiore
chiarezza, sebbene l'oscurità continuasse a permeare ogni
angolo di
quel luogo. Non poteva vedere molto di ciò che la
circondava, ma di
una cosa poteva essere sicura: quel posto puzzava di sangue e morte.
L'acuto odore di carne putrefatta e di cadaveri era talmente forte da
riuscire a superare le barriere che dividevano i sensi della
völva
da ciò che avveniva nella visione. Da ciò che
riusciva a scorgere,
il luogo era in realtà una landa scura e desolata, su cui si
trovavano due figure, l'una nettamente più alta e grande
dell'altra.
Con un po' di difficoltà, distinse la prima di esse,
poiché ormai
aveva imparato a conoscere le sue fattezze: Nidhöggr,
in tutta la sua mole e pericolosità. Ma ciò che
più attirò
l'attenzione della völva fu
la seconda figura: era una
donna. Era di profilo e si trovava proprio di fronte alla viverna.
Silye pensò che fosse davvero bellissima: era circondata da
un alone
di forte sensualità e mistero, ma anche di pericolo. I
lineamenti
del viso erano morbidi e armoniosi e la pelle tanto pallida da
sembrare bianca. Le labbra erano grandi e carnose e in quel momento
sollevate in un sorriso indecifrabile. Silye non riusciva a definire
se fosse di gioia o, addirittura, di rabbia o tristezza; era talmente
enigmatico, da non riuscire a far trasparire l'emozione che realmente
la donna voleva comunicare. Il viso era contornato da una massa di
lunghi capelli mori, che creavano un forte contrasto con la pelle
bianca e che le arrivavano sino al ginocchio. Indossava un lungo
abito nero, il cui strascico poteva benissimo essere confuso con i
capelli. Nella sua semplicità, il vestito non faceva altro
che
accrescere la bellezza e l'importanza che quella donna doveva avere.
La curiosità di Silye aumentò quando si acorse di
un particolare
che prima le era sfuggito, poiché troppo presa
nell'osservare la
donna: questa aveva un braccio proteso ad accarezzare il muso
dell'animale, con una grazia e quasi un amore di cui non la avrebbe
mai creduta capace. La serpe le offriva la testa anche lui, alla
ricerca delle carezze che la donna non indugiava a offrirgli. Per la
prima volta, vedeva la mostruosa creatura sotto una luce totalmente
diversa: visto in quel modo e con quell'atteggiamento di
sottomissione, Nidhöggr
quasi non incuteva alcun terrore, come le aveva fatto nelle visioni
precedenti. Appariva mansueto come un cane, nonostante il suo
aspetto.
Le
luci della prima mattina si infiltrarono tra le ciglia degli occhi di
Silye, colpendole le pupille e facendola ripiombare nella foresta.
Man mano che riprendeva coscienza, Silye si rese conto di non
trovarsi più nel posto buio della visione e,
anziché quello,
davanti a sé si andarono a definire i contorni e i
lineamenti del
volto di Vidar, diventato ormai assai familiare. Ormai aveva capito
di essere caduta durante la visione e di stare stesa a terra, ma
stranamente dietro la testa Silye non sentì il fogliame
umido del
terreno, poiché qualcosa la stava sollevando in modo da non
toccarlo. Solo in un secondo momento realizzò che quel
qualcosa era
la mano di Vidar.
«Una
visione?» domandò, probabilmente già
conoscendo la risposta,
perché, quando Silye annuì, il dio non
sembrò stupito.
«Cosa
hai visto?» Il suo volto era tanto vicino che Silye poteva
vedere
anche il più piccolo filamento che componeva l'iride.
Davanti
all'espressione seria di Vidar, la ragazza si sentì messa a
nudo,
come se solo con la forza del suo sguardo il dio avesse avuto il
potere di scandagliare ogni singolo angolo della mente di Silye e
tirare fuori qualsiasi cosa volesse. La ladra abbassò di
scatto gli
occhi per interrompere quel contatto e si rialzò in modo che
lui non
dovesse più sorreggerla.
«Nidhöggr»
raccontò. «Ed era in compagnia: con lui c'era un
donna...
particolare.»
«Descrivila.»
«Non
potevo vederla interamente, ma, da ciò che riuscivo ad
osservare,
aveva la pelle cerea e i capelli lunghissimi e mori. Era davvero...
incantevole, ma sinistra. C'era qualcosa in lei che mi affascinava e
intimoriva allo stesso tempo.»
«Hai
detto di non essere riuscita a vederla tutta? Come mai?»
chiese,
improvvisamente attento, sebbene Silye non capisse perché le
stesse
ponendo domande del genere.
«Era
di profilo.»
Il
viso di Vidar si illuminò di sentimenti contrastanti:
incredulità,
disprezzo e constatazione. «Hel» sibilò.
«Cosa?
Chi è... Hel?»
«La
regina degli Inferi, tessitrice di inganni e portatrice di caos e
dolore.»
«Beh...
si è fatta una gran bella fama»
commentò Silye, continuando,
tuttavia, a guardare Vidar interessata.
«Cosa
ti aspetti dalla figlia di Loki, il dio dell'inganno?»
Loki.
Ricordava di aver letto quel nome nel libro delle völve
e
anche che la sua immagine, come la sua descrizione, le aveva
trasmesso non poca soggezione. Tuttavia, quel dio non aveva scampato
il Ragnarok, come come altre.
«Hel
è sopravvissuta al Ragnarok?» domandò
poi.
«Sfortuntamente
sì. Il suo regno non è stato toccato dalla
distruzione degli altri
otto e, di conseguenza, anche lei è rimasta viva e
vegeta.»
«E
lei è... cattiva?»
«Direi
più ambigua
e
indecifrabile. Non si
può mai sapere cosa deciderà, con chi si
schiererà o cosa è
intenzionata a fare.»
«Allora
che si fa con lei?»
«Se
davvero ha incontrato Nidhöggr, dovremmo andare a farle una
visita e
chiederle qualcosa della sua amica serpe.»
«Amica
mi sembra proprio la parola giusta, perché nella visione lei
gli
stava accarezzando il muso» mormorò Silye.
«A
maggior ragione dobbimo andare da lei» disse Vidar,
concedendole un
ampio sorriso. «Stavolta mi hai fornito una vera
pista.»
¹
Addio, compagno. In realtà, nel
formulare questa frase ho
unito una parola islandese, Kvedju, una forma di
saluto e
congedo, insieme all'altro termine di origine norrena.
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Angolo dell'autrice:
Eccoci
arrivati alla fine di questa serie di capitoli di transizione. Vi
aspettavate che sarebbe stato introdotto un personaggio del genere? Non
vedo l'ora di sentire i vostri pareri! Devo dire che mi sono divertita
molto nel descrivere Hel e spero che anche voi apprezzerete i prossimi
capitoli, in cui il suo regno e il suo personaggio verrano delineati
con maggiore precisione.
Ringrazio
tutti i lettori, sia i silenziosi, sia quelli che commentano, sia
quelli che hanno messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite!^^
A presto!
Sophja99
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