Black
Rose
In effetti, quel palazzo di normale non aveva quasi nulla.
E di certo, non era normale che i soggetti dipinti dentro i quadri si
muovessero, o parlassero o interagissero con l'esterno.
E non erano normali neanche le piccole lucciole dal colorito dorato che
girovagavano per tutto l'edificio - che non erano altro che spiriti,
anime, delle persone morte che non erano state portate
nell'Aldilà, e che avevano trovato asilo nella nostra nuova
casa, non sapendo dove andare.
I corvi e le civette svolazzavano sopra e dentro il palazzo, creando un
atmosfera gotica e surreale, accompagnata anche dal silenzio tombale
che regnava all'interno.
La poca luce che filtrava dalle lanterne era il minimo indispenzabile
per vedere, e il pavimento era a dislivello, fatto di fredde pietre
consumate dal tempo.
Un palazzo così antico poteva essere trasportato dall'Europa
in America solo con mezzi meccanici o magici.
Anzi, nemmeno meccanici, visto che se l'avessero sollevato dal suolo
sarebbe crollato come un casrello di carte fragilissimo.
Quindi, immaginai fossero ricorsi al novantanove virgola nove percento
alla magia.
<< Io vado in camera a riposare. Tu che fai?
>>, domandai, voltandomi verso Simòn.
<< Mi riposo anche io cinque minuti, poi preparo un po'
di roba per la scuola e >>
Mi voltai di scatto verso di lui, sorpresa. << Per la
scuola? >>.
Annuì, guardandomi e senza proferire parola, con sempre la
sua solita aria da intellettuale diplomatico a mascherargli la faccia.
Mugugnai qualcosa, poi lasciai cadere con un sospiro sordo le spalle,
in modo teatrale.
No, non era possibile.
Anche lì l'incubo scuola mi avrebbe perseguitata. Di nuovo.
Il sentirsi emarginati per la propria stranezza, gli sguardi curiosi e
indagatori della gente, le domande inopportune sul colore degli occhi,
le strane voci che avrebbero creato qualche mente fantasiosa, le storie
che si inventavano su di noi e la nostra famiglia, le voci maligne
della gente invidiosa...
Ogni volta era sempre la stessa storia, ogni anno la stessa messa...
Avevamo sempre vissuto a Bordeaux, in Francia, e ogni anno di scuola
era come la prima.
Gli umani cercavano di evitarci il più possibile, spinti
dall'aura misteriosa e tetra che ci circondava, e che loro avvertivano,
seppur in modo lieve.
Tutto di noi faceva impressione e paura ai loro occhi, e di certo gli
strani ciondoli che portavamo al collo come ornamenti non aiutavano
molto.
Fin dall'antichità esistevano quelle come noi, le cosidette
Streghe, o Maghe o Fattucchiere, e l'uomo capendo che eravamo oltre al
loro modo di pensare e di fare decise di eliminarci per sempre,
inventando nel Medioevo il tribunale dell' Inquisizione, che serviva a
mandarci al rogo.
Ovviamente dopo averci torturate.
Anche io ebbi questa condanna.
Dopo il periodo della peste dell'anno Mille, fui catturata, processata,
e infine mandata al rogo con accusa di stregoneria.
Certo, il rosso rame dei miei capelli ovviamente non aiutò a
salvarmi, ritenuto un colore negativo, tantomeno gli occhi viola.
Riuscii a salvare Simòn per un soffio - visto anche che lui
era esattamente come me, tranne per il fatto che io ero femmina e lui
maschio -, e fu proprio lui, dopo trent'anni a farmi resuscitare,
riportandomi alla vita dall'Oltretomba.
Noi non invecchiavamo, ed era per questo che mio fretello stette
nell'ombra, uscendo solo di sera per mangiare qualcosa, a studiare nei
vecchi libri della nonna il rituale della Resuscitazione.
Eravamo eterni diciassettenni, belli e misteriosi, con un alone magico
ad avvolgerci, e a fare da sfondo a chissà quante
stupidaggini inventate dagli umani.
Con un sospiro sconsolato, salutai Simòn con un bacetto
sulla guancia, e presa Bastet sotto braccio, e le valige nell'altro, mi
avviai verso la mia camera.
Arrivata nella mia stanza - una camera perfettamente rettangolare, con
un letto a baldacchino avente un piumone e delle tendine rosse, un
armadio di legno in stile barocco, un cassettone e un piccolo bagno -,
mi buttai direttamente sul letto, lasciando valige e gatta a terra.
Affondai il viso nel cuscino, sospirando pesantemente.
Sentii il materasso piegarsi leggermente alla mia destra, e dei piccoli
passi avvicinarsi a me.
Allungai d'istinto una mano, andando ad accarezzare una testolina
pelosa e morbida. Sollevai la testa da sopra il cuscino, e puntai lo
sguardo sulla mia gattina, che si avvicinò subito a me
leccandomi amorevolmente il naso.
Risi divertita, e mi avvicinai di più a lei, in modo da
sdrusciare il mio viso col suo.
Dopo due minuti di coccole, gli depositai dolcemente un bacio tra gli
occhietti verdi, e ributtai la testa sul cuscino, con una mano piegata
dietro la nuca e una che continuava ad accarezzare la piccola Bastet
sulla testa e sulla schiena.
Risospirai, forse per la centesima volta, e buttai un'occhiata fuori
dalla finestra.
Il cielo era sereno, e i mille colori del tramonto illuminavano la
volta celeste, creando un'atmosfera romantica.
Chissà come stavano le nostre altre sorelle streghe -
ovviamente sorelle in senso metaforico, non biologico -, rimaste a
Bordeaux.
Dovevamo restare tutte unite, coprendoci l'un l'altra per non svealare
il nostro segreto.
Questa era la prima regola fondamentale per stare in stretto contatto
con gli umani, non potevamo permetterci di rifare gli stessi errori
delle nostre antenate - che per questo motivo le più
finirono al rogo.
Sbuffai.
Mi alzai controvoglia e con passo strascicato andai verso il bagno.
Non era molto grande: una vasca di proporzioni piccole, un lavandino,
un WC, e tutto ciò che serviva per l'igene personale.
Sopra la vasca, delle tendine con effetto vedo non vedo rosse
svolazzavano spinte dalla leggera brezza che fuoriusciva dalla
finestrella mezza chiusa, e un enorme specchio rotondeggiante
arricchito con una cornice dorata a forma di rose intrecciate faceva la
sua comparsa sopra il lavandino.
Mi avvicinai allo specchio, e con occhio critico cominciai a studiare
per bene la mia figura riflessa.
Ero abbastanza alta, più o meno uno e settanta, snella al
punto giusto, con i lunghi e ondulati capelli color rosso rame scuro e
occhi di diverse sfumature viola.
Il nasiono alla francese, per fare onore alla mia Patria, le labbra
piene, gli zigomi alti, e gli occhi grandi.
Mi avevano sempre detto che a prima vista il mio corpo sembrava
delicato, e i lineamenti del mio volto erano dolci, come quelli dei
bambini.
Sinceramente, non sapevo se quella era la verità, o la mia
posizione di strega che illudeva gli uomini a qualcosa di surreale.
Immaginai fosse una via di mezzo tra i due.
Nel medioevo, ricordavo, dovevo coprirmi il più possibile,
per non indurre il genere maschile alla tentazione, e per non farli
invaghire di me.
Anche per quello si andava al rogo, ritenute tentatrici; spose del
demonio, il tentatore per eccellenza.
Sciocchezze del genere umano, idiozie e assurde credenze.
Eravamo anche più credenti di loro, a qual tempo; quando i
preti, e lo stesso papa, avevano più di un'amante, con figli
al seguito.
Per torturarci ci facevano spogliare, rimandeno nude davanti a loro, a
quei viscidi vecchiacci, che per via della loro posizione gli era
proibito toccare le donne, e per trovare rimedio a questo usarono noi
come valvola di sfogo.
Maledetti!
Strinzi di scatto i pugni, al ricordo di quello che avevo passato,
all'umiliazione subita spogliandomi davanti a quei vecchi bavosi con
gli ormoni più galoppanti degli stessi adolescienti, del
dolore fisico che provai quando fui legata a quel palo, in mezzo a
quella maledetta piazza, gremita di gente, e a quando darono l'odine di
appiccare fuoco alla paglia sotto i miei piedi, agli occhi piangenti di
mio fratello in mezzo a quella stessa folla, della sua disperazione
quando capii che per me non poteva fare nulla...
Del sorriso d'incoraggiamento che gli donai, il meglio che avevo,
quello riservato solo e solamente al mio fratellino...
E alla sorpresa quando, trent'anni dopo, mi risvegliai, di colpo, in
mezzo a quel cerchio, tra le candele profumate, viola, con mio fratello
accanto a me con un libro dalla copertina nera in mano, che mi
sorrideva, con le lacrime agli occhi...
Uno continuo sdrusciare tra le mie gambe mi riportò di
scatto alla realtà, palesemente sorpresa che ormai il
tramonto fosse passato, lasciando spazio alla sera.
Abbassai la testa alla mia sinistra, e risi quando vidi la mia gattina
giocare con i lacci sciolti delle mie scarpe.
Lasciai che si trastullasse ancora un po', ma quando decisi che era
abbastanaza, la presi in braccio, e ritornando in camera l'adagiai sul
letto.
Feci comparire uno zaino a tracolla scolastico, viola, e ci misi il
minimo indispenzabile: un'astuccio con dentro penne e lapis, due
quaderni e un diario.
Visto che non avevo niente da fare, e di mangiare non ne avevo voglia,
presi da dentro la mia valigia il mio fedelo compagno di vita: il mio
violino.
Ovviamente, rigorosamente custodito da una rigida custodia blu scuro.
Estrassi prima il Violino, studiandolo, in modo da vedere che non ci
fossero state ammaccature da viaggio - che non trovai, fortunatamente
-, poi presi l'archetto, e dopo aver fatto una breve scanzione anche a
quello, cominciai a intonare qualche nota, per poi finire a suonare una
delle mie composizioni preferite: Moonlight, del compositore giapponese
Yiruma.
In realtà, era una composizione da pianoforte, che io
però riadattai in seguito ad averla ascolata, per il violino
, in modo da poterla comodamente suonare.
Era una melodia dolce, calma, ma anche un po' malinconica: un mix
perfetto per creare un'atmosfera magica e fatata.
Faceva immaginare di essere in una radura, nel mezzo della notte, con
al centro un laghetto, in cui si rifletteva la luna, chiarissima e
illuminata di luce propria, con noi spettatori che ammiravamo la sua
bellezza e immortalità.
Infatti, Moonlight voleva dire Chiaro di Luna.
Ed era per via della mia passione per questa composizione che mio
fratello, a volte, mi chiamava "Mon petit Clair de Lune".
In più, quella composizione aveva un altro pregio: scacciava
via dalla mia mente tutti i pensieri negativi, tutte le preoccupazioni,
per lasciare spazio a una calma e serenità senza precedenti.
E se poi ci abbinavo anche una candela profumata, preferibilmente
viola, il mio colore preferito, il risultato era eccezzionale.
Quando finii di suonare, ero soddisfatta di me. Mi sentivo rilassata,
in pace con me stessa, come del resto accadeva ogni volta che finivo di
suonare la melodia.
Metteva una tale pace da sembrare quasi irreale.
Sorrisi. Presi un panno pulito, e mi misi a gambe incrociate sul letto,
e cominciai a strofinare il mio amato Violino, e il suo Archetto,
lentamente, godendo del contatto con lo strumento.
La mia mente era libera, sgombra da qualunque pensiero, e mi augurai
che rimanesse così anche il giorno dopo.
..Angolinoinoinoinoino..
Ecco il secondo capitolo, appena sfornato dalla mia testolina xD.
Ne approfitto per ringraziare con tutto il cuore Kajsa, che l'ha
aggiunta tra le seguite, e per la sua mail, davvero grazie mille!!
Questo capitolo lo dedico a lei, e spero di non averla delusa con il
continuo!!xD
Be', che dire, ci vediamo con il prossimo capitolo,
kiss kiss
Egypta.
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