Buongiorno e buon inizio
settimana!
Allora... Con profondo rammarico ho notato che gli ultimi due capitoli
hanno avuto poche visualizzazioni e nessuna recensione. Io non sono una
che scrive per ricevere elogi, lo dico francamente... ritengo che la
scrittura sia per me una cura, un modo per staccare dalla vita di tutti
i giorni e concedermi di fantasticare. Però non posso negare
quanto mi renda triste vedere questo calo di interesse. Spero vivamente
che sia per causa mia - della lunghissima pausa e dei miei
aggiornamenti irregolari - e non della storia in sé,
perché questo farebbe molto male. Ad ogni modo lo
accetterei, non si può andare incontro ai gusti di tutti.
Se qualcuno può farmi sapere qualcosa in proposito ve ne
sarei eternamente grata.
E con questo direi che vi lascio alla lettura. Grazie per aver letto
fino a qui :)
Vostra,
_Pulse_
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23.The mark of
Abigail
Freya si fece da parte per farlo entrare nell’appartamento di
Darrell ed indicandogli il salotto esordì: «Deduco
che non sia necessario che io sappia perché ha usato la
magia, no?».
Artù si limitò ad annuire mentre adagiava con
delicatezza il corpo inerme di Merlino sul divano. Dopo essersi
sollevato la guardò con un sopracciglio inarcato, non
capendo perché non fosse al suo fianco per tentare di
rianimare il mago; quindi in tono imperioso esclamò:
«Beh, hai intenzione di aiutarmi a svegliarlo oppure
no?».
«E se io mi rifiutassi?», domandò la
custode, incrociando le braccia al petto.
Il sovrano boccheggiò, preso alla sprovvista, e Freya ne
approfittò per spiegare, quasi con tono annoiato:
«Quando la magia ha iniziato a scomparire per via della
maledizione di Merlino, essa per preservarsi si è
concentrata in pochi punti del pianeta, luoghi rimasti intatti e
lontani dall’insaziabile ed aggressiva espansione
dell’uomo. Merlino ovviamente è diventato uno di
quei punti, una delle fonti, un custode se vogliamo: il potere che
risiede in lui è talmente forte che liberarlo potrebbe
essergli fatale. Potrebbe ucciderlo sul colpo, disintegrarlo, oppure,
come succede ad ogni creatura magica, la sua morte sarà
lenta e progressiva: più libererà la magia che
è dentro di lui, più si consumerà,
poco alla volta».
Artù strinse i pugni lungo i fianchi, il viso accartocciato
dalla rabbia. «Tu menti: Merlino non ha lanciato nessuna
maledizione».
Freya sorrise come se si trovasse davanti ad un ingenuo ed innocente
bambino. «Non l'ha fatto di proposito ma l'ha fatto,
rinnegando la magia».
Il sovrano, a seguito di quella rivelazione, finalmente capì
i motivi dei suoi lunghi silenzi, dell'espressione spesso colpevole che
assumeva quando pensava che nessuno lo stesse guardando: si sentiva
colpevole per essersi lasciato sopraffare dal dolore, proprio come
Morgana, e di aver condannato il mondo al suo lento declino.
«Non ho intenzione di indebolirmi perché Merlino
torni subito a vostra disposizione», concluse la ragazza
druida prima di sparire in cucina, da cui aggiunse: «Si
sveglierà quando avrà ricaricato le
batterie!».
Il re di Camelot abbassò lo sguardo sul volto privo di
espressione dello stregone, trovandolo dolce ed irritante allo stesso
tempo – soprattutto perché era tutta colpa sua se
si trovavano in quella situazione – e si massaggiò
gli occhi stanchi.
La notte precedente non aveva chiuso occhio, non voleva raddoppiare;
allo stesso tempo, era troppo stanco per ritornare a casa con Merlino
sulla schiena. Avrebbe potuto chiamare Cathleen, perché
arrivasse con un’ambulanza e desse loro uno strappo, ma
qualcosa glielo impediva.
Non si erano ancora sentiti da quando avevano avuto quel diverbio
riguardo alla questione "famiglia" e nonostante avesse intuito che non
voleva offendere lui in particolare, non aveva voglia di sentirla. Come
aveva fatto lei poco tempo prima, non voleva rincorrerla: si sarebbe
seduto e avrebbe aspettato che facesse lei il primo passo.
Sbuffò, arrendendosi all’evidenza che avrebbe
dovuto aspettare che Merlino si svegliasse spontaneamente. Si
guardò intorno in quell’appartamento sconosciuto e
sbuffò di nuovo, rendendosi conto che tutto il divano era
occupato dal mago e che l’agente Fisher non era un fan delle
poltrone.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero, Freya esclamò:
«Mettetevi pure comodo! Potrebbe volerci anche tutta la
notte, sapete?».
Riconobbe una sfumatura divertita nella sua voce. Che realmente
riuscisse a leggergli nella mente?
Così Artù si sedette sul pavimento, con la
schiena contro il bordo del divano, e nascose la testa tra le braccia.
Chi gliel’aveva fatto fare, di accettare il suo invito? Ma
forse non tutto il male doveva per forza nuocergli, dato che aveva uno
o forse due fastidiosi pesi sullo stomaco di cui voleva al
più presto liberarsi. Magari quella era
l’occasione buona.
«Ho fatto del tè».
Artù levò lo sguardo e prese la tazza che Freya,
sorridendo, gli stava porgendo. La tenne stretta tra le mani,
nonostante il liquido bollente gli bruciasse la pelle attraverso la
ceramica, mentre la custode afferrava una coperta e la posava sopra il
mago, soffermandosi un attimo di troppo ad accarezzargli il mento con
le dita.
Quando si sedette poco lontano da lui e si accorse che il sovrano non
aveva ancora osato avvicinare la tazza alla bocca, alzò gli
occhi al cielo ridacchiando.
«Non ho intenzione di avvelenarvi, fidatevi».
Artù strinse le labbra in un sorriso amaro e posò
la tazza sul tavolino basso di fronte a lui. «Ho imparato a
mie spese quanto possa essere pericoloso fidarsi».
Freya bevve un sorso del proprio tè e stese le gambe di
fronte a sé, muovendo le dita dei piedi nei calzini di
spugna fucsia. Ad Artù diede fastidio il suo atteggiamento
rilassato, il fatto che si comportasse come se fosse da sola e non
seduta accanto all’amore della sua vita e al cavaliere che le
aveva tolto la vita.
Ad un tratto si stancò e le chiese bruscamente:
«Perché mi hai aiutato, ieri notte?».
«Siete una delle tessere del puzzle, non era giunta la vostra
ora», rispose la custode scrollando le spalle, senza
guardarlo in viso.
«Questa è la risposta che dovevi darmi. Quella
vera, invece?».
Freya abbozzò un sorriso. «Lo sapete, qual
è». Si voltò verso lo stregone e lo
guardò per un momento, una mano sollevata a
mezz’aria verso il suo viso. Ma non arrivò mai a
sfiorarlo, come se ci fosse un campo di forza intorno a lui, e il suo
sorriso presto di spense.
«Ho sognato di tornare per secoli ed ora che non lo ritenevo
più possibile... il suo cuore appartiene alla vostra
erede», sospirò tristemente e gli diede nuovamente
le spalle. «Merlino e Freya, costantemente allontanati dai
Pendragon», aggiunse a bassa voce.
Artù non avrebbe voluto sentirsi male per lei, ma era
più forte di lui. Ciò nonostante non lo diede a
vedere e riprese: «Ad ogni modo, grazie. Anche se a dirla
tutta è colpa tua, se ho rischiato di morire: se non fossi
scappata e non ci avessi gettato addosso quegli alberi...».
«Siete impossibile», commentò Freya
ridendo, facendo leva su una mano per alzarsi dal tappeto.
Artù però le afferrò il polso ed
inchiodò gli occhi nei suoi. Iniziò ad intuire
ciò che aveva spinto Merlino ad innamorarsi perdutamente di
lei: il viso pulito, gli occhi dolci e l’espressione
impaurita che aveva quando il mago l’aveva vista per la prima
volta, rinchiusa in quella gabbia.
«Io non lo sapevo», disse alla fine, a bassa voce.
«Che cosa?».
«Non sapevo di te e Merlino».
Freya posò inaspettatamente la mano sulla sua e sorrise
teneramente, inginocchiandosi di fronte a lui. «Ne sono
consapevole, Pendragon; voltate pagina. Per quanto mi riguarda non sono
mai stata in collera con voi: dovevo essere fermata, per la sicurezza
di tutti, inclusa quella di Merlino. Soprattutto la sua».
Artù non capì subito ciò che aveva
sottinteso con quelle parole. Quando lo fece, Freya era già
in cucina con la propria tazza di tè vuota. Posò
lo sguardo su quella che gli aveva offerto, ancora sul tavolino, e
senza darsi il tempo di avere dei ripensamenti se la portò
alle labbra. Il liquido caldo e dolce – forse un
po’ troppo per i suoi gusti – gli fece chiudere gli
occhi e abbandonare il capo contro il divano. Si sforzò di
resistere al sonno, invano.
Sentì un fruscio accanto a sé, ma nel dormiveglia
capì che non era nulla di cui preoccuparsi: Freya, china su
di lui, lo stava invitando a stendersi, con un morbido cuscino sotto la
testa e una coperta a tenerlo al caldo.
Sul momento aveva pensato ad un sogno: mai avrebbe pensato che la
custode potesse essere così gentile nei suoi confronti. Si
dovette ricredere, quando Merlino lo svegliò bruscamente a
poche ore dall’alba.
«Dove diavolo siamo?», urlò a mezza voce
Merlino, ancor prima che si svegliasse del tutto.
Artù si sollevò e stropicciandosi gli occhi
mugugnò: «Non ti rivolgere a me con quel
tono».
«Dove diavolo siamo,
vostra
altezza?», ripeté, ancora
più infuriato. Provò ad alzarsi, ma una fitta
alla testa lo fece ricadere seduto sul divano.
Allora il sovrano si tolse di dosso la coperta e si guardò
intorno alla ricerca di Freya. Non trovandola, spiegò:
«Dopo aver usato la magia per mettere Excalibur nella roccia
sei svenuto, così ti ho portato fuori dalla grotta dei
cristalli e mi sono diretto verso le abitazioni. Non sapevo che Freya
fosse qui, l’ho incontrata per caso».
«State… state dicendo che siamo a casa
dell’agente Fisher? Oh, cavolo».
Merlino si passò lentamente le mani sul viso, sospirando, e
poi un altro pensiero lo fece sobbalzare e recuperare quasi con
frenesia il cellulare nella tasca dei jeans.
«Lo sapevo, lo sapevo. E adesso come spiegheremo ad Alex
perché abbiamo chiesto aiuto a Freya?», gli chiese
iracondo, mostrandogli le chiamate perse.
«Ehi, vedi di darti una calmata», sbottò
Artù, stufo delle sue lagne. «Diremo la
verità ad Alex, non avrà motivo di arrabbiarsi. E
se lo farà… sei tu il suo fidanzato, non
io».
Merlino lo fissò e dopo un attimo di esitazione
afferrò il suo braccio per tirarsi in piedi.
«Molte grazie», bofonchiò.
«Dov’è ora Freya?».
Artù scrollò le spalle e sostenendo lo stregone
si incamminò verso la porta.
«Presuppongo non vogliate ringraziarla per
l’ospitalità», esclamò
Merlino, guardandolo con una lieve traccia di rimprovero nello sguardo.
«Dobbiamo metterci in cammino, se vogliamo arrivare a casa e
dormire qualche ora in un vero letto».
Il mago si lasciò condurre fuori e all’aria fredda
del mattino ancora buio rabbrividì, tanto che
Artù si tolse la sciarpa e gliela legò intorno al
collo, rischiando quasi di strozzarlo.
Iniziarono a camminare verso casa, tagliando per il bosco per fare
prima, e Merlino non riuscì proprio a tenere la bocca
chiusa: volle sapere che cosa si erano detti, in particolare se le
avesse riportato ciò che gli Sidhe avevano profetizzato.
Artù aveva mentito, dicendogli che sì, le aveva
detto che l’avrebbero riportata ad Avalon; perché
lo pensava, era sicuro fosse la cosa giusta da fare, e ciò
che provava adesso nei suoi confronti era solo compassione, che presto
sarebbe passata. Aveva solo bisogno di un altro po’ di tempo
e poi avrebbe fatto ciò che doveva.
***
Mancava ormai poco all’alba e i corridoi erano immersi in un
silenzio surreale, tanto che Alex si sentì l’unica
persona ancora sveglia, sovrana e custode dell’intero
ospedale.
Quella fantasia svanì presto, una volta svoltato
l’angolo. Salutò la collega al bancone della
reception, gettò un’occhiata al collega che stava
ponendo le domande di rito all’ultimo paziente in sala
d’attesa e poi uscì dalle porte scorrevoli per
raggiungere Cathleen, seduta su uno dei panettoni gialli che
delimitavano il parcheggio.
Le posò una mano sulla spalla e il paramedico
tirò fuori da una delle innumerevoli tasche dei pantaloni un
pacchetto di sigarette sgualcito per offrirgliene una ed estrarne
un’altra per sé direttamente con le labbra.
«Grazie», mormorò chinandosi verso la
fiamma dell’accendino; quindi tirò a lungo e
soffiò il fumo verso il cielo che iniziava a tingersi dei
colori dell’alba. «Ho ricevuto una chiamata da
Artù, verso l’una, ma quando l’ho
richiamato non mi ha risposto. Tu sai…?».
Cathleen scosse il capo, portandosi la sigaretta tra le labbra. Ad un
tratto si alzò di scatto dal panettone e si voltò
a guardarla con gli occhi lucidi: «Perché proprio
Abigail? Perché sono sempre le persone migliori a
perderci?».
«Non saprei… Ma sto iniziando pensare che siamo
davvero legati ad un destino».
«Beh, il destino fa schifo!», urlò e
gettò a terra la sigaretta per avventarcisi sopra con un
piede.
Alex si avvicinò e l’abbracciò con
delicatezza, accarezzandole i capelli. «Lo so. Credimi, lo
so».
«Tu pensi che si possa cambiare, il destino?», le
domandò piano Cathleen, tranquillizzata dalla sua stretta.
«Lo spero con tutte le mie forze. So però che non
smetterò di provarci, puoi starne certa».
Cathleen sciolse l’abbraccio e la guardò con la
sua caratteristica ruga d’espressione tra le sopracciglia,
segno di preoccupazione. «Che hai intenzione di
fare?».
«Tutto ciò che posso per aiutare Abby»,
rispose Alex con un sorriso appena accennato, il viso rivolto verso
l’alto per ammirare le nuvole cambiare colore ai primi raggi
del sole.
***
Darrell diede il cambio al collega e come ogni mattina – che
facesse il turno di notte o meno – si incamminò
verso la caffetteria della signora Begum per il primo caffè
della giornata.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda, intrisa del profumo
della rugiada sulla natura, e nonostante la quiete del paesaggio la sua
mente era ancora turbata da ciò che aveva letto riguardo al
tatuaggio di Freya.
Quella notte aveva approfondito la ricerca iniziata il pomeriggio
prima, inserendo nel motore di ricerca le parole: “tre
spirali intrecciate”. Come risultato principale aveva
ottenuto il Triskelion, un simbolo comparso per la prima volta durante
il periodo Neolitico a Malta e in varie zone della Grecia, per poi
diventare molto popolare nella cultura Celtica e nelle religioni
pagane. Tutt’ora il Triskelion, in alcune sue varianti, era
raffigurato su diverse bandiere, come quella della Sicilia, in Italia,
e quella dell’Isola di Man, nel Mar d’Irlanda.
Il suo significato però era andato perduto, probabilmente a
causa dell’abitudine di tramandare le conoscenze oralmente;
c’erano solo ipotesi, supposizioni. Alcuni studiosi pensavano
che le tre spirali simboleggiassero la Triplice Dea, altri che fossero
tre dei quattro elementi naturali (terra, fuoco e acqua), altri ancora
che rappresentassero il tempo (passato, presente e futuro) e infine
c’era chi pensava che si riferissero ai tre mondi di questa
realtà (il mondo degli esseri viventi, dei morti e degli
spiriti erranti). Tutte opzioni poco rassicuranti per uno come lui, ben
attaccato alla razionalità e alla logica. E, sopratutto, se
venivano associati a Freya e alla sua perdita di memoria: cosa avrebbe
fatto, nel caso in cui si fosse rivelata membro di una qualche folle
setta? Gli sembrava impossibile, per quel poco che l’aveva
conosciuta in quelle settimane, ma non poteva escludere nulla al
momento.
Le pagine Wikipedia, i blog, le discussioni, i link, gli asterischi e
le note che gli erano comparsi sullo schermo del computer erano stati
così tanti che a mezz’ora dalla fine del turno
aveva dovuto affrettarsi per occuparsi di tutto ciò che
avrebbe dovuto fare nel corso dell’intera notte e si sentiva
esausto, oltre che suggestionato dal mondo di mitologia, paganesimo,
magia ed arti oscure in cui si era ritrovato immerso.
Il campanello all’ingresso della caffetteria fu in grado di
riportarlo alla realtà, oltre che alla rassicurante
normalità delle abitudini.
«Buongiorno agente Fisher», lo salutò
con timidezza il ragazzo dietro il bancone. «Il solito
caffè da portar via?».
«Sì, grazie Jake».
Nell’attesa si appoggiò al bancone, con lo sguardo
rivolto verso la televisione con l’audio quasi al minimo, su
cui stava andando in onda il telegiornale.
«Mattinata tranquilla?», domandò ad un
tratto.
«Come sempre a quest’ora».
Dalla cucina si udì il segnale acustico del forno e Jake
corse a tirar fuori le brioches e le ciambelle appena cotte.
Iniziò a deporle nell’espositore e
gettò un’occhiata all’orologio alle sue
spalle, aggiungendo: «Anche se tra poco dovrebbero iniziare
ad arrivare i dottori e le infermiere del turno di notte».
Jake non fece in tempo a terminare la frase che la porta si
aprì con il solito scampanellio, facendo entrare i primi
camici bianchi. Darrell allora chiese al ragazzo di tenergli da parte
due ciambelle, una con sopra la glassa e gli zuccherini colorati e una
col cioccolato.
Pagò sorridendo al ragazzo, raccomandandogli di salutargli
la signora Begum, e quando si voltò rischiò quasi
di finire addosso ad Alexandra Greenwood e alla sua amica paramedico.
L’infermiera gli lanciò un’occhiata di
scuse e superandolo continuò a parlare al cellulare:
«Ho capito, sul serio... Artù ha fatto bene, non
aveva altra scelta. No, Merlino, non sono arrabbiata. Ma sei sicuro di
voler andare al lavoro comunque? Posso chiamare mio padre
e...».
A quel punto Darrell smise di ascoltare, distratto da Cathleen.
«Ehi, agente! Come va? Un altro turno di notte?».
Darrell si sforzò di sorridere, rispondendo: «A
quanto pare ne avrò ancora per un po’. Spero solo
non siano tutti movimentati come gli ultimi». Quindi
indicò Alex con un cenno del capo, la fronte aggrottata:
«È successo qualcosa a Merlino?».
La rossa gli agitò un dito di fronte al viso, lo sguardo
malizioso. «Ah-ah, non è carino
origliare».
Darrell guardò ancora una volta l’infermiera,
appoggiata con entrambi i gomiti al bancone e una mano tra i capelli
biondi sciolti sulla schiena. Sembrava stanca, ma non solo
perché aveva appena finito il turno; era una stanchezza
profonda, come se avesse avuto un peso a gravarle sull’anima.
«C’è una cosa che devo dirti. No,
è una questione un po’ delicata. Facciamo che ti
raggiungo lì nel pomeriggio. Okay. Ti amo
anch’io».
Cathleen gli schioccò le dita di fronte al naso e quando
quella volta incrociò il suo sguardo, lo trovò
infastidito.
«Come avrai capito, è già
impegnata», sibilò a pochi centimetri dal suo
volto.
Il poliziotto indietreggiò di un passo e dopo un attimo di
esitazione rispose: «Non sapevo che lei e Merlino fossero una
coppia».
«Le farò le tue congratulazioni».
Un sorrisino gli sollevò un angolo della bocca,
così all’improvviso che Cathleen ne rimase
sbigottita. Darrell le posò una mano sul braccio e la
superò per raggiungere l’infermiera, sussurrandole
all’orecchio: «Grazie, faccio da me».
Quando Alex vide l’agente sedersi sullo sgabello alto accanto
al suo domandò silenziosamente spiegazioni a Cathleen, la
quale roteò gli occhi al cielo e alzò le mani.
Poi si concentrò su di lui, stringendosi il collo tra le
spalle: «Volevi dirmi qualcosa?».
«Innanzitutto, congratulazioni: ora capisco perché
la mia domanda su Myra e Merlino ti ha infastidito tanto».
«Pensavo avessimo superato l’argomento»,
bofonchiò Alex, irritata.
«Infatti, scusami. Prometto che non ne parleremo mai
più», si fece una croce sul cuore e poi le disse
quello per cui si era avvicinato: «Non sei più
passata in Centrale per la denuncia».
«Scusami, ma non ho fatto in tempo. Domani lavori?».
«Sì, faccio il primo turno».
«Perfetto, io sono di riposo domani. Ti prometto che
passerò».
«Okay, allora… ti aspetto».
Alexandra annuì e gli rivolse un sorriso nervoso quando lo
vide esitare sullo sgabello. Rendendosi conto di non aver altri motivi
per rimanere, Darrell si decise ad alzarsi e ad allontanarsi.
Non si voltò più indietro, nemmeno quando
sentì Cathleen chiedere all’amica che cosa si
fossero detti, e una volta fuori dalla caffetteria
attraversò la strada per raggiungere la propria auto.
Si fermò accanto alla portiera e si tastò le
tasche dei pantaloni alla ricerca delle chiavi. Fu per caso, quindi,
che lo sguardo gli cadde sull’auto parcheggiata dietro alla
sua, con un draghetto di pezza rossa appeso allo specchietto
retrovisore. Con le chiavi dell’auto in mano si
soffermò a guardarlo, chiedendosi dove l’avesse
già visto. L’illuminazione gli venne
all’improvviso, così prepotentemente che
rischiò di far cadere il sacchetto con le ciambelle.
Aprì l’auto per lasciare la sua colazione sul
sedile del passeggero, poi prese il proprio taccuino e si
segnò targa e modello dell’auto. Non poteva
aspettare il giorno seguente per sapere, perciò si mise al
volante e tornò alla Centrale, dove il collega che da poco
gli aveva dato il cambio gli chiese ridendo se volesse sostituirlo.
Darrell non lo sentì nemmeno, troppo concentrato sulla pista
che stava seguendo.
Inserì nell’archivio i dettagli che si era segnato
ed attese che la pagina si caricasse. Non ci volle molto, ma per un
po’ rimase in silenzio, immobile, come se il computer si
fosse impallato.
La patente dell’intestatario dell’auto era
lì, davanti ai suoi occhi, eppure si rifiutava di crederci.
Perché mai l’auto di Cathleen avrebbe dovuto
trovarsi di fronte alla villetta di Alexandra, la notte in cui si era
verificata quell’insolita effrazione?
***
Merlino si sentiva ancora malissimo, tanto che faticava a dare i
contorni alle cose e la testa gli doleva come se qualcuno stesse
provando ad aprirgli in due il cranio con un'accetta.
Si massaggiò ancora una volta le palpebre pesanti con due
dita e fece un respiro profondo, concentrandosi sulla strada sterrata
oltre il parabrezza. Poi si accorse dell’espressione assorta
di Artù, del cellulare che teneva tra le mani e che
controllava ogni due per tre, e pensò che nonostante tutte
le preoccupazioni che gli affollavano la mente al momento –
l’agente Fisher che aveva archiviato il suo prototipo come
una prova, Freya, il ragazzo che stava conducendo un'indagine su di
lui, Hala e Alex – non poteva comunque trascurare il suo re.
«Aspettate una chiamata?», gli domandò,
abbozzando un sorriso.
Artù scosse il capo e sospirò. «Tanto
so perfettamente che non lo farà».
Si infilò nuovamente lo smartphone in tasca ed
abbandonò la testa contro il sedile, affranto.
«Non te ne ho parlato perché avevi altro per la
testa, ma io e Cathleen abbiamo avuto una specie di diverbio quando ho
scoperto di te e Alex».
«Ehi», attirò la sua attenzione.
«Voi potete parlarmi di qualsiasi cosa in qualsiasi momento
vogliate. Avete capito? Io ci sarò sempre, per
voi».
Riuscì a farlo sorridere e Merlino la contò come
una vittoria.
«In poche parole», iniziò a raccontare,
«ero infuriato perché non me l’avevate
detto prima e anche lei me l’aveva tenuto nascosto. Stavo per
dirle che ai miei tempi le cose per i membri della famiglia reale, la
mia famiglia, erano
diverse, ma mi ha interrotto dicendomi che le famiglie “con
nomi importanti fanno schifo”. Ha detto proprio
così. Da allora non ci siamo più
sentiti».
Merlino rimase in silenzio a riflettere, cercando di capire a che cosa
si potesse riferire Cathleen con quelle parole taglienti. Gli venne in
mente solo un motivo plausibile.
«Che cosa sapete sulla sua famiglia?», gli chiese.
«Assolutamente niente», rispose Artù,
come se si fosse aspettato quella domanda. E infatti aggiunse:
«Anche io penso che l’abbia detto basandosi sulla
sua esperienza personale. Non ha mai accennato ai suoi genitori, a
fratelli o sorelle… È come se fosse sempre stata
sola al mondo, prima di conoscere Zachary».
«Non so che cosa dire», esclamò Merlino
dopo qualche altro istante di silenzio. «I legami familiari
sono complicati, voi più di tutti lo sapete:
l’amore più profondo può tramutarsi in
odio in un battito di ciglia e viceversa. Per quanto mi riguarda mi
sono sempre ritenuto fortunato: mia madre mi ha amato oltre ogni
misura, ha persino rinunciato a me quando nel mio villaggio i sospetti
che fossi uno stregone avevano iniziato a farsi più
insistenti, e mio padre… beh, lo conoscevo da appena un
giorno quando ha sacrificato la sua vita per la mia».
Sentì lo sguardo di Artù sul suo profilo,
profondo e triste, ma Merlino non si girò a guardarlo
nemmeno quando disse: «Mi dispiace se l'ho giudicato male,
era un brav'uomo».
Merlino annuì, un sorriso mesto sul viso.
«Perdonatemi se allora ho mantenuto il segreto anche su
questo, ma temevo che vostro padre non avrebbe gradito avere l'ultimo
Signore dei Draghi al servizio di suo figlio…».
«Va bene così, Merlino».
Il mago, stupito da tanta calma e gentilezza, si soffermò a
guardare il sovrano, di nuovo assorto nei propri pensieri.
Erano quasi arrivati all’agriturismo, quando gli
posò una mano sulla spalla, esclamando: «Prima o
poi si aprirà con voi, datele un po’ di
tempo».
Artù ricambiò il sorriso, anche se si spense non
appena si voltò verso il finestrino. Lo stregone avrebbe
voluto fare di più per lui, ma si rendeva conto che non
poteva; avrebbe pianto con lui e avrebbe gioito con lui, continuando a
stargli accanto come aveva sempre fatto.
«Buongiorno Rebecca».
La ragazza sollevò lo sguardo dal computer e gli sorrise,
ricambiando il saluto. Quando incrociò gli occhi di
Artù la sua espressione cambiò radicalmente ed
inspirò a lungo prima di esordire: «Per quanto mi
dispiaccia ammetterlo, mio padre ha ragione: io non sono il tuo tipo e
forse nemmeno tu sei il mio. Penso che dovremmo smetterla di
illuderci».
Merlino guardò Artù, confuso e spaventato come
poche volte l’aveva visto, e dovette mordersi le labbra per
non scoppiare a ridere sguaiatamente. Per fortuna arrivò la
signora Chapman a salvare tutti da quell’imbarazzante
situazione, anche se prima di dedicarsi a lei Rebecca concluse a bassa
voce: «Sarà difficile dimenticare, ma ci
riusciremo, vedrai».
Artù gli afferrò un polso e negò piano
con la testa, mimando con le labbra: «Questa è
pazza».
Lo stregone aumentò la pressione dei denti, scosso da un
altro attacco di ridarella. Poi tutta la sua attenzione fu catturata
proprio dalla signora Chapman, la quale, appoggiata al bancone della
reception e china verso Rebecca, chiedeva se le potesse chiamare un
taxi per andare in ospedale.
«Certamente», affermò Rebecca con un
sorriso cordiale. «Ah, già che è qui
signora Chapman, ne approfitto… So che ieri sera
è arrivato il fratello di Hala e che ha dormito con lei, ma
per questa sera mi si è liberata una camera con i letti
separati. Si troverebbero meglio?».
«Sei molto gentile, cara. Chiedo subito a Baqi e Hala e ti
faccio sapere, va bene?».
Rebecca stava per dirle che non c’erano problemi, ma Merlino
le parlò sopra ripetendo: «Baqi?».
Entrambe le donne lo guardarono fino a quando la signora Chapman non
spiegò: «Sì, è il fratello
gemello di Hala. Non penso vi siate conosciuti, ma ce ne
sarà di sicuro l’occasione».
«Senza dubbio», tentò di rimediare
Merlino, stirando un sorriso. «Buona giornata e mi saluti
Abby».
Nel sentir nominare la nipote, l'anziana impallidì e il suo
volto si accartocciò, come se stesse trattenendo uno
starnuto o qualcosa di altrettanto irrefrenabile. Quindi
annuì con un cenno del capo ed abbassando gli occhi si
allontanò, lasciando i due ragazzi piuttosto confusi.
Merlino però accantonò presto l'episodio per
concentrarsi su quello che aveva appena scoperto: Baqi, il ragazzo che
stava indagando su di lui, era il gemello di Hala e dormiva
all'agriturismo, dove lui lavorava. Tutto d'un tratto era impaziente di
rassettare camere.
Fece il giro della reception e sulla piccola bacheca di sughero
trovò i compiti della giornata, scritti nella bella ed
ordinata calligrafia della signora Morris.
Staccò il foglietto e dopo aver recuperato anche il planning
delle camere in fermata e in partenza tornò da
Artù, il quale stava deviando in ogni modo lo sguardo quasi
impietosito di Rebecca, dicendo: «Io vado di sopra a fare le
camere». Poi, con nonchalance, chiese: «Qual
è la camera di Hala e Baqi?».
«Ahm… al momento hanno la 112. Ti chiamo per farsi
sapere se rimangono lì o si spostano, così dai
loro una mano con i bagagli».
«Perfetto. A dopo».
Artù lo seguì come se fosse la sua ombra, rigido
come un manico di scopa, e Merlino, divertito, tornò da
Rebecca ridendo sotto i baffi.
«Artù non ha mai pensato che tra voi due potesse
nascere qualcosa, ma ti ringrazia comunque per
l’incoraggiamento».
Il re gli lanciò un’occhiata incredula e adirata,
ma quando vide che la stessa Rebecca scoppiò a ridere si
ricredette e riuscì persino a dargli una bonaria pacca sulla
spalla, trascinandolo via.
***
Darrell si chiuse la porta di casa alle spalle e, sovrappensiero
com’era, si dimenticò di fare piano. Sul momento
però non se ne rese conto e si diresse in cucina, dove si
spogliò della giacca e della fondina, lasciandole sullo
schienale della sedia su cui poi si sedette, con le mani a nascondergli
il viso.
Aveva troppe domande e decisamente troppe poche risposte, e questo lo
stava facendo ammattire. Come il fatto che tutto era iniziato quando
Freya era entrata a far parte della sua vita, un dettaglio che non
poteva di certo ignorare.
«Sei tornato».
Darrell sobbalzò, portando involontariamente una mano sulla
pistola appesa alla sedia. La lasciò subito, quando scorse
un fremito di paura proprio negli occhi dolci di Freya.
«Mi hai spaventato», si giustificò
debolmente, per poi rivolgerle un pallido sorriso. «Ti ho
svegliata?».
La ragazza scrollò le spalle e si passò una mano
tra i capelli ancora un po’ gonfi. «Non ho dormito
molto questa notte».
«Come mai?».
«Non lo so… Forse ero agitata per oggi».
«Che succede oggi?».
Freya si avvicinò e passandogli le dita tra i ricci biondi
accennò una risata. «Hai insistito così
tanto perché mi lasciassi accompagnare
all’ospedale e ora non ti ricordi nemmeno che avevamo deciso
di andarci oggi».
«Certo, sì, l’ospedale»,
mugugnò e si alzò, spostandosi dalle gentili
carezze che avevano fatto saltare un battito al suo cuore.
La ragazza lo osservò fare il giro del tavolo per andare ad
accendere la macchina del caffè e con la fronte aggrottata
gli domandò: «C’è qualcosa
che non va?».
Darrell non rispose e cambiò argomento, indicando il
sacchetto sopra il ripiano del tavolo: «Ti ho preso la
ciambella che ti piace».
Freya aprì il sacchetto e tirò fuori il dolce con
la glassa e gli zuccherini colorati, sorridendo a trentadue denti.
«Oh, grazie mille».
Quindi recuperò un tovagliolo e la lasciò sul
tavolo per prendere una tazza dalla credenza e il latte dal
frigorifero. Anche Darrell aveva bisogno di una tazza per il
caffè, perciò le disse di lasciare pure aperta
l’anta.
Mentre Freya andava a sedersi, il poliziotto si spostò
davanti alla credenza, dove però non trovò la sua
tazza preferita, quella che suo fratello minore gli aveva regalato
quando era diventato un agente e su cui era stampato il logo della
Police Academy, i cui film erano sempre piaciuti ad entrambi.
Abbassò lo sguardo e nel lavello vide due tazze sporche, una
delle quali era proprio quella che stava cercando. Con la coda
dell’occhio vide Freya mordere la propria ciambella, ignara
di tutti i sospetti che gli stavano facendo gelare il sangue nelle
vene.
«Freya? Perché hai usato la mia tazza?».
La ragazza lo guardò con sguardo perso e dopo aver
boccheggiato per un istante tornò a sorridergli,
rispondendo: «Ti ho detto che ieri sera non riuscivo a
dormire; mi sono fatta del tè e non ci ho fatto caso. Mi
dispiace».
Darrell non era stupido e il presentimento che Freya gli stesse
mentendo tornò a farsi sentire con forza. Il problema era
che non aveva prove concrete su cui basarsi e fondare le proprie
accuse. E continuando di quel passo non ne avrebbe mai avute.
«Okay, hai finito?», le chiese bruscamente,
trovandola con la bocca piena e i baffi di latte. In un altro momento
l’avrebbe trovata così buffa e tenera che gli si
sarebbe sciolto il cuore, ma tutto quello che stava succedendo gli
aveva inaridito l’anima.
Freya deglutì rumorosamente ed annuì subito, come
se non volesse vederlo arrabbiato, e senza nemmeno finire il proprio
latte corse nella stanza degli ospiti per cambiarsi e prendere la borsa
che aveva preparato con alcuni cambi – giusto per ogni
evenienza.
Darrell non avrebbe voluto trattarla in quel modo, come la sospettata
di un crimine orrendo, ma era più forte di lui.
Approfittò di quei minuti d’attesa per darsi una
rapida sciacquata e cambiarsi, infilandosi un paio di semplici jeans e
una camicia a quadretti sotto alla giacca a vento color petrolio.
Quando entrambi furono pronti, uscirono di casa e raggiunsero
l’ospedale in religioso silenzio. La tensione tra loro era
così densa da poterla tagliare a fette.
La situazione non migliorò nemmeno in ospedale, quando la
dottoressa che prese in carico il caso di Freya iniziò a
fare domande per stabilire un primo quadro clinico e decidere a quali
tipi di esami sottoporla. Darrell rispose quasi a monosillabi, troppo
distratto e deluso dal suo stesso comportamento.
Come aveva potuto essere così ingenuo? Avere la presunzione
di poter fare l’eroe? Ospitare a casa sua una sconosciuta e
sottostare alle sue regole, anziché chiamare subito le
autorità competenti?
«Beh, direi di iniziare con un esame del sangue e delle urine
e poi controlleremo il tuo corpo per appuntarci segni particolari,
cicatrici, qualsiasi cosa possa aiutarci a costruire la tua storia
clinica. Più tardi faremo anche una TAC per cercare di
capire che cosa ha provocato la perdita di memoria, okay?».
Freya annuì alle parole della dottoressa e
l’espressione impassibile sul suo volto non lasciò
trasparire nessuna delle emozioni che provava, tantomeno la paura, ma
Darrell riuscì a percepirla grazie al lieve tremore della
mano che aveva cercato il conforto della sua. L’agente aveva
socchiuso gli occhi e si era sottratto a quella stretta, portandosi
entrambe le mani dietro la schiena, e la ragazza allora –
solo allora – lo aveva guardato impaurita mentre la
dottoressa e un’infermiera la invitavano a seguirle,
prendendola sottobraccio.
Darrell si sentì un mostro ed evitò il suo
sguardo chinando il capo. Non lo rialzò nemmeno quando
sentì la sua voce mormorare: «Avevi promesso che
saresti stato con me per tutto il tempo. L’avevi promesso,
Darrell».
Alla fine trovò la forza per rispondere, anche se con poche
parole: «Mi dispiace, non ci riesco», ma Freya era
già lontana.
***
Merlino abbandonò il proprio carrello e guardò da
una parte all’altra del corridoio prima di aprire la porta
della stanza 112. Senza infilare la tessera nella slot apposita
– non voleva che Rebecca dalla reception lo vedesse e gli
facesse domande – entrò ed iniziò a
curiosare tra gli oggetti personali dei gemelli. Aprì le
valigie addossate alla parete, controllò
nell’armadio e frugò nei cassetti dei comodini,
poi sollevò i cuscini e tirò via le coperte.
Niente, non c’era niente.
Lo sguardo gli cadde sul blocchetto di appunti posato accanto
all’abat-jour. Lo portò accanto alla finestra e si
accorse che era stato scritto qualcosa sul foglietto prima –
ce n’era ancora l’impronta. Si precipitò
al cestino posato ai piedi del letto, lo svuotò sul
pavimento ed iniziò a cercare freneticamente
l’unico indizio che avrebbe potuto fargli avere una certezza
in più sulla pericolosità di quei due ragazzi.
Aprì un foglietto appallottolato ed ebbe solo il tempo di
leggere il primo punto prima di essere colto in flagrante proprio da
Hala, ferma sulla porta e con gli occhi sgranati, impauriti e al
contempo desiderosi di scoprire la verità.
«Mi dispiace infinitamente», disse subito Merlino
col tono più mortificato del suo repertorio.
«Stavo rifacendo il letto e ci sono inciampato».
Raccolse da terra tutto il contenuto del cestino e poi si
alzò, sorridendo innocentemente alla ragazza di fronte a
lui.
«Se vuoi posso tornare più tardi», disse.
Hala si schiarì la voce e si gettò
un’occhiata alle spalle, come se avesse paura che qualcuno la
vedesse parlare con lui, e rispose: «A me e mio fratello
è stata assegnata un’altra camera, credo che
Rebecca ti stesse cercando per dirtelo».
«Oh… Ma certo, che stupido».
Tirò fuori dalla tasca dei jeans il passepartout dei
camerieri e glielo indicò, ridacchiando. «Non so
dov’ho la testa, oggi».
Dopo qualche secondo di silenzio, Merlino chinò il capo e
con un mezzo sorriso sulle labbra uscì dalla stanza
passandole accanto. Percepì la sua agitazione e quella fu
proprio la conferma che cercava: lei sapeva, chissà come ma
sapeva.
«Chiamatemi, se avete bisogno di aiuto con i
bagagli», esclamò una volta raggiunto il carrello.
Hala non si voltò nemmeno per rispondergli:
«Grazie, non ce ne sarà bisogno».
«Come vuoi».
Merlino si allontanò e si infilò nella prima
camera libera che necessitava della pulizia. Inserì la
propria tessera magnetica nella slot e subito il telefono
squillò. Sospirando sollevò la cornetta e
salutò Rebecca, la quale gli chiese subito dove cavolo era
finito.
«Scusami, sono andato a recuperare le federe pulite in
magazzino, non ne avevo più sul carrello»,
mentì. «Avevi bisogno di qualcosa?».
«Volevo solo avvisarti che i gemelli…».
«Cambiano stanza, sì. Ho incrociato adesso la
ragazza e me l’ha anticipato. Le ho anche chiesto se avesse
bisogno con i bagagli, ma ha detto di no».
«Oh, okay, meglio così allora. A più
tardi».
Merlino posò la cornetta e si sedette sul letto per
esaminare più attentamente il foglietto che si era nascosto
all’interno della manica della felpa quando era stato beccato.
La scrittura era decisamente femminile, perciò era stata
Hala a segnarsi ciò che aveva scoperto su di lui o le
domande che necessitavano ancora di una risposta:
-
Non parla quasi mai del suo passato
-
Racconta storie ambientate a Camelot, su Re Artù e i
Cavalieri della Tavola Rotonda
-
L’ospedale della foto del 1935 è stato distrutto e
sulle sue ceneri è stato costruito quello odierno.
Coincidenza?
-
Relazione con la bisnonna di Abby – lei sa qualcosa?
L’ultimo punto, un tassello fondamentale del puzzle, lo
lasciò senza fiato. Se era davvero come pensava, le cose si
facevano ancora più complicate.
Sentì il clacson di un’auto e si alzò
dal letto, reggendosi a fatica sulle gambe per lo shock. Dalla
finestra, riuscì a vedere il taxi fermo nel parcheggio
dell’agriturismo e la signora Chapman salire per prima, con
Baqi e Hala al seguito. La ragazza alzò per caso il capo e
quando incrociò il suo sguardo non si ritrasse, anzi lo
ricambiò con fierezza, come a volergli lanciare una sfida.
Merlino strinse con più forza il foglietto nella mano e
quando il taxi imboccò la strada sterrata per raggiungere il
paese si sedette a terra, con le spalle al muro e la testa abbandonata
tra le braccia.
***
Alla fine, per una cosa o per un’altra, non era riuscito a
scambiare due parole con Abigail. Quello era il suo giorno libero, come
il giorno precedente, ma siccome non aveva altri impegni aveva deciso
di farle visita. E forse, inconsciamente, voleva anche incrociare lo
sguardo profondo di Hala.
Salì fino al quarto piano con l’ascensore e si
diresse verso la camera della ragazzina, ma vi trovò
soltanto un’infermiera che stava rifacendo il letto. Allora
optò per la mensa e fu proprio lì che la vide,
seduta da sola nell’ultimo tavolo della sala, più
intenta a leggere che a fare colazione.
La raggiunse e si sedette di fronte a lei. Dovette schiarirsi la gola
un paio di volte prima che si accorgesse della sua presenza ed
arricciasse il naso chiedendogli in tono sorpreso ma anche scettico che
cosa ci facesse lì.
«Sono solo passato a vedere come te la passi».
Abby mise il manico della forchetta di plastica tra le pagine del libro
dall’usurata copertina di pelle che stava leggendo ed
abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Sai, ho
accettato che non avrò il futuro che ho sempre voluto, che
non lascerò un’impronta abbastanza duratura nel
mondo… perciò sono a metà
dell’opera».
Keith sospirò e negò lentamente il capo.
«Non ci credo».
«A che cosa?».
«Al fatto che tu ti stia arrendendo. Tutti quelli che ti
conoscono non fanno altro che ammirare il tuo coraggio, la voglia di
vivere che trasmetti a chi crede di non avere più
speranze… Si sono fatti un’idea sbagliata di
te?».
I suoi occhi si fecero all’improvviso duri come
l’acciaio, inflessibili, e la sua voce più
determinata che mai: «No. Lotterò fino
all’ultimo respiro per le persone che amo, ma so anche che
c’è un’elevata percentuale che io non ce
la faccia prima che venga trovato un donatore compatibile».
«Sei un bel tipo, Abigail», esclamò
Keith, sorridendo. «E sono sicuro che la lascerai,
un’impronta abbastanza duratura nel mondo».
«Grazie, dottor Ellis».
Si alzò e sistemò la sedia sotto al tavolo, ma
prima di andarsene le indicò la tazza di latte e cereali
ancora piena che aveva lasciato sul vassoio assieme alla macedonia.
«Devi mantenerti in forze, per quando arriverà il
donatore».
«Certo», rispose Abby con un piccolo sorriso, prima
di riprendere la lettura da dove l’aveva interrotta.
Stava per andarsene veramente quella volta, ma non riuscì a
tenere a freno la lingua ed esclamò: «Che tu
sappia Hala si vede con qualcuno?».
Abigail alzò di scatto gli occhi dalle pagine del libro e
gli rivolse un sorriso malizioso, non molto rassicurante.
Keith stava trotterellando giù per le scale, felice come una
pasqua, e non si accorse del motivo della sua contentezza fino a quando
non rischiò di finirle addosso.
«Perdonami», esclamò subito, stringendo
lievemente la mani intorno agli avambracci della ragazza
perché non cadesse all’indietro. Poi
incrociò quegli occhi color ambra in grado di fondergli il
cervello e la lasciò subito andare, colpito da un attacco
improvviso di vergogna.
«Hala», balbettò. «Ciao,
scusa, non ti ho proprio vista».
«Già, le ragazze come me passano inosservate la
maggior parte delle volte».
Keith aprì la bocca per dirle che non era assolutamente
così, che l’aveva colpito sin dalla prima volta
che si erano visti, ma lei non gliene diede il tempo.
«Ci vediamo», lo salutò riprendendo a
salire rapidamente le scale.
«No, Hala, aspetta!».
La ragazza si fermò all’improvviso e strinse
più forte le dita intorno al corrimano.
«So che ci siamo visti appena due volte, ma mi chiedevo se ti
andasse di uscire a bere qualcosa, una di queste sere».
Deglutì rumorosamente, mandando giù tutto il
nervosismo che aveva accumulato prima di riuscire a dire quelle parole.
Ma Hala non rispose come si aspettava e fece più male del
previsto.
«Ci penserò. Ora devo proprio andare».
Keith rimase in silenzio e la guardò salire quasi di corsa
gli ultimi gradini e sparire alla sua vista. Quindi sospirò,
dandosi un colpo in testa col palmo della mano. Allo stesso tempo
però sorrideva, perché prima che le cose
andassero in porto con Alex, lei lo aveva fatto stare sulle spine
proprio come aveva fatto Hala. Che fosse un segno? In quel caso, non
avrebbe mandato tutto a monte una seconda volta.
Speranzoso che prima o poi Hala sarebbe uscita con lui, sarebbe andato
dritto per la sua strada se attraversando il corridoio non avesse
scorto di sfuggita il volto di una ragazza familiare.
Tornò sui suoi passi e seduta su uno dei lettini del Pronto
Soccorso riconobbe la ragazza che a quanto sapeva aveva più
volte cercato Alex. Un infermiere le stava stringendo un laccio
emostatico sopra all’incavo del braccio per un prelievo e i
suoi occhi erano spaesati e assenti, ben lontani dalla
realtà che la circondava.
Aveva visto quell’espressione solamente in un altro caso e
mai l’avrebbe dimenticata: Artù, l’amico
di Merlino, era nello stesso stato psicologico quando l’aveva
visitato.
Coi brividi lungo la schiena si avvicinò e senza farsi
notare dalla diretta interessata – cosa che non sarebbe
comunque successa – aspettò che
l’infermiere finisse di prelevarle il campione di sangue da
mandare in laboratorio e poi lo placcò, chiedendogli che
cos’avesse.
«Dice di aver perso completamente la memoria.
L’agente Fisher l’ha trovata mentre vagabondava per
il bosco e l’ha ospitata per un po’, fino a quando
lei non si è sentita pronta a farsi visitare. È
un peccato, perché ogni traccia che avrebbe potuto esserci
sul suo corpo è andata da un pezzo».
«Memoria, eh? Tu le credi?», gli chiese Keith, con
le braccia incrociate al petto.
L’infermiere scrollò le spalle.
«Perché non dovrei? Aspetta… Non
è che la conosci?».
«Mai vista prima», mormorò e poi sorrise
all’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. «Buon
lavoro».
Si allontanò e prima di uscire dalle porte scorrevoli
gettò un’occhiata all’interno della sala
d’aspetto, dove trovò l’agente Fisher
con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani in faccia.
C’era qualcosa che non quadrava in tutto ciò, se
lo sentiva, ma non era mai stato bravo a far parlare le persone.
Conosceva però qualcuno in grado di riuscirci.
Sulla rampa per disabili, si appoggiò alla ringhiera con un
fianco e scrisse un SMS ad Alex.
***
Quando Hala aveva raggiunto la signora Chapman e Baqi nella stanza di
Abby, lievemente affannata e col cuore che le batteva forte per tutto
ciò che era successo, aveva scoperto che in
realtà Abigail non c’era.
Aveva chiesto informazioni ad un’infermiera di passaggio e
questa le aveva detto che forse, visto l’orario,
l’avrebbe trovata in mensa, a fare colazione. Aveva detto al
gemello di aspettare nella sua stanza mentre andava a cercarla e
l’ipotesi della donna si era rivelata corretta, se non per un
particolare: Abby aveva a malapena spiluccato qualcosa, ben
più interessata al diario della sua bisnonna Louise.
«Proprio di questo volevo parlarti»,
esordì bruscamente, sbattendo sul tavolo la propria borsa.
«Dimmi tutto quello che sai su Merlino. E non osare
mentirmi».
Abigail sollevò lentamente gli occhi dalle pagine del diario
e le rivolse un’occhiata infastidita. «Cosa pensi
che sappia, esattamente?».
«Più di quanto dici», ribatté
e con poca grazia allontanò la sedia da sotto il tavolo per
sedersi di fronte alla ragazzina, la quale incrociò le
braccia al petto.
«Ci sono stati forse sviluppi di cui io non sono a
conoscenza?», le chiese sorridendo beffarda.
«A dire la verità, sì. Questa mattina
ho trovato il tuo amico intento a rovistare nel mio cestino,
all’agriturismo».
«Sbadato com’è, ci sarà
inciampato».
«Non difenderlo, Abby. Lo so che cercava qualcosa».
«Che cosa potrebbe mai volere da te, eh? Siete tu e Baqi
quelli che stanno indagando su di lui!», urlò a
mezza voce, per non attirare l’attenzione delle infermiere in
mensa. Danilo però, seduto a qualche tavolo di distanza,
sentì tutto e le gettò un’occhiata
perplessa.
Hala sospirò, posando con calma i palmi delle mani,
lievemente sudati, sulla superficie del tavolo. «Non farmi
sentire in colpa adesso, non sto facendo nulla di male».
«Non spetta a te giudicare se quello che state facendo sia
giusto o sbagliato, ma a Merlino. Perciò, a meno che tu non
abbia una prova inconfutabile che dimostra che sia immortale, che abbia
avuto una relazione con la mia bisnonna o che abbia qualche
collegamento con la costruzione di questo ospedale, fareste meglio a
smetterla. Dovete lasciarlo stare, tutti e due».
La pakistana aprì la bocca per ribattere, ma lo sguardo
gelido di Abby la fece desistere.
«Sono stata chiara?», le domandò ancora,
quasi ringhiando.
Hala non rispose, si limitò ad annuire con un cenno del capo
e ad alzarsi.
Ovviamente non avrebbe smesso di indagare, avrebbe solamente evitato di
coinvolgere ulteriormente la ragazzina.
A quanto pare, questo
Merlino riesce ad ottenere l’amicizia e la lealtà
di chiunque, pensò mentre le dava le spalle,
diretta verso l’uscita. Persino quella di Abigail, che aveva
sempre reputato una ragazzina intelligente.
Come poteva non rendersi conto che c’era qualcosa di
sbagliato, in lui? Lei l’aveva saputo dalla prima volta che
l’aveva visto, una consapevolezza che aveva preso forma nel
suo cuore attraverso un brivido sottopelle.
«Hala?».
Sorpresa, esitò prima di girarsi. E lo fu ancora di
più quando vide Abby sorriderle dolcemente, come se non le
avesse appena voltato le spalle, preferendo Merlino a ciò
che di più vicino ad una sorella avesse mai avuto.
«Il dottor Ellis è venuto a trovarmi, poco fa. Mi
ha chiesto di te e se fossi già impegnata».
«L’ho incontrato per le scale», rispose
con la voce rotta dall’emozione. «Che cosa gli hai
detto?».
Abby scrollò le spalle. «Che per quanto ne so, non
ti stai vedendo con nessuno. Però gli ho detto di non essere
sicura e di chiedere direttamente a te, se era davvero
interessato».
Davvero interessato. Quand’era stata l’ultima volta
che qualcuno si era davvero interessato a lei, ai suoi sentimenti? A
parte suo fratello e la signora Chapman, nessuno negli ultimi quattro
anni.
L’ultimo ragazzo che aveva avuto, se così poteva
definirsi, era addirittura stato il ragazzino che a undici anni i suoi
genitori avevano scelto per lei, convinti che iniziare a frequentarsi
da piccoli avrebbe reso più facile lo sbocciare
dell’amore (come se fosse davvero importato loro qualcosa).
La verità era che volevano solo togliersi un peso dalla
coscienza, cercando di rendere meno squallida possibile
l’usanza del matrimonio combinato.
Da quando aveva scoperto il loro subdolo piano – e spezzato
il cuore di Yasir – ogni volta che un ragazzo le si
avvicinava era sempre stata un po’ scettica, sempre alla
ricerca del trucco o dell’inganno. Le risultava difficile
fidarsi e prendere sul serio le attenzioni maschili, visto soprattutto
che in una scala da uno a dieci dava al proprio aspetto fisico un sei
scarso.
Perciò come poteva credere che quell’angelo
mulatto fosse interessato ad una come lei? Era impossibile ai suoi
occhi.
«Allora, l’ha fatto?», le chiese Abby ad
un tono di voce decisamente alto, volto a farla tornare coi piedi per
terra.
«Fatto cosa?», ripeté, sbattendo le
palpebre.
«Ti ha chiesto di uscire?».
Hala annuì e solo allora si rese conto di quanto era stata
fredda e disinteressata nel rispondere a Keith, come se avesse avuto
decine di quelle proposte ogni giorno. La lista delle colpe di Merlino
continuava ad allungarsi.
«E tu che cosa gli hai risposto?».
L’espressione sul viso di Abby era così curiosa ed
eccitata che Hala provò un immenso piacere nel darle le
spalle e rispondere incurante:
«Chissà!».
***
Alex aveva appena aperto la porta di casa a Sebastian – il
tuttofare della cittadina che aveva chiamato per la finestra della sua
camera da letto – quando le era arrivato il primo messaggio
di Keith.
La ragazza che l’aveva cercata più volte
all’ospedale si stava sottoponendo ad alcuni test ed
affermava di aver perso la memoria. Era stato l’agente Fisher
a trovarla e ad ospitarla fino a quando non si era sentita pronta a
farsi visitare, ma era evidente che c’era qualcosa che non
tornava. Pure Keith l’aveva capito e Alex non poteva
più ignorare la presenza di Freya nelle loro vite: che cosa
sarebbe successo se il suo ex non si fosse fermato lì e
avesse iniziato a fare domande? Automaticamente anche il segreto di
Merlino sarebbe stato a rischio e non era disposta ad accettare che
accadesse. Era ora di chiudere quella storia una volta per tutte.
Lasciò le chiavi di casa all’operaio e
tornò in ospedale, dove – non poté
evitarlo – incrociò nuovamente Darrell. Anche quel
ragazzo le dava l’impressione di nascondere qualcosa e
faticava ad inquadrarlo, coi suoi comportamenti istintivi e a volte
imprevedibili.
Camminava avanti e indietro nella sala d’aspetto del Pronto
Soccorso, torturandosi le mani o infilandole tra i folti capelli ricci.
Ovviamente, Freya era riuscita a farsi voler bene. E parecchio, vista
la sua agitazione.
Alex provò a tirare dritto, ma l’agente di polizia
la vide e le corse incontro, il viso prima contratto in
un’espressione di pura preoccupazione e successivamente,
rendendosi conto che non avrebbe dovuto trovarsi lì,
sospettosa.
«Pensavo avessi fatto il turno di notte»,
esordì con la fronte aggrottata.
«Infatti. Ho solo dimenticato una cosa
nell’armadietto. Tu invece perché sei
qui?», gli domandò, nonostante conoscesse
perfettamente la risposta.
«Ho fatto un casino». Sospirò e le diede
le spalle per sedersi su una delle poltroncine.
Alex avrebbe potuto ignorarlo e andarsene, ma fu più forte
di lei: vederlo così abbattuto le dispiaceva e il minimo che
poteva fare era rassicurarlo che aveva visto e fatto lei stessa casini
peggiori.
Se ne sarebbe pentita, lo sapeva; ciò nonostante, si sedette
al suo fianco e gli chiese: «Che cos’è
successo?».
Darrell si appoggiò il mento tra le mani, i gomiti puntati
sulle ginocchia. «Mi sono messo in una situazione spiacevole.
Ho ospitato in casa mia una sconosciuta, potrei anche essere accusato
di aver intralciato la giustizia se per colpa mia si fossero cancellate
delle prove, e poi...».
«Poi cosa?».
«Mi sono fidato di lei, mi sono... affezionato. Non
dovevo».
«E perché no?».
«Perché bisogna pensare con questa»,
rispose battendosi due dita sulla tempia. «E non lasciarsi
governare dal cuore».
Alex sorrise e Darrell ne fu tanto sorpreso quanto infastidito.
«Ho detto qualcosa di divertente?», la
rimbeccò.
«No, mi hai solo ricordato che anche io, per un po’
di tempo, mi costringevo a pensarla così. E alla resa dei
conti non è andata a finire bene».
Darrell non disse niente, si limitò a guardarla
profondamente coi suoi occhi color nocciola, e Alex aggiunse:
«Quelli come noi.. non riescono a non farsi guidare dal
cuore. Possiamo provarci, ma non staremo mai bene con noi stessi,
perché non è nella nostra natura».
«Quindi secondo te dovrei ignorare ciò che mi dice
l’istinto e seguire il cuore?».
«No, aspetta un momento», lo frenò,
portando entrambe le mani avanti. «Stavamo parlando di
ragione, non di istinto; sono due cose diverse».
Il poliziotto si coprì il volto con le mani e
respirò profondamente. «Ho la testa che sta per
scoppiarmi».
Alex si guardò intorno nella sala d’aspetto e
quando realizzò che non c’era nessuna collega che
stesse prestando loro attenzione, gli posò una mano sulla
schiena per accarezzarla.
«Lo so che ci conosciamo a malapena, ma... se vuoi parlarne
con qualcuno, puoi contare su di me».
Specialmente se riguarda Freya e
i suoi piani per il futuro, avrebbe voluto aggiungere.
«Grazie, Alexandra», rispose guardandola negli
occhi.
Alex accennò un sorriso, che si tramutò in una
smorfia di nervosismo quando si rese conto che non riusciva a schiodare
gli occhi dai suoi. Erano così belli... Di
un’innocenza e di una genuinità a cui non era
più abituata, a furia di perdersi in quelli di Merlino, che
da tempo avevano perso la gioia e l’ardore della giovinezza.
Fu lui alla fine a distogliere per primo lo sguardo, puntandolo verso
il banco dell’accettazione.
«Credi che ci metteranno molto?», le
domandò, mordendosi il labbro inferiore.
Alex si alzò frettolosamente e senza nemmeno pensarci
rispose: «Vado a controllare a che punto sono, se
vuoi».
«Lo faresti davvero?».
Annuì, cercando di ignorare la stretta allo stomaco causata
dagli occhi limpidi del biondo.
«Non so davvero come...», iniziò a
ringraziarla, ma l’infermiera lo interruppe bruscamente,
già girata di tre quarti: «Non devi. Faccio in un
lampo».
Veloce proprio come un fulmine, uscì dalla sala
d’aspetto e chiese ad una collega dove potesse trovare Freya.
Le indicarono uno dei lettini nell’area riservata ai pazienti
da visitare o con ferite lievi. Erano tirate solo le tende laterali,
quelle che dividevano un letto dall’altro, perciò
fu facile individuarla.
«Non ti aspettavo così presto»,
esordì la custode.
Alex la ignorò e con fare circospetto tirò anche
l’ultima tenda, in modo da avere un po’ di privacy.
«Avresti dovuto prestare più attenzione, quando
sei venuta qui a cercarmi».
La studiò da lontano per qualche istante, prima di
avvicinarsi e posare entrambe le mani sulla sbarra di ferro ai piedi
del letto.
«Un mio collega ti ha riconosciuta e mi ha avvisata che eri
qui. Che intenzioni hai?».
«Ho solo mantenuto la parola data», rispose Freya,
per poi aggiungere sottovoce e a capo chino: «Al contrario di
qualcun altro».
«Ti riferisci a Darrell? È qui fuori ed
è a pezzi, per colpa tua», indicò oltre
le tende, rabbiosa. «Cosa gli hai fatto?».
«Proprio niente. Forse si è solo pentito di avermi
aiutata».
«Non lo so. Ma di una cosa sono certa: tu non passerai come
vittima della situazione, è chiaro? È colpa tua
se Darrell sta male, se Artù e Merlino hanno dovuto patire
una vita di sofferenze e io...».
«Lo capisco, sei arrabbiata e hai bisogno di un capro
espiatorio», esclamò interrompendola.
«Sono d’accordo con te».
«Sei d’accordo? Ah, questo è il
colmo!», sbuffò trattenendo a stento una risata
amara. Si voltò e con una mano sulla tenda, pronta a
scostarla bruscamente, concluse: «Mi chiedo che cosa speravo
di ottenere venendo qui».
«Io credo che tu lo sappia fin troppo bene, invece. Volevi
conoscere il tuo destino, non è così?».
Alex si pietrificò sul posto, come se una forza invisibile
avesse appena inchiodato le suole delle sue scarpe al pavimento.
Riuscì però ad affermare a denti stretti:
«Io non credo nel destino».
«Oh, sì, ho saputo della tua promessa…
La Dea non ha preso bene la tua dichiarazione di guerra».
Alex si ritrovò all'improvviso con lo stomaco annodato e
prima che potesse chiederle che cosa volesse dire, oppure chi fosse la
Dea di cui parlava, Freya disse con solennità:
«È scritto che tu riporterai la magia nel mondo. E
nessun uomo, o sarebbe meglio dire
donna
in questo caso… Nessuna donna, non importa quanto grande
ella sia, è in grado di contrastare il proprio
destino».
«Proporrei una scommessa, ma so che non possiedi
niente…», provò a sdrammatizzare, ma la
custode le rivolse un’occhiata gelida.
«E tu possiedi fin troppo, Alexandra. Un padre che ti vuole
bene», iniziò ad elencare sulla punta delle dita.
«Il tuo antenato più famoso, un lavoro
gratificante, degli amici, l’amore di Merlino e…
oh», ridacchiò, indicando il bracciale che portava
al polso, e concluse: «Dei poteri di cui hai
paura».
L’infermiera abbassò gli occhi sul bracciale di
Morgana, stretto intorno al suo polso destro, e serrò la
mascella. «È vero, ne ho paura»,
confessò, ma a testa alta. «Però sono
stata io a tirarti fuori dal lago e sono certa che in un modo o
nell’altro riuscirei a ributtartici se lo volessi».
Freya aprì la bocca per ribattere, arcigna in volto, ma un
infermiere tirò la tenda alle spalle di Alex e glielo
impedì.
«È arrivato il tuo turno per la TAC! Ehi,
Alex… Pensavo fossi andata a casa»,
esclamò il collega, corrugando la fronte.
«Sì, è vero, ma ho dimenticato una cosa
nell’armadietto», Alex ripeté la scusa
che aveva già usato con Darrell. Poi, sorridendo, aggiunse:
«Questa ragazza mi ha visto passare e mi ha scambiato per una
persona che conosceva. È un buon segno, no? Ho letto sulla
sua cartella che ha perso la memoria».
«Sì, lo farò sapere al suo
dottore», esclamò l’infermiere.
«Grazie, Alex».
«Ma figurati. Ti do’ una mano?».
Senza aspettare la sua risposta, raggiunse la parte sinistra del
lettino e disabilitò il freno delle ruote, in modo che
potesse essere trasportato ovunque si volesse all’interno
della struttura.
«Ci si vede», la salutò il collega.
Prima che voltassero l’angolo, Alex e Freya si scambiarono
un’occhiata carica di tensione: anche loro si sarebbero
riviste presto, poco ma sicuro.
La bionda si diresse a passo spedito verso gli spogliatoi, stringendo
forte il bracciale con una mano e ripensando alle parole della custode
della magia, e anziché entrare in quello delle donne si
intrufolò in quello degli uomini. Aprì
l’armadietto di Merlino e recuperò la prima cosa
che vi trovò all’interno: un foulard rosso che il
mago non portava da tanto, troppo tempo. Se lo legò intorno
al collo e vi immerse il naso per respirare il suo profumo, come sempre
in grado di calmarla.
Quando uscì, fu costretta a passare di fronte alla sala
d’aspetto e a mantenere la parola data a Darrell, il quale
aspettava fremente che ritornasse con delle notizie su Freya.
«Allora?», le domandò non appena
l’ebbe raggiunta.
«Sta bene, la stanno portando ora a fare la TAC».
«Puoi dirmi dov’è che la fanno? Devo
assolutamente parlarle, farle sapere che sarò lì
fuori ad aspettarla».
Alex sospirò ed indicò l’ascensore:
«Primo piano, sulla destra. Non so farai in tempo
però…».
«Grazie, grazie davvero», esclamò
posandole una mano sul braccio.
Lei sobbalzò a quel contatto, ma il poliziotto non se ne
accorse e corse verso le scale senza voltarsi più indietro.
Uscendo dall’ospedale, Alex scosse il capo, fermamente
convinta che fosse tutto dovuto allo stress e alla stanchezza. Il suo
cuore apparteneva a Merlino, l’uomo che doveva sposare, e a
nessun altro.
Si portò nuovamente il fazzoletto rosso al naso, inspirando
avidamente, ma quella volta il profumo dello stregone non
bastò.
***
«Ho finito con le camere», esclamò
Merlino saltando l’ultimo gradino della scalinata. Quindi si
appoggiò al bancone della reception, dietro cui
c’era Rebecca intenta a controllare gli arrivi di quella
sera, e passandosi il dorso della mano sulla fronte sudata le chiese:
«Sai dov’è tua madre?».
«Credo all’orto. Ma Edwin mi ha chiesto di mandarti
da lui, non appena avessi finito».
«Okay, alle stalle?».
La mora annuì e Merlino non attese oltre. Uscì
dalla porta sul retro e pescò i suoi stivali da lavoro dalla
scarpiera comune, poi si diresse verso lo stabile. Passando vide
Artù circondato da una ventina di bambini delle scuole
elementari, tutti impazienti di poter accarezzare una pecora sul muso,
e sorrise abbassando il capo. Sarebbe stato un ottimo padre se ne
avesse avuta l’opportunità, ne era certo.
Quando raggiunse le stalle, picchiò le nocche sullo stipite
dell’ingresso e si sporse all’interno.
«Signor Greenwood, aveva bisogno di me?».
Il padre di Alex scosse il capo, arrendevole, all’ennesimo
tentativo fallito di spazzolare la criniera del cavallo dal manto nero,
il più irrequieto tra tutti.
«Merlino, sì, devo parlarti. Siediti».
Lo stregone avanzò a passo insicuro, chiedendosi che cosa
mai dovesse dirgli. A dire la verità era lui a dover dire
qualcosa al padre di Alex, qualcosa che continuava a rimandare per
paura della sua reazione. Che l’infermiera
gliel’avesse già detto e si fosse dimenticata di
avvisarlo?
Si schiarì la gola e si sedette rigidamente sullo sgabello
che Edwin gli aveva indicato. Poi, senza riuscire più ad
aspettare, esclamò: «Mi dispiace, avrei voluto
dirglielo prima, ma non era mai il momento adatto
e…».
Il signor Greenwood lo fissò con entrambe le sopracciglia
inarcate. «Dirmi che cosa?».
«Quello di cui… di cui deve parlarmi»,
ripeté evasivo Merlino, guardandolo con la sua stessa
confusione dipinta sul viso.
«Io volevo solo chiederti di anticipare ad Alexandra che non
ho altre alternative che vendere questo cavallo: è troppo
irrequieto e al momento è un costo che non possiamo
permetterci. So che si è affezionata e che tu riesci a farla
ragionare più di chiunque altro,
perciò…», diede una pacca al fianco del
cavallo, il quale parve sbuffare irritato, e poi afferrò un
altro sgabello per sedersi proprio di fronte al mago, la fronte solcata
di rughe d’espressione e gli occhi ben piantati nei suoi.
«Tu, invece, che cosa devi dirmi?».
«Io…». Merlino si passò una
mano sul collo, nervosamente, ed abbassò gli occhi. Dopo un
respiro profondo, confessò: «Ho chiesto ad Alex di
sposarmi».
Si sforzò di sollevare il capo quel tanto che bastava per
scorgere l’espressione sul volto dell’uomo.
Rendendosi conto che l’aveva scioccato tanto da lasciarlo a
bocca aperta, si affrettò a scusarsi: «Lo so che
avrei dovuto prima chiedere la sua benedizione, ma mi è
venuto così, è stata una decisione
spontanea… Non sto dicendo che non lo rifarei ancora e
ancora, amo sua figlia più della mia stessa vita,
però ha ragione ad essere arrabbiato, se lo
è… Lo è?».
Edwin gli posò una mano sulla spalla e alla fine
abbozzò un sorriso, sussurrando: «È
successo a Londra, non è così?».
Merlino annuì con un cenno del capo e aprì la
bocca per chiedere come facesse a saperlo, ma il signor Greenwood non
gliene diede il tempo e rispose direttamente: «Da quando
siete tornati da quel viaggio l’ho vista diversa,
cambiata… Ho solo unito i puntini».
«E lei è… insomma, è
d’accordo?», gli domandò, col cuore che
gli batteva forte nel petto e un velo di sudore sulla schiena.
«Io voglio solo che la mia bambina sia felice. Quindi
ricordati che se le farai del male…». Si
alzò ed afferrò il rastrello che aveva lasciato
appoggiato contro la parete. Lo sollevò un poco e concluse:
«Ti scuoierò vivo con questo».
«Oh. Okay, lo terrò a mente»,
mormorò, deglutendo rumorosamente.
Edwin rise e gli offrì una mano perché si
alzasse, esclamando: «Avanti, vieni qui imbranato che non sei
altro». E lo attirò in un abbraccio inaspettato,
dandogli diverse pacche sulla schiena.
Merlino ne fu così piacevolmente sorpreso che non
riuscì a spiccicare parola: sperava che il suo sorriso a
trentadue denti parlasse per lui.
Poi Edwin gli avvolse un braccio intorno alle spalle e accompagnandolo
fuori dalle stalle notò: «Però non
l’ho vista portare anelli nuovi».
Lo stregone si passò nuovamente una mano tra i capelli umidi
a contatto con la pelle sudata del collo. «Le ho detto che
non avevo programmato nulla quando le ho fatto la proposta…
E ultimamente non ho avuto tempo per andare a cercare
l’anello giusto, sono mortificato».
«Sai, forse a questo proposito potrei aiutarti io».
«Davvero? Gliene sarei eternamente grato»,
balbettò, rosso come un peperone per l’imbarazzo,
ed Edwin gli diede l’ennesima pacca sulla schiena.
«Vieni con me, coraggio».
Una volta all’esterno, Merlino pensò di aver
sentito il suo nome e si gettò un’occhiata alle
spalle, dove vide Artù con le mani sui fianchi e un enorme
punto interrogativo sul volto. Gli fece segno di aspettare e poi
seguì il padre di Alex verso la sua piccola magione.
***
Era stato strano parlare in quel modo con Alexandra, soprattutto dopo i
sospetti che gli erano sorti sull’effrazione a casa sua. Si
era sentito legato a lei, quasi connesso, ed era stato facile sfogarsi.
Fin troppo.
Quel pensiero lo fece esitare una volta arrivato nel corridoio del
primo piano, ma non abbastanza da non raggiungere
l’infermiere che stava portando Freya a fare la TAC.
«Ehi, aspettate!».
Il ragazzo si voltò e roteò gli occhi al cielo,
esclamando con voce un po’ effemminata: «Non
c’è bisogno di fare tutte queste scene, non sta
andando a fare un’operazione!».
«Lo so, ma ho bisogno di parlarle. Solo due minuti».
«E va bene!», sbuffò e li
lasciò soli.
Darrell si portò alla sinistra di Freya e con timore quasi
riverenziale le accarezzò una ciocca di capelli corvini che
le sfiorava la guancia.
«Risparmiati le scuse, non servono»,
esclamò freddamente la ragazza, rivolgendo altrove
l’attenzione dei propri occhi lucidi.
«Invece sì. Mi dispiace di non aver mantenuto la
promessa, sono stato un vero stupido. E anche dubitare di te
è stato –».
«Dubitare di me?», lo interruppe, scostandosi dalla
carezza della sua mano. Poi abbozzò un sorriso venato
d’amarezza, esclamando: «Ora capisco
perché eri così distante, a volte. E ti
do’ ragione, Darrell».
«Cosa? No, no, non sono io quello da compatire, ma tu: tu hai
perso la memoria, tu...».
Freya si sollevò sul lettino e gli posò un dito
sulle labbra per azzittirlo. Sorridendo con dolcezza, aggiunse:
«Questa situazione non poteva andare avanti
all’infinito, lo sai. Forse è giunto il momento
che ognuno vada per la propria strada».
«Non dire sciocchezze, Freya», esclamò
con determinazione l’agente, afferrandole delicatamente il
polso. «Tu non andrai da nessuna parte, non prima
di...».
«È meglio per entrambi», lo
sovrastò con la voce ancora una volta, gli occhi fissi nei
suoi. «Devi fidarti di me».
L’infermiere ritornò dal proprio giro con le mani
nelle tasche e quando li raggiunse canticchiò: «Vi
siete detti addio, che vi amerete per sempre qualunque cosa accada e
blablabla?».
«Sì, possiamo andare», rispose Freya,
senza schiodare lo sguardo da quello di Darrell, con la bocca ancora
aperta, sul punto di dire un qualcosa che non le avrebbe mai confessato.
Ma forse lei lo lesse nei suoi occhi, perché
abbozzò un sorriso e gli baciò il dorso della
mano, mimando un «Grazie» con le labbra, prima che
l’infermiere riprendesse a spingere il suo lettino lungo il
corridoio, allontanandola da lui.
Darrell inghiottì faticosamente le parole che – al
diavolo la razionalità – gli erano salite
direttamente dal cuore fino alle corde vocali. Quindi si convinse che
avrebbe fatto un errore lasciandosi andare in quel modo, che non
avrebbe portato a nulla di buono e che su questo, poco ma sicuro,
Alexandra aveva torto.
***
Lo scoppiettio del
fuoco, il frinire dei grilli nei campi e delle risate che era certa di
conoscere.
Si concentrò
e oltre ai suoni riuscì finalmente a scorgere delle
immagini, prima sfocate e poi sempre più nitide: le fronde
degli alberi mosse dalla brezza serale, le fiamme ardenti al centro di
un cerchio di pietre, i tronchi su cui Cathleen, Artù, Abby,
Mark, Merlino e lei stessa erano seduti, felici e spensierati. Tenevano
tra le mani dei bastoncini su cui avevano infilzato dei marshmallows e
quello di Mark, troppo vicino alle lingue di fuoco, andò in
fiamme. Ecco il perché delle risate.
Ad un tratto gli uomini
si alzarono per andare a recuperare altre coperte e lei, Cathleen e
Abby rimasero sole. Si scambiarono uno sguardo e poi il paramedico si
sedette a terra, con la schiena contro il tronco e le mani unite dietro
la nuca, gli occhi rivolti verso il cielo stellato sopra le loro teste.
«Non avrei mai
immaginato di poter provare ancora tutto questo».
«Già…
Ci voleva, dopo quello che è successo»,
mormorò Alex, gettando un’occhiata verso Abby, la
quale si sporse verso di lei per stringerle una mano tra le sue.
«Hai fatto
anche troppo per me, non mi sdebiterò mai».
«Ehi, non
è ancora detta l’ultima parola»,
ricordò Cathleen con gli occhi fiammeggianti, e non
perché vi erano riflesse le lingue di fuoco del
falò.
Alex annuì,
rianimata dalle parole dell’amica. «No, infatti.
Insieme ce la faremo, ne sono sicura», affermò
stringendo la ragazzina in un abbraccio delicato.
Abigail
ridacchiò. «Noi tre, eh?».
«Proprio
così, noi tre», ripeté con convinzione
il paramedico. Sollevandosi, arricciò il naso e le
lanciò un’occhiata circospetta, nonostante il
sorrisino che le sollevava un angolo della bocca: «Non credi
che potremmo fare grandi cose insieme? Potremmo salvare il mondo, se
solo lo volessimo!».
«Non
saprei», ammise Abby, stringendosi nelle spalle.
«Non riesco a prendermi cura di me, come potrei fare qualcosa
di buono per gli altri?».
Cathleen, piena di
disappunto, si alzò per andare a sedersi alla sinistra di
Abby. Puntandole un dito su un braccio, esclamò:
«Se dovessi descriverti con una sola parola, sarebbe
“coraggio”. Tu sei la persona più
coraggiosa che abbia mai conosciuto, non solo perché non ti
sei mai arresa alla malattia ma perché sei in grado di dare
speranza a chiunque ti stia vicino, indipendentemente dalla sua
condizione. Non ho ragione, Alex?».
«Non avrei
saputo dire di meglio», rispose l’infermiera,
sorridente.
«E tu, invece?
Se dovessi descriverti con una sola parola, quale sarebbe?»,
le domandò la ragazzina.
Cathleen
scrollò le spalle. «Io non ho alcun talento
particolare».
«Ah
no?», intervenne Alex, con entrambe le sopracciglia inarcate.
«Tu non te ne rendi conto Cath, ma hai una forza incredibile;
Artù me l’ha detto più volte.
Nonostante tutto quello che hai passato, nonostante tu ti sia trovata
sul fondo di un baratro, non ti sei mai data per vinta e sei riuscita
ad uscirne. Hai lottato per stare a galla e guardati ora…
sei di nuovo felice».
«Non ci sarei
mai riuscita senza di voi», provò a sminuirsi
Cathleen, ma Alex le tirò un pugnetto su un ginocchio,
mordendosi un sorriso.
«Invece
sì, perché hai un fuoco al posto del cuore.
Magari ci avresti messo più tempo, ma ce l’avresti
fatta alla fine».
Cathleen strinse il naso
e poi si soffermò a fissarla, proprio come Abby, la quale
disse: «Manchi solo tu ora. Io so qual è la parola
che ti descrive».
«Anche
io», si aggiunse il paramedico.
«E quale
sarebbe?», domandò allora Alex, incuriosita.
«Magia»,
esclamarono in perfetta sincronia le due, per poi battersi il cinque.
Offesa, Alex mise il
broncio e si strinse le braccia al petto, ribattendo: «Ah,
quindi io sarei la ragazza coi poteri magici? Senza non sarei niente,
uh?».
«È
proprio il contrario!», disse Abby, ricambiando con
più forza il suo abbraccio. «Tu sei sempre stata
magica, anche quando non sapevi di esserlo. Non sei perfetta, ma sei la
persona migliore che conosco».
«Concordo»,
le diede man forte Cathleen, unendosi all’abbraccio.
«Farò
finta di credervi», sussurrò Alex, fingendo ancora
di essersela presa, nonostante delle lacrime di commozione le
appannassero gli occhi.
«Ci fai vedere
qualcosa?», le domandò ad un tratto la ragazzina,
eccitata come una bambina a Natale.
«Merlino non
vuole che usi la magia se non è strettamente
necessario», disse guardandosi le spalle, verso
l’agriturismo, da dove i ragazzi sarebbero tornati a momenti.
«Ma Merlino
ora non c’è, giusto?», la
stuzzicò anche Cathleen, facendole l’occhiolino.
«Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i
frutti del tuo allenamento».
Ed era vero. Alex si
accertò che Merlino non fosse ancora uscito dalla cascina e
sospirò, sussurrando: «Okay, mi hai
convinta».
Cathleen e Abby le
lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro
profondo, prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli
occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
Quando le sue iridi
divennero dorate, le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il
falò e diedero vita ad un drago, il quale sbatté
le ali un paio di volte prima di scomparire così
com’era venuto, disperdendosi nell’aria.
«Non ci
credo!», gridò Cathleen, per poi coprirsi la bocca
al cenno di Abby: i ragazzi stavano tornando.
Alex trattenne a stento
una risata vedendo l'amica così eccitata, ma ogni traccia di
ilarità scomparve dal suo viso quando scorse una donna
osservarla oltre le fiamme del falò, al delimitare del
bosco.
Era interamente avvolta
da un pesante mantello di velluto verde e tutto ciò che
riusciva a scorgere del suo viso, nascosto dal cappuccio, erano le
guance incavate e le labbra stese in un sorriso enigmatico.
Alex si alzò
in piedi, con una mano sull'impugnatura del pugnale che teneva al
fianco, ma non appena fece un passo verso di lei Merlino
l'afferrò per un braccio e la travolse in un casquet grazie
a cui le strappò un bacio. Una volta tornata con entrambi i
piedi per terra, la donna era stata inghiottita dal buio penetrante del
bosco.
Aprì gli occhi di scatto e si tirò a sedere,
respirando affannosamente.
Quindi guardò il braccialetto di Morgana, abbandonato sul
comodino prima che si coricasse, e si sporse per poterselo infilare di
nuovo al polso. Lei e il suo stupido orgoglio: aveva permesso a Freya
di insinuare il dubbio nella sua mente e ora non sapeva che cosa
pensare di quel sogno. Innanzitutto, era davvero un sogno? Oppure si
trattava di una visione? Comunque non c’era modo che potesse
scoprirlo prima del tempo e questo la faceva impazzire.
***
«Ehi, ti ho cercata dappertutto!».
Abby alzò a malapena il viso dal diario di Louise, ormai
alle ultime pagine.
«Cosa stai leggendo?».
«Mm-mm».
Mark sospirò e le prese il mento tra le dita per far
incrociare i loro sguardi e poi le loro labbra. La baciò
così dolcemente che Abigail, nonostante una prima
resistenza, fu costretta a cedere e a ricambiare, portandogli una mano
sul collo.
«Guarda che cosa devo fare per avere la tua
attenzione», mormorò il ragazzino quando si
scostò, la fronte ancora appoggiata alla sua.
«Dovresti farlo un po’ più
spesso», rispose Abby, rossa sulle guance.
Mark abbassò gli occhi, sorridendo, e poi le prese il diario
dalle mani, sfogliandolo velocemente. «Che
cos’è?».
«Dài, lascialo! È importante,
Mark!», urlò Abby, sporgendosi su di lui per
raggiungere con la punta delle dita il diario dalla copertina in pelle.
«Perché è importante?
Dimmelo».
«Non posso! Non è mio!».
«E allora di chi è?».
«Di mia madre!».
A quelle parole Mark si adombrò all’istante e
Abby, sollevandosi sulla propria sedia a rotelle, riuscì a
strappargli l’antico diario dalle mani. Sapeva di aver
giocato sporco – la carta dei genitori morti non la usava mai
– ma non poteva rischiare che il ragazzo che amava scoprisse
ciò che Merlino aveva nascosto per anni. O meglio dire
secoli.
«Mi dispiace, io… non lo sapevo».
Abby gli strinse la mano tanto forte quanto i sensi di colpa le stavano
stringendo il cuore. «Non fa niente»,
mormorò, prima di posargli un leggero bacio sulla guancia.
«Che ore sono?», gli chiese poi. «Stando
qui, ho perso la cognizione del tempo».
Mark guardò l’orologio che portava al polso.
«Quasi le quattro».
«Uhm, un po’ presto per la merenda ma…
andresti a prendermi qualcosa?».
«Sicuro. Mi aspetti qui?».
Abby annuì e si lasciò baciare ancora, poi lo
guardò sparire dietro l’angolo.
Sospirando, infilò il diario nella sacca che portava appesa
allo schienale della sedia a rotelle; poi fece il giro del porticato
vicino alla cappella e si portò sotto alla targa
commemorativa su cui erano segnati i nomi di tutti i medici, le
infermiere e i pazienti, la maggior parte soldati, che erano morti
durante il bombardamento che aveva raso al suolo l’ospedale
numero uno. Quasi a livello del pavimento era stato scritto in corsivo
che la costruzione del secondo ospedale era in loro memoria, un
ringraziamento per il sacrificio che avevano compiuto nel tentativo di
proteggere ciò che c’era di più
importante al mondo: la vita.
Il nome della sua bisnonna non c’era e Abby sapeva
perché si era salvata. Sapeva come quell’evento
tragico l’avesse portata a conoscere l’uomo che poi
avrebbe sposato e da cui avrebbe avuto due figli, Henry e Daisy, sua
nonna. Sapeva persino perché Louise aveva deciso di chiamare
la sua secondogenita come quel fiore di campo così comune,
il
vero
motivo. Ma c’erano ancora tante cose che non sapeva, cose che
Louise aveva preferito custodire nel suo cuore, cose che lei a quel
punto non poteva ignorare. E c’era una sola persona che
avrebbe potuto illuminare i punti che le erano ancora oscuri di quella
storia d’amore tormentata e antica di diversi decenni:
Merlino.
***
Stava pensando così intensamente al sogno che aveva fatto,
per salvarsi dal tormento che gli occhi di Darrell le stavano causando,
che non sentì la voce di Artù chiamarla e nemmeno
i suoi passi dietro di lei. Si accorse della sua presenza solo quando
l’afferrò per una spalla: Alex si voltò
di scatto, in posizione difensiva, e oltre alla temporanea perdita
della vista sentì una fitta allo sterno.
«Alex, stai bene?», le chiese Artù,
apprensivo solo come lui sapeva esserlo, afferrandola per entrambe le
braccia per sostenerla.
L’infermiera si appoggiò allo steccato e dopo un
paio di respiri profondi tutto tornò alla
normalità, se così poteva definirsi.
Ciò che rimase di quella brutta esperienza furono solo la
paura, perché senza il bracciale di Morgana avrebbe lanciato
sicuramente – anche se involontariamente – un
incantesimo contro Artù, rischiando di ferirlo; e la
frustrazione, dato che le parole di Freya si rivelavano sempre
più veritiere e le bruciavano ancora come braci ardenti
sotto i piedi.
«Alexandra?», la chiamò nuovamente
Artù.
«Sì, sto bene, tranquillo».
Ben lungi da raggiungere quello stato, il solo ed unico re fece per
aprire la bocca e ribattere, ma Alex lo interruppe sul nascere
chiedendogli se avesse visto Merlino.
«Sì, non più di un quarto
d’ora fa era con tuo padre. Sembravano diretti verso casa
sua».
«Uhm, strano», commentò e
Artù annuì, affermando che era stato anche il suo
primo pensiero.
«Beh, ci vediamo più tardi», lo
liquidò poi, in fretta e furia, per dirigersi verso la
piccola dependance di suo padre, sul retro dell’agriturismo.
Lo sentì borbottare alle sue spalle, ma Alex non se ne
curò.
Non arrivò mai a bussare alla porta, dato che passando di
fronte alle stalle scorse due gambette secche sparire nella botola del
sottotetto, dove erano conservati il fieno e il cibo concentrato per i
cavalli.
Alex corse all’interno e salì velocemente i pioli
della scala fino a vedere Merlino chino su un sacchetto di fieno.
Sentì il cuore mancare un battito nel petto e si chiese cosa
mai avesse sentito per Darrell, uno sconosciuto che non le stava
nemmeno simpatico. Sì, ciò che aveva creduto di
vedere nei suoi occhi l’aveva affascinata, ma quello non era
niente in confronto a ciò che provava quando vedeva lo
stregone o stava tra le sue braccia. Quello per Merlino era amore, puro
ed inossidabile; Darrell poteva essere chiamato appena
un’attrazione fisica del momento. Allora perché si
sentiva così in colpa nei confronti del mago?
Si chiuse la botola alle spalle e Merlino trasalì a causa
del tonfo, ma si ritrovò ben presto a sorridere.
«Ehi, sei arrivata. Hai dormito?».
Alex non rispose, si limitò ad avvicinarsi a lui,
sbottonandosi la camicia, sotto cui portava solo un reggiseno a
balconcino. Quindi gli diede una spinta, tanto forte da fargli perdere
l’equilibrio, e una volta steso su diversi sacchi di fieno si
sistemò a cavalcioni su di lui, avventandosi famelica sulla
sua bocca.
Il mago, preso del tutto allo sprovvista, ci mise qualche secondo a
capire le sue intenzioni – gli furono del tutto chiare quando
iniziò ad armeggiare con la sua cintura – e fu
completamente inutile provare ad opporsi: nemmeno la paura di essere
colti in flagrante da suo padre la spaventava.
Alex si staccò solo per sciogliersi i capelli e liberarsi
dei jeans, ordinando: «Prendimi e basta, Merlino».
Però alla fine fu lei a prendere lui, tirandolo su seduto
con una mano tra i suoi capelli e facendo l’amore come non
aveva mai fatto prima: del tutto priva di dolcezza, quasi
rabbiosamente. Merlino non poteva saperlo, ma Alex ne ebbe abbastanza
solo quando gli occhi e le mani di Darrell non furono sostituiti da
quelli del mago, così come doveva essere.
***
«Ho voglia di una sigaretta», esclamò
qualche secondo dopo essersi sdraiata al suo fianco sul cumulo di
fieno. «Ne hai?».
Merlino ebbe solo la forza di scuotere il capo, ancora col fiato grosso
e i muscoli contratti. Sentì lo sguardo di Alex indugiare
sul profilo del suo volto accaldato, ma non lo ricambiò: era
troppo imbarazzante, oltre che frustrante.
«Mi dispiace», gli disse poco dopo, posando la
testa sul suo torace che sembrava sul punto di esplodere: il cuore gli
batteva così forte che già immaginava quando
l’avrebbe visto aprirsi un buco nel suo petto e volare via
roteando come un mini-elicottero.
«A volte mi dimentico della tua vera
età», concluse Alex, sospirando.
E quel sospiro fu ciò che più gli fece male: si
sentiva in colpa per essersene dimenticata oppure era semplicemente
triste che l’uomo che aveva accettato di sposare fosse in
realtà un vecchio decrepito incapace di soddisfare ogni suo
bisogno? In ogni caso, Merlino aveva predetto che prima o poi sarebbe
successo – e senza l’uso della Vista – e
la cosa insopportabile era che la parte peggiore di lui avrebbe voluto
canzonarla con un “Te l’avevo detto”.
«Questa mattina, al telefono, hai accennato al fatto che
avevi qualcosa da dirmi. Di che si tratta?», le
domandò allora il mago, ben deciso a cambiare argomento.
«Oh, sì». L’infermiera si mise
sul fianco, con una mano a tenerle la testa e il gomito puntato nel
sacco di fieno. «Ho una notizia buona e una cattiva. Quale
vuoi sentire prima?».
«La buona».
Il volto di Alex si illuminò di gioia, mentre urlava:
«Torno a lavorare in oncologia!».
«Ma è fantastico!». Anche Merlino non
poté rimanere impassibile alla notizia e preso
dall’entusiasmo si sporse per baciarla. Solo dopo gli
tornò alla mente che c’era anche una cattiva
notizia. Scostandosi un poco dal suo viso, le chiese:
«È tanto cattiva?».
Gli occhi verdi dell’infermiera si adombrarono e senza
prepararlo in alcun modo disse: «Gli esiti degli esami di
Abby hanno evidenziato una recidiva. L’unica sua speranza ora
è trovare in tempo un donatore compatibile e sarà
difficilissimo, visto che ha perso i genitori, non ha mai avuto
fratelli e sua nonna è troppo anziana anche solo per
provarci».
Merlino rimase in silenzio, senza sapere cosa dire, e lasciò
che Alex semplicemente si accucciasse nuovamente sul suo petto, la
testa proprio sotto il suo mento e i capelli che gli solleticavano lo
stomaco.
Mai prima di allora aveva immaginato ad un mondo senza Abigail Reed: la
sua voglia di vivere e il suo animo coraggioso non lo avevano mai fatto
dubitare del fatto che prima o poi avrebbe sconfitto la malattia e
avrebbe vissuto ancora molti anni felici.
Ricordava ancora la prima volta che l’aveva vista e quanto lo
avesse profondamente colpito.
Gli bastò
varcare la soglia del Pronto Soccorso per rendersi conto del trambusto
nei pressi del bancone dell’accettazione. Subito
immaginò che qualcuno si fosse sentito male e che i curiosi
in sala d’aspetto fossero accorsi per vedere un po’
d’azione, ma tutto ciò che vide fu
un’elegante signora dai capelli bianchi circondata dalla
maggior parte delle infermiere di turno e da alcuni pazienti, tra cui
alcuni anche in vestaglia e con i trespoli della flebo appresso.
Impiegò
qualche secondo di troppo a riconoscerla, forse perché era
l'ultima persona che si sarebbe immaginato di incrociare di nuovo, ma
il suo cuore reagì pompandogli sangue infuocato nelle vene.
Per lui si trattava di
una donna che non meritava un briciolo della sua attenzione, ma per la
folla che la circondava era una specie di celebrità: Daisy
Chapman, autrice di romanzi rosa di successo. Il suo nome doveva aver
fatto il giro di tutto il Pronto Soccorso, attirando fans desiderosi di
accaparrarsi un autografo personalizzato.
La sua
notorietà era passata decisamente in primo piano, tanto che
nessuno si era chiesto perché si trovasse
all’interno di un Pronto Soccorso di un paesino dimenticato
da Dio. Stava male? Si era fermata a chiedere dove fosse
l’autofficina più vicina? A quanto pare Merlino
era l’unico a porsi quelle domande, ma non se ne
curò: se lei per prima preferiva firmare autografi piuttosto
che spiegare la sua presenza, meglio così; voleva dire che
non si trattava di un’emergenza.
Prese
l’ascensore e salì fino al quarto piano, dove si
trovava il reparto oncologico. Sapeva che Alex era di turno quel
pomeriggio e sperava tanto di incontrarla, di incrociare i suoi occhi
verdi mozzafiato anche solo per un istante. Era tutto ciò
che poteva sperare, specialmente ora che la sua storia con Keith
iniziava a sembrare seria.
«Te lo ripeto
ancora una volta, ragazzina: devi essere accompagnata da un adulto per
richiedere degli esami».
Merlino, attirato da
quella voce, fece una deviazione e passò per la sala
d’aspetto, dove trovò proprio Alex e una ragazzina
dal corpo esile e la pelle diafana, il volto incorniciato da una
cascata di capelli castani, dritti come spaghetti, e in cui erano
incastonati due occhi neri e lucenti come onici.
Il cuore di Merlino
saltò un battito, guardandola. Le somigliava così
tanto…
«E io le
ripeto che mia nonna, la mia tutrice legale, è al Pronto
Soccorso che firma autografi. Il suo nome è Daisy Chapman,
è una scrittrice piuttosto famosa».
«Mai sentita
nominare. Comunque, se è davvero come dici, devi chiederle
di salire e firmare alcuni moduli», continuò
imperterrita Alex e, accorgendosi della sua presenza, gli
lanciò un’occhiata con cui implorava aiuto.
«In effetti al
Pronto Soccorso c’è una specie di signing
session», si intromise il mago, attirando
l’attenzione della ragazzina. Ora che la vedeva meglio in
volto, gli risultò ancora più bella: doveva avere
dodici, al massimo tredici anni, eppure i suoi occhi erano
intelligenti, venati di tristezza ma anche pieni di vita e consapevoli
del grande dono che possedevano. Proprio come quelli della sua bisnonna.
«Sembra che ne
avrà per un bel po’», concluse,
ricambiando il grande sorriso che gli aveva rivolto.
Alex sbuffò
sonoramente e sorpassò entrambi, diretta verso il bancone
d’accettazione del piano. «Non ti ci mettere pure
tu, Merlino!», lo rimproverò. «Non posso
far eseguire degli esami ad un minore senza il consenso di un genitore
o di un tutore, lo sai!».
«Ci sono
volute settimane, prima che mia nonna accettasse di portarmi
qui», esclamò la ragazzina, correndole dietro, a
sua volta seguita da Merlino. «Lei non crede che io stia
male. Pensa che mi inventi tutto per farle trascorrere più
tempo con me, ma le assicuro che non mi sto inventando niente,
infermiera Greenwood!».
Alex si fermò
e si voltò per chiederle qualcosa, poi abbassò
gli occhi sul proprio badge, appeso alla tasca dell’uniforme,
e riprese a camminare fino a raggiungere il retro del bancone.
«Ho segnato
qui tutti i miei sintomi», riprese la ragazzina, tenace come
poche, picchiettando un dito sulla copertina di un piccolo diario
scolastico. «E mi sono anche documentata».
«Non si
possono fare le diagnosi su Internet, quand’è che
la gente capirà?», chiese Alex, più a
se stessa che ad altri, guardando però negli occhi lo
stregone, il cui cuore mancò un battito.
«Io penso di
avere una malattia al sangue».
A quelle parole, dette
con tono grave e una calma del tutto innaturale, sia Alex che Merlino
si irrigidirono. L’infermiera porse velocemente una mano e la
ragazzina le consegnò il diario. Dopo una veloce sfogliata,
Alex sollevò il capo e gli disse: «Porta su sua
nonna, dobbiamo farle fare subito gli esami».
La ragazzina sorrise
soddisfatta, dimentica per un attimo della gravità della
situazione, e guardò Merlino contrarre il volto in
un'espressione stizzita. Poi, dopo aver ricambiato a lungo il suo
sguardo profondo, i suoi lineamenti si rilassarono tanto da permettere
ad un sorriso di sbocciare sul suo volto. Quindi annuì con
un semplice cenno del capo e si avviò verso l'ascensore.
Prima che le porte si
chiudessero le fece una domanda di cui sapeva già la
risposta: «Come ti chiami?».
«Abigail Reed,
molto piacere. E tu sei Merlino, giusto? Come l’amico di re
Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda?».
Lo stregone si
lasciò scappare una risata e non fece in tempo a rispondere,
preceduto dal chiudersi delle porte dell’ascensore.
«Ho deciso di fare il test di
compatibilità», esclamò Alex,
riportandolo bruscamente al presente.
Merlino si sollevò sui gomiti e lei fu costretta a sollevare
il capo e guardarlo negli occhi.
«Come? Nel senso… sei sicura? Lo sai che le
probabilità che tu possa…».
«Lo so».
«Non voglio che tu rimanga delusa», aggiunse,
accarezzandole il volto.
L’infermiera abbozzò un sorriso. «Devo
provarci comunque. Capisci?».
«Sì, certo». Si sporse per posarle un
altro leggero bacio sulle labbra. «Ti amo».
«Anche io», sospirò, tornando ad
appoggiare l’orecchio sul suo petto, dove i battiti del suo
cuore erano tornati quasi normali.
Merlino infilò una mano nella tasca dei pantaloni per
sfiorare il cofanetto di velluto rosso che gli aveva dato il signor
Greenwood e sorrise, posandole un bacio tra i capelli.
«Io di più», mormorò e Alex
non rispose: si era addormentata.
***
«E adesso dove vai?», domandò un
Artù stizzito, guardandolo mentre si alzava in fretta e
furia dal tavolo della cucina, ancora con la bocca mezza piena, per
recuperare le chiavi dell’auto e la giacca.
Escludendo la conversazione in auto di quella mattina, avevano
scambiato sì e no due parole in tutta la giornata.
C’erano state delle volte, a Camelot, che avrebbe svuotato il
proprio forziere di monete d’oro per un po’ di
silenzio e di solitudine, ma da quando si era ritrovato catapultato in
quell’epoca non gli era ancora capitato e dubitava sarebbe
mai successo: si sentiva un estraneo, lontano da tutto ciò
che lo metteva a suo agio, e Merlino era l’unica persona con
cui riusciva ad essere pienamente se stesso. Senza di lui, la nostalgia
si faceva ancora più dolorosa e non riusciva più
a sopportarla, specialmente da quando era iniziata quella guerra fredda
con Cathleen.
«All’ospedale», rispose frettolosamente
Merlino.
«Bene, vengo anche io».
«No».
Artù si irrigidì, le mani strette in pugni sul
tavolo. «Cos’hai detto? Che vorrebbe dire
“no”?».
«Ho bisogno di parlare da solo con Abby»,
provò a dargli una spiegazione, ma il re non se la bevve:
c’era qualcosa sotto, poco ma sicuro.
«Non puoi dirmi cosa posso o non posso fare,
Merlino».
«No, avete ragione, ma dovrete trovare un metodo alternativo
per arrivare all’ospedale». Lo stregone fece
tintinnare le chiavi della propria Pininfarina di fronte al viso,
sorridendo smagliante.
«Ci vediamo più tardi!», urlò
ormai all’ingresso.
Artù rimase in cucina e ascoltò prima il tonfo
della porta, poi il motore scoppiettante dell’auto
d’epoca e la ghiaia dello sterrato scricchiolare sotto gli
pneumatici. Quando tornò a regnare il silenzio,
Artù afferrò il bordo della tovaglia e la
tirò rabbiosamente, facendo cadere a terra piatti, bicchieri
e posate, rendendo il pavimento un campo minato impraticabile. Subito
dopo si sentì in colpa, osservando i cocci e i frammenti di
vetro, perciò si passò le mani sul volto e
respirò profondamente, camminando sulle punte dei piedi per
uscire dalla cucina e recuperare la scopa dallo sgabuzzino.
Aveva appena incominciato ad ammucchiare tutto in un angolo, quando il
silenzio della sera e della campagna venne interrotto dal rombo di un
motore. L’avrebbe riconosciuto tra altri mille.
Col cuore in gola, Artù appoggiò il manico della
scopa sul frigorifero e raggiunse l’ingresso, quindi si
appoggiò con le spalle alla porta ed aspettò che
Cathleen suonasse il campanello.
Ci sarebbe rimasto così male, se non si fosse trattato di
lei! Ma le sue aspettative non furono deluse: il paramedico dai capelli
rossi era proprio lì, sotto la luce dell’ingresso,
bella come se la ricordava e anche di più.
«Disturbo?», gli domandò, accennando un
timido sorriso. Ed era così strano, perché lei e
la timidezza erano agli antipodi.
«No, io… Entra».
Si fece da parte per farla passare e poi chiuse la porta dietro di lei,
pensando a qualcosa di intelligente da dire. Fu allora che lo strano
comportamento di Merlino, incluso il perché non lo avesse
voluto portare con sé all’ospedale,
trovò un senso del tutto nuovo: lui sapeva della visita del
paramedico e aveva fatto in modo di lasciarli soli. Gli sarebbe costato
il doppio della fatica, ma la strigliata che aveva pianificato di
fargli fu sostituita da un discorso di ringraziamento.
«Pensavo fossi di turno questa sera»,
esclamò Artù, rompendo
quell’imbarazzante silenzio.
Cathleen scosse il capo e si lasciò cadere sul divano,
rispondendo: «No, sono di riposo. Mi hanno dato tre giorni di
fila, questa settimana».
Quindi si voltò a guardarlo e diede qualche pacca accanto a
lei, invitandolo silenziosamente a raggiungerla. Artù
deglutì e prendendo coraggio si sedette al suo fianco, anche
se decise di mantenere una certa distanza.
«Volevo scusarmi per quello che ho detto l’ultima
volta», esordì il paramedico, guardandosi le
unghie corte. «A volte… La maggior parte delle
volte, a dire il vero, non ho alcun filtro e dico cose di cui poi mi
pento. Non mi riferivo alla tua famiglia… come avrei potuto?
Non ho conosciuto i tuoi genitori, e anche se li avessi conosciuti non
starebbe a me giudicare…».
«Ehi», la interruppe, posando una mano sulle sue.
Cathleen sollevò di scatto il capo ed incrociò i
suoi occhi blu come il mare, rimanendone come sempre incantata.
Il sovrano accennò un sorriso, dicendo: «La mia
famiglia non era perfetta, anzi… mio padre aveva un sacco di
difetti e un problema serio con la magia, mia sorella è
diventata una strega pazza, rancorosa e senza un briciolo di
compassione… però era la mia famiglia e non si
può non voler bene alle persone con cui sei cresciuto;
sarebbe innaturale».
Cathleen non ribatté a parole, bensì con un
sorriso venato di tristezza. Poi strinse la sua mano ed
esclamò: «Non capita quasi mai che io abbia un
week-end libero, perciò, se non hai altri impegni, mi
piacerebbe trascorrerlo con te. Potremmo fare una gita fuori porta con
la moto».
Artù non si aspettava una proposta del genere e nonostante
avesse sognato di trascorrere del tempo da solo con lei, lontano dalla
casa di Merlino o da Alex, ci mise qualche secondo per rispondere che
sì, gli sarebbe piaciuto molto.
«Dove andremo?», le chiese subito dopo, divorato
dalla curiosità.
«È una sorpresa», sussurrò
Cathleen avvicinandosi al suo viso, tanto da sentire il suo respiro
alla menta e da scorgere il riflesso dei propri occhi nei suoi.
Il paramedico si accorse di aver invaso un po’ troppo il suo
spazio – Artù lo capì da come aveva
sgranato gli occhi e socchiuso le labbra – ma nessuno dei due
si mosse, come sotto gli effetti di un incantesimo.
Ad un tratto il re parve uscirne, ma solo per posarle una mano sulla
guancia ed annullare del tutto la distanza che lo separava dalla sua
bocca.
***
Darrell si riempì un bicchiere d’acqua e si
appoggiò allo stipite della porta della cucina, guardando
Freya seduta in un angolo del divano, con le gambe strette al petto e
il mento sulle ginocchia, gli occhi fissi sullo schermo della TV al
plasma.
«Freya», la chiamò, sospirando.
Non gli aveva più rivolto la parola da quando
l’avevano dimessa dall’ospedale, dopo gli esiti
infruttuosi dei test, ed erano tornati a casa. Continuava a pensare a
ciò che si erano detti prima della TAC, ma fino ad allora
Freya non si era comportata come se avesse voluto mettere in pratica le
sue parole: non aveva preparato i bagagli, non aveva fatto ricerche
sugli orari dell’autobus, non aveva controllato nessuna mappa
per decidere quale sarebbe stata la sua prossima meta. Darrell aveva il
presentimento che avrebbe architettato la propria fuga durante la
notte, mentre dormiva, e per questo sapeva che non sarebbe mai riuscito
a chiudere occhio. Ma non poteva nemmeno costringerla a rimanere
– sarebbe stato sequestro di persona –
né offrirsi di seguirla ovunque volesse andare –
sarebbe stato semplicemente da pazzi.
Ma è
così l’amore che riduce le persone, no? Le rende
pazze.
«Freya?», tentò di nuovo, alzando un
poco la voce.
«Uhm?», mugugnò lei, senza voltarsi.
Darrell si strofinò il viso con una mano, soffermandosi
sulla bocca. «Io vado a dormire, domani mattina mi devo
svegliare presto. Buonanotte».
Attese il silenzio per una dozzina di secondi, ma Freya non gli
rispose. Quindi decise di arrendersi e si chiuse in camera sua, dove
bevve il bicchiere d’acqua e si gettò sul letto,
programmando di fissare il soffitto per le prossime ore che lo
separavano dal suono della sveglia.
***
Merlino sorrise, gli occhi rivolti verso la strada illuminata dai fari
dell’auto ma la mente verso Cathleen e Artù,
probabilmente sulla via della riappacificazione.
Parcheggiò nel primo posto libero che trovò di
fronte all’ospedale e varcò le porte scorrevoli
del Pronto Soccorso. Salutò un paio di infermieri e poi
chiese se sapevano dove fosse Alex al momento; gli indicarono la sala
relax e fu proprio lì che la trovò, intenta a
versarsi la prima tazza di caffè della nottata.
Non le aveva ancora detto che il signor Greenwood aveva intenzione di
vendere il cavallo nero che tanto le piaceva, ma quella sera, prima di
cena, gli era venuta in mente un’idea che forse avrebbe fatto
felici tutti quanti.
Si avvicinò di soppiatto e una volta alle sue spalle
l’abbracciò, posandole una serie di baci sul
collo, a cui lei rispose prima con un sobbalzo e poi una risata.
«Merlino, sei pazzo? Mi hai spaventata!».
«Oh, perdonatemi mia signora… sono
desolato».
Alex gli posò una mano sulla testa, afferrandolo per i
capelli, e gettò del tutto il capo all’indietro
per offrirgli meglio il proprio collo. «Non ti fermare,
è un ordine», ansimò.
Merlino alternò i baci a dei piccoli morsi, passando dalla
nuca al lobo dell’orecchio destro. Le percorse le braccia con
le mani e una volta giunto alle spalle le fece scivolare sul suo seno,
per poi scostarsi per grande disappunto di Alex.
«Ehi, non ci si comporta così!», lo
rimproverò l’infermiera, lanciandogli
un’occhiataccia.
Merlino sogghignò, aprendo la porta della sala relax.
«Lo sai che avremo tutto il week-end per noi? Se tutto va per
il verso giusto, Cathleen e Artù faranno una gita fuori
porta».
«Dici sul serio?».
Il mago annuì e rise quando Alex gli corse incontro per
gettargli le braccia al collo e baciarlo sulle labbra.
«Ma è fantastico! Potremo finalmente pianificare
un po’ di dettagli del matrimonio senza venire
interrotti!», esclamò, eccitata.
«Non è quello che immaginavo io, ma sì,
potremo fare anche questo».
Alex gli tirò un pugnetto sul braccio e poi, con aria
maliziosa, gli sussurrò all’orecchio:
«Potremo dormire insieme una notte intera, senza paura di
essere importunati».
Merlino si scostò per guardarla negli occhi e accarezzarle
il viso. «Ehi, se sarà come oggi pomeriggio temo
che dovrò pagare qualcuno per compilarmi una
ricetta».
«Una ricetta per cosa?».
«Pillole blu».
«Stupido!».
L’infermiera quella volta lo picchiò
più forte, facendolo scappare fuori dalla stanza relax.
Merlino si voltò indietro per farle vedere che stava ridendo
e Alex lo imitò, anche se con minor convinzione.
***
Freya rimase in ascolto dietro la porta per qualche secondo, poi
posò la mano sul pomello e lo girò lentamente, ma
la serratura oppose resistenza.
La custode abbozzò un sorriso, pensando che nonostante
ciò che le aveva detto in ospedale, Darrell dubitava ancora
delle sue intenzioni. E se l’avesse vista in quel momento,
furtiva come una ladra, si sarebbe dato ragione da solo.
«
Aliese»,
bisbigliò e i suoi occhi brillarono d’oro mentre
la serratura interna ruotava silenziosamente. Grazie a quel trucco, fu
facile entrare nella camera da letto di Darrell. Peccato che il
poliziotto era ancora sveglio e sollevò di scatto le
palpebre quando avvertì la sua presenza sulla soglia.
«Ehi, mi hai spaventato. È successo
qualcosa?».
Freya sorrise timidamente, stringendo più saldamente il
manico del pugnale che teneva nascosto dietro la schiena.
«Non riesco ad addormentarmi e ho pensato…
scusami, è una cosa stupida, non sarei mai dovuta venire a
disturbarti».
«No… dimmelo», la fermò
Darrell, sollevandosi sui gomiti.
«Mi chiedevo se potessi… insomma, stendermi con te
per un po’».
L’agente, colto alla sprovvista, boccheggiò
qualche secondo. Poi si guardò intorno e disse:
«Non ci vedo nulla di male, in fondo. Forza, vieni».
Freya sospirò di sollievo e lo raggiunse a letto,
infilandosi sotto le lenzuola.
Il silenzio regnò sovrano per interi minuti, entrambi troppo
spaventati per interromperlo, gli occhi fissi sul soffitto candido.
Alla fine fu Darrell a parlare per primo, quando anche Freya si era
ormai decisa a fare la sua mossa.
«Non voglio che tu te ne vada per colpa mia»,
mormorò, le dita delle mani intrecciate sullo sterno.
Freya si girò sul fianco, così da guardare il
profilo del suo viso, e rispose con un leggero sorriso sul volto.
«Non me ne andrò».
«Hai… hai cambiato idea?», le chiese
l’agente, fissandola a sua volta.
La custode scosse il capo, gli occhi lucidi. «No, voglio dire
che sarò sempre con te, qualsiasi cosa accada, e che una
parte di te vivrà in me; la custodirò e nessuno
potrà farti del male, te lo prometto».
Un sorriso quasi derisorio fece la propria comparsa sulle labbra di
Darrell, il quale esclamò, divertito quanto scettico:
«Che cosa stai dicendo, Freya? Non ha alcun senso».
Lei però si limitò a sorridere e gli
accarezzò una guancia. «Te lo prometto»,
sussurrò di nuovo e quando i suoi occhi si tinsero
nuovamente d’oro Darrell aprì la bocca per urlare,
ma il sonno lo catturò prima, facendogli sentire la testa e
le palpebre talmente pesanti da crollare inerme sul letto.
Freya si alzò lentamente e fece il giro del letto,
osservandolo dall’alto, per poi chinarsi nuovamente su di lui
e baciarlo sulla fronte, ringraziandolo per tutto ciò che
aveva fatto per lei. E quello che stava per fare ne era la prova.
Impugnò il coltello e lo sollevò a
mezz’aria, iniziando a recitare un incantesimo antico e
potente, tanto che poco lontano da quell’appartamento, al
centro di Avalon, la terra iniziò a tremare
impercettibilmente.
Al culmine del rituale, Freya piegò all’indietro
la testa ed abbassò il pugnale, ferendosi
l’avambraccio. Scossa dai tremiti dovuti alla potente magia
utilizzata e al dolore, si tenne il braccio ferito mentre girava
intorno al corpo immobile di Darrell, formando una specie di cerchio
color cremisi intorno a lui.
Riprese a recitare le intricate formule dell’incantesimo
quando completò il cerchio e concluse il tutto facendo
cadere alcune gocce di sangue sulle labbra dell’agente. In
quell’istante un’accecante luce azzurra
circondò sia Darrell che Freya, per poi intrecciarsi ed
insinuarsi nei loro corpi, scuotendoli come se fossero in preda alle
convulsioni.
Quando finalmente la luce si spense, appena qualche secondo dopo, non
c’era più traccia del sangue versato da Freya e
anche la ferita sul suo braccio era sparita.
Un fulmine si schiantò sull’isola al centro di
Avalon e contemporaneamente la custode cadde a terra priva di sensi.
***
Merlino fu costretto ad addossarsi alla parete del corridoio per non
cadere a terra, scosso dai sudori freddi. Con gli occhi sgranati, si
chiese cosa diavolo fosse accaduto.
Un’infermiera di passaggio si fermò al suo fianco
e gli chiese se stesse bene. Il mago rispose che era tutto okay e la
ringraziò, quindi si concentrò sul proprio
respiro e lentamente i battiti del suo cuore tornarono regolari, ma la
preoccupazione che fosse appena successo qualcosa di grosso rimase.
Quando si fu calmato a sufficienza, raggiunse la stanza di Abigail e
sbirciò attraverso le vetrate, ringraziando il cielo che
l’avesse trovata sola in camera; quindi bussò alla
porta. La ragazzina sollevò il capo da ciò che
stava leggendo e gli fece segno di entrare.
Si rese subito conto che qualcosa non andava: i suoi occhi sembravano
di pietra e non lo perdevano di vista un secondo; il suo tono di voce
era freddo e distaccato, come se stesse parlando con un estraneo.
«È tutto okay?», le domandò,
prima di rendersi conto della pessima domanda. «Scusami, non
volevo».
«Alex te l’ha detto, eh? Una bella
sfortuna».
Lo stregone si sedette al suo fianco e le prese una mano, sorridendo
incoraggiante. «Non ti farti abbattere, Abby. Non
è tutto perduto».
«Senti, ti ringrazio, ma non ho voglia di
parlarne», disse ad occhi chiusi, prima di posare quello che
aveva pensato erroneamente fosse un libro sul comodino. Non lo era, non
lo era affatto.
Provò ad ignorare la coincidenza, a dirsi che
c’erano mille quaderni con la custodia di pelle come quello,
ma gli appunti di Hala continuavano a tornargli alla mente, facendo
aumentare il battito del suo cuore, e nemmeno stringere il cofanetto di
velluto rosso che era andato a mostrarle gli impedì di
domandarle tutto d’un fiato: «Dove l’hai
preso quello?».
«Me l’ha dato Baqi», rispose con
tranquillità Abby, gettando un’occhiata al diario.
«Vuoi sapere dove l’ha trovato?».
Merlino non dovette nemmeno annuire per avere la risposta.
«Nella soffitta di mia nonna, tra le cose di cui voleva
disfarsi. È il diario della mia bisnonna, Louise
McTrusty».
Sentendo di nuovo il suo nome, una ferita profonda si aprì
sul cuore di Merlino, che riprese a sanguinare dolorosamente. Ma il
mago strinse i denti ed abbozzò un sorriso, alzandosi dalla
sedia.
«Te la senti di ascoltare una storia? È da troppo
tempo che non ve ne leggo una. Vado a prendere il mio libro e a
radunare gli altri, ci metterò poco».
Era già alla porta, pronto a correre via nella notte per
rifugiarsi in qualche suo nascondiglio nel bosco, quando
sentì Abby esclamare alle sue spalle:
«Perché questa volta non te ne fai raccontare una
tu? Quella che ha scritto la mia bisnonna è veramente
bellissima, anche se un po’ strappalacrime.
Chissà, magari potresti anche riconoscerti nel
protagonista…».
Merlino inspirò profondamente e si voltò, gli
occhi che gli bruciavano a causa delle lacrime.
«Ecco che cosa faremo», esordì, cercando
di mantenere un tono di voce fermo. «Tu restituirai quel
diario a Baqi senza dirgli una parola, io mi dimenticherò di
questa conversazione ed entrambi non ritorneremo mai più
sull’argomento. Ci siamo capiti?».
Abby lo fissò a lungo, in silenzio, fino a quando una
lacrima non tracciò un solco inaspettato anche sulla sua
guancia. Allora si sporse nuovamente per prendere il diario e dopo
averne accarezzato la copertina con dita tremanti, se lo
portò al petto sussurrando: «Quindi sei davvero
tu. Tu sei Emrys».
Il mago non riuscì più a trattenere i singhiozzi
e barcollò fino al suo letto, dove si sedette. Abby lo
accolse tra le sue esili braccia e lasciò che piangesse
contro la sua spalla, liberandosi del dolore che aveva troppo a lungo
ignorato.