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Autore: _Pulse_    29/05/2017    1 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buongiorno e buon inizio settimana!
Allora... Con profondo rammarico ho notato che gli ultimi due capitoli hanno avuto poche visualizzazioni e nessuna recensione. Io non sono una che scrive per ricevere elogi, lo dico francamente... ritengo che la scrittura sia per me una cura, un modo per staccare dalla vita di tutti i giorni e concedermi di fantasticare. Però non posso negare quanto mi renda triste vedere questo calo di interesse. Spero vivamente che sia per causa mia - della lunghissima pausa e dei miei aggiornamenti irregolari - e non della storia in sé, perché questo farebbe molto male. Ad ogni modo lo accetterei, non si può andare incontro ai gusti di tutti.
Se qualcuno può farmi sapere qualcosa in proposito ve ne sarei eternamente grata.
E con questo direi che vi lascio alla lettura. Grazie per aver letto fino a qui :)

Vostra,

_Pulse_

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23.The mark of Abigail


Freya si fece da parte per farlo entrare nell’appartamento di Darrell ed indicandogli il salotto esordì: «Deduco che non sia necessario che io sappia perché ha usato la magia, no?».
Artù si limitò ad annuire mentre adagiava con delicatezza il corpo inerme di Merlino sul divano. Dopo essersi sollevato la guardò con un sopracciglio inarcato, non capendo perché non fosse al suo fianco per tentare di rianimare il mago; quindi in tono imperioso esclamò: «Beh, hai intenzione di aiutarmi a svegliarlo oppure no?».
«E se io mi rifiutassi?», domandò la custode, incrociando le braccia al petto.
Il sovrano boccheggiò, preso alla sprovvista, e Freya ne approfittò per spiegare, quasi con tono annoiato: «Quando la magia ha iniziato a scomparire per via della maledizione di Merlino, essa per preservarsi si è concentrata in pochi punti del pianeta, luoghi rimasti intatti e lontani dall’insaziabile ed aggressiva espansione dell’uomo. Merlino ovviamente è diventato uno di quei punti, una delle fonti, un custode se vogliamo: il potere che risiede in lui è talmente forte che liberarlo potrebbe essergli fatale. Potrebbe ucciderlo sul colpo, disintegrarlo, oppure, come succede ad ogni creatura magica, la sua morte sarà lenta e progressiva: più libererà la magia che è dentro di lui, più si consumerà, poco alla volta».
Artù strinse i pugni lungo i fianchi, il viso accartocciato dalla rabbia. «Tu menti: Merlino non ha lanciato nessuna maledizione».
Freya sorrise come se si trovasse davanti ad un ingenuo ed innocente bambino. «Non l'ha fatto di proposito ma l'ha fatto, rinnegando la magia».
Il sovrano, a seguito di quella rivelazione, finalmente capì i motivi dei suoi lunghi silenzi, dell'espressione spesso colpevole che assumeva quando pensava che nessuno lo stesse guardando: si sentiva colpevole per essersi lasciato sopraffare dal dolore, proprio come Morgana, e di aver condannato il mondo al suo lento declino.
«Non ho intenzione di indebolirmi perché Merlino torni subito a vostra disposizione», concluse la ragazza druida prima di sparire in cucina, da cui aggiunse: «Si sveglierà quando avrà ricaricato le batterie!».
Il re di Camelot abbassò lo sguardo sul volto privo di espressione dello stregone, trovandolo dolce ed irritante allo stesso tempo – soprattutto perché era tutta colpa sua se si trovavano in quella situazione – e si massaggiò gli occhi stanchi.
La notte precedente non aveva chiuso occhio, non voleva raddoppiare; allo stesso tempo, era troppo stanco per ritornare a casa con Merlino sulla schiena. Avrebbe potuto chiamare Cathleen, perché arrivasse con un’ambulanza e desse loro uno strappo, ma qualcosa glielo impediva.
Non si erano ancora sentiti da quando avevano avuto quel diverbio riguardo alla questione "famiglia" e nonostante avesse intuito che non voleva offendere lui in particolare, non aveva voglia di sentirla. Come aveva fatto lei poco tempo prima, non voleva rincorrerla: si sarebbe seduto e avrebbe aspettato che facesse lei il primo passo.
Sbuffò, arrendendosi all’evidenza che avrebbe dovuto aspettare che Merlino si svegliasse spontaneamente. Si guardò intorno in quell’appartamento sconosciuto e sbuffò di nuovo, rendendosi conto che tutto il divano era occupato dal mago e che l’agente Fisher non era un fan delle poltrone.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero, Freya esclamò: «Mettetevi pure comodo! Potrebbe volerci anche tutta la notte, sapete?».
Riconobbe una sfumatura divertita nella sua voce. Che realmente riuscisse a leggergli nella mente?
Così Artù si sedette sul pavimento, con la schiena contro il bordo del divano, e nascose la testa tra le braccia. Chi gliel’aveva fatto fare, di accettare il suo invito? Ma forse non tutto il male doveva per forza nuocergli, dato che aveva uno o forse due fastidiosi pesi sullo stomaco di cui voleva al più presto liberarsi. Magari quella era l’occasione buona.
«Ho fatto del tè».
Artù levò lo sguardo e prese la tazza che Freya, sorridendo, gli stava porgendo. La tenne stretta tra le mani, nonostante il liquido bollente gli bruciasse la pelle attraverso la ceramica, mentre la custode afferrava una coperta e la posava sopra il mago, soffermandosi un attimo di troppo ad accarezzargli il mento con le dita.
Quando si sedette poco lontano da lui e si accorse che il sovrano non aveva ancora osato avvicinare la tazza alla bocca, alzò gli occhi al cielo ridacchiando.
«Non ho intenzione di avvelenarvi, fidatevi».
Artù strinse le labbra in un sorriso amaro e posò la tazza sul tavolino basso di fronte a lui. «Ho imparato a mie spese quanto possa essere pericoloso fidarsi».
Freya bevve un sorso del proprio tè e stese le gambe di fronte a sé, muovendo le dita dei piedi nei calzini di spugna fucsia. Ad Artù diede fastidio il suo atteggiamento rilassato, il fatto che si comportasse come se fosse da sola e non seduta accanto all’amore della sua vita e al cavaliere che le aveva tolto la vita.
Ad un tratto si stancò e le chiese bruscamente: «Perché mi hai aiutato, ieri notte?».
«Siete una delle tessere del puzzle, non era giunta la vostra ora», rispose la custode scrollando le spalle, senza guardarlo in viso.
«Questa è la risposta che dovevi darmi. Quella vera, invece?».
Freya abbozzò un sorriso. «Lo sapete, qual è». Si voltò verso lo stregone e lo guardò per un momento, una mano sollevata a mezz’aria verso il suo viso. Ma non arrivò mai a sfiorarlo, come se ci fosse un campo di forza intorno a lui, e il suo sorriso presto di spense.
«Ho sognato di tornare per secoli ed ora che non lo ritenevo più possibile... il suo cuore appartiene alla vostra erede», sospirò tristemente e gli diede nuovamente le spalle. «Merlino e Freya, costantemente allontanati dai Pendragon», aggiunse a bassa voce.
Artù non avrebbe voluto sentirsi male per lei, ma era più forte di lui. Ciò nonostante non lo diede a vedere e riprese: «Ad ogni modo, grazie. Anche se a dirla tutta è colpa tua, se ho rischiato di morire: se non fossi scappata e non ci avessi gettato addosso quegli alberi...».
«Siete impossibile», commentò Freya ridendo, facendo leva su una mano per alzarsi dal tappeto. Artù però le afferrò il polso ed inchiodò gli occhi nei suoi. Iniziò ad intuire ciò che aveva spinto Merlino ad innamorarsi perdutamente di lei: il viso pulito, gli occhi dolci e l’espressione impaurita che aveva quando il mago l’aveva vista per la prima volta, rinchiusa in quella gabbia.
«Io non lo sapevo», disse alla fine, a bassa voce.
«Che cosa?».
«Non sapevo di te e Merlino».
Freya posò inaspettatamente la mano sulla sua e sorrise teneramente, inginocchiandosi di fronte a lui. «Ne sono consapevole, Pendragon; voltate pagina. Per quanto mi riguarda non sono mai stata in collera con voi: dovevo essere fermata, per la sicurezza di tutti, inclusa quella di Merlino. Soprattutto la sua».
Artù non capì subito ciò che aveva sottinteso con quelle parole. Quando lo fece, Freya era già in cucina con la propria tazza di tè vuota. Posò lo sguardo su quella che gli aveva offerto, ancora sul tavolino, e senza darsi il tempo di avere dei ripensamenti se la portò alle labbra. Il liquido caldo e dolce – forse un po’ troppo per i suoi gusti – gli fece chiudere gli occhi e abbandonare il capo contro il divano. Si sforzò di resistere al sonno, invano.
Sentì un fruscio accanto a sé, ma nel dormiveglia capì che non era nulla di cui preoccuparsi: Freya, china su di lui, lo stava invitando a stendersi, con un morbido cuscino sotto la testa e una coperta a tenerlo al caldo.
Sul momento aveva pensato ad un sogno: mai avrebbe pensato che la custode potesse essere così gentile nei suoi confronti. Si dovette ricredere, quando Merlino lo svegliò bruscamente a poche ore dall’alba.

«Dove diavolo siamo?», urlò a mezza voce Merlino, ancor prima che si svegliasse del tutto.
Artù si sollevò e stropicciandosi gli occhi mugugnò: «Non ti rivolgere a me con quel tono».
«Dove diavolo siamo, vostra altezza?», ripeté, ancora più infuriato. Provò ad alzarsi, ma una fitta alla testa lo fece ricadere seduto sul divano.
Allora il sovrano si tolse di dosso la coperta e si guardò intorno alla ricerca di Freya. Non trovandola, spiegò: «Dopo aver usato la magia per mettere Excalibur nella roccia sei svenuto, così ti ho portato fuori dalla grotta dei cristalli e mi sono diretto verso le abitazioni. Non sapevo che Freya fosse qui, l’ho incontrata per caso».
«State… state dicendo che siamo a casa dell’agente Fisher? Oh, cavolo».
Merlino si passò lentamente le mani sul viso, sospirando, e poi un altro pensiero lo fece sobbalzare e recuperare quasi con frenesia il cellulare nella tasca dei jeans.
«Lo sapevo, lo sapevo. E adesso come spiegheremo ad Alex perché abbiamo chiesto aiuto a Freya?», gli chiese iracondo, mostrandogli le chiamate perse.
«Ehi, vedi di darti una calmata», sbottò Artù, stufo delle sue lagne. «Diremo la verità ad Alex, non avrà motivo di arrabbiarsi. E se lo farà… sei tu il suo fidanzato, non io».
Merlino lo fissò e dopo un attimo di esitazione afferrò il suo braccio per tirarsi in piedi. «Molte grazie», bofonchiò. «Dov’è ora Freya?».
Artù scrollò le spalle e sostenendo lo stregone si incamminò verso la porta.
«Presuppongo non vogliate ringraziarla per l’ospitalità», esclamò Merlino, guardandolo con una lieve traccia di rimprovero nello sguardo.
«Dobbiamo metterci in cammino, se vogliamo arrivare a casa e dormire qualche ora in un vero letto».
Il mago si lasciò condurre fuori e all’aria fredda del mattino ancora buio rabbrividì, tanto che Artù si tolse la sciarpa e gliela legò intorno al collo, rischiando quasi di strozzarlo.
Iniziarono a camminare verso casa, tagliando per il bosco per fare prima, e Merlino non riuscì proprio a tenere la bocca chiusa: volle sapere che cosa si erano detti, in particolare se le avesse riportato ciò che gli Sidhe avevano profetizzato. Artù aveva mentito, dicendogli che sì, le aveva detto che l’avrebbero riportata ad Avalon; perché lo pensava, era sicuro fosse la cosa giusta da fare, e ciò che provava adesso nei suoi confronti era solo compassione, che presto sarebbe passata. Aveva solo bisogno di un altro po’ di tempo e poi avrebbe fatto ciò che doveva.

***

Mancava ormai poco all’alba e i corridoi erano immersi in un silenzio surreale, tanto che Alex si sentì l’unica persona ancora sveglia, sovrana e custode dell’intero ospedale.
Quella fantasia svanì presto, una volta svoltato l’angolo. Salutò la collega al bancone della reception, gettò un’occhiata al collega che stava ponendo le domande di rito all’ultimo paziente in sala d’attesa e poi uscì dalle porte scorrevoli per raggiungere Cathleen, seduta su uno dei panettoni gialli che delimitavano il parcheggio.
Le posò una mano sulla spalla e il paramedico tirò fuori da una delle innumerevoli tasche dei pantaloni un pacchetto di sigarette sgualcito per offrirgliene una ed estrarne un’altra per sé direttamente con le labbra.
«Grazie», mormorò chinandosi verso la fiamma dell’accendino; quindi tirò a lungo e soffiò il fumo verso il cielo che iniziava a tingersi dei colori dell’alba. «Ho ricevuto una chiamata da Artù, verso l’una, ma quando l’ho richiamato non mi ha risposto. Tu sai…?».
Cathleen scosse il capo, portandosi la sigaretta tra le labbra. Ad un tratto si alzò di scatto dal panettone e si voltò a guardarla con gli occhi lucidi: «Perché proprio Abigail? Perché sono sempre le persone migliori a perderci?».
«Non saprei… Ma sto iniziando pensare che siamo davvero legati ad un destino».
«Beh, il destino fa schifo!», urlò e gettò a terra la sigaretta per avventarcisi sopra con un piede.
Alex si avvicinò e l’abbracciò con delicatezza, accarezzandole i capelli. «Lo so. Credimi, lo so».
«Tu pensi che si possa cambiare, il destino?», le domandò piano Cathleen, tranquillizzata dalla sua stretta.
«Lo spero con tutte le mie forze. So però che non smetterò di provarci, puoi starne certa».
Cathleen sciolse l’abbraccio e la guardò con la sua caratteristica ruga d’espressione tra le sopracciglia, segno di preoccupazione. «Che hai intenzione di fare?».
«Tutto ciò che posso per aiutare Abby», rispose Alex con un sorriso appena accennato, il viso rivolto verso l’alto per ammirare le nuvole cambiare colore ai primi raggi del sole.

***

Darrell diede il cambio al collega e come ogni mattina – che facesse il turno di notte o meno – si incamminò verso la caffetteria della signora Begum per il primo caffè della giornata.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda, intrisa del profumo della rugiada sulla natura, e nonostante la quiete del paesaggio la sua mente era ancora turbata da ciò che aveva letto riguardo al tatuaggio di Freya.
Quella notte aveva approfondito la ricerca iniziata il pomeriggio prima, inserendo nel motore di ricerca le parole: “tre spirali intrecciate”. Come risultato principale aveva ottenuto il Triskelion, un simbolo comparso per la prima volta durante il periodo Neolitico a Malta e in varie zone della Grecia, per poi diventare molto popolare nella cultura Celtica e nelle religioni pagane. Tutt’ora il Triskelion, in alcune sue varianti, era raffigurato su diverse bandiere, come quella della Sicilia, in Italia, e quella dell’Isola di Man, nel Mar d’Irlanda.
Il suo significato però era andato perduto, probabilmente a causa dell’abitudine di tramandare le conoscenze oralmente; c’erano solo ipotesi, supposizioni. Alcuni studiosi pensavano che le tre spirali simboleggiassero la Triplice Dea, altri che fossero tre dei quattro elementi naturali (terra, fuoco e acqua), altri ancora che rappresentassero il tempo (passato, presente e futuro) e infine c’era chi pensava che si riferissero ai tre mondi di questa realtà (il mondo degli esseri viventi, dei morti e degli spiriti erranti). Tutte opzioni poco rassicuranti per uno come lui, ben attaccato alla razionalità e alla logica. E, sopratutto, se venivano associati a Freya e alla sua perdita di memoria: cosa avrebbe fatto, nel caso in cui si fosse rivelata membro di una qualche folle setta? Gli sembrava impossibile, per quel poco che l’aveva conosciuta in quelle settimane, ma non poteva escludere nulla al momento.
Le pagine Wikipedia, i blog, le discussioni, i link, gli asterischi e le note che gli erano comparsi sullo schermo del computer erano stati così tanti che a mezz’ora dalla fine del turno aveva dovuto affrettarsi per occuparsi di tutto ciò che avrebbe dovuto fare nel corso dell’intera notte e si sentiva esausto, oltre che suggestionato dal mondo di mitologia, paganesimo, magia ed arti oscure in cui si era ritrovato immerso.
Il campanello all’ingresso della caffetteria fu in grado di riportarlo alla realtà, oltre che alla rassicurante normalità delle abitudini.
«Buongiorno agente Fisher», lo salutò con timidezza il ragazzo dietro il bancone. «Il solito caffè da portar via?».
«Sì, grazie Jake».
Nell’attesa si appoggiò al bancone, con lo sguardo rivolto verso la televisione con l’audio quasi al minimo, su cui stava andando in onda il telegiornale.
«Mattinata tranquilla?», domandò ad un tratto.
«Come sempre a quest’ora».
Dalla cucina si udì il segnale acustico del forno e Jake corse a tirar fuori le brioches e le ciambelle appena cotte. Iniziò a deporle nell’espositore e gettò un’occhiata all’orologio alle sue spalle, aggiungendo: «Anche se tra poco dovrebbero iniziare ad arrivare i dottori e le infermiere del turno di notte».
Jake non fece in tempo a terminare la frase che la porta si aprì con il solito scampanellio, facendo entrare i primi camici bianchi. Darrell allora chiese al ragazzo di tenergli da parte due ciambelle, una con sopra la glassa e gli zuccherini colorati e una col cioccolato.
Pagò sorridendo al ragazzo, raccomandandogli di salutargli la signora Begum, e quando si voltò rischiò quasi di finire addosso ad Alexandra Greenwood e alla sua amica paramedico.
L’infermiera gli lanciò un’occhiata di scuse e superandolo continuò a parlare al cellulare: «Ho capito, sul serio... Artù ha fatto bene, non aveva altra scelta. No, Merlino, non sono arrabbiata. Ma sei sicuro di voler andare al lavoro comunque? Posso chiamare mio padre e...».
A quel punto Darrell smise di ascoltare, distratto da Cathleen.
«Ehi, agente! Come va? Un altro turno di notte?».
Darrell si sforzò di sorridere, rispondendo: «A quanto pare ne avrò ancora per un po’. Spero solo non siano tutti movimentati come gli ultimi». Quindi indicò Alex con un cenno del capo, la fronte aggrottata: «È successo qualcosa a Merlino?».
La rossa gli agitò un dito di fronte al viso, lo sguardo malizioso. «Ah-ah, non è carino origliare».
Darrell guardò ancora una volta l’infermiera, appoggiata con entrambi i gomiti al bancone e una mano tra i capelli biondi sciolti sulla schiena. Sembrava stanca, ma non solo perché aveva appena finito il turno; era una stanchezza profonda, come se avesse avuto un peso a gravarle sull’anima.
«C’è una cosa che devo dirti. No, è una questione un po’ delicata. Facciamo che ti raggiungo lì nel pomeriggio. Okay. Ti amo anch’io».
Cathleen gli schioccò le dita di fronte al naso e quando quella volta incrociò il suo sguardo, lo trovò infastidito.
«Come avrai capito, è già impegnata», sibilò a pochi centimetri dal suo volto.
Il poliziotto indietreggiò di un passo e dopo un attimo di esitazione rispose: «Non sapevo che lei e Merlino fossero una coppia».
«Le farò le tue congratulazioni».
Un sorrisino gli sollevò un angolo della bocca, così all’improvviso che Cathleen ne rimase sbigottita. Darrell le posò una mano sul braccio e la superò per raggiungere l’infermiera, sussurrandole all’orecchio: «Grazie, faccio da me».
Quando Alex vide l’agente sedersi sullo sgabello alto accanto al suo domandò silenziosamente spiegazioni a Cathleen, la quale roteò gli occhi al cielo e alzò le mani. Poi si concentrò su di lui, stringendosi il collo tra le spalle: «Volevi dirmi qualcosa?».
«Innanzitutto, congratulazioni: ora capisco perché la mia domanda su Myra e Merlino ti ha infastidito tanto».
«Pensavo avessimo superato l’argomento», bofonchiò Alex, irritata.
«Infatti, scusami. Prometto che non ne parleremo mai più», si fece una croce sul cuore e poi le disse quello per cui si era avvicinato: «Non sei più passata in Centrale per la denuncia».
«Scusami, ma non ho fatto in tempo. Domani lavori?».
«Sì, faccio il primo turno».
«Perfetto, io sono di riposo domani. Ti prometto che passerò».
«Okay, allora… ti aspetto».
Alexandra annuì e gli rivolse un sorriso nervoso quando lo vide esitare sullo sgabello. Rendendosi conto di non aver altri motivi per rimanere, Darrell si decise ad alzarsi e ad allontanarsi.
Non si voltò più indietro, nemmeno quando sentì Cathleen chiedere all’amica che cosa si fossero detti, e una volta fuori dalla caffetteria attraversò la strada per raggiungere la propria auto.
Si fermò accanto alla portiera e si tastò le tasche dei pantaloni alla ricerca delle chiavi. Fu per caso, quindi, che lo sguardo gli cadde sull’auto parcheggiata dietro alla sua, con un draghetto di pezza rossa appeso allo specchietto retrovisore. Con le chiavi dell’auto in mano si soffermò a guardarlo, chiedendosi dove l’avesse già visto. L’illuminazione gli venne all’improvviso, così prepotentemente che rischiò di far cadere il sacchetto con le ciambelle.
Aprì l’auto per lasciare la sua colazione sul sedile del passeggero, poi prese il proprio taccuino e si segnò targa e modello dell’auto. Non poteva aspettare il giorno seguente per sapere, perciò si mise al volante e tornò alla Centrale, dove il collega che da poco gli aveva dato il cambio gli chiese ridendo se volesse sostituirlo. Darrell non lo sentì nemmeno, troppo concentrato sulla pista che stava seguendo.
Inserì nell’archivio i dettagli che si era segnato ed attese che la pagina si caricasse. Non ci volle molto, ma per un po’ rimase in silenzio, immobile, come se il computer si fosse impallato.
La patente dell’intestatario dell’auto era lì, davanti ai suoi occhi, eppure si rifiutava di crederci. Perché mai l’auto di Cathleen avrebbe dovuto trovarsi di fronte alla villetta di Alexandra, la notte in cui si era verificata quell’insolita effrazione?

***

Merlino si sentiva ancora malissimo, tanto che faticava a dare i contorni alle cose e la testa gli doleva come se qualcuno stesse provando ad aprirgli in due il cranio con un'accetta.
Si massaggiò ancora una volta le palpebre pesanti con due dita e fece un respiro profondo, concentrandosi sulla strada sterrata oltre il parabrezza. Poi si accorse dell’espressione assorta di Artù, del cellulare che teneva tra le mani e che controllava ogni due per tre, e pensò che nonostante tutte le preoccupazioni che gli affollavano la mente al momento – l’agente Fisher che aveva archiviato il suo prototipo come una prova, Freya, il ragazzo che stava conducendo un'indagine su di lui, Hala e Alex – non poteva comunque trascurare il suo re.
«Aspettate una chiamata?», gli domandò, abbozzando un sorriso.
Artù scosse il capo e sospirò. «Tanto so perfettamente che non lo farà».
Si infilò nuovamente lo smartphone in tasca ed abbandonò la testa contro il sedile, affranto. «Non te ne ho parlato perché avevi altro per la testa, ma io e Cathleen abbiamo avuto una specie di diverbio quando ho scoperto di te e Alex».
«Ehi», attirò la sua attenzione. «Voi potete parlarmi di qualsiasi cosa in qualsiasi momento vogliate. Avete capito? Io ci sarò sempre, per voi».
Riuscì a farlo sorridere e Merlino la contò come una vittoria.
«In poche parole», iniziò a raccontare, «ero infuriato perché non me l’avevate detto prima e anche lei me l’aveva tenuto nascosto. Stavo per dirle che ai miei tempi le cose per i membri della famiglia reale, la mia famiglia, erano diverse, ma mi ha interrotto dicendomi che le famiglie “con nomi importanti fanno schifo”. Ha detto proprio così. Da allora non ci siamo più sentiti».
Merlino rimase in silenzio a riflettere, cercando di capire a che cosa si potesse riferire Cathleen con quelle parole taglienti. Gli venne in mente solo un motivo plausibile.
«Che cosa sapete sulla sua famiglia?», gli chiese.
«Assolutamente niente», rispose Artù, come se si fosse aspettato quella domanda. E infatti aggiunse: «Anche io penso che l’abbia detto basandosi sulla sua esperienza personale. Non ha mai accennato ai suoi genitori, a fratelli o sorelle… È come se fosse sempre stata sola al mondo, prima di conoscere Zachary».
«Non so che cosa dire», esclamò Merlino dopo qualche altro istante di silenzio. «I legami familiari sono complicati, voi più di tutti lo sapete: l’amore più profondo può tramutarsi in odio in un battito di ciglia e viceversa. Per quanto mi riguarda mi sono sempre ritenuto fortunato: mia madre mi ha amato oltre ogni misura, ha persino rinunciato a me quando nel mio villaggio i sospetti che fossi uno stregone avevano iniziato a farsi più insistenti, e mio padre… beh, lo conoscevo da appena un giorno quando ha sacrificato la sua vita per la mia».
Sentì lo sguardo di Artù sul suo profilo, profondo e triste, ma Merlino non si girò a guardarlo nemmeno quando disse: «Mi dispiace se l'ho giudicato male, era un brav'uomo».
Merlino annuì, un sorriso mesto sul viso. «Perdonatemi se allora ho mantenuto il segreto anche su questo, ma temevo che vostro padre non avrebbe gradito avere l'ultimo Signore dei Draghi al servizio di suo figlio…».
«Va bene così, Merlino».
Il mago, stupito da tanta calma e gentilezza, si soffermò a guardare il sovrano, di nuovo assorto nei propri pensieri.
Erano quasi arrivati all’agriturismo, quando gli posò una mano sulla spalla, esclamando: «Prima o poi si aprirà con voi, datele un po’ di tempo».
Artù ricambiò il sorriso, anche se si spense non appena si voltò verso il finestrino. Lo stregone avrebbe voluto fare di più per lui, ma si rendeva conto che non poteva; avrebbe pianto con lui e avrebbe gioito con lui, continuando a stargli accanto come aveva sempre fatto.

«Buongiorno Rebecca».
La ragazza sollevò lo sguardo dal computer e gli sorrise, ricambiando il saluto. Quando incrociò gli occhi di Artù la sua espressione cambiò radicalmente ed inspirò a lungo prima di esordire: «Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, mio padre ha ragione: io non sono il tuo tipo e forse nemmeno tu sei il mio. Penso che dovremmo smetterla di illuderci».
Merlino guardò Artù, confuso e spaventato come poche volte l’aveva visto, e dovette mordersi le labbra per non scoppiare a ridere sguaiatamente. Per fortuna arrivò la signora Chapman a salvare tutti da quell’imbarazzante situazione, anche se prima di dedicarsi a lei Rebecca concluse a bassa voce: «Sarà difficile dimenticare, ma ci riusciremo, vedrai».
Artù gli afferrò un polso e negò piano con la testa, mimando con le labbra: «Questa è pazza».
Lo stregone aumentò la pressione dei denti, scosso da un altro attacco di ridarella. Poi tutta la sua attenzione fu catturata proprio dalla signora Chapman, la quale, appoggiata al bancone della reception e china verso Rebecca, chiedeva se le potesse chiamare un taxi per andare in ospedale.
«Certamente», affermò Rebecca con un sorriso cordiale. «Ah, già che è qui signora Chapman, ne approfitto… So che ieri sera è arrivato il fratello di Hala e che ha dormito con lei, ma per questa sera mi si è liberata una camera con i letti separati. Si troverebbero meglio?».
«Sei molto gentile, cara. Chiedo subito a Baqi e Hala e ti faccio sapere, va bene?».
Rebecca stava per dirle che non c’erano problemi, ma Merlino le parlò sopra ripetendo: «Baqi?».
Entrambe le donne lo guardarono fino a quando la signora Chapman non spiegò: «Sì, è il fratello gemello di Hala. Non penso vi siate conosciuti, ma ce ne sarà di sicuro l’occasione».
«Senza dubbio», tentò di rimediare Merlino, stirando un sorriso. «Buona giornata e mi saluti Abby».
Nel sentir nominare la nipote, l'anziana impallidì e il suo volto si accartocciò, come se stesse trattenendo uno starnuto o qualcosa di altrettanto irrefrenabile. Quindi annuì con un cenno del capo ed abbassando gli occhi si allontanò, lasciando i due ragazzi piuttosto confusi. Merlino però accantonò presto l'episodio per concentrarsi su quello che aveva appena scoperto: Baqi, il ragazzo che stava indagando su di lui, era il gemello di Hala e dormiva all'agriturismo, dove lui lavorava. Tutto d'un tratto era impaziente di rassettare camere.
Fece il giro della reception e sulla piccola bacheca di sughero trovò i compiti della giornata, scritti nella bella ed ordinata calligrafia della signora Morris.
Staccò il foglietto e dopo aver recuperato anche il planning delle camere in fermata e in partenza tornò da Artù, il quale stava deviando in ogni modo lo sguardo quasi impietosito di Rebecca, dicendo: «Io vado di sopra a fare le camere». Poi, con nonchalance, chiese: «Qual è la camera di Hala e Baqi?».
«Ahm… al momento hanno la 112. Ti chiamo per farsi sapere se rimangono lì o si spostano, così dai loro una mano con i bagagli».
«Perfetto. A dopo».
Artù lo seguì come se fosse la sua ombra, rigido come un manico di scopa, e Merlino, divertito, tornò da Rebecca ridendo sotto i baffi.
«Artù non ha mai pensato che tra voi due potesse nascere qualcosa, ma ti ringrazia comunque per l’incoraggiamento».
Il re gli lanciò un’occhiata incredula e adirata, ma quando vide che la stessa Rebecca scoppiò a ridere si ricredette e riuscì persino a dargli una bonaria pacca sulla spalla, trascinandolo via.

***

Darrell si chiuse la porta di casa alle spalle e, sovrappensiero com’era, si dimenticò di fare piano. Sul momento però non se ne rese conto e si diresse in cucina, dove si spogliò della giacca e della fondina, lasciandole sullo schienale della sedia su cui poi si sedette, con le mani a nascondergli il viso.
Aveva troppe domande e decisamente troppe poche risposte, e questo lo stava facendo ammattire. Come il fatto che tutto era iniziato quando Freya era entrata a far parte della sua vita, un dettaglio che non poteva di certo ignorare.
«Sei tornato».
Darrell sobbalzò, portando involontariamente una mano sulla pistola appesa alla sedia. La lasciò subito, quando scorse un fremito di paura proprio negli occhi dolci di Freya.
«Mi hai spaventato», si giustificò debolmente, per poi rivolgerle un pallido sorriso. «Ti ho svegliata?».
La ragazza scrollò le spalle e si passò una mano tra i capelli ancora un po’ gonfi. «Non ho dormito molto questa notte».
«Come mai?».
«Non lo so… Forse ero agitata per oggi».
«Che succede oggi?».
Freya si avvicinò e passandogli le dita tra i ricci biondi accennò una risata. «Hai insistito così tanto perché mi lasciassi accompagnare all’ospedale e ora non ti ricordi nemmeno che avevamo deciso di andarci oggi».
«Certo, sì, l’ospedale», mugugnò e si alzò, spostandosi dalle gentili carezze che avevano fatto saltare un battito al suo cuore.
La ragazza lo osservò fare il giro del tavolo per andare ad accendere la macchina del caffè e con la fronte aggrottata gli domandò: «C’è qualcosa che non va?».
Darrell non rispose e cambiò argomento, indicando il sacchetto sopra il ripiano del tavolo: «Ti ho preso la ciambella che ti piace».
Freya aprì il sacchetto e tirò fuori il dolce con la glassa e gli zuccherini colorati, sorridendo a trentadue denti. «Oh, grazie mille».
Quindi recuperò un tovagliolo e la lasciò sul tavolo per prendere una tazza dalla credenza e il latte dal frigorifero. Anche Darrell aveva bisogno di una tazza per il caffè, perciò le disse di lasciare pure aperta l’anta.
Mentre Freya andava a sedersi, il poliziotto si spostò davanti alla credenza, dove però non trovò la sua tazza preferita, quella che suo fratello minore gli aveva regalato quando era diventato un agente e su cui era stampato il logo della Police Academy, i cui film erano sempre piaciuti ad entrambi.
Abbassò lo sguardo e nel lavello vide due tazze sporche, una delle quali era proprio quella che stava cercando. Con la coda dell’occhio vide Freya mordere la propria ciambella, ignara di tutti i sospetti che gli stavano facendo gelare il sangue nelle vene.
«Freya? Perché hai usato la mia tazza?».
La ragazza lo guardò con sguardo perso e dopo aver boccheggiato per un istante tornò a sorridergli, rispondendo: «Ti ho detto che ieri sera non riuscivo a dormire; mi sono fatta del tè e non ci ho fatto caso. Mi dispiace».
Darrell non era stupido e il presentimento che Freya gli stesse mentendo tornò a farsi sentire con forza. Il problema era che non aveva prove concrete su cui basarsi e fondare le proprie accuse. E continuando di quel passo non ne avrebbe mai avute.
«Okay, hai finito?», le chiese bruscamente, trovandola con la bocca piena e i baffi di latte. In un altro momento l’avrebbe trovata così buffa e tenera che gli si sarebbe sciolto il cuore, ma tutto quello che stava succedendo gli aveva inaridito l’anima.
Freya deglutì rumorosamente ed annuì subito, come se non volesse vederlo arrabbiato, e senza nemmeno finire il proprio latte corse nella stanza degli ospiti per cambiarsi e prendere la borsa che aveva preparato con alcuni cambi – giusto per ogni evenienza.
Darrell non avrebbe voluto trattarla in quel modo, come la sospettata di un crimine orrendo, ma era più forte di lui.
Approfittò di quei minuti d’attesa per darsi una rapida sciacquata e cambiarsi, infilandosi un paio di semplici jeans e una camicia a quadretti sotto alla giacca a vento color petrolio.
Quando entrambi furono pronti, uscirono di casa e raggiunsero l’ospedale in religioso silenzio. La tensione tra loro era così densa da poterla tagliare a fette.
La situazione non migliorò nemmeno in ospedale, quando la dottoressa che prese in carico il caso di Freya iniziò a fare domande per stabilire un primo quadro clinico e decidere a quali tipi di esami sottoporla. Darrell rispose quasi a monosillabi, troppo distratto e deluso dal suo stesso comportamento.
Come aveva potuto essere così ingenuo? Avere la presunzione di poter fare l’eroe? Ospitare a casa sua una sconosciuta e sottostare alle sue regole, anziché chiamare subito le autorità competenti?
«Beh, direi di iniziare con un esame del sangue e delle urine e poi controlleremo il tuo corpo per appuntarci segni particolari, cicatrici, qualsiasi cosa possa aiutarci a costruire la tua storia clinica. Più tardi faremo anche una TAC per cercare di capire che cosa ha provocato la perdita di memoria, okay?».
Freya annuì alle parole della dottoressa e l’espressione impassibile sul suo volto non lasciò trasparire nessuna delle emozioni che provava, tantomeno la paura, ma Darrell riuscì a percepirla grazie al lieve tremore della mano che aveva cercato il conforto della sua. L’agente aveva socchiuso gli occhi e si era sottratto a quella stretta, portandosi entrambe le mani dietro la schiena, e la ragazza allora – solo allora – lo aveva guardato impaurita mentre la dottoressa e un’infermiera la invitavano a seguirle, prendendola sottobraccio.
Darrell si sentì un mostro ed evitò il suo sguardo chinando il capo. Non lo rialzò nemmeno quando sentì la sua voce mormorare: «Avevi promesso che saresti stato con me per tutto il tempo. L’avevi promesso, Darrell».
Alla fine trovò la forza per rispondere, anche se con poche parole: «Mi dispiace, non ci riesco», ma Freya era già lontana.

***

Merlino abbandonò il proprio carrello e guardò da una parte all’altra del corridoio prima di aprire la porta della stanza 112. Senza infilare la tessera nella slot apposita – non voleva che Rebecca dalla reception lo vedesse e gli facesse domande – entrò ed iniziò a curiosare tra gli oggetti personali dei gemelli. Aprì le valigie addossate alla parete, controllò nell’armadio e frugò nei cassetti dei comodini, poi sollevò i cuscini e tirò via le coperte.
Niente, non c’era niente.
Lo sguardo gli cadde sul blocchetto di appunti posato accanto all’abat-jour. Lo portò accanto alla finestra e si accorse che era stato scritto qualcosa sul foglietto prima – ce n’era ancora l’impronta. Si precipitò al cestino posato ai piedi del letto, lo svuotò sul pavimento ed iniziò a cercare freneticamente l’unico indizio che avrebbe potuto fargli avere una certezza in più sulla pericolosità di quei due ragazzi.
Aprì un foglietto appallottolato ed ebbe solo il tempo di leggere il primo punto prima di essere colto in flagrante proprio da Hala, ferma sulla porta e con gli occhi sgranati, impauriti e al contempo desiderosi di scoprire la verità.
«Mi dispiace infinitamente», disse subito Merlino col tono più mortificato del suo repertorio. «Stavo rifacendo il letto e ci sono inciampato».
Raccolse da terra tutto il contenuto del cestino e poi si alzò, sorridendo innocentemente alla ragazza di fronte a lui.
«Se vuoi posso tornare più tardi», disse.
Hala si schiarì la voce e si gettò un’occhiata alle spalle, come se avesse paura che qualcuno la vedesse parlare con lui, e rispose: «A me e mio fratello è stata assegnata un’altra camera, credo che Rebecca ti stesse cercando per dirtelo».
«Oh… Ma certo, che stupido». Tirò fuori dalla tasca dei jeans il passepartout dei camerieri e glielo indicò, ridacchiando. «Non so dov’ho la testa, oggi».
Dopo qualche secondo di silenzio, Merlino chinò il capo e con un mezzo sorriso sulle labbra uscì dalla stanza passandole accanto. Percepì la sua agitazione e quella fu proprio la conferma che cercava: lei sapeva, chissà come ma sapeva.
«Chiamatemi, se avete bisogno di aiuto con i bagagli», esclamò una volta raggiunto il carrello.
Hala non si voltò nemmeno per rispondergli: «Grazie, non ce ne sarà bisogno».
«Come vuoi».
Merlino si allontanò e si infilò nella prima camera libera che necessitava della pulizia. Inserì la propria tessera magnetica nella slot e subito il telefono squillò. Sospirando sollevò la cornetta e salutò Rebecca, la quale gli chiese subito dove cavolo era finito.
«Scusami, sono andato a recuperare le federe pulite in magazzino, non ne avevo più sul carrello», mentì. «Avevi bisogno di qualcosa?».
«Volevo solo avvisarti che i gemelli…».
«Cambiano stanza, sì. Ho incrociato adesso la ragazza e me l’ha anticipato. Le ho anche chiesto se avesse bisogno con i bagagli, ma ha detto di no».
«Oh, okay, meglio così allora. A più tardi».
Merlino posò la cornetta e si sedette sul letto per esaminare più attentamente il foglietto che si era nascosto all’interno della manica della felpa quando era stato beccato.
La scrittura era decisamente femminile, perciò era stata Hala a segnarsi ciò che aveva scoperto su di lui o le domande che necessitavano ancora di una risposta:

- Non parla quasi mai del suo passato
- Racconta storie ambientate a Camelot, su Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda
- L’ospedale della foto del 1935 è stato distrutto e sulle sue ceneri è stato costruito quello odierno. Coincidenza?
- Relazione con la bisnonna di Abby – lei sa qualcosa?


L’ultimo punto, un tassello fondamentale del puzzle, lo lasciò senza fiato. Se era davvero come pensava, le cose si facevano ancora più complicate.
Sentì il clacson di un’auto e si alzò dal letto, reggendosi a fatica sulle gambe per lo shock. Dalla finestra, riuscì a vedere il taxi fermo nel parcheggio dell’agriturismo e la signora Chapman salire per prima, con Baqi e Hala al seguito. La ragazza alzò per caso il capo e quando incrociò il suo sguardo non si ritrasse, anzi lo ricambiò con fierezza, come a volergli lanciare una sfida.
Merlino strinse con più forza il foglietto nella mano e quando il taxi imboccò la strada sterrata per raggiungere il paese si sedette a terra, con le spalle al muro e la testa abbandonata tra le braccia.

***

Alla fine, per una cosa o per un’altra, non era riuscito a scambiare due parole con Abigail. Quello era il suo giorno libero, come il giorno precedente, ma siccome non aveva altri impegni aveva deciso di farle visita. E forse, inconsciamente, voleva anche incrociare lo sguardo profondo di Hala.
Salì fino al quarto piano con l’ascensore e si diresse verso la camera della ragazzina, ma vi trovò soltanto un’infermiera che stava rifacendo il letto. Allora optò per la mensa e fu proprio lì che la vide, seduta da sola nell’ultimo tavolo della sala, più intenta a leggere che a fare colazione.
La raggiunse e si sedette di fronte a lei. Dovette schiarirsi la gola un paio di volte prima che si accorgesse della sua presenza ed arricciasse il naso chiedendogli in tono sorpreso ma anche scettico che cosa ci facesse lì.
«Sono solo passato a vedere come te la passi».
Abby mise il manico della forchetta di plastica tra le pagine del libro dall’usurata copertina di pelle che stava leggendo ed abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Sai, ho accettato che non avrò il futuro che ho sempre voluto, che non lascerò un’impronta abbastanza duratura nel mondo… perciò sono a metà dell’opera».
Keith sospirò e negò lentamente il capo. «Non ci credo».
«A che cosa?».
«Al fatto che tu ti stia arrendendo. Tutti quelli che ti conoscono non fanno altro che ammirare il tuo coraggio, la voglia di vivere che trasmetti a chi crede di non avere più speranze… Si sono fatti un’idea sbagliata di te?».
I suoi occhi si fecero all’improvviso duri come l’acciaio, inflessibili, e la sua voce più determinata che mai: «No. Lotterò fino all’ultimo respiro per le persone che amo, ma so anche che c’è un’elevata percentuale che io non ce la faccia prima che venga trovato un donatore compatibile».
«Sei un bel tipo, Abigail», esclamò Keith, sorridendo. «E sono sicuro che la lascerai, un’impronta abbastanza duratura nel mondo».
«Grazie, dottor Ellis».
Si alzò e sistemò la sedia sotto al tavolo, ma prima di andarsene le indicò la tazza di latte e cereali ancora piena che aveva lasciato sul vassoio assieme alla macedonia.
«Devi mantenerti in forze, per quando arriverà il donatore».
«Certo», rispose Abby con un piccolo sorriso, prima di riprendere la lettura da dove l’aveva interrotta.
Stava per andarsene veramente quella volta, ma non riuscì a tenere a freno la lingua ed esclamò: «Che tu sappia Hala si vede con qualcuno?».
Abigail alzò di scatto gli occhi dalle pagine del libro e gli rivolse un sorriso malizioso, non molto rassicurante.

Keith stava trotterellando giù per le scale, felice come una pasqua, e non si accorse del motivo della sua contentezza fino a quando non rischiò di finirle addosso.
«Perdonami», esclamò subito, stringendo lievemente la mani intorno agli avambracci della ragazza perché non cadesse all’indietro. Poi incrociò quegli occhi color ambra in grado di fondergli il cervello e la lasciò subito andare, colpito da un attacco improvviso di vergogna.
«Hala», balbettò. «Ciao, scusa, non ti ho proprio vista».
«Già, le ragazze come me passano inosservate la maggior parte delle volte».
Keith aprì la bocca per dirle che non era assolutamente così, che l’aveva colpito sin dalla prima volta che si erano visti, ma lei non gliene diede il tempo.
«Ci vediamo», lo salutò riprendendo a salire rapidamente le scale.
«No, Hala, aspetta!».
La ragazza si fermò all’improvviso e strinse più forte le dita intorno al corrimano.
«So che ci siamo visti appena due volte, ma mi chiedevo se ti andasse di uscire a bere qualcosa, una di queste sere».
Deglutì rumorosamente, mandando giù tutto il nervosismo che aveva accumulato prima di riuscire a dire quelle parole. Ma Hala non rispose come si aspettava e fece più male del previsto.
«Ci penserò. Ora devo proprio andare».
Keith rimase in silenzio e la guardò salire quasi di corsa gli ultimi gradini e sparire alla sua vista. Quindi sospirò, dandosi un colpo in testa col palmo della mano. Allo stesso tempo però sorrideva, perché prima che le cose andassero in porto con Alex, lei lo aveva fatto stare sulle spine proprio come aveva fatto Hala. Che fosse un segno? In quel caso, non avrebbe mandato tutto a monte una seconda volta.
Speranzoso che prima o poi Hala sarebbe uscita con lui, sarebbe andato dritto per la sua strada se attraversando il corridoio non avesse scorto di sfuggita il volto di una ragazza familiare.
Tornò sui suoi passi e seduta su uno dei lettini del Pronto Soccorso riconobbe la ragazza che a quanto sapeva aveva più volte cercato Alex. Un infermiere le stava stringendo un laccio emostatico sopra all’incavo del braccio per un prelievo e i suoi occhi erano spaesati e assenti, ben lontani dalla realtà che la circondava.
Aveva visto quell’espressione solamente in un altro caso e mai l’avrebbe dimenticata: Artù, l’amico di Merlino, era nello stesso stato psicologico quando l’aveva visitato.
Coi brividi lungo la schiena si avvicinò e senza farsi notare dalla diretta interessata – cosa che non sarebbe comunque successa – aspettò che l’infermiere finisse di prelevarle il campione di sangue da mandare in laboratorio e poi lo placcò, chiedendogli che cos’avesse.
«Dice di aver perso completamente la memoria. L’agente Fisher l’ha trovata mentre vagabondava per il bosco e l’ha ospitata per un po’, fino a quando lei non si è sentita pronta a farsi visitare. È un peccato, perché ogni traccia che avrebbe potuto esserci sul suo corpo è andata da un pezzo».
«Memoria, eh? Tu le credi?», gli chiese Keith, con le braccia incrociate al petto.
L’infermiere scrollò le spalle. «Perché non dovrei? Aspetta… Non è che la conosci?».
«Mai vista prima», mormorò e poi sorrise all’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. «Buon lavoro».
Si allontanò e prima di uscire dalle porte scorrevoli gettò un’occhiata all’interno della sala d’aspetto, dove trovò l’agente Fisher con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani in faccia.
C’era qualcosa che non quadrava in tutto ciò, se lo sentiva, ma non era mai stato bravo a far parlare le persone. Conosceva però qualcuno in grado di riuscirci.
Sulla rampa per disabili, si appoggiò alla ringhiera con un fianco e scrisse un SMS ad Alex.

***

Quando Hala aveva raggiunto la signora Chapman e Baqi nella stanza di Abby, lievemente affannata e col cuore che le batteva forte per tutto ciò che era successo, aveva scoperto che in realtà Abigail non c’era.
Aveva chiesto informazioni ad un’infermiera di passaggio e questa le aveva detto che forse, visto l’orario, l’avrebbe trovata in mensa, a fare colazione. Aveva detto al gemello di aspettare nella sua stanza mentre andava a cercarla e l’ipotesi della donna si era rivelata corretta, se non per un particolare: Abby aveva a malapena spiluccato qualcosa, ben più interessata al diario della sua bisnonna Louise.
«Proprio di questo volevo parlarti», esordì bruscamente, sbattendo sul tavolo la propria borsa. «Dimmi tutto quello che sai su Merlino. E non osare mentirmi».
Abigail sollevò lentamente gli occhi dalle pagine del diario e le rivolse un’occhiata infastidita. «Cosa pensi che sappia, esattamente?».
«Più di quanto dici», ribatté e con poca grazia allontanò la sedia da sotto il tavolo per sedersi di fronte alla ragazzina, la quale incrociò le braccia al petto.
«Ci sono stati forse sviluppi di cui io non sono a conoscenza?», le chiese sorridendo beffarda.
«A dire la verità, sì. Questa mattina ho trovato il tuo amico intento a rovistare nel mio cestino, all’agriturismo».
«Sbadato com’è, ci sarà inciampato».
«Non difenderlo, Abby. Lo so che cercava qualcosa».
«Che cosa potrebbe mai volere da te, eh? Siete tu e Baqi quelli che stanno indagando su di lui!», urlò a mezza voce, per non attirare l’attenzione delle infermiere in mensa. Danilo però, seduto a qualche tavolo di distanza, sentì tutto e le gettò un’occhiata perplessa.
Hala sospirò, posando con calma i palmi delle mani, lievemente sudati, sulla superficie del tavolo. «Non farmi sentire in colpa adesso, non sto facendo nulla di male».
«Non spetta a te giudicare se quello che state facendo sia giusto o sbagliato, ma a Merlino. Perciò, a meno che tu non abbia una prova inconfutabile che dimostra che sia immortale, che abbia avuto una relazione con la mia bisnonna o che abbia qualche collegamento con la costruzione di questo ospedale, fareste meglio a smetterla. Dovete lasciarlo stare, tutti e due».
La pakistana aprì la bocca per ribattere, ma lo sguardo gelido di Abby la fece desistere.
«Sono stata chiara?», le domandò ancora, quasi ringhiando.
Hala non rispose, si limitò ad annuire con un cenno del capo e ad alzarsi.
Ovviamente non avrebbe smesso di indagare, avrebbe solamente evitato di coinvolgere ulteriormente la ragazzina.
A quanto pare, questo Merlino riesce ad ottenere l’amicizia e la lealtà di chiunque, pensò mentre le dava le spalle, diretta verso l’uscita. Persino quella di Abigail, che aveva sempre reputato una ragazzina intelligente.
Come poteva non rendersi conto che c’era qualcosa di sbagliato, in lui? Lei l’aveva saputo dalla prima volta che l’aveva visto, una consapevolezza che aveva preso forma nel suo cuore attraverso un brivido sottopelle.
«Hala?».
Sorpresa, esitò prima di girarsi. E lo fu ancora di più quando vide Abby sorriderle dolcemente, come se non le avesse appena voltato le spalle, preferendo Merlino a ciò che di più vicino ad una sorella avesse mai avuto.
«Il dottor Ellis è venuto a trovarmi, poco fa. Mi ha chiesto di te e se fossi già impegnata».
«L’ho incontrato per le scale», rispose con la voce rotta dall’emozione. «Che cosa gli hai detto?».
Abby scrollò le spalle. «Che per quanto ne so, non ti stai vedendo con nessuno. Però gli ho detto di non essere sicura e di chiedere direttamente a te, se era davvero interessato».
Davvero interessato. Quand’era stata l’ultima volta che qualcuno si era davvero interessato a lei, ai suoi sentimenti? A parte suo fratello e la signora Chapman, nessuno negli ultimi quattro anni.
L’ultimo ragazzo che aveva avuto, se così poteva definirsi, era addirittura stato il ragazzino che a undici anni i suoi genitori avevano scelto per lei, convinti che iniziare a frequentarsi da piccoli avrebbe reso più facile lo sbocciare dell’amore (come se fosse davvero importato loro qualcosa). La verità era che volevano solo togliersi un peso dalla coscienza, cercando di rendere meno squallida possibile l’usanza del matrimonio combinato.
Da quando aveva scoperto il loro subdolo piano – e spezzato il cuore di Yasir – ogni volta che un ragazzo le si avvicinava era sempre stata un po’ scettica, sempre alla ricerca del trucco o dell’inganno. Le risultava difficile fidarsi e prendere sul serio le attenzioni maschili, visto soprattutto che in una scala da uno a dieci dava al proprio aspetto fisico un sei scarso.
Perciò come poteva credere che quell’angelo mulatto fosse interessato ad una come lei? Era impossibile ai suoi occhi.
«Allora, l’ha fatto?», le chiese Abby ad un tono di voce decisamente alto, volto a farla tornare coi piedi per terra.
«Fatto cosa?», ripeté, sbattendo le palpebre.
«Ti ha chiesto di uscire?».
Hala annuì e solo allora si rese conto di quanto era stata fredda e disinteressata nel rispondere a Keith, come se avesse avuto decine di quelle proposte ogni giorno. La lista delle colpe di Merlino continuava ad allungarsi.
«E tu che cosa gli hai risposto?».
L’espressione sul viso di Abby era così curiosa ed eccitata che Hala provò un immenso piacere nel darle le spalle e rispondere incurante: «Chissà!».

***

Alex aveva appena aperto la porta di casa a Sebastian – il tuttofare della cittadina che aveva chiamato per la finestra della sua camera da letto – quando le era arrivato il primo messaggio di Keith.
La ragazza che l’aveva cercata più volte all’ospedale si stava sottoponendo ad alcuni test ed affermava di aver perso la memoria. Era stato l’agente Fisher a trovarla e ad ospitarla fino a quando non si era sentita pronta a farsi visitare, ma era evidente che c’era qualcosa che non tornava. Pure Keith l’aveva capito e Alex non poteva più ignorare la presenza di Freya nelle loro vite: che cosa sarebbe successo se il suo ex non si fosse fermato lì e avesse iniziato a fare domande? Automaticamente anche il segreto di Merlino sarebbe stato a rischio e non era disposta ad accettare che accadesse. Era ora di chiudere quella storia una volta per tutte.
Lasciò le chiavi di casa all’operaio e tornò in ospedale, dove – non poté evitarlo – incrociò nuovamente Darrell. Anche quel ragazzo le dava l’impressione di nascondere qualcosa e faticava ad inquadrarlo, coi suoi comportamenti istintivi e a volte imprevedibili.
Camminava avanti e indietro nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso, torturandosi le mani o infilandole tra i folti capelli ricci. Ovviamente, Freya era riuscita a farsi voler bene. E parecchio, vista la sua agitazione.
Alex provò a tirare dritto, ma l’agente di polizia la vide e le corse incontro, il viso prima contratto in un’espressione di pura preoccupazione e successivamente, rendendosi conto che non avrebbe dovuto trovarsi lì, sospettosa.
«Pensavo avessi fatto il turno di notte», esordì con la fronte aggrottata.
«Infatti. Ho solo dimenticato una cosa nell’armadietto. Tu invece perché sei qui?», gli domandò, nonostante conoscesse perfettamente la risposta.
«Ho fatto un casino». Sospirò e le diede le spalle per sedersi su una delle poltroncine.
Alex avrebbe potuto ignorarlo e andarsene, ma fu più forte di lei: vederlo così abbattuto le dispiaceva e il minimo che poteva fare era rassicurarlo che aveva visto e fatto lei stessa casini peggiori.
Se ne sarebbe pentita, lo sapeva; ciò nonostante, si sedette al suo fianco e gli chiese: «Che cos’è successo?».
Darrell si appoggiò il mento tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia. «Mi sono messo in una situazione spiacevole. Ho ospitato in casa mia una sconosciuta, potrei anche essere accusato di aver intralciato la giustizia se per colpa mia si fossero cancellate delle prove, e poi...».
«Poi cosa?».
«Mi sono fidato di lei, mi sono... affezionato. Non dovevo».
«E perché no?».
«Perché bisogna pensare con questa», rispose battendosi due dita sulla tempia. «E non lasciarsi governare dal cuore».
Alex sorrise e Darrell ne fu tanto sorpreso quanto infastidito.
«Ho detto qualcosa di divertente?», la rimbeccò.
«No, mi hai solo ricordato che anche io, per un po’ di tempo, mi costringevo a pensarla così. E alla resa dei conti non è andata a finire bene».
Darrell non disse niente, si limitò a guardarla profondamente coi suoi occhi color nocciola, e Alex aggiunse: «Quelli come noi.. non riescono a non farsi guidare dal cuore. Possiamo provarci, ma non staremo mai bene con noi stessi, perché non è nella nostra natura».
«Quindi secondo te dovrei ignorare ciò che mi dice l’istinto e seguire il cuore?».
«No, aspetta un momento», lo frenò, portando entrambe le mani avanti. «Stavamo parlando di ragione, non di istinto; sono due cose diverse».
Il poliziotto si coprì il volto con le mani e respirò profondamente. «Ho la testa che sta per scoppiarmi».
Alex si guardò intorno nella sala d’aspetto e quando realizzò che non c’era nessuna collega che stesse prestando loro attenzione, gli posò una mano sulla schiena per accarezzarla.
«Lo so che ci conosciamo a malapena, ma... se vuoi parlarne con qualcuno, puoi contare su di me». Specialmente se riguarda Freya e i suoi piani per il futuro, avrebbe voluto aggiungere.
«Grazie, Alexandra», rispose guardandola negli occhi.
Alex accennò un sorriso, che si tramutò in una smorfia di nervosismo quando si rese conto che non riusciva a schiodare gli occhi dai suoi. Erano così belli... Di un’innocenza e di una genuinità a cui non era più abituata, a furia di perdersi in quelli di Merlino, che da tempo avevano perso la gioia e l’ardore della giovinezza.
Fu lui alla fine a distogliere per primo lo sguardo, puntandolo verso il banco dell’accettazione.
«Credi che ci metteranno molto?», le domandò, mordendosi il labbro inferiore.
Alex si alzò frettolosamente e senza nemmeno pensarci rispose: «Vado a controllare a che punto sono, se vuoi».
«Lo faresti davvero?».
Annuì, cercando di ignorare la stretta allo stomaco causata dagli occhi limpidi del biondo.
«Non so davvero come...», iniziò a ringraziarla, ma l’infermiera lo interruppe bruscamente, già girata di tre quarti: «Non devi. Faccio in un lampo».
Veloce proprio come un fulmine, uscì dalla sala d’aspetto e chiese ad una collega dove potesse trovare Freya. Le indicarono uno dei lettini nell’area riservata ai pazienti da visitare o con ferite lievi. Erano tirate solo le tende laterali, quelle che dividevano un letto dall’altro, perciò fu facile individuarla.
«Non ti aspettavo così presto», esordì la custode.
Alex la ignorò e con fare circospetto tirò anche l’ultima tenda, in modo da avere un po’ di privacy.
«Avresti dovuto prestare più attenzione, quando sei venuta qui a cercarmi».
La studiò da lontano per qualche istante, prima di avvicinarsi e posare entrambe le mani sulla sbarra di ferro ai piedi del letto.
«Un mio collega ti ha riconosciuta e mi ha avvisata che eri qui. Che intenzioni hai?».
«Ho solo mantenuto la parola data», rispose Freya, per poi aggiungere sottovoce e a capo chino: «Al contrario di qualcun altro».
«Ti riferisci a Darrell? È qui fuori ed è a pezzi, per colpa tua», indicò oltre le tende, rabbiosa. «Cosa gli hai fatto?».
«Proprio niente. Forse si è solo pentito di avermi aiutata».
«Non lo so. Ma di una cosa sono certa: tu non passerai come vittima della situazione, è chiaro? È colpa tua se Darrell sta male, se Artù e Merlino hanno dovuto patire una vita di sofferenze e io...».
«Lo capisco, sei arrabbiata e hai bisogno di un capro espiatorio», esclamò interrompendola. «Sono d’accordo con te».
«Sei d’accordo? Ah, questo è il colmo!», sbuffò trattenendo a stento una risata amara. Si voltò e con una mano sulla tenda, pronta a scostarla bruscamente, concluse: «Mi chiedo che cosa speravo di ottenere venendo qui».
«Io credo che tu lo sappia fin troppo bene, invece. Volevi conoscere il tuo destino, non è così?».
Alex si pietrificò sul posto, come se una forza invisibile avesse appena inchiodato le suole delle sue scarpe al pavimento. Riuscì però ad affermare a denti stretti: «Io non credo nel destino».
«Oh, sì, ho saputo della tua promessa… La Dea non ha preso bene la tua dichiarazione di guerra».
Alex si ritrovò all'improvviso con lo stomaco annodato e prima che potesse chiederle che cosa volesse dire, oppure chi fosse la Dea di cui parlava, Freya disse con solennità: «È scritto che tu riporterai la magia nel mondo. E nessun uomo, o sarebbe meglio dire donna in questo caso… Nessuna donna, non importa quanto grande ella sia, è in grado di contrastare il proprio destino».
«Proporrei una scommessa, ma so che non possiedi niente…», provò a sdrammatizzare, ma la custode le rivolse un’occhiata gelida.
«E tu possiedi fin troppo, Alexandra. Un padre che ti vuole bene», iniziò ad elencare sulla punta delle dita. «Il tuo antenato più famoso, un lavoro gratificante, degli amici, l’amore di Merlino e… oh», ridacchiò, indicando il bracciale che portava al polso, e concluse: «Dei poteri di cui hai paura».
L’infermiera abbassò gli occhi sul bracciale di Morgana, stretto intorno al suo polso destro, e serrò la mascella. «È vero, ne ho paura», confessò, ma a testa alta. «Però sono stata io a tirarti fuori dal lago e sono certa che in un modo o nell’altro riuscirei a ributtartici se lo volessi».
Freya aprì la bocca per ribattere, arcigna in volto, ma un infermiere tirò la tenda alle spalle di Alex e glielo impedì.
«È arrivato il tuo turno per la TAC! Ehi, Alex… Pensavo fossi andata a casa», esclamò il collega, corrugando la fronte.
«Sì, è vero, ma ho dimenticato una cosa nell’armadietto», Alex ripeté la scusa che aveva già usato con Darrell. Poi, sorridendo, aggiunse: «Questa ragazza mi ha visto passare e mi ha scambiato per una persona che conosceva. È un buon segno, no? Ho letto sulla sua cartella che ha perso la memoria».
«Sì, lo farò sapere al suo dottore», esclamò l’infermiere. «Grazie, Alex».
«Ma figurati. Ti do’ una mano?».
Senza aspettare la sua risposta, raggiunse la parte sinistra del lettino e disabilitò il freno delle ruote, in modo che potesse essere trasportato ovunque si volesse all’interno della struttura.
«Ci si vede», la salutò il collega.
Prima che voltassero l’angolo, Alex e Freya si scambiarono un’occhiata carica di tensione: anche loro si sarebbero riviste presto, poco ma sicuro.
La bionda si diresse a passo spedito verso gli spogliatoi, stringendo forte il bracciale con una mano e ripensando alle parole della custode della magia, e anziché entrare in quello delle donne si intrufolò in quello degli uomini. Aprì l’armadietto di Merlino e recuperò la prima cosa che vi trovò all’interno: un foulard rosso che il mago non portava da tanto, troppo tempo. Se lo legò intorno al collo e vi immerse il naso per respirare il suo profumo, come sempre in grado di calmarla.
Quando uscì, fu costretta a passare di fronte alla sala d’aspetto e a mantenere la parola data a Darrell, il quale aspettava fremente che ritornasse con delle notizie su Freya.
«Allora?», le domandò non appena l’ebbe raggiunta.
«Sta bene, la stanno portando ora a fare la TAC».
«Puoi dirmi dov’è che la fanno? Devo assolutamente parlarle, farle sapere che sarò lì fuori ad aspettarla».
Alex sospirò ed indicò l’ascensore: «Primo piano, sulla destra. Non so farai in tempo però…».
«Grazie, grazie davvero», esclamò posandole una mano sul braccio.
Lei sobbalzò a quel contatto, ma il poliziotto non se ne accorse e corse verso le scale senza voltarsi più indietro.
Uscendo dall’ospedale, Alex scosse il capo, fermamente convinta che fosse tutto dovuto allo stress e alla stanchezza. Il suo cuore apparteneva a Merlino, l’uomo che doveva sposare, e a nessun altro.
Si portò nuovamente il fazzoletto rosso al naso, inspirando avidamente, ma quella volta il profumo dello stregone non bastò.

***

«Ho finito con le camere», esclamò Merlino saltando l’ultimo gradino della scalinata. Quindi si appoggiò al bancone della reception, dietro cui c’era Rebecca intenta a controllare gli arrivi di quella sera, e passandosi il dorso della mano sulla fronte sudata le chiese: «Sai dov’è tua madre?».
«Credo all’orto. Ma Edwin mi ha chiesto di mandarti da lui, non appena avessi finito».
«Okay, alle stalle?».
La mora annuì e Merlino non attese oltre. Uscì dalla porta sul retro e pescò i suoi stivali da lavoro dalla scarpiera comune, poi si diresse verso lo stabile. Passando vide Artù circondato da una ventina di bambini delle scuole elementari, tutti impazienti di poter accarezzare una pecora sul muso, e sorrise abbassando il capo. Sarebbe stato un ottimo padre se ne avesse avuta l’opportunità, ne era certo.
Quando raggiunse le stalle, picchiò le nocche sullo stipite dell’ingresso e si sporse all’interno. «Signor Greenwood, aveva bisogno di me?».
Il padre di Alex scosse il capo, arrendevole, all’ennesimo tentativo fallito di spazzolare la criniera del cavallo dal manto nero, il più irrequieto tra tutti.
«Merlino, sì, devo parlarti. Siediti».
Lo stregone avanzò a passo insicuro, chiedendosi che cosa mai dovesse dirgli. A dire la verità era lui a dover dire qualcosa al padre di Alex, qualcosa che continuava a rimandare per paura della sua reazione. Che l’infermiera gliel’avesse già detto e si fosse dimenticata di avvisarlo?
Si schiarì la gola e si sedette rigidamente sullo sgabello che Edwin gli aveva indicato. Poi, senza riuscire più ad aspettare, esclamò: «Mi dispiace, avrei voluto dirglielo prima, ma non era mai il momento adatto e…».
Il signor Greenwood lo fissò con entrambe le sopracciglia inarcate. «Dirmi che cosa?».
«Quello di cui… di cui deve parlarmi», ripeté evasivo Merlino, guardandolo con la sua stessa confusione dipinta sul viso.
«Io volevo solo chiederti di anticipare ad Alexandra che non ho altre alternative che vendere questo cavallo: è troppo irrequieto e al momento è un costo che non possiamo permetterci. So che si è affezionata e che tu riesci a farla ragionare più di chiunque altro, perciò…», diede una pacca al fianco del cavallo, il quale parve sbuffare irritato, e poi afferrò un altro sgabello per sedersi proprio di fronte al mago, la fronte solcata di rughe d’espressione e gli occhi ben piantati nei suoi. «Tu, invece, che cosa devi dirmi?».
«Io…». Merlino si passò una mano sul collo, nervosamente, ed abbassò gli occhi. Dopo un respiro profondo, confessò: «Ho chiesto ad Alex di sposarmi».
Si sforzò di sollevare il capo quel tanto che bastava per scorgere l’espressione sul volto dell’uomo. Rendendosi conto che l’aveva scioccato tanto da lasciarlo a bocca aperta, si affrettò a scusarsi: «Lo so che avrei dovuto prima chiedere la sua benedizione, ma mi è venuto così, è stata una decisione spontanea… Non sto dicendo che non lo rifarei ancora e ancora, amo sua figlia più della mia stessa vita, però ha ragione ad essere arrabbiato, se lo è… Lo è?».
Edwin gli posò una mano sulla spalla e alla fine abbozzò un sorriso, sussurrando: «È successo a Londra, non è così?».
Merlino annuì con un cenno del capo e aprì la bocca per chiedere come facesse a saperlo, ma il signor Greenwood non gliene diede il tempo e rispose direttamente: «Da quando siete tornati da quel viaggio l’ho vista diversa, cambiata… Ho solo unito i puntini».
«E lei è… insomma, è d’accordo?», gli domandò, col cuore che gli batteva forte nel petto e un velo di sudore sulla schiena.
«Io voglio solo che la mia bambina sia felice. Quindi ricordati che se le farai del male…». Si alzò ed afferrò il rastrello che aveva lasciato appoggiato contro la parete. Lo sollevò un poco e concluse: «Ti scuoierò vivo con questo».
«Oh. Okay, lo terrò a mente», mormorò, deglutendo rumorosamente.
Edwin rise e gli offrì una mano perché si alzasse, esclamando: «Avanti, vieni qui imbranato che non sei altro». E lo attirò in un abbraccio inaspettato, dandogli diverse pacche sulla schiena.
Merlino ne fu così piacevolmente sorpreso che non riuscì a spiccicare parola: sperava che il suo sorriso a trentadue denti parlasse per lui.
Poi Edwin gli avvolse un braccio intorno alle spalle e accompagnandolo fuori dalle stalle notò: «Però non l’ho vista portare anelli nuovi».
Lo stregone si passò nuovamente una mano tra i capelli umidi a contatto con la pelle sudata del collo. «Le ho detto che non avevo programmato nulla quando le ho fatto la proposta… E ultimamente non ho avuto tempo per andare a cercare l’anello giusto, sono mortificato».
«Sai, forse a questo proposito potrei aiutarti io».
«Davvero? Gliene sarei eternamente grato», balbettò, rosso come un peperone per l’imbarazzo, ed Edwin gli diede l’ennesima pacca sulla schiena.
«Vieni con me, coraggio».
Una volta all’esterno, Merlino pensò di aver sentito il suo nome e si gettò un’occhiata alle spalle, dove vide Artù con le mani sui fianchi e un enorme punto interrogativo sul volto. Gli fece segno di aspettare e poi seguì il padre di Alex verso la sua piccola magione.

***

Era stato strano parlare in quel modo con Alexandra, soprattutto dopo i sospetti che gli erano sorti sull’effrazione a casa sua. Si era sentito legato a lei, quasi connesso, ed era stato facile sfogarsi. Fin troppo.
Quel pensiero lo fece esitare una volta arrivato nel corridoio del primo piano, ma non abbastanza da non raggiungere l’infermiere che stava portando Freya a fare la TAC.
«Ehi, aspettate!».
Il ragazzo si voltò e roteò gli occhi al cielo, esclamando con voce un po’ effemminata: «Non c’è bisogno di fare tutte queste scene, non sta andando a fare un’operazione!».
«Lo so, ma ho bisogno di parlarle. Solo due minuti».
«E va bene!», sbuffò e li lasciò soli.
Darrell si portò alla sinistra di Freya e con timore quasi riverenziale le accarezzò una ciocca di capelli corvini che le sfiorava la guancia.
«Risparmiati le scuse, non servono», esclamò freddamente la ragazza, rivolgendo altrove l’attenzione dei propri occhi lucidi.
«Invece sì. Mi dispiace di non aver mantenuto la promessa, sono stato un vero stupido. E anche dubitare di te è stato –».
«Dubitare di me?», lo interruppe, scostandosi dalla carezza della sua mano. Poi abbozzò un sorriso venato d’amarezza, esclamando: «Ora capisco perché eri così distante, a volte. E ti do’ ragione, Darrell».
«Cosa? No, no, non sono io quello da compatire, ma tu: tu hai perso la memoria, tu...».
Freya si sollevò sul lettino e gli posò un dito sulle labbra per azzittirlo. Sorridendo con dolcezza, aggiunse: «Questa situazione non poteva andare avanti all’infinito, lo sai. Forse è giunto il momento che ognuno vada per la propria strada».
«Non dire sciocchezze, Freya», esclamò con determinazione l’agente, afferrandole delicatamente il polso. «Tu non andrai da nessuna parte, non prima di...».
«È meglio per entrambi», lo sovrastò con la voce ancora una volta, gli occhi fissi nei suoi. «Devi fidarti di me».
L’infermiere ritornò dal proprio giro con le mani nelle tasche e quando li raggiunse canticchiò: «Vi siete detti addio, che vi amerete per sempre qualunque cosa accada e blablabla?».
«Sì, possiamo andare», rispose Freya, senza schiodare lo sguardo da quello di Darrell, con la bocca ancora aperta, sul punto di dire un qualcosa che non le avrebbe mai confessato.
Ma forse lei lo lesse nei suoi occhi, perché abbozzò un sorriso e gli baciò il dorso della mano, mimando un «Grazie» con le labbra, prima che l’infermiere riprendesse a spingere il suo lettino lungo il corridoio, allontanandola da lui.
Darrell inghiottì faticosamente le parole che – al diavolo la razionalità – gli erano salite direttamente dal cuore fino alle corde vocali. Quindi si convinse che avrebbe fatto un errore lasciandosi andare in quel modo, che non avrebbe portato a nulla di buono e che su questo, poco ma sicuro, Alexandra aveva torto.

***

Lo scoppiettio del fuoco, il frinire dei grilli nei campi e delle risate che era certa di conoscere.
Si concentrò e oltre ai suoni riuscì finalmente a scorgere delle immagini, prima sfocate e poi sempre più nitide: le fronde degli alberi mosse dalla brezza serale, le fiamme ardenti al centro di un cerchio di pietre, i tronchi su cui Cathleen, Artù, Abby, Mark, Merlino e lei stessa erano seduti, felici e spensierati. Tenevano tra le mani dei bastoncini su cui avevano infilzato dei marshmallows e quello di Mark, troppo vicino alle lingue di fuoco, andò in fiamme. Ecco il perché delle risate.
Ad un tratto gli uomini si alzarono per andare a recuperare altre coperte e lei, Cathleen e Abby rimasero sole. Si scambiarono uno sguardo e poi il paramedico si sedette a terra, con la schiena contro il tronco e le mani unite dietro la nuca, gli occhi rivolti verso il cielo stellato sopra le loro teste.
«Non avrei mai immaginato di poter provare ancora tutto questo».
«Già… Ci voleva, dopo quello che è successo», mormorò Alex, gettando un’occhiata verso Abby, la quale si sporse verso di lei per stringerle una mano tra le sue.
«Hai fatto anche troppo per me, non mi sdebiterò mai».
«Ehi, non è ancora detta l’ultima parola», ricordò Cathleen con gli occhi fiammeggianti, e non perché vi erano riflesse le lingue di fuoco del falò.
Alex annuì, rianimata dalle parole dell’amica. «No, infatti. Insieme ce la faremo, ne sono sicura», affermò stringendo la ragazzina in un abbraccio delicato.
Abigail ridacchiò. «Noi tre, eh?».
«Proprio così, noi tre», ripeté con convinzione il paramedico. Sollevandosi, arricciò il naso e le lanciò un’occhiata circospetta, nonostante il sorrisino che le sollevava un angolo della bocca: «Non credi che potremmo fare grandi cose insieme? Potremmo salvare il mondo, se solo lo volessimo!».
«Non saprei», ammise Abby, stringendosi nelle spalle. «Non riesco a prendermi cura di me, come potrei fare qualcosa di buono per gli altri?».
Cathleen, piena di disappunto, si alzò per andare a sedersi alla sinistra di Abby. Puntandole un dito su un braccio, esclamò: «Se dovessi descriverti con una sola parola, sarebbe “coraggio”. Tu sei la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto, non solo perché non ti sei mai arresa alla malattia ma perché sei in grado di dare speranza a chiunque ti stia vicino, indipendentemente dalla sua condizione. Non ho ragione, Alex?».
«Non avrei saputo dire di meglio», rispose l’infermiera, sorridente.
«E tu, invece? Se dovessi descriverti con una sola parola, quale sarebbe?», le domandò la ragazzina.
Cathleen scrollò le spalle. «Io non ho alcun talento particolare».
«Ah no?», intervenne Alex, con entrambe le sopracciglia inarcate. «Tu non te ne rendi conto Cath, ma hai una forza incredibile; Artù me l’ha detto più volte. Nonostante tutto quello che hai passato, nonostante tu ti sia trovata sul fondo di un baratro, non ti sei mai data per vinta e sei riuscita ad uscirne. Hai lottato per stare a galla e guardati ora… sei di nuovo felice».
«Non ci sarei mai riuscita senza di voi», provò a sminuirsi Cathleen, ma Alex le tirò un pugnetto su un ginocchio, mordendosi un sorriso.
«Invece sì, perché hai un fuoco al posto del cuore. Magari ci avresti messo più tempo, ma ce l’avresti fatta alla fine».
Cathleen strinse il naso e poi si soffermò a fissarla, proprio come Abby, la quale disse: «Manchi solo tu ora. Io so qual è la parola che ti descrive».
«Anche io», si aggiunse il paramedico.
«E quale sarebbe?», domandò allora Alex, incuriosita.
«Magia», esclamarono in perfetta sincronia le due, per poi battersi il cinque.
Offesa, Alex mise il broncio e si strinse le braccia al petto, ribattendo: «Ah, quindi io sarei la ragazza coi poteri magici? Senza non sarei niente, uh?».
«È proprio il contrario!», disse Abby, ricambiando con più forza il suo abbraccio. «Tu sei sempre stata magica, anche quando non sapevi di esserlo. Non sei perfetta, ma sei la persona migliore che conosco».
«Concordo», le diede man forte Cathleen, unendosi all’abbraccio.
«Farò finta di credervi», sussurrò Alex, fingendo ancora di essersela presa, nonostante delle lacrime di commozione le appannassero gli occhi.
«Ci fai vedere qualcosa?», le domandò ad un tratto la ragazzina, eccitata come una bambina a Natale.
«Merlino non vuole che usi la magia se non è strettamente necessario», disse guardandosi le spalle, verso l’agriturismo, da dove i ragazzi sarebbero tornati a momenti.
«Ma Merlino ora non c’è, giusto?», la stuzzicò anche Cathleen, facendole l’occhiolino. «Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i frutti del tuo allenamento».
Ed era vero. Alex si accertò che Merlino non fosse ancora uscito dalla cascina e sospirò, sussurrando: «Okay, mi hai convinta».
Cathleen e Abby le lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro profondo, prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
Quando le sue iridi divennero dorate, le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il falò e diedero vita ad un drago, il quale sbatté le ali un paio di volte prima di scomparire così com’era venuto, disperdendosi nell’aria.
«Non ci credo!», gridò Cathleen, per poi coprirsi la bocca al cenno di Abby: i ragazzi stavano tornando.
Alex trattenne a stento una risata vedendo l'amica così eccitata, ma ogni traccia di ilarità scomparve dal suo viso quando scorse una donna osservarla oltre le fiamme del falò, al delimitare del bosco.
Era interamente avvolta da un pesante mantello di velluto verde e tutto ciò che riusciva a scorgere del suo viso, nascosto dal cappuccio, erano le guance incavate e le labbra stese in un sorriso enigmatico.
Alex si alzò in piedi, con una mano sull'impugnatura del pugnale che teneva al fianco, ma non appena fece un passo verso di lei Merlino l'afferrò per un braccio e la travolse in un casquet grazie a cui le strappò un bacio. Una volta tornata con entrambi i piedi per terra, la donna era stata inghiottita dal buio penetrante del bosco.

Aprì gli occhi di scatto e si tirò a sedere, respirando affannosamente.
Quindi guardò il braccialetto di Morgana, abbandonato sul comodino prima che si coricasse, e si sporse per poterselo infilare di nuovo al polso. Lei e il suo stupido orgoglio: aveva permesso a Freya di insinuare il dubbio nella sua mente e ora non sapeva che cosa pensare di quel sogno. Innanzitutto, era davvero un sogno? Oppure si trattava di una visione? Comunque non c’era modo che potesse scoprirlo prima del tempo e questo la faceva impazzire.

***

«Ehi, ti ho cercata dappertutto!».
Abby alzò a malapena il viso dal diario di Louise, ormai alle ultime pagine.
«Cosa stai leggendo?».
«Mm-mm».
Mark sospirò e le prese il mento tra le dita per far incrociare i loro sguardi e poi le loro labbra. La baciò così dolcemente che Abigail, nonostante una prima resistenza, fu costretta a cedere e a ricambiare, portandogli una mano sul collo.
«Guarda che cosa devo fare per avere la tua attenzione», mormorò il ragazzino quando si scostò, la fronte ancora appoggiata alla sua.
«Dovresti farlo un po’ più spesso», rispose Abby, rossa sulle guance.
Mark abbassò gli occhi, sorridendo, e poi le prese il diario dalle mani, sfogliandolo velocemente. «Che cos’è?».
«Dài, lascialo! È importante, Mark!», urlò Abby, sporgendosi su di lui per raggiungere con la punta delle dita il diario dalla copertina in pelle.
«Perché è importante? Dimmelo».
«Non posso! Non è mio!».
«E allora di chi è?».
«Di mia madre!».
A quelle parole Mark si adombrò all’istante e Abby, sollevandosi sulla propria sedia a rotelle, riuscì a strappargli l’antico diario dalle mani. Sapeva di aver giocato sporco – la carta dei genitori morti non la usava mai – ma non poteva rischiare che il ragazzo che amava scoprisse ciò che Merlino aveva nascosto per anni. O meglio dire secoli.
«Mi dispiace, io… non lo sapevo».
Abby gli strinse la mano tanto forte quanto i sensi di colpa le stavano stringendo il cuore. «Non fa niente», mormorò, prima di posargli un leggero bacio sulla guancia.
«Che ore sono?», gli chiese poi. «Stando qui, ho perso la cognizione del tempo».
Mark guardò l’orologio che portava al polso. «Quasi le quattro».
«Uhm, un po’ presto per la merenda ma… andresti a prendermi qualcosa?».
«Sicuro. Mi aspetti qui?».
Abby annuì e si lasciò baciare ancora, poi lo guardò sparire dietro l’angolo.
Sospirando, infilò il diario nella sacca che portava appesa allo schienale della sedia a rotelle; poi fece il giro del porticato vicino alla cappella e si portò sotto alla targa commemorativa su cui erano segnati i nomi di tutti i medici, le infermiere e i pazienti, la maggior parte soldati, che erano morti durante il bombardamento che aveva raso al suolo l’ospedale numero uno. Quasi a livello del pavimento era stato scritto in corsivo che la costruzione del secondo ospedale era in loro memoria, un ringraziamento per il sacrificio che avevano compiuto nel tentativo di proteggere ciò che c’era di più importante al mondo: la vita.
Il nome della sua bisnonna non c’era e Abby sapeva perché si era salvata. Sapeva come quell’evento tragico l’avesse portata a conoscere l’uomo che poi avrebbe sposato e da cui avrebbe avuto due figli, Henry e Daisy, sua nonna. Sapeva persino perché Louise aveva deciso di chiamare la sua secondogenita come quel fiore di campo così comune, il vero motivo. Ma c’erano ancora tante cose che non sapeva, cose che Louise aveva preferito custodire nel suo cuore, cose che lei a quel punto non poteva ignorare. E c’era una sola persona che avrebbe potuto illuminare i punti che le erano ancora oscuri di quella storia d’amore tormentata e antica di diversi decenni: Merlino.

***

Stava pensando così intensamente al sogno che aveva fatto, per salvarsi dal tormento che gli occhi di Darrell le stavano causando, che non sentì la voce di Artù chiamarla e nemmeno i suoi passi dietro di lei. Si accorse della sua presenza solo quando l’afferrò per una spalla: Alex si voltò di scatto, in posizione difensiva, e oltre alla temporanea perdita della vista sentì una fitta allo sterno.
«Alex, stai bene?», le chiese Artù, apprensivo solo come lui sapeva esserlo, afferrandola per entrambe le braccia per sostenerla.
L’infermiera si appoggiò allo steccato e dopo un paio di respiri profondi tutto tornò alla normalità, se così poteva definirsi. Ciò che rimase di quella brutta esperienza furono solo la paura, perché senza il bracciale di Morgana avrebbe lanciato sicuramente – anche se involontariamente – un incantesimo contro Artù, rischiando di ferirlo; e la frustrazione, dato che le parole di Freya si rivelavano sempre più veritiere e le bruciavano ancora come braci ardenti sotto i piedi.
«Alexandra?», la chiamò nuovamente Artù.
«Sì, sto bene, tranquillo».
Ben lungi da raggiungere quello stato, il solo ed unico re fece per aprire la bocca e ribattere, ma Alex lo interruppe sul nascere chiedendogli se avesse visto Merlino.
«Sì, non più di un quarto d’ora fa era con tuo padre. Sembravano diretti verso casa sua».
«Uhm, strano», commentò e Artù annuì, affermando che era stato anche il suo primo pensiero.
«Beh, ci vediamo più tardi», lo liquidò poi, in fretta e furia, per dirigersi verso la piccola dependance di suo padre, sul retro dell’agriturismo. Lo sentì borbottare alle sue spalle, ma Alex non se ne curò.
Non arrivò mai a bussare alla porta, dato che passando di fronte alle stalle scorse due gambette secche sparire nella botola del sottotetto, dove erano conservati il fieno e il cibo concentrato per i cavalli.
Alex corse all’interno e salì velocemente i pioli della scala fino a vedere Merlino chino su un sacchetto di fieno. Sentì il cuore mancare un battito nel petto e si chiese cosa mai avesse sentito per Darrell, uno sconosciuto che non le stava nemmeno simpatico. Sì, ciò che aveva creduto di vedere nei suoi occhi l’aveva affascinata, ma quello non era niente in confronto a ciò che provava quando vedeva lo stregone o stava tra le sue braccia. Quello per Merlino era amore, puro ed inossidabile; Darrell poteva essere chiamato appena un’attrazione fisica del momento. Allora perché si sentiva così in colpa nei confronti del mago?
Si chiuse la botola alle spalle e Merlino trasalì a causa del tonfo, ma si ritrovò ben presto a sorridere.
«Ehi, sei arrivata. Hai dormito?».
Alex non rispose, si limitò ad avvicinarsi a lui, sbottonandosi la camicia, sotto cui portava solo un reggiseno a balconcino. Quindi gli diede una spinta, tanto forte da fargli perdere l’equilibrio, e una volta steso su diversi sacchi di fieno si sistemò a cavalcioni su di lui, avventandosi famelica sulla sua bocca.
Il mago, preso del tutto allo sprovvista, ci mise qualche secondo a capire le sue intenzioni – gli furono del tutto chiare quando iniziò ad armeggiare con la sua cintura – e fu completamente inutile provare ad opporsi: nemmeno la paura di essere colti in flagrante da suo padre la spaventava.
Alex si staccò solo per sciogliersi i capelli e liberarsi dei jeans, ordinando: «Prendimi e basta, Merlino».
Però alla fine fu lei a prendere lui, tirandolo su seduto con una mano tra i suoi capelli e facendo l’amore come non aveva mai fatto prima: del tutto priva di dolcezza, quasi rabbiosamente. Merlino non poteva saperlo, ma Alex ne ebbe abbastanza solo quando gli occhi e le mani di Darrell non furono sostituiti da quelli del mago, così come doveva essere.

***

«Ho voglia di una sigaretta», esclamò qualche secondo dopo essersi sdraiata al suo fianco sul cumulo di fieno. «Ne hai?».
Merlino ebbe solo la forza di scuotere il capo, ancora col fiato grosso e i muscoli contratti. Sentì lo sguardo di Alex indugiare sul profilo del suo volto accaldato, ma non lo ricambiò: era troppo imbarazzante, oltre che frustrante.
«Mi dispiace», gli disse poco dopo, posando la testa sul suo torace che sembrava sul punto di esplodere: il cuore gli batteva così forte che già immaginava quando l’avrebbe visto aprirsi un buco nel suo petto e volare via roteando come un mini-elicottero.
«A volte mi dimentico della tua vera età», concluse Alex, sospirando.
E quel sospiro fu ciò che più gli fece male: si sentiva in colpa per essersene dimenticata oppure era semplicemente triste che l’uomo che aveva accettato di sposare fosse in realtà un vecchio decrepito incapace di soddisfare ogni suo bisogno? In ogni caso, Merlino aveva predetto che prima o poi sarebbe successo – e senza l’uso della Vista – e la cosa insopportabile era che la parte peggiore di lui avrebbe voluto canzonarla con un “Te l’avevo detto”.
«Questa mattina, al telefono, hai accennato al fatto che avevi qualcosa da dirmi. Di che si tratta?», le domandò allora il mago, ben deciso a cambiare argomento.
«Oh, sì». L’infermiera si mise sul fianco, con una mano a tenerle la testa e il gomito puntato nel sacco di fieno. «Ho una notizia buona e una cattiva. Quale vuoi sentire prima?».
«La buona».
Il volto di Alex si illuminò di gioia, mentre urlava: «Torno a lavorare in oncologia!».
«Ma è fantastico!». Anche Merlino non poté rimanere impassibile alla notizia e preso dall’entusiasmo si sporse per baciarla. Solo dopo gli tornò alla mente che c’era anche una cattiva notizia. Scostandosi un poco dal suo viso, le chiese: «È tanto cattiva?».
Gli occhi verdi dell’infermiera si adombrarono e senza prepararlo in alcun modo disse: «Gli esiti degli esami di Abby hanno evidenziato una recidiva. L’unica sua speranza ora è trovare in tempo un donatore compatibile e sarà difficilissimo, visto che ha perso i genitori, non ha mai avuto fratelli e sua nonna è troppo anziana anche solo per provarci».
Merlino rimase in silenzio, senza sapere cosa dire, e lasciò che Alex semplicemente si accucciasse nuovamente sul suo petto, la testa proprio sotto il suo mento e i capelli che gli solleticavano lo stomaco.
Mai prima di allora aveva immaginato ad un mondo senza Abigail Reed: la sua voglia di vivere e il suo animo coraggioso non lo avevano mai fatto dubitare del fatto che prima o poi avrebbe sconfitto la malattia e avrebbe vissuto ancora molti anni felici.
Ricordava ancora la prima volta che l’aveva vista e quanto lo avesse profondamente colpito.

Gli bastò varcare la soglia del Pronto Soccorso per rendersi conto del trambusto nei pressi del bancone dell’accettazione. Subito immaginò che qualcuno si fosse sentito male e che i curiosi in sala d’aspetto fossero accorsi per vedere un po’ d’azione, ma tutto ciò che vide fu un’elegante signora dai capelli bianchi circondata dalla maggior parte delle infermiere di turno e da alcuni pazienti, tra cui alcuni anche in vestaglia e con i trespoli della flebo appresso.
Impiegò qualche secondo di troppo a riconoscerla, forse perché era l'ultima persona che si sarebbe immaginato di incrociare di nuovo, ma il suo cuore reagì pompandogli sangue infuocato nelle vene.
Per lui si trattava di una donna che non meritava un briciolo della sua attenzione, ma per la folla che la circondava era una specie di celebrità: Daisy Chapman, autrice di romanzi rosa di successo. Il suo nome doveva aver fatto il giro di tutto il Pronto Soccorso, attirando fans desiderosi di accaparrarsi un autografo personalizzato.
La sua notorietà era passata decisamente in primo piano, tanto che nessuno si era chiesto perché si trovasse all’interno di un Pronto Soccorso di un paesino dimenticato da Dio. Stava male? Si era fermata a chiedere dove fosse l’autofficina più vicina? A quanto pare Merlino era l’unico a porsi quelle domande, ma non se ne curò: se lei per prima preferiva firmare autografi piuttosto che spiegare la sua presenza, meglio così; voleva dire che non si trattava di un’emergenza.
Prese l’ascensore e salì fino al quarto piano, dove si trovava il reparto oncologico. Sapeva che Alex era di turno quel pomeriggio e sperava tanto di incontrarla, di incrociare i suoi occhi verdi mozzafiato anche solo per un istante. Era tutto ciò che poteva sperare, specialmente ora che la sua storia con Keith iniziava a sembrare seria.
«Te lo ripeto ancora una volta, ragazzina: devi essere accompagnata da un adulto per richiedere degli esami».
Merlino, attirato da quella voce, fece una deviazione e passò per la sala d’aspetto, dove trovò proprio Alex e una ragazzina dal corpo esile e la pelle diafana, il volto incorniciato da una cascata di capelli castani, dritti come spaghetti, e in cui erano incastonati due occhi neri e lucenti come onici.
Il cuore di Merlino saltò un battito, guardandola. Le somigliava così tanto…
«E io le ripeto che mia nonna, la mia tutrice legale, è al Pronto Soccorso che firma autografi. Il suo nome è Daisy Chapman, è una scrittrice piuttosto famosa».
«Mai sentita nominare. Comunque, se è davvero come dici, devi chiederle di salire e firmare alcuni moduli», continuò imperterrita Alex e, accorgendosi della sua presenza, gli lanciò un’occhiata con cui implorava aiuto.
«In effetti al Pronto Soccorso c’è una specie di signing session», si intromise il mago, attirando l’attenzione della ragazzina. Ora che la vedeva meglio in volto, gli risultò ancora più bella: doveva avere dodici, al massimo tredici anni, eppure i suoi occhi erano intelligenti, venati di tristezza ma anche pieni di vita e consapevoli del grande dono che possedevano. Proprio come quelli della sua bisnonna.
«Sembra che ne avrà per un bel po’», concluse, ricambiando il grande sorriso che gli aveva rivolto.
Alex sbuffò sonoramente e sorpassò entrambi, diretta verso il bancone d’accettazione del piano. «Non ti ci mettere pure tu, Merlino!», lo rimproverò. «Non posso far eseguire degli esami ad un minore senza il consenso di un genitore o di un tutore, lo sai!».
«Ci sono volute settimane, prima che mia nonna accettasse di portarmi qui», esclamò la ragazzina, correndole dietro, a sua volta seguita da Merlino. «Lei non crede che io stia male. Pensa che mi inventi tutto per farle trascorrere più tempo con me, ma le assicuro che non mi sto inventando niente, infermiera Greenwood!».
Alex si fermò e si voltò per chiederle qualcosa, poi abbassò gli occhi sul proprio badge, appeso alla tasca dell’uniforme, e riprese a camminare fino a raggiungere il retro del bancone.
«Ho segnato qui tutti i miei sintomi», riprese la ragazzina, tenace come poche, picchiettando un dito sulla copertina di un piccolo diario scolastico. «E mi sono anche documentata».
«Non si possono fare le diagnosi su Internet, quand’è che la gente capirà?», chiese Alex, più a se stessa che ad altri, guardando però negli occhi lo stregone, il cui cuore mancò un battito.
«Io penso di avere una malattia al sangue».
A quelle parole, dette con tono grave e una calma del tutto innaturale, sia Alex che Merlino si irrigidirono. L’infermiera porse velocemente una mano e la ragazzina le consegnò il diario. Dopo una veloce sfogliata, Alex sollevò il capo e gli disse: «Porta su sua nonna, dobbiamo farle fare subito gli esami».
La ragazzina sorrise soddisfatta, dimentica per un attimo della gravità della situazione, e guardò Merlino contrarre il volto in un'espressione stizzita. Poi, dopo aver ricambiato a lungo il suo sguardo profondo, i suoi lineamenti si rilassarono tanto da permettere ad un sorriso di sbocciare sul suo volto. Quindi annuì con un semplice cenno del capo e si avviò verso l'ascensore.
Prima che le porte si chiudessero le fece una domanda di cui sapeva già la risposta: «Come ti chiami?».
«Abigail Reed, molto piacere. E tu sei Merlino, giusto? Come l’amico di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda?».
Lo stregone si lasciò scappare una risata e non fece in tempo a rispondere, preceduto dal chiudersi delle porte dell’ascensore.

«Ho deciso di fare il test di compatibilità», esclamò Alex, riportandolo bruscamente al presente.
Merlino si sollevò sui gomiti e lei fu costretta a sollevare il capo e guardarlo negli occhi.
«Come? Nel senso… sei sicura? Lo sai che le probabilità che tu possa…».
«Lo so».
«Non voglio che tu rimanga delusa», aggiunse, accarezzandole il volto.
L’infermiera abbozzò un sorriso. «Devo provarci comunque. Capisci?».
«Sì, certo». Si sporse per posarle un altro leggero bacio sulle labbra. «Ti amo».
«Anche io», sospirò, tornando ad appoggiare l’orecchio sul suo petto, dove i battiti del suo cuore erano tornati quasi normali.
Merlino infilò una mano nella tasca dei pantaloni per sfiorare il cofanetto di velluto rosso che gli aveva dato il signor Greenwood e sorrise, posandole un bacio tra i capelli.
«Io di più», mormorò e Alex non rispose: si era addormentata.

***

«E adesso dove vai?», domandò un Artù stizzito, guardandolo mentre si alzava in fretta e furia dal tavolo della cucina, ancora con la bocca mezza piena, per recuperare le chiavi dell’auto e la giacca.
Escludendo la conversazione in auto di quella mattina, avevano scambiato sì e no due parole in tutta la giornata. C’erano state delle volte, a Camelot, che avrebbe svuotato il proprio forziere di monete d’oro per un po’ di silenzio e di solitudine, ma da quando si era ritrovato catapultato in quell’epoca non gli era ancora capitato e dubitava sarebbe mai successo: si sentiva un estraneo, lontano da tutto ciò che lo metteva a suo agio, e Merlino era l’unica persona con cui riusciva ad essere pienamente se stesso. Senza di lui, la nostalgia si faceva ancora più dolorosa e non riusciva più a sopportarla, specialmente da quando era iniziata quella guerra fredda con Cathleen.
«All’ospedale», rispose frettolosamente Merlino.
«Bene, vengo anche io».
«No».
Artù si irrigidì, le mani strette in pugni sul tavolo. «Cos’hai detto? Che vorrebbe dire “no”?».
«Ho bisogno di parlare da solo con Abby», provò a dargli una spiegazione, ma il re non se la bevve: c’era qualcosa sotto, poco ma sicuro.
«Non puoi dirmi cosa posso o non posso fare, Merlino».
«No, avete ragione, ma dovrete trovare un metodo alternativo per arrivare all’ospedale». Lo stregone fece tintinnare le chiavi della propria Pininfarina di fronte al viso, sorridendo smagliante.
«Ci vediamo più tardi!», urlò ormai all’ingresso.
Artù rimase in cucina e ascoltò prima il tonfo della porta, poi il motore scoppiettante dell’auto d’epoca e la ghiaia dello sterrato scricchiolare sotto gli pneumatici. Quando tornò a regnare il silenzio, Artù afferrò il bordo della tovaglia e la tirò rabbiosamente, facendo cadere a terra piatti, bicchieri e posate, rendendo il pavimento un campo minato impraticabile. Subito dopo si sentì in colpa, osservando i cocci e i frammenti di vetro, perciò si passò le mani sul volto e respirò profondamente, camminando sulle punte dei piedi per uscire dalla cucina e recuperare la scopa dallo sgabuzzino.
Aveva appena incominciato ad ammucchiare tutto in un angolo, quando il silenzio della sera e della campagna venne interrotto dal rombo di un motore. L’avrebbe riconosciuto tra altri mille.
Col cuore in gola, Artù appoggiò il manico della scopa sul frigorifero e raggiunse l’ingresso, quindi si appoggiò con le spalle alla porta ed aspettò che Cathleen suonasse il campanello.
Ci sarebbe rimasto così male, se non si fosse trattato di lei! Ma le sue aspettative non furono deluse: il paramedico dai capelli rossi era proprio lì, sotto la luce dell’ingresso, bella come se la ricordava e anche di più.
«Disturbo?», gli domandò, accennando un timido sorriso. Ed era così strano, perché lei e la timidezza erano agli antipodi.
«No, io… Entra».
Si fece da parte per farla passare e poi chiuse la porta dietro di lei, pensando a qualcosa di intelligente da dire. Fu allora che lo strano comportamento di Merlino, incluso il perché non lo avesse voluto portare con sé all’ospedale, trovò un senso del tutto nuovo: lui sapeva della visita del paramedico e aveva fatto in modo di lasciarli soli. Gli sarebbe costato il doppio della fatica, ma la strigliata che aveva pianificato di fargli fu sostituita da un discorso di ringraziamento.
«Pensavo fossi di turno questa sera», esclamò Artù, rompendo quell’imbarazzante silenzio.
Cathleen scosse il capo e si lasciò cadere sul divano, rispondendo: «No, sono di riposo. Mi hanno dato tre giorni di fila, questa settimana».
Quindi si voltò a guardarlo e diede qualche pacca accanto a lei, invitandolo silenziosamente a raggiungerla. Artù deglutì e prendendo coraggio si sedette al suo fianco, anche se decise di mantenere una certa distanza.
«Volevo scusarmi per quello che ho detto l’ultima volta», esordì il paramedico, guardandosi le unghie corte. «A volte… La maggior parte delle volte, a dire il vero, non ho alcun filtro e dico cose di cui poi mi pento. Non mi riferivo alla tua famiglia… come avrei potuto? Non ho conosciuto i tuoi genitori, e anche se li avessi conosciuti non starebbe a me giudicare…».
«Ehi», la interruppe, posando una mano sulle sue.
Cathleen sollevò di scatto il capo ed incrociò i suoi occhi blu come il mare, rimanendone come sempre incantata.
Il sovrano accennò un sorriso, dicendo: «La mia famiglia non era perfetta, anzi… mio padre aveva un sacco di difetti e un problema serio con la magia, mia sorella è diventata una strega pazza, rancorosa e senza un briciolo di compassione… però era la mia famiglia e non si può non voler bene alle persone con cui sei cresciuto; sarebbe innaturale».
Cathleen non ribatté a parole, bensì con un sorriso venato di tristezza. Poi strinse la sua mano ed esclamò: «Non capita quasi mai che io abbia un week-end libero, perciò, se non hai altri impegni, mi piacerebbe trascorrerlo con te. Potremmo fare una gita fuori porta con la moto».
Artù non si aspettava una proposta del genere e nonostante avesse sognato di trascorrere del tempo da solo con lei, lontano dalla casa di Merlino o da Alex, ci mise qualche secondo per rispondere che sì, gli sarebbe piaciuto molto.
«Dove andremo?», le chiese subito dopo, divorato dalla curiosità.
«È una sorpresa», sussurrò Cathleen avvicinandosi al suo viso, tanto da sentire il suo respiro alla menta e da scorgere il riflesso dei propri occhi nei suoi.
Il paramedico si accorse di aver invaso un po’ troppo il suo spazio – Artù lo capì da come aveva sgranato gli occhi e socchiuso le labbra – ma nessuno dei due si mosse, come sotto gli effetti di un incantesimo.
Ad un tratto il re parve uscirne, ma solo per posarle una mano sulla guancia ed annullare del tutto la distanza che lo separava dalla sua bocca.

***

Darrell si riempì un bicchiere d’acqua e si appoggiò allo stipite della porta della cucina, guardando Freya seduta in un angolo del divano, con le gambe strette al petto e il mento sulle ginocchia, gli occhi fissi sullo schermo della TV al plasma.
«Freya», la chiamò, sospirando.
Non gli aveva più rivolto la parola da quando l’avevano dimessa dall’ospedale, dopo gli esiti infruttuosi dei test, ed erano tornati a casa. Continuava a pensare a ciò che si erano detti prima della TAC, ma fino ad allora Freya non si era comportata come se avesse voluto mettere in pratica le sue parole: non aveva preparato i bagagli, non aveva fatto ricerche sugli orari dell’autobus, non aveva controllato nessuna mappa per decidere quale sarebbe stata la sua prossima meta. Darrell aveva il presentimento che avrebbe architettato la propria fuga durante la notte, mentre dormiva, e per questo sapeva che non sarebbe mai riuscito a chiudere occhio. Ma non poteva nemmeno costringerla a rimanere – sarebbe stato sequestro di persona – né offrirsi di seguirla ovunque volesse andare – sarebbe stato semplicemente da pazzi.
Ma è così l’amore che riduce le persone, no? Le rende pazze.
«Freya?», tentò di nuovo, alzando un poco la voce.
«Uhm?», mugugnò lei, senza voltarsi.
Darrell si strofinò il viso con una mano, soffermandosi sulla bocca. «Io vado a dormire, domani mattina mi devo svegliare presto. Buonanotte».
Attese il silenzio per una dozzina di secondi, ma Freya non gli rispose. Quindi decise di arrendersi e si chiuse in camera sua, dove bevve il bicchiere d’acqua e si gettò sul letto, programmando di fissare il soffitto per le prossime ore che lo separavano dal suono della sveglia.

***

Merlino sorrise, gli occhi rivolti verso la strada illuminata dai fari dell’auto ma la mente verso Cathleen e Artù, probabilmente sulla via della riappacificazione.
Parcheggiò nel primo posto libero che trovò di fronte all’ospedale e varcò le porte scorrevoli del Pronto Soccorso. Salutò un paio di infermieri e poi chiese se sapevano dove fosse Alex al momento; gli indicarono la sala relax e fu proprio lì che la trovò, intenta a versarsi la prima tazza di caffè della nottata.
Non le aveva ancora detto che il signor Greenwood aveva intenzione di vendere il cavallo nero che tanto le piaceva, ma quella sera, prima di cena, gli era venuta in mente un’idea che forse avrebbe fatto felici tutti quanti.
Si avvicinò di soppiatto e una volta alle sue spalle l’abbracciò, posandole una serie di baci sul collo, a cui lei rispose prima con un sobbalzo e poi una risata.
«Merlino, sei pazzo? Mi hai spaventata!».
«Oh, perdonatemi mia signora… sono desolato».
Alex gli posò una mano sulla testa, afferrandolo per i capelli, e gettò del tutto il capo all’indietro per offrirgli meglio il proprio collo. «Non ti fermare, è un ordine», ansimò.
Merlino alternò i baci a dei piccoli morsi, passando dalla nuca al lobo dell’orecchio destro. Le percorse le braccia con le mani e una volta giunto alle spalle le fece scivolare sul suo seno, per poi scostarsi per grande disappunto di Alex.
«Ehi, non ci si comporta così!», lo rimproverò l’infermiera, lanciandogli un’occhiataccia.
Merlino sogghignò, aprendo la porta della sala relax. «Lo sai che avremo tutto il week-end per noi? Se tutto va per il verso giusto, Cathleen e Artù faranno una gita fuori porta».
«Dici sul serio?».
Il mago annuì e rise quando Alex gli corse incontro per gettargli le braccia al collo e baciarlo sulle labbra.
«Ma è fantastico! Potremo finalmente pianificare un po’ di dettagli del matrimonio senza venire interrotti!», esclamò, eccitata.
«Non è quello che immaginavo io, ma sì, potremo fare anche questo».
Alex gli tirò un pugnetto sul braccio e poi, con aria maliziosa, gli sussurrò all’orecchio: «Potremo dormire insieme una notte intera, senza paura di essere importunati».
Merlino si scostò per guardarla negli occhi e accarezzarle il viso. «Ehi, se sarà come oggi pomeriggio temo che dovrò pagare qualcuno per compilarmi una ricetta».
«Una ricetta per cosa?».
«Pillole blu».
«Stupido!».
L’infermiera quella volta lo picchiò più forte, facendolo scappare fuori dalla stanza relax. Merlino si voltò indietro per farle vedere che stava ridendo e Alex lo imitò, anche se con minor convinzione.

***

Freya rimase in ascolto dietro la porta per qualche secondo, poi posò la mano sul pomello e lo girò lentamente, ma la serratura oppose resistenza.
La custode abbozzò un sorriso, pensando che nonostante ciò che le aveva detto in ospedale, Darrell dubitava ancora delle sue intenzioni. E se l’avesse vista in quel momento, furtiva come una ladra, si sarebbe dato ragione da solo.
«Aliese», bisbigliò e i suoi occhi brillarono d’oro mentre la serratura interna ruotava silenziosamente. Grazie a quel trucco, fu facile entrare nella camera da letto di Darrell. Peccato che il poliziotto era ancora sveglio e sollevò di scatto le palpebre quando avvertì la sua presenza sulla soglia.
«Ehi, mi hai spaventato. È successo qualcosa?».
Freya sorrise timidamente, stringendo più saldamente il manico del pugnale che teneva nascosto dietro la schiena. «Non riesco ad addormentarmi e ho pensato… scusami, è una cosa stupida, non sarei mai dovuta venire a disturbarti».
«No… dimmelo», la fermò Darrell, sollevandosi sui gomiti.
«Mi chiedevo se potessi… insomma, stendermi con te per un po’».
L’agente, colto alla sprovvista, boccheggiò qualche secondo. Poi si guardò intorno e disse: «Non ci vedo nulla di male, in fondo. Forza, vieni».
Freya sospirò di sollievo e lo raggiunse a letto, infilandosi sotto le lenzuola.
Il silenzio regnò sovrano per interi minuti, entrambi troppo spaventati per interromperlo, gli occhi fissi sul soffitto candido.
Alla fine fu Darrell a parlare per primo, quando anche Freya si era ormai decisa a fare la sua mossa.
«Non voglio che tu te ne vada per colpa mia», mormorò, le dita delle mani intrecciate sullo sterno.
Freya si girò sul fianco, così da guardare il profilo del suo viso, e rispose con un leggero sorriso sul volto. «Non me ne andrò».
«Hai… hai cambiato idea?», le chiese l’agente, fissandola a sua volta.
La custode scosse il capo, gli occhi lucidi. «No, voglio dire che sarò sempre con te, qualsiasi cosa accada, e che una parte di te vivrà in me; la custodirò e nessuno potrà farti del male, te lo prometto».
Un sorriso quasi derisorio fece la propria comparsa sulle labbra di Darrell, il quale esclamò, divertito quanto scettico: «Che cosa stai dicendo, Freya? Non ha alcun senso».
Lei però si limitò a sorridere e gli accarezzò una guancia. «Te lo prometto», sussurrò di nuovo e quando i suoi occhi si tinsero nuovamente d’oro Darrell aprì la bocca per urlare, ma il sonno lo catturò prima, facendogli sentire la testa e le palpebre talmente pesanti da crollare inerme sul letto.
Freya si alzò lentamente e fece il giro del letto, osservandolo dall’alto, per poi chinarsi nuovamente su di lui e baciarlo sulla fronte, ringraziandolo per tutto ciò che aveva fatto per lei. E quello che stava per fare ne era la prova.
Impugnò il coltello e lo sollevò a mezz’aria, iniziando a recitare un incantesimo antico e potente, tanto che poco lontano da quell’appartamento, al centro di Avalon, la terra iniziò a tremare impercettibilmente.
Al culmine del rituale, Freya piegò all’indietro la testa ed abbassò il pugnale, ferendosi l’avambraccio. Scossa dai tremiti dovuti alla potente magia utilizzata e al dolore, si tenne il braccio ferito mentre girava intorno al corpo immobile di Darrell, formando una specie di cerchio color cremisi intorno a lui.
Riprese a recitare le intricate formule dell’incantesimo quando completò il cerchio e concluse il tutto facendo cadere alcune gocce di sangue sulle labbra dell’agente. In quell’istante un’accecante luce azzurra circondò sia Darrell che Freya, per poi intrecciarsi ed insinuarsi nei loro corpi, scuotendoli come se fossero in preda alle convulsioni.
Quando finalmente la luce si spense, appena qualche secondo dopo, non c’era più traccia del sangue versato da Freya e anche la ferita sul suo braccio era sparita.
Un fulmine si schiantò sull’isola al centro di Avalon e contemporaneamente la custode cadde a terra priva di sensi.

***

Merlino fu costretto ad addossarsi alla parete del corridoio per non cadere a terra, scosso dai sudori freddi. Con gli occhi sgranati, si chiese cosa diavolo fosse accaduto.
Un’infermiera di passaggio si fermò al suo fianco e gli chiese se stesse bene. Il mago rispose che era tutto okay e la ringraziò, quindi si concentrò sul proprio respiro e lentamente i battiti del suo cuore tornarono regolari, ma la preoccupazione che fosse appena successo qualcosa di grosso rimase.
Quando si fu calmato a sufficienza, raggiunse la stanza di Abigail e sbirciò attraverso le vetrate, ringraziando il cielo che l’avesse trovata sola in camera; quindi bussò alla porta. La ragazzina sollevò il capo da ciò che stava leggendo e gli fece segno di entrare.
Si rese subito conto che qualcosa non andava: i suoi occhi sembravano di pietra e non lo perdevano di vista un secondo; il suo tono di voce era freddo e distaccato, come se stesse parlando con un estraneo.
«È tutto okay?», le domandò, prima di rendersi conto della pessima domanda. «Scusami, non volevo».
«Alex te l’ha detto, eh? Una bella sfortuna».
Lo stregone si sedette al suo fianco e le prese una mano, sorridendo incoraggiante. «Non ti farti abbattere, Abby. Non è tutto perduto».
«Senti, ti ringrazio, ma non ho voglia di parlarne», disse ad occhi chiusi, prima di posare quello che aveva pensato erroneamente fosse un libro sul comodino. Non lo era, non lo era affatto.
Provò ad ignorare la coincidenza, a dirsi che c’erano mille quaderni con la custodia di pelle come quello, ma gli appunti di Hala continuavano a tornargli alla mente, facendo aumentare il battito del suo cuore, e nemmeno stringere il cofanetto di velluto rosso che era andato a mostrarle gli impedì di domandarle tutto d’un fiato: «Dove l’hai preso quello?».
«Me l’ha dato Baqi», rispose con tranquillità Abby, gettando un’occhiata al diario. «Vuoi sapere dove l’ha trovato?».
Merlino non dovette nemmeno annuire per avere la risposta.
«Nella soffitta di mia nonna, tra le cose di cui voleva disfarsi. È il diario della mia bisnonna, Louise McTrusty».
Sentendo di nuovo il suo nome, una ferita profonda si aprì sul cuore di Merlino, che riprese a sanguinare dolorosamente. Ma il mago strinse i denti ed abbozzò un sorriso, alzandosi dalla sedia.
«Te la senti di ascoltare una storia? È da troppo tempo che non ve ne leggo una. Vado a prendere il mio libro e a radunare gli altri, ci metterò poco».
Era già alla porta, pronto a correre via nella notte per rifugiarsi in qualche suo nascondiglio nel bosco, quando sentì Abby esclamare alle sue spalle: «Perché questa volta non te ne fai raccontare una tu? Quella che ha scritto la mia bisnonna è veramente bellissima, anche se un po’ strappalacrime. Chissà, magari potresti anche riconoscerti nel protagonista…».
Merlino inspirò profondamente e si voltò, gli occhi che gli bruciavano a causa delle lacrime.
«Ecco che cosa faremo», esordì, cercando di mantenere un tono di voce fermo. «Tu restituirai quel diario a Baqi senza dirgli una parola, io mi dimenticherò di questa conversazione ed entrambi non ritorneremo mai più sull’argomento. Ci siamo capiti?».
Abby lo fissò a lungo, in silenzio, fino a quando una lacrima non tracciò un solco inaspettato anche sulla sua guancia. Allora si sporse nuovamente per prendere il diario e dopo averne accarezzato la copertina con dita tremanti, se lo portò al petto sussurrando: «Quindi sei davvero tu. Tu sei Emrys».
Il mago non riuscì più a trattenere i singhiozzi e barcollò fino al suo letto, dove si sedette. Abby lo accolse tra le sue esili braccia e lasciò che piangesse contro la sua spalla, liberandosi del dolore che aveva troppo a lungo ignorato.


   
 
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