Capitolo 6
Il tenente Grosvenor emise un
sospiro di soddisfazione. Alla fine il gin era riuscito a berlo,
debitamente mescolato all’acqua tonica, perlomeno tutte le
volte
che era riuscito a eludere a sorveglianza del dottore che aveva
curato le sue numerose ferite.
L’aveva anche
offerto al tempio
di Sri Ganesha, più o meno nelle quantità
promesse, ma dopo i primi
tre giorni di sbronza collettiva di tutti i sacerdoti e i fedeli gli
era stato fatto sapere che il supremo Vighnesvara* era soddisfatto
della sua donazione e considerava perfettamente ripagato tutto
l’aiuto che aveva ritenuto di fornirgli nel corso della
missione.
Si allungò sulla chaise
longue e ordinò al
cameriere il terzo gin tonic del pomeriggio, già pregustando
il
tintinnio che avrebbe prodotto il ghiaccio nel bicchiere mentre il
ragazzo glielo portava.
Il circolo ufficiali di
Calcutta
era decisamente un posto piacevole. Si trattava di un gioiello di
architettura Moghul del diciassettesimo secolo contornato da
splendidi giardini. Dietro l’edificio principale, proprio al
limitare di una macchia di cespugli fioriti, c’era un
porticato
tutto di marmo bianco, sostenuto da eleganti colonne, con magnifici
archi polilobati che gli avevano sempre ricordato delle fette di
cheddar con l’impronta di un morso.
Quel luogo era prediletto
dagli
avventori in quanto ombroso e ventilato, e spesso attraversato da
refoli d’aria carichi dei profumi del giardino. Ogni tanto
poi
arrivavano dei buffi macachi che cominciavano a strillare e a fare
salti, e se si buttava loro qualcosa da mangiare potevano rivelarsi
molto divertenti.
Normalmente gli inservienti li
scacciavano, ma loro erano furbi e si nascondevano tra le fronde, poi
tornavano fuori una volta passato il pericolo.
“Puoi avere il mango, ma non ti
azzardare a toccare il mio gin tonic,” disse il tenente a una
scimmia che lo stava scrutando da sotto un cespuglio.
L’animale lo
fissò con i suoi
occhi ambrati ed emise un ciangottio interrogativo.
“Mango: sì. Gin
tonic: no,”
chiarì il tenente.
La scimmia si
avvicinò adagio.
Grosvenor prese una fetta di polpa arancione da un piattino e gliela
tese. Il macaco dapprima lo osservò dubbioso, poi
allungò una
zampa, afferrò il frutto e scomparve fra le piante.
“Bravo,”
approvò il tenente,
poi si sistemò meglio la fasciatura sulla fronte. I punti
non glieli
aveva dati Jenkins, ma forse col senno di poi sarebbe stato meglio
che lo avesse fatto. Di sicuro il sergente avrebbe avuto la mano
più
leggera del dannato segaossa scozzese che si era occupato di tutti i
suoi numerosi danni. Ricordava ancora con orrore il momento in cui
gli aveva strizzato il torace come una maledetta cornamusa per
individuare le costole fratturate.
Assorto nei suoi pensieri e
nell’assunzione del gin tonic, si addormentò.
Lo svegliò dopo un
tempo
imprecisato il cameriere scuotendolo gentilmente per una spalla.
“Sahib, il Governatore chiede di voi,” gli disse
sottovoce.
“Il Governatore?”
fece eco
Grosvenor ancora mezzo addormentato, ma il cameriere non ebbe bisogno
di ripetere: l’alto funzionario in persona stava percorrendo
il
porticato per raggiungerlo, in compagnia del colonnello Wilson e di
altri ufficiali superiori che non conosceva. Il generale Harris non
era presente.
Si alzò
faticosamente. Avendo
alcune costole fratturate, ma soprattutto il braccio destro al collo,
non diede di sé il migliore degli spettacoli.
“State comodo,
tenente,” gli
raccomandò Wilson notando il suo disagio, “il
Governatore ci
teneva a ringraziarvi di persona per tutto ciò che avete
fatto.”
Per una volta nella vita che
ne
aveva la possibilità, Grosvenor fece il modesto.
“Oh, beh, niente
di che, in fondo. Una cosetta per rompere la routine.” Poi,
dopo
una pausa: “Comunque mi fa piacere che abbiate
apprezzato.”
“Ragazzo mio, siete stato
eroico,” gli assicurò con calore il funzionario,
stringendogli la
mano sana fra le sue. “Le informazioni che ci avete fornito
sono
state preziose, senza contare che mi avete salvato la via.”
“Oh, no. Davvero niente di cui
valga la pena parlare. E poi abbiamo avuto la fortuna di trovare un
elefante, quello ha facilitato di parecchio le cose. A proposito, sta
bene Sarkesh?”
Il colonnello gli rispose:
“Gode
di ottima salute. Se ne sta occupando il vostro sergente, anche
perché pare che non si faccia avvicinare da nessun
altro.”
“È un animale
piuttosto
selettivo.”
Rimasero un altro
po’ a parlare
della missione e delle informazioni circa i thug e il tradimento del
maharaja di Barhdaman. Mentre stavano conversando, arrivò un
cameriere con vassoio d’argento su cui si trovava un
pacchettino
confezionato come un regalo. “Per il sahib
Governatore,” annunciò
con un inchino.
Il colonnello
aggrottò le
sopracciglia. “Chi l’ha portato?”
“Una memsahib
della Lega per la Temperanza. Ha detto che è un regalo per
il sahib
Governatore.”
Grosvenor arricciò
il naso con
disgusto e fissò la strana confezione senza far mistero del
proprio
sospetto: nulla di buono poteva provenire da chi osteggiava il
consumo di alcol.
Il Governatore aprì
la
scatoletta e subito fece un sorriso. “La mia
bussola!” esclamò.
Il tenente drizzò
immediatamente
le orecchie. Gli tornò in mente l’ultima frase che
aveva udito
prima di svenire: Qualcuno
ha visto la mia bussola?
Con una manata fece cadere a
terra il piccolo contenitore. “Non toccatela!”
urlò.
La bussola rotolò
sul pavimento
in un imbarazzato silenzio. Non successe niente, non esplose e non
emise gas mortali. Rimase lì immobile. Tutti cercavano di
guardare
altrove, il colonnello Wilson tossicchiò a disagio.
Nella generale riprovazione
arrivò una scimmia, vide il piccolo oggetto luccicante, se
ne
appropriò e scomparve con la velocità di un lampo.
“La
bussola…” provò a dire
Grosvenor, non più tanto sicuro di aver fatto la cosa
giusta. “Ne
avevate parlato nel vostro studio...”
La scimmia intanto si stava
arrampicando su un albero con il suo tesoro.
Il Governatore lo
fulminò con
uno sguardo omicida. “Quella bussola era un ricordo di valore
inestimabile!” lo rampognò,
“È, o meglio era l’oggetto
più
caro che possedevo, me l’aveva donato mio padre sul letto di
morte,
e ora grazie a voi è perso per sempre!”
Nel bel mezzo della
reprimenda,
tutti furono distratti da un tonfo seguito dal suono di qualcosa di
metallico che rotolava: si girarono verso la provenienza del rumore e
videro la scimmia morta stecchita sul pavimento. La bussola stava
esaurendo la sua inerzia sulle piastrelle di marmo.
“Era avvelenata!”
esclamò il
colonnello Wilson nel silenzio generale.
Grosvenor assunse la stessa
espressione di Barrett: gli mancava solo l’aureola.
“Non c’è
bisogno che vi scusiate, signore,” disse magnanimo,
“capisco che
il valore affettivo dell’oggetto possa avervi fatto
dimenticare la
cortesia per cui siete famoso.”
Ci fu un secondo giro di
sguardi
imbarazzati, questa volta tutti evitavano di guardare il Governatore.
Il tenente, noblesse
oblige, prese un
tovagliolo, raccolse con quello la venefica reliquia e la
consegnò
al legittimo proprietario, che bofonchiò qualche parola di
ringraziamento.
Riuniti in una bettola per la
bassa forza dall’evocativo nome di ‘Secchio
Sfondato’,
Grosvenor, Jenkins, Thayes e Barrett si stavano godendo alcune pinte
di birra. Dalla finestra ogni tanto entrava la proboscide di Sarkesh,
accomodato nel giardinetto sul retro, con il duplice scopo di
controllare che il beneamato sergente fosse ancora al suo posto e di
pescare qualche ortaggio da un cesto che avevano fatto portare
apposta per lui.
“Non troppi, se no ti viene mal
di pancia,” gli raccomandò il sottufficiale.
Da fuori provenne un brontolio.
I primi momenti di quella
riunione erano stati caratterizzati da un atteggiamento di profonda
serietà: avevano ricordato i compagni caduti e avevano
brindato in
loro onore.
Purtroppo, però,
col protrarsi
dei brindisi il rigore marziale si era pian piano sfaldato e i
quattro erano finiti a scambiarsi battute e pacche sulle spalle come
vecchi amici.
“E quindi, signore, alla fine
quel figlio di buona donna di un russo aveva avvelenato la bussola
del Governatore?” chiese Jenkins.
Grosvenor annuì.
“L’aveva
rubata. Gliel’ha recapitata travestito da donna qualche
giorno
dopo, confezionata come un regalo da parte della Lega per la
Temperanza.”
Tutti manifestarono la loro
disapprovazione, persino Sarkesh. Infine Thayes brontolò;
“Lega
per la Temperanza, puah! Non mi sono mai fidato della gente che non
beve.”
“Nemmeno io,” rispose
Grosvenor, “e credo che questa sia stata la fortuna del
Governatore. Se per caso O’lim avesse scelto come mittente
per il
suo pacco una distilleria di gin, avremmo celebrato le
esequie.”
* “Signore degli
ostacoli”,
uno degli appellativi di Ganesha.
PICCOLO ANGOLO
DELL’AUTORE: E
così siamo giunti alla fine di questa avventura. Ringrazio
tutti voi
che mi avete seguito, chi mi ha commentato, chi mi ha messo in
qualcuna delle sue liste, ma anche chi si è solo fermato a
leggere e
mi ha regalato un po’ della sua attenzione.
È stato molto bello
percorrere
l’India misteriosa insieme a voi seguendo le gesta di quattro
improbabili militari inglesi e un elefante.
E ora vado a bere un gin tonic
anch’io!^^
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