We can be heores, just for one day di BlueParadise (/viewuser.php?uid=621518)
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CAPITOLO 9
Erano stati una dura nottata e un brusco risveglio.
La sera precedente, dopo una lunga attesa, la Professoressa McGranitt
si era presentata nel dormitorio Grifondoro a tarda notte portandoci le
tanto attese brutte notizie.
La madre di Isabelle Flyn era rimasta uccisa nello scontro ed entrambi
i genitori di Donald Moore e Jacob White erano stati portati al San
Mungo in fin di vita.
Avevo assistito alle urla disperate di Isabelle, una bambina di appena
dodici anni che probabilmente non avrebbe più guardato il
mondo con gli stessi occhi spensierati e al panico di Donald e Jacob, i
quali, un pochino più grandicelli, erano stati
materializzati dai genitori ed esentati dalle lezioni.
Quella giornata di metà settembre sembrava destinata fin
dall’inizio ad essere ricordata. Non era stata solo la casa
di Grifondoro ad aver subito delle perdite, Hogwarts stessa era in
lutto. Alcuni ragazzi erano stati portati via dalle famiglie in fretta
e furia non appena la notizia era giunta alle orecchie di tutti. Non
erano serviti a nulla i colloqui in cui il Professor Silente aveva
ricevuto i tanto spaventati genitori, desideroso di far cambiare loro
idea. Ritirare i figli da Hogwarts sarebbe stato come rinchiudersi in
casa sperando che la guerra finisse, insomma, che senso aveva?
A colazione era stato difficile consumare il solito pasto
perché la Sala Grande era stata invasa da centinaia gufi che
avevano portato notizie dalle famiglie degli studenti di Hogwarts e
viceversa.
Alice era stata rassicurata da una lunghissima ed esauriente lettera di
suo padre in cui non solo assicurava le proprie condizioni, ma anche
quelle del padre di Potter. Marlene e Mary avevano spedito alle proprie
famiglie la loro lettera ieri sera, dopo le comunicazioni della
McGranitt e anche loro, così come quasi tutti gli altri
ragazzi, avevano ricevuto risposta in mattinata. Ma non stavamo bene,
nessuno di noi stava bene.
Avevo visto pochissimi sorrisi e sentito altrettante parole.
L’unica che sembrava aver delle gran cose da raccontare era
Amanda Benson, ma nessuno stava veramente prestandole attenzione, a
parte le sue solite amiche.
Era stato difficile anche per la Gazzetta del Profeta dissimulare
quanto successo e aveva addirittura dedicato all’accaduto un
trafiletto in prima pagina. Ironia a parte, ovviamente il Ministro
Wilson aveva dichiarato che tutto era sotto controllo. Okay, anche
questa era ironia.
Trasfigurazione, ultima lezione della giornata.
La McGranitt stava spiegando tutti gli esempi di trasfigurazione umana
e normale grazie ai quali un mago poteva salvarsi la vita. Si era
parecchio infervorata dopo che un Tassorosso del nostro stesso anno si
era lamentato di come la Trasfigurazione fosse poco utile nella vita
reale.
Il modo in cui l’aveva sistemato era stato a dir poco epico
e, per ripetere le sue stesse parole, chiunque con un minimo di
cervello saprebbe riconoscere l’importanza della sua materia.
Elementare, Watson. O nel caso della McGranitt, sì, Signora.
Certe cose non sarebbero mai cambiate.
Mary, accanto a me, era tutta intenta a scribacchiare sul suo foglio
bianco spiegazzato un elaborato disegno che sembrava rappresentare le
radici e il tronco di un albero nodoso. Era sempre stata molto brava a
disegnare.
La lezione finì, portando un po’ di sollievo tra
tutti noi, che raccogliemmo le nostre cose sfiniti e sì,
bisognava dirlo, anche leggermente stressati.
Era passata una settimana dalle selezioni di Quidditch, la squadra di
Grifondoro si stava allenando duramente, perciò non mi
stupii quando Mary mi piantò in asso per raggiungere James
Potter, alias il Capitano, e parlare di nuovi schemi di gioco che aveva
sognato durante la notte. Altro che sogno, il Quidditch era un incubo.
Hagrid aveva invitato noi ragazze a prendere un tè
giù alla capanna, alle quattro, sapendo bene che per
quell’ora saremmo state tutte libere, ma Mary aveva detto che
aveva una valanga di compiti da finire e che nemmeno una giratempo
avrebbe potuto aiutarla, in più dalle cinque e mezza avrebbe
avuto l’allenamento di Quidditch ed Alice, invece, non si era
neanche premurata di inventare una scusa decente, la sua spiegazione
era stata che già il tempo che dedicava a se stessa era
poco, ma quello che passava con il suo Franky era ancora meno. Morale
della favola, solo io e Lene saremmo passate da Hagrid.
E grazie a Dio la sera scorsa ne io ne James avevamo fatto la ronda,
dopo che un messaggio di Silente ci aveva informati che avremmo potuto
meditare tranquilli.
Il punto era che ero esausta, nel senso letterale. Necessitavo di una
doccia calda e di una dormita rigenerante. Ma gli impegni scolastici e
non erano sempre più pressanti, tanto che avevo iniziato ad
apprezzare le ore di solitudine in biblioteca.
Ed eravamo soltanto alla fine della terza settimana di scuola, non
avevo idea di come sarei stata tra sei mesi, tanto per dirne una.
Pazza, magari.
Se mio padre fosse stato qui con me, avrebbe risposto che ero
già matta da legare esattamente così
com’ero.
Amareggiata mi resi conto che pensare a mio padre e alla mia famiglia
non avrebbe risollevato il mio umore nero come il carbone, ma non potei
fare a meno di ricordare il viso cordiale e sempre dolce di mia madre,
rievocando alla mente immagini di lei e papà seduti vicini
sul divano nel soggiorno di casa nostra. Le gambe di lei piegate
lateralmente, il viso appoggiato sulla spalla di lui mentre le
accarezzava ripetutamente il braccio con movimenti delicati. Le
immagini dei programmi serali alla televisione scorrevano sui loro
occhi, probabilmente entrambi seduti dopo aver sistemato la cucina.
Casa. Casa loro, Lily, oramai è casa loro. Non era mia
perché avevo deciso che non avrei più varcato la
sua soglia, non li avrei più rivisti, per la loro sicurezza.
«Signorina Evans, va tutto bene?»
Voltando il capo mi accorsi di essere rimasta l’unica in
classe, cosa che non era rimasta indifferente alla Professoressa
McGranitt.
«Oh sì, tutto bene, grazie» risposi con
un piccolo sorriso.
Lei mi sorrise a sua volta, con quel suo fare così tipico.
Gli occhi azzurro ghiaccio mi seguirono per tutto il tempo in cui
impiegai a raggiungere la porta e, prima di andarmene, le augurai una
buona serata.
Non potevo dire di non voler bene alla Professoressa McGranitt, anzi,
era forse l’insegnante che in assoluto preferivo, non
l’avrei mai detto a Lumacorno però, già
non sopportava l’idea che non fossi nella sua casa.
Una sporca mezzosangue a Serpeverde, come no! Poi ovviamente mi sarei
uccisa piuttosto che finire come tutti quegli idioti presuntuosi e
codardi. A Grifondoro stavo più che bene, avevo trovato la
mia famiglia.
«Lily?»
Remus mi stava aspettando, appoggiato a braccia conserte contro il muro
fuori dall’aula di Trasfigurazione.
Ultimamente stavamo passando molto tempo insieme, iniziando ad
apprezzare la tranquillità che accumunava entrambi. Il viso
pallido e tirato si distese in un sorriso d’intesa, e senza
dire una parola, iniziammo a dirigerci in biblioteca, complici del
silenzio tanto desiderato.
Sembrava stanco, come se non dormisse da giorni, e molto affaticato. A
confutare questa mia osservazione bastò il fatto che
camminava lentamente, sforzandosi di tenere un’andatura
normale ma senza riuscirci. Sapevo bene quale fosse la causa di tutti
quei sintomi.
«Hai sentito i tuoi genitori ultimamente?» gli
domandai.
Lo vidi esitare, incespicando leggermente sui suoi stessi passi.
«No, in realtà no. Papà lavora al
ministero, ma solitamente si tiene lontano dai guai. Mia madre invece
lavora per dei babbani, quindi non corre nessun pericolo,
teoricamente.»
«Devono essere delle persone splendide» dissi di
getto.
Remus mi sorrise addolcito. «Sì, lo
sono.»
Nonostante la tenerezza di quest’ultima frase avevo avvertito
una sfumatura di rimpianto in quelle parole e, conoscendo bene Remus,
era abbastanza certa che il motivo fosse la sua poca stima di se
stesso.
«Lo sei anche tu» risposi sincera.
Rem si limitò a guardarmi stupito, lasciandomi capire nel
suo solito modo riservato che mi era grato.
Madama Pince ci rivolse un cenno affrettato del capo quando ci vide
prendere posto in uno dei tavoli più vicini
all’entrata. Borbottò qualcosa e poi
sparì tra i vari scaffali con una pila di libri in mano alta
molto più di lei.
Iniziai con Antiche Rune, sbuffando rassegnata non appena mi resi conto
che il brano che avevamo da tradurre era lunghissimo.
Non è che non mi piacesse studiare, anzi, tutto il
contrario. Non ne avevo mai basta di imparare cose nuove e spesso mi
capitava di sapere più del necessario. L’unico
problema era che a volte, come oggi ad esempio, desideravo di voler
fare tutt’altro che stare sui libri.
Ma dovevo in qualche modo iniziare, perciò mi rimboccai le
maniche e mi immersi nella complicata traduzione e grazie a Godric che
esistevano i dizionari runici, perché altrimenti noi poveri
stolti studenti che avevamo deciso di studiare la materia non saremmo
sopravvissuti a neanche due misere righe.
Remus invece si stava occupando di Aritmazia. La professoressa Vector
ci aveva assegnato una valanga di esercizi da svolgere per la prossima
settimana, ma li avrei fatti domani. In più dovevo ancora
sistemare gli appunti di Storia della Magia ed esercitarmi in
Incantesimi, senza contare il programma super complicato che stavamo
affrontando in Difesa contro le Arti Oscure.
Una lunga tortura, insomma.
Trascrissi la traduzione del paragrafo centrale e passai a quella
finale del brano di Antiche Rune. La professoressa Babbling si
divertiva molto a consegnarci saggi a sfondo storico con una trama
complicatissima e un linguaggio piuttosto difficile.
«La traduzione com’è?» mi
domandò Remus facendo una pausa.
«Hai presente quando non hai la più pallida idea
di cosa stai scrivendo?»
Remus mi guardò scoraggiato. «Oddio.»
«Più che altro non capisco se dovrei essere in
grado di farla senza dizionario oppure se sono io ritardata. Senza
aiuti è impossibile.»
Lui scosse la testa ridendo. «Mi sa che un po’
ritardata lo sei.»
Lo colpii giocosamente sulla spalla con il libro di Incantesimi ma alla
fine risi con lui. «In effetti.»
Mi accorsi solo in un secondo tempo che se non mi fossi data una mossa
sarei arrivata in ritardo da Hagrid.
«Oh, cavolo! Scusa Rem, ma ho promesso ad Hagrid che sarei
passata da lui con Lene e sono già in ritardo!»
«Anche Marlene verrà con te?»
Nonostante stessi radunando tutti i miei libri dentro la borsa a
tracolla, colsi comunque il tentativo di dissimulare la morbosa
curiosità. Avrei tanto voluto chiuderli entrambi dentro una
stanza e vedere cosa fosse successo, ma ahimè, non potevo
farlo.
«Sì. Ci vediamo dopo, okay?»
Lui sorrise in risposta, così mi avviai velocemente verso
l’ingresso principale dove avevo appuntamento con Marlene. La
trovai seduta sui gradini delle scale, avvolta nella sua solita sciarpa
rossa e oro da vera Grifondoro.
«Sono in ritardo?» domandai notando il suo anticipo.
«No no.»
La guardai meglio, sembrava stanca, molto più stanca di
quando l’avevo vista qualche ora fa.
«Lene, va tutto bene?»
I suoi grandi occhi si sgranarono alla domanda e riuscii a scorgervi un
lampo di confusione.
«Sì, cioè, non lo so per la
verità.»
Scossi la testa. «Non credo di aver capito.»
«Non mi sto capendo neppure io» sospirò.
Lasciai cadere per terra la borsa e mi sedetti sui gradini della scala
accanto a lei.
«Me ne vuoi parlare?»
«Non so nemmeno come spiegarti cosa provo. Sono soltanto
stufa di aspettare.»
«Aspettare cosa?»
Volevo davvero provare a capire cosa non andasse.
«Tutto» rispose con un’alzata di spalle.
«Hai presente? Non faccio altro che aspettare. Aspetto il
prossimo attacco, aspetto il domani, aspetto di finire gli studi,
aspetto un sacco di cose.»
«E sei stufa» ritentai cercando un filo logico nel
suo discorso. Non che non avessi capito, tutt’altro,
comprendevo fin troppo bene ciò che stava cercando di dire.
«Penso di sì, vorrei solamente smettere di
aspettare.»
Un piccolo sorriso amaro mi si formò sulle labbra non appena
cercai risposta. «Non penso che possiamo realmente farci
qualcosa, però capisco cosa intendi dire e hai ragione,
anche io mi sento continuamente impotente.»
«E come fai a non impazzire?» domandò
Lene.
«Ti sembra che io sia normale? Certo che no, faccio
costantemente i conti con questo problema. Ultimamente, poi, do in
numeri molto più spesso di prima.»
Il sorrisetto che riaffiorò sulle lebbra di Marlene mi
sembrò spontaneo. «Già, abbiamo
notato.»
Sorrisi anche io di riflesso. La loro amicizia era l’unica
cosa che al momento faceva scorrere le mie giornate. Ci sostenevamo a
vicenda quando debolezze e paure riempivano il nostro cuore con una
densa e fitta nebbia.
«Lo so bene» risposi alzando gli occhi al cielo.
«Ora andiamo, Hagrid ci starà
aspettando.»
Ci incamminammo insieme dirette alla capanna. Il cielo era di un grigio
pallido, come se anche lui fosse sfinito, esangue dagli ultimi
avvenimenti. Rifletteva un po’ il mio umore, quella
stanchezza che sembrava intrufolarsi in ogni parte del mio corpo.
Il camino della piccola dimora in cui Hagrid viveva era fumante, segno
che un pentolone di qualche roba pericolosa stava bollendo
indisturbato.
Marlene dovette bussare due volte sulla porta in legno massiccio prima
che Hagrid finalmente ci aprisse.
«Oh, eccovi qui! Ci speravo che arrivaste!»
Rabbrividii quando una ventata di aria gelida ci seguì fin
dentro la capanna. «Mary aveva gli allenamenti di Quidditch e
Alice doveva portarsi avanti con lo studio. Si scusano per non essere
venute.»
«Oh, non ci importa, non è vero Thor?»
latrò Hagrid accarezzando rudemente il muso del cucciolo
disteso accanto a lui. «Avete tanto da fare, lo so. Sedetevi
ragazze, metto su un tè bello caldo.»
Per Hagrid significava che l’acqua sarebbe evaporata a furia
di bollire. Mi lasciai sprofondare su una delle poltrone sgualcite
mentre Marlene sorrise divertita. «Grazie mille.»
«Allora, come state ragazze?»
Alzai le spalle. «Considerando la nottataccia appena
trascorsa, direi che non siamo esattamente in forma.»
«Ah, brutta storia. Non ci volevo credere quando mi ci hanno
detto le vittime» borbottò sedendosi anche lui. La
poltrona scricchiolò leggermente al contatto con
l’imponente mole di Hagrid.
«Già, neanche noi. Eravamo tutti
preoccupati.»
«Immagino! Dovevate vedere quanto era infervorato ieri sera
Silente, ci è andato pure a parlare con il Ministro in
persona!»
Lene assottigliò gli occhi interessata. «E che
cosa si sono detti?»
Anche io mi sporsi leggermente, curiosa di conoscere la vicenda.
«Non lo so. Ieri sera si sono visti, però. E
quando Silente è tornato, una bestia era.»
«E poi questa mattina in tanti hanno lasciato
Hogwarts» aggiunsi.
«Pure quello! Come se non bastassero i problemi attuali
adesso anche le famiglie si mettono a contestare. Matti! Non esiste
posto più sicuro di Hogwarts.»
Sì, Hagrid aveva ragione. Finché saremmo stati
sotto questo tetto, ero sicura che non ci sarebbe accaduto nulla di
male.
«Il problema è che non tutti ne sono consapevoli,
alcuni genitori ritengono di poter proteggere meglio i propri figli
segregandoli in casa» disse Lene.
«E quindi Silente si è visto con Wilson?»
Hagrid annuì. «Non so altro.»
«Immagino sia una situazione difficile per tutti.»
Probabilmente Silente stava cercando di gestire la circostanza al
meglio e questo lo aveva portato a discutere con Wilson su come far
fronte all’emergenza.
«E quel barbuto del Ministro non vuole farci
niente!»
«Sì, lo sappiamo» risposi. Hagrid si
alzò con un impeto furioso e versò il
tè bollente in due grosse tazze dai bordi sbeccati.
«Quello è un mentecatto, ve le lo dico
io!» borbottò risedendosi.
La bevanda fumante mi scaldò le mani leggermente fredde. Si
stava avvicinando l’autunno, riuscivo a percepirlo
nell’aria.
«Stai bene, Hagrid?» domandò Marlene.
Doveva aver notato anche lei il viso nervoso dell’uomo seduto
accanto a noi. Raramente Hagrid era di pessimo umore, non accadeva
quasi mai.
«Non ci dovete preoccupare per me.»
«Ma Hagrid, tranquillo. Con noi puoi parlare» lo
rassicurai.
«È una sciocchezza» rispose.
«Voi avete sicuramente altro a cui pensare
…»
Sorrisi con dolcezza. «No invece, siamo qui per farti
compagnia.»
«Oh, d’accordo. È stupido, ma ci vorrei
fare qualcosa.»
Marlene posò intenerita una mano su quelle grandi e chiuse a
pugno di Hagrid. «Anche noi lo vorremmo,
assolutamente.»
Erano mesi, oramai, forse anni, che mi sentivo impotente. Non potevo
fare nulla se non guardare il mondo cadere lentamente a pezzi, senza
avere niente con cui difendermi. Brancolavo nel buio, sperando
ingenuamente che non accadesse mai nulla di male alle persone che amavo.
«E non è affatto stupido» aggiunsi.
Non lo era perché testimoniava la speranza su cui ancora
facevamo affidamento. Avrei tanto voluto poter fare qualcosa, schierare
la mia mossa in questa partita a scacchi infinita.
Hagrid sorrise toccato e il suo viso ispido e paffuto si distese
bonariamente.
«Ci sapete fare voi due, eh?»
«Vorremmo saper fare di più» rispose
Lene.
«Ah, no. Basta tristezza!» vociò Hagrid.
«Raccontatemi, come stanno andando le lezioni?»
«Un incubo, non abbiamo neanche più il tempo di
respirare.»
Passarono diversi minuti, forse addirittura un’ora intera.
Parlammo di svariati argomenti davanti ad una tazza di tè
fumante, cercando di dimenticare le ombre che strisciavano malignamente
nelle nostre giornate.
Fuori dalla finestra appannata dal vapore acqueo il tempo era scuro,
buio ormai. Si era fatta sera e le stelle del cielo scozzese avevano
incominciato ad illuminare l’aria notturna di questa giornata
di fine settembre. Thor si era addormentato accanto al fuoco e Hagrid
aveva preso ad osservarlo con divertimento.
Io e Lene lo salutammo con un sorriso e ritornammo al castello
soddisfatte del pomeriggio. In Sala Comune il caos era meno evidente
rispetto alle altre serate. Il clima teso e irrequieto della giornata
non era ancora volato via. I più piccoli parlavano tra loro
tranquilli e alcuni erano semplicemente seduti in silenzio, osservando
il vuoto con occhi annebbiati.
Scorsi Peter Minus giocare a gobbiglie con un ragazzino del terzo anno.
Mi chiesi dove fossero finiti i suoi tre compari, ma ricordai che Black
e Potter dovevano essere ad allenarsi e Remus, con ogni
probabilità, ancora chino su qualche tomo voluminoso.
Io e Marlene ci dirigemmo insieme verso la nostra stanza, salendo le
scale della torre con famigliarità. Di Alice ancora nessuna
traccia, anche se sapevo che il responsabile della sua scomparsa doveva
essere Frank. Dove sparissero, però, sarebbe rimasto un
mistero.
Martin celebrò il mio ritorno con gioia, facendosi coccolare
beato, mentre Lene si chiuse in bagno. Dopo poco sentii le tubature
dell’acqua sibilare, segno che era sotto la doccia. Con uno
sbuffo mi distesi sul letto, chiudendo gli occhi.
Caddi in un pesante stato di dormiveglia, sentendo il mio corpo
rilassarsi gradualmente.
Avevo bisogno di una pausa, desideravo soltanto un po’ di
tranquillità per poter continuare la mia vita. Eppure,
giorno dopo giorno, il pericolo sembrava farsi maggiore e la sofferenza
divenire sempre più intensa. Volevo solamente vivere senza
aver paura di farlo, ma forse era chiedere troppo.
****
Lasciammo il campo affaticati e più affamati che mai. L’allenamento era stato produttivo e stavamo lavorando duramente in previsione della prima partita del campionato, tra poco meno di un paio di mesi. Volevo impegnarmi al massimo, dato che sarebbe stato il
mio ultimo torneo di Quidditch.
Elise e Oliver sembravano andare d’accordo con il resto del
gruppo e stavano imparando piuttosto in fretta le dinamiche di gioco.
«Stiamo andando bene» dichiarai sulla strada verso
il castello.
Sirius annuì in sintonia, sorridendo stanco. «Ci
hai distrutto.»
«Forse dovremmo lavorare di più sulla
velocità.»
«Secondo me non serve» replicò lui.
«Altrimenti rischiamo di perdere la concentrazione.»
Il resto della squadra, poco più avanti, stava commentando
l’esito dell’allenamento e mi sentii soddisfatto
quando anche loro costatarono l’impegno che stavamo
dimostrando.
«Ho bisogno immediato di cibo» mi lamentai.
«Io di una doccia.»
Finalmente il weekend tanto sospirato era arrivato e potevo permettermi
un po’ di svago. Non che avessi chissà quanto
tempo a disposizione, ma una bella dormita non sarebbe mancata,
dopodiché avrei dovuto pensare all’enorme
quantità di compiti per la prossima settimana e allo studio
arretrato.
Quando arrivammo in camera trovammo Peter disteso sul letto.
«Era ora che arrivaste.»
«Ti sei annoiato senza di noi, Wormtail?»
«Remus è così noioso, è in
biblioteca da questo pomeriggio.»
«Puah» borbottò Sirius
teatralmente.
«Tutto solo soletto?» domandai.
«Mi pare che la Evans gli abbia fatto compagnia per un
po’» rispose noncurante. «Ma
l’ho vista in Sala Comune con la McKinnon poco fa.»
Immediatamente drizzai le orecchie, interessato come sempre a tutto
ciò che riguardasse Lily. Fu proprio in quel momento che
Moony fece il suo ingresso nella stanza, portando con sé una
quantità inimmaginabile di libri.
«Secchione» sghignazzò Padfoot.
Moony alzò gli occhi al cielo e raggiunse il suo letto con
fatica. I sintomi di ciò che sarebbe successo di qui a pochi
giorni erano ormai più che evidenti. Profonde occhiaie,
affaticamento e spossatezza. Sapevo bene che camminare sarebbe
diventato un dolore a malapena sopportabile e Remus avrebbe avuto
bisogno di noi per arginare la stanchezza.
«Lily era con te?»
«Sì, poi è andata a trovare Hagrid con
Marlene.»
Annuii e posai con attenzione la mia meravigliosa scopa nel suo
prezioso angolino. Il mio interesse venne catturato nuovamente dalla
lunga lettera tutta spiegazzata posata sul comodino accanto al letto.
Mi era stata recapitata dal gufo di famiglia questa mattina e aveva
rappresentato un briciolo di speranza in questa giornata senza
apparente gratificazione. Mio padre e mia madre avevano assicurato che
non era capitato loro nulla di male, considerato poi che
papà, in quanto auror, si era precipitato immediatamente nel
pieno epicentro della battaglia e aveva combattuto tenacemente.
Non aveva deciso di affrontare l’attacco soltanto
perché il suo lavoro, in un certo qual modo, lo costringeva
a farlo, ma perché mio padre era fatto così. Ed
io ero fiero di poter ammettere di assomigliare a lui in questo,
entrambi non ci saremmo mai tirati indietro di fronte ad una sfida.
Mai, anche se questo voleva dire accettare di poter perdere, in questo
caso addirittura la vita.
I miei genitori lottavano per uno scopo, si battevano con coraggio e
non potevo biasimarli. Naturalmente mi ero dato pena fino a quando non
avevo ricevuto loro notizie e ovviamente questo sarebbe sempre
successo. Però ero cresciuto e avevo capito che le loro
intenzioni erano nobili ed eroiche, anche se questo voleva dire
rischiare giorno dopo giorno. Avrei voluto che non dovessero farlo, ma
non potevo di certo chiedere loro di rinunciare a fare la differenza.
«Fissi quella lettera come se ci potessi trovare tutte le
risposte del mondo.»
Sirius, aveva in parte ragione, ma lui non era stato da meno, aveva
sofferto esattamente come me, anzi, l’assenza di informazioni
lo aveva reso senz’altro più nervoso e irascibile.
E quando la lettera era arrivata la gioia sul suo viso era stata
intensa quanto la mia.
«Una risposta l’ho avuta, almeno»
risposi. «Stanno bene, mi basta questo.»
Io e Padfoot avevamo impiegato l’intera mattinata per
scrivere due righe che esprimessero tutto il nostro sollievo. Sir era
mio fratello, parte integrante della famiglia, e voleva bene ai nostri
genitori in maniera incredibilmente autentica.
«Quando Silente ha annunciato quello che era successo non ci
volevo credere. Per pochi secondi ho sperato realmente che fosse tutto
un grande, gigantesco errore» ammise Remus nel silenzio che
si era creato.
«Io ho visto i loro visi, dei miei genitori, nitidi davanti a
me.»
Parlare fu liberatorio.
«So che volete saperlo» borbottò
Padfoot. Sembrava eccezionalmente in difficoltà e subito ne
capii il motivo. Stavamo mettendo in chiaro i nostri sentimenti e per
Sirius questo era una difficoltà da sempre.
«E ce lo dirai?» domandò Remus
Mi tesi a disagio. Sirius Black e sfera affettiva non erano affatto due
sostantivi che avrei accostato tra loro, tutt’altro.
Padfoot si sedette sul suo letto stringendo le mani con evidenti segni
di nervosismo. Non volevo che si sentisse costretto ad ammettere
ciò che aveva provato senza essere realmente sicuro di
volerlo fare.
Sirius si schiarì la voce e poi alzò la testa con
un’espressione atterrita che raramente gli avevo visto in
volto. «Ho pensato che ne avevo abbastanza di tutta questa
merda di situazione.»
Ne avevamo tutti abbastanza, su questo non avevo dubbi. Remus
annuì d’accordo e Peter chiuse gli occhi in
evidente stato di meditazione.
«E poi ho sperato con il cuore in gola che non succedesse
nulla di male alle uniche due persone che hanno provato ad accettarmi
per come sono, che mi hanno accolto come figlio loro senza
riserve.»
Mi immobilizzai senza parole. Sirius aveva appena ammesso, non senza
qualche difficoltà, ciò che realmente provava. E
poteva sembrare poco, ma non lo era. Non per uno come lui, abituato ad
ignorare tutto ciò che gli veniva suggerito dal cuore,
sempre alla disperata ricerca di affetto e riconoscenza, ma per nulla
convinto di meritarseli.
«Loro ti vogliono bene, dovresti saperlo» risposi
esitante.
I miei genitori amavano Sirius con tutto il loro cuore. Non avevano
esitato neanche un solo secondo quando Padfoot si era presentato a casa
nostra con la dignità calpestata da anni di maltrattamenti
malcelati. Avevano fatto il possibile per amarlo e accettarlo come
meritava e io ne ero stato orgoglioso.
«Forse ti apprezzano molto più di me, tra
l’altro» scherzai per alleggerire la tensione che
si era creata.
Sirius stette al gioco senza problemi. «E come non
potrebbero? Tutti sanno che sono migliore di te.»
«Ho detto forse, non che è
così!»
«Nah, è Sirius il preferito» si
intromise Moony.
«Remus Lupin!»
«Anche io voto per Padfoot» sghignazzò
Peter. Sirius gli diede una pacca sulla spalla e poi si girò
per dare un cinque a Remus, il quale si stava evidentemente divertendo
tantissimo.
«Beh, io sono il figlio che ha regalato loro anni di gioie e
soddisfazioni» piagnucolai peggio di un bambino.
«Ma smettila. Dorea mi adora, come tutte le donne del resto,
e non sa negarmi nulla. Mentre Charlus probabilmente ritiene che io sia
molto più maschio di te, sono il suo figlio prediletto, mi
sembra ovvio.»
«Non è vero, mamma preferisce me!»
«Io patteggio ancora per Sirius» aggiunse Moony con
un gran sorriso.
«Non puoi vincere, Jamie» cinguettò
Sirius usando il fastidioso soprannome che mi aveva affibbiato mia
madre fin da quando ero un bambino.
«Non chiamarmi in quel modo!»
«In quale, Jamie?»
«Smettila» protestai. «Quel nome
è irritante.»
«Oh, il mio piccolo Jamie» continuò a
sproloquiare Sirius. Si era alzato in piedi teatralmente e aveva
iniziato ad imitare il tono di voce cantilenante che molto spesso usava
mia madre nei rari momenti in cui si addolciva.
«Basta!»
Moony e Wormtail si stavano rotolando sui loro letti dal ridere, con
addirittura le lacrime agli occhi.
«Soltanto se ammetti che io sono il preferito.»
«Tu, stronzo!» inveii.
«Sì, ma tanto resto comunque più bello
di te.»
«Questo è da vedere» borbottai
imbronciato.
Sirius mi rispose con una pernacchia divertita ed esibì in
una posa da modello i suoi bicipiti più che evidenti. Ero io
il più bello, in un caso o nell’altro.
Dopo poco tempo Padfoot si fiondò in bagno con
l’intenzione di farsi una doccia, così io ne
approfittai per cercare di riordinare il disordine che sembrava
caratterizzare la nostra stanza. Remus mi diede una mano di sua
spontanea volontà, probabilmente turbato da giorni dalla
grande confusione, mentre Wormtail ci osservava con un gran sorriso,
deciso a non alzare nemmeno un dito.
«Scansafatiche» lo rimbeccò Moony
cercando di colpirlo con una vecchia pergamena appallottolata.
«Esistono gli elfi» rispose Peter.
«Non sono obbligati a pulire le nostre schifezze.»
Wormtail alzò gli occhi al cielo ed io scossi il capo. Avevo
sempre apprezzato il lavoro che svolgevano gli elfi e mai lo avrei
considerato come qualcosa di banalmente dovuto a noi maghi, sapevo che
costava loro parecchie fatiche. E come diceva giustamente Lily Evans:
“Da prima i maghi agli elfi domestici a prima i maghi ai
NatiBabbani, il passo è breve”. E io non mi
sentivo migliore di nessuno, assolutamente. Ero consapevole che i maghi
non avessero nessun diritto di trattare gli elfi domestici come niente
di più di servi inferiori per importanza. Ed ero quasi
sicuro che la situazione sarebbe andata soltanto peggiorando,
calcolando quanto i maghi sapessero essere distruttivi per chi non era
come loro. Lo avevano dimostrato chiaramente le tre guerre combattute
contro i folletti, le crociate ancora in atto in opposizione ai lupi
mannari e ovviamente nella lunga lista i Mangiamorte e il loro Signore
erano compresi. Bisognava cambiare atteggiamento e per farlo dovevamo
iniziare dalle piccole cose. Ad esempio evitare di pensare che la
pulizia della nostra camera, e di Hogwarts in generale, fosse dovere
degli elfi domestici. Non era così, ognuno di noi era tenuto
a fare la propria parte per il quieto vivere comune.
Finimmo soddisfatti di riordinare e Remus sopirò sollevato.
«Ci voleva proprio.»
«Da quanto progettavi di farlo?»
sghignazzò Peter.
«Un po’» rispose lui. «Stava
diventando un vero casino.»
«La vera domanda è: quando mai non lo
è?» esordì Padfoot uscendo dal bagno
con i capelli ancora gocciolanti.
Io sollevai le spalle divertito quando Remus sbuffò.
«È inutile Moony, la nostra stanza è
per definizione un disastro.»
Rem borbottò qualcosa tutto concentrato a pulire il comodino
di Wormtail dalle briciole di un vecchio e ormai stantio spuntino delle
cinque. Per i comuni mortali era il tè delle cinque, per
Peter lo spuntino.
«A proposito, quindi come abbiamo intenzione di
comportarci?» domandò Sirius stendendosi sul suo
letto
«In merito a cosa?» chiesi recuperando
l’occorrente per una doccia rigenerante.
Scosse il capo. «Secondo te? I Mangiamorte sono praticamente
dentro Hogwarts.»
«Questo non è vero» ribatté
Moony.
«Ah no? E allora spiegami quale ruolo abbiano Mulciber e
compagnia, compreso mio fratello.»
Non aveva tutti i torti, soprattutto considerando quello che
martedì sera avevo sentito durante la ronda con Lily. Non
potevo tuttavia farne parola per via della segretezza assoluta che
Silente ci aveva ribadito mercoledì mattina, quando io e
Lily ci eravamo presentati nel suo ufficio per riferire quanto
successo.
«Sirius, sono soltanto dei ragazzini esaltati»
tentò di farlo ragionare Remus.
«Questo sì, ma davvero pensi che non diventeranno
Mangiamorte?» mi intromisi io.
«So quello che mi state dicendo, so che avete ragione
…»
«Lo so, provo la stessa cosa. Il cervello mi dice che, se non
lo sono già, lo diventeranno di sicuro, però mi
rifiuto lo stesso di crederlo» lo rassicurai.
«È uno schifo» borbottò
Peter.
Padfoot annuì. «Già, quello che mi
chiedo è come dobbiamo comportarci noi.»
C’erano veramente pochissime cose che potevamo fare
concretamente. Eravamo semplicemente dei ragazzini, potevamo soltanto
guardare il mondo distruggersi pezzo dopo pezzo.
«Non dobbiamo comportarci diversamente dal solito. Possiamo
aiutare, però, anzi, dobbiamo aiutare» risposi con
cautela.
«Aiutare chi?»
Sospirai. «Tutti, Peter. Chiunque. Non ti sei accorto di
quanto le persone abbiano effettivamente bisogno di aiuto? Hanno
paura.»
«Tu non hai paura?» mi chiese Remus.
«Certo, continuamente, lo sapete.»
Mi rinchiusi in bagno pensando a quanto effettivamente la situazione
fosse peggiorata nel giro di pochi mesi. Gli attacchi erano
moltiplicati e la paura era sempre più destabilizzante, la
paura ma anche il bigottismo delle persone.
L’acqua calda della doccia mi scorreva sul corpo,
rilassandomi. Ripensai istintivamente a quanto la guerra avesse
effettivamente cambiato la vita e di riflesso la sua
qualità. Per noi ragazzi che vivevamo ad Hogwarts protetti e
rassicurati questo era meno evidente che nel mondo esterno. Al castello
le notizie giungevano tardivamente o attenuate dai mezzi di
informazione disposti dal governo, il cui desiderio era quello di
insabbiare la situazione allarmante. Beh, grazie al loro ridicolo
teatrino i Mangiamorte stavano acquisendo sempre più terreno
e loro ne stavano perdendo a dismisura. Come si possono stanziare fondi
e misure efficaci per combattere un problema se questo non viene
riconosciuto e reputato tale? La situazione faceva sinceramente
rabbrividire. Tutto questo sommato al pregiudizio e alla paura, sempre
più grandi da costringere intere famiglie ad entrare in
clandestinità o a nascondersi. Tantissimi NatiBabbani negli
ultimi mesi avevano fatto perdere le proprie tracce per paura di essere
riconosciuti e quindi incarcerati, o peggio ancora, uccisi. Tra la
gente si era insinuato il dubbio e i più stupidi e
vigliacchi, per paura di diventare a loro volta un bersaglio dei
Mangiamorte, avevano dato il via ad una sorta di “caccia alle
streghe”. Peccato che non eravamo più nel Medioevo.
Ero preoccupato, forse troppo. Non per me, perché di fatto
non correvo nessun pericolo, ma per tutte quelle persone a cui poteva
essere fatto del male.
Lily, martedì sera, mi aveva stupito. La sua indole
combattiva era qualcosa che ammiravo, una peculiarità che la
rendeva, ai miei occhi, ancora più incredibile. Quello che
aveva sentito avrebbe dovuto sconvolgerla, e probabilmente
così era stato, ma si era dimostrata forte, nonostante la
situazione.
E calcolando come io mi sentissi costantemente, non osavo immaginare
lei.
Quando uscii dalla doccia una nuvola di vapore acqueo soffocava il
piccolo ambiente che era il bagno. In quell’istante mi resi
conto che volevo parlare seriamente con Lily, che volevo cercare con
lei un rapporto serio e responsabile, perché sì,
avevo bisogno che lei facesse parte della mia vita.
Vestendomi fui pervaso da una sorta di eccitazione irrazionale. Il solo
pensiero di Lily, di quella meravigliosa ragazza dai capelli rossi e
dalle iridi verdi, mi faceva desiderare di essere una persona
differente. Non avrei saputo spiegare con esattezza la natura di quella
sensazione e neppure cosa questo avrebbe comportato, volevo solamente
instaurare un rapporto che fosse il più vero possibile con
la ragazza che, senza saperlo, mi stava cambiando la vita.
Perciò quando scendemmo in Sala Grande per cena sfoggiai il
mio miglior sorriso, malgrado la giornata storta, e salutai una testa
rossa scintillante intenta a chiacchierare con Mary.
«Ehi, Capitano» mi sorrise quest’ultima.
«Potter.»
Il piccolo sorriso che Lily mi rivolse fu per me una grandissima
soddisfazione e probabilmente lei stessa se ne rese conto, dato che
alzò gli occhi al cielo.
Mi sedetti perfettamente eccitato e mangiai contento anche solo del suo
saluto.
«Smettila, James» borbottò Padfoot.
Mi accigliai. «Di fare cosa?»
«Quella cosa.»
«Eh?»
Sirius sbuffò. «Sei un gran deficiente.»
Okay, ora ero ufficialmente confuso.
«Ancora non capisco» mi lamentai.
«Tu smettila e basta, okay?»
«Okay» risposi basito.
Padfoot ritornò alla sua cena con un’espressione
strana che non seppi decifrare. Lasciai perdere, forse distratto
proprio da Lily che in quel momento mi fissava stranita.
«Tutto bene?» le domandai.
Le mie parole la riportarono con i piedi per terra. Scosse la testa
ripetutamente per una decina di secondi e poi sorrise, un sorriso vero,
uno di quelli che raramente rivolgeva a me. Ovviamente ogni muscolo del
mio corpo si tese come una molla, pronto a scattare impazzito.
Sì, dovevo essere impazzito.
«Okay gente, Lily Evans ha appena sorriso a James Potter, non
credevo potesse essere possibile» esclamò Alice a
bocca aperta. E non era l’unica a bocca aperta, sottoscritto
compreso.
«Sul serio tesoro, stai bene?» continuò
Marlene sventolando e schioccando le dita davanti alla povera Lily che
la fissava divertita.
Lily rise di gusto di fronte alle nostre espressioni sbalordite.
«Adoro come vi siete agitati.»
«È che tu non … non hai mai sorriso a
me» balbettai come un idiota.
«Sì invece, è già successo
un sacco di volte, solo che ho saputo nasconderlo molto meglio di come
ho fatto prima.»
La guardai sbalordito. «Hai provato a nasconderlo?»
«Beh, certo. Tu la maggior parte delle volte mi fai infuriare
e mi innervosisci come pochi riescono a fare, però ci sono
anche volte, pochissime, non ti agitare, che questo non
succede» rispose alzando le spalle con aria disinvolta.
Porca miseria, se non fosse stato per l’atmosfera quasi
surreale che si era creata mi sarei messo a cantare dalla gioia.
«Secondo me sta per avere una crisi isterica»
sghignazzò Frank fissandomi divertito.
Non stavo per aver una crisi isterica! Ero semplicemente contento di
questa nuova scoperta.
Mi schiarii la voce, sicuro che sarebbe tremata. «Lieto di
venirne a conoscenza, Evans.»
«Ora non farci l’abitudine.»
Con nonchalance scosse ancora il capo e tornò alla sua cena
perfettamente tranquilla.
Io ero tutt’altro che tranquillo. Perché ogni cosa
di lei aveva il poter di trasformare ogni cosa di me, senza che lei lo
sapesse.
Remus mi fissava di sottecchi, soddisfatto e contento. Ricambiai lo
sguardo con un sorriso raggiante.
Sì, ero felice. Felice perché Lily Evans aveva il
potere di rendermi tale.
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