Piume.
Quando riaprì gli occhi,
tutto ciò che apparve nel suo campo visivo
furono morbide, calde, accoglienti, piume, che la circondavano e le
permettevano di conservare quel briciolo
di dignità rimastole in corpo dopo quell’ultima
umiliazione, coprendo le sue
nudità.
Non si chiese da dove spuntassero,
né tantomeno a chi appartenessero:
già lo sapeva e, francamente, non le importava.
Non le importava di aver sfiorato
la cima della gerarchia sociale ed
essere caduta subito dopo, non le importava che Phobos
l’avesse tradita così
spudoratamente per prendersi il suo scettro e i suoi poteri, non le
importava
nemmeno che fossero di Harmonia le braccia che la stavano sostenendo e
nelle
quali, adesso, si stava rifugiando: voleva piangere, niente di
più, e farlo da
una parte o dall’altra, davanti a una persona piuttosto che a
un’altra, le era
totalmente indifferente.
Chi non era indifferente invece era
il rosso, intento a gongolare per
la riuscita di un piano iniziato nella vasca di Madre Natura e finito
con
quest’ultima stesa a terra in una pozza di sangue e lui
lì, ritto, spavaldo,
col petto in fuori e lo scettro in mano.
Perfettamente in linea col proprio
stile, si girò, si chinò e si
abbassò la gonna, mostrando fieramente le chiappe al vento.
«Alla faccia vostra,
zittellacce che non siete altro! Baciate il culo
di Padre Natura!»
Il solito, appunto.
E, sempre come solito, la Starequus
aveva voglia di fare tutto tranne
che di perdere tempo davanti a un buffone: c’era la guerra, e
ogni minuto che
passava a rendersi ridicolo era un minuto in più che i suoi
uomini dovevano
sopportare contro le bestie di Emily Jane; finché il bastone
non veniva
spezzato, allora quelle avrebbero continuato a riprodursi.
E non era un lusso che poteva o
voleva permettersi.
Fatta comparire sul suo corpo
martoriato una tunica pesante che la
coprisse e la tenesse al caldo, posò piano la figlia
dell’Uomo Nero a terra,
scambiandosi con lei solamente un neutrale sguardo che non conteneva
traccia né
di disprezzo, né di pietà, né di
rabbia, solo un tacito “Ti aspettavi che
finisse diversamente?”: sarebbe bastato quello a insegnarle
la lezione,
sperando che stavolta avesse la volontà
d’impararla.
Con una mano poggiata sulla propria
arma così da non farsi cogliere
impreparata, avanzò di qualche passo verso l’altro.
«E quindi? Quali sono i
tuoi piani, ora che sei entrato in possesso
dello scettro?» domandò.
Lui si grattò la testa.
«Io veramente-»
«Non sto parlando con
te» con uno scatto, tese la lancia davanti a sé,
interponendola fra la sua persona e il rosso «ma con chi hai
nella testa. Dì ad
Alexander di farsi vedere, o lo trascinerò giù
dalla Luna a suon di schiaffi a
palmo teso».
«Luna?
“Alexander”? Gente dentro di me?» la
guardò stranito,
inclinando il capo «Cosa minchia vai blaterando? Altro che
“guardiana della
fantasia”, tu vedi gli arcobaleni e gli unicorni e tuttecose
solo perché ti
cali gli acidi potenti! Quel tuo
corno deve proprio averti perforato il cervello in qualche modo, se
credi che-»
s’interruppe.
O meglio, parve proprio spegnersi:
lo sguardo perso nel vuoto, il
petto che non si alzava e abbassava più al ritmo del suo
respiro, le braccia
abbandonate lungo i fianchi, lasciò persino cadere lo
scettro a terra!
“Adesso o mai
più”.
Senza indugiare, Harmonia vi si
gettò sopra intenzionata ad afferrarlo.
Tempo di sfiorarlo con le dita, e
Phobos -improvvisamente ripresosi-
fu più veloce di lei nel raccoglierlo; i loro sguardi si
incrociarono solo un
istante, quello che bastò alla donna per notare come sotto
l’occhio destro gli
fosse comparsa dal nulla la sagoma di una mezzaluna nera, identica a
quella di…
oh no.
Messo al sicuro il bastone,
l’uomo si guardò il corpo con aria
perplessa qualche istante, squadrando e annusandosi gli abiti con aria
schifata.
«Mannaggia a Manny, puzzo
d’alcol da fare schifo!» esclamò
sorpreso.
Schioccò le dita, e gli
abiti da danzatrice del ventre vennero
sostituiti da una camicia bianca e da un elegante completo damascato
blu
violaceo. Se lo aggiustò addosso, compiaciuto.
«Decisamente
meglio».
Si girò verso la sovrana
e, con tutta l’educazione del mondo, si esibì
in un lungo inchino.
«Avrei preferito porgere
i miei personalissimi omaggi alla Regina di
Phantasia faccia a faccia, ma purtroppo le antiche magie che mi tengono
chiuso
nel Palazzo di Mezzanotte mi impediscono anche solo di mettere piede
fuori di
casa. In ogni caso» le prese delicatamente la mano,
baciandogliela da vero
gentiluomo «rivederti è un onore tutto mio,
Harmonia: sono passati sette secoli
dal nostro ultimo incontro, ma noto con piacere che risplendi ora
più che mai
della stessa bellezza che illuminava il dolce volto di tua madre.
Quand’era
viva, s’intende» rise.
«Suppongo di stare
parlando con Apophis il demone, se fai riferimento
ad episodi vecchi di millenni antecedenti alla nascita di Apophis il
Lunanoff»
sempre sorridendo, ritrasse la mano «o meglio, Tsar Alexander
Lunar XIII».
«Dodicesimo, prego, ti
ricordo che mio fratello mi ha rubato anche il
numero in linea di successione, oltre che i poteri»
precisò quasi infastidito
«ma non te ne faccio una colpa, non temere: quando
tornerò a sedere sul trono
lunare, allora sentirai talmente tanto spesso il mio nome che ci farai
l’abitudine come tutti gli altri, è solo questione
di pazientare. E io so
essere molto paziente, mia regina, moltissimo».
Si legò i capelli in una
coda bassa sulla nuca.
«Rispondendo alla tua
domanda beh, siamo la stessa persona da svariato
tempo, io e il demone che ha sterminato la tua razza e quella del tuo
amante
nel giro di qualche minuto, ormai è talmente aggrappato al
mio cervello che mi
è assolutamente impossibile distinguere i suoi ricordi dai
miei. Ma non è un
problema: io gli offro ospitalità e lui in cambio mi
dà il suo potere, un
potere che ormai controllo come se fosse mio dalla nascita».
Sfiorò appena un
albero: un istante, e questo si sciolse in una cascata di lucidi
serpenti neri.
Ne pestò uno, stritolandolo sotto la scarpa
finché non si ridusse in polvere «Come
vedi, noi due conviviamo in un mutualismo perfetto, l’uno
guadagna qualcosa
dalla presenza dell’altro e viceversa. Tutto sommato siamo in
ottimi rapporti»
s’interruppe qualche istante, come a voler calcare la voce su
quell’ultima
frase «a differenza di come io lo sia con Phobos».
«Non stavamo parlando
di-»
«Parlare di Phobos,
parlare di me: che differenza vuoi che faccia? È sotto il mio completo e totale
controllo,
distinguerci l’uno dall’altro è inutile,
superfluo, crudele… per te».
Voltò le spalle alla
regina, iniziando a camminare e borbottare come
se stesse intrattenendo un monologo, più che conversando con
lei.
«Rinchiuso nel limbo
della sua stessa mente» passò una mano sullo
scettro, un liquido nero che iniziò a trasudare dalle
venature smeraldo,
inerpicandosi sulla sommità dello stesso sfidando la
gravità «totalmente
incapace di gridare il proprio dolore al mondo esterno»
lentamente, una massa
informe iniziò a gorgogliare sulla punta del bastone,
andando aggregandosi
«impossibilitato a ricordare, perché effettuo dei
reset quotidiani sui quei
pochi -ma faticosamente guadagnati, glielo riconosco,
s’impegna più di quanto
facesse da vivo!- pezzi appartenenti al puzzle di una vita che, ormai,
non è
che un passato nebuloso e frammentato» quando smise di
modellarsi, la sagoma di
un sole oscurato da una mezzaluna aveva sostituito
l’estremità liscia
dell’artefatto.
Lo saggiò girandoselo e
rigirandoselo nelle dita, osservandolo
soddisfatto.
«Anche in questo preciso
istante sta lottando, sai? Non si arrende
mai, l’ultimo principe Chronalion ancora in vita, combatte
contro il parassita
che si è insinuato nella sua mente giorno e notte,
ininterrottamente, tentando
di riprendere il controllo sulla propria coscienza come se fosse
ciò che di più
importante ha al mondo» si fece pensieroso «e in
effetti immagino sia proprio
così, dal momento che vi conserva dentro i ricordi di quasi
seimila anni al tuo
fianco: la morbidezza della tua pelle, il profumo dei tuoi capelli, il
calore
del tuo corpo nudo vicino al suo stretti nelle lenzuola. Se la passava
bene, il
ragazzo, non credi?»
Harmonia non rispose, impegnata
com’era a mantenere quella parvenza di
normalità per nascondere l’incredulità:
aveva passato sette secoli convinta di
aver perduto per sempre l’uomo che aveva amato per una vita
intera, e adesso
cosa scopriva? Che era ancora vivo.
Sepolto sotto strati e strati e
strati di torture psicologiche che non
osava nemmeno immaginare, ma Phobos c’era, c’era!
Poteva ancora salvarlo!
S’impose di contenersi:
doveva restare concentrata sul proprio
obiettivo, adesso; se si fosse trovata davanti al dover scegliere fra
l’ucciderlo -e quindi perderlo una volta per tutte- e il
condannare la propria
gente, allora non avrebbe dovuto esitare nemmeno un istante a scegliere
la
prima opzione.
Aveva un regno, una donna che amava
alla follia e una vita
faticosamente ricostruita al suo fianco, non avrebbe gettato via tutto
questo
per rincorrere un fantasma.
«Intendi rispondermi
oppure vuoi fare la bella statuina, uh?» la
canzonò l’altro, seccato.
Tirò un profondo
respiro: non l’avrebbe mai fatto, no.
«Mi scuso per averti
fatto attendere ma vedi, stavo solo riflettendo
su di una cosa».
«Ah sì? E su
cosa, mia regina?»
«Qualcuno mi ha detto che
le guerre si vincono con i fatti e non con
le belle parole, e -sebbene quando me lo disse non fossi
d’accordo- credo
proprio che quel qualcuno avesse ragione. Non so quali siano i tuoi
piani e non
voglio nemmeno saperlo, ma una cosa posso assicurartela,
Alexander» allargò le
ali, il corno che prese a baluginare di scintille argentate e la magia
che già
scorreva prepotente nelle venature semi-trasparenti sulle stesse
«non
permetterò in alcun modo che finisca nello stesso modo in
cui è finita sei
millenni fa».
Phobos -o chi per lui- non parve
per nulla impressionato da quelle
parole. Semplicemente, poggiò lo scettro al suolo.
«Dimostralo».
Un movimento deciso, e lo
conficcò nel terreno finché non vi
affondò
dentro quasi completamente, solo la mezzaluna visibile fuori da terra.
Immediatamente, una fitta rete di
venature si diramò tutt’intorno ad
esso, sottili crepe che correvano veloci in ogni direzione spaccando la
roccia
e sventrando la terra e aprendo immani crepacci lì, nella
radura dove si
trovavano, dall’altro lato del fiume, nel fitto del
Tauremorna, e poi là,
sempre più in là, fino a raggiungere il confine
estremo di Quetzalli. Una, due,
tre, quattro, cinque, dieci forti scosse, una dopo l’altra,
una più forte
dell’altra, una scossa continua evolutasi in un terremoto
talmente devastante
da star facendo ondeggiare le acque calme del fiume, da stare
incrinando quei
millenari tappi di roccia che impedivano ai mostri
d’ossidiana di destarsi dal
loro antico sonno.
Silenzio.
Quando però il terremoto
raggiunse i piedi della cintura di fuoco
della città d’oro, un boato detonò
nell’aria con potenza tale da essere udito
dall’altra parte del pianeta.
L’intera cintura di
vulcani intorno alla
città esplose, eruttando
nell’aria bollente sciami di lapilli e cenere
e rocce arroventate le cui dimensioni andavano da quelle di un chicco
di riso a
quelle di una palla da bowling, una cascata nera che andò
oscurando la fioca
luce dei Soli che tanto aveva faticato a fare capolino nella tempesta
scatenata
da Madre Natura. Come spinta da una sotterranea forza invisibile, la
lava non
si fece attendere: fiumi di magma incandescente iniziarono a sgorgare
da quelle
bocche che parevano rifornirsi direttamente dall’inferno,
riversandosi sui
pendii del vulcano di appartenenza e scivolando sui fianchi dello
stesso
placidamente, senza fretta, facendosi strada fra i massi e gli alberi e
gli
strapiombi a suon di detriti rotolanti e fiamme.
Pochi minuti, e l’intero
regno delle Ophidians si trovò circondato da
un anello di fuoco che andava sempre più espandendosi,
stringendo le sue
abitanti in una morsa fatale.
Con lo sguardo perso nelle fiamme,
Harmonia lasciò cadere le armi a
terra: no, no, no, no, no! Non poteva stare succedendo per la seconda
volta!
Non stava davvero fallendo di nuovo nel proteggere la propria gente!
Non stava
sopravvivendo a tutti ancora! No! No! NO!
Phobos le si avvicinò in
silenzio, ponendosi al suo fianco a osservare
l’orizzonte.
«Se rimarrai qui e
lascerai bruciare la tua gente, allora ti prometto da
oggi fino a quando le stelle si spegneranno» si
portò un dito sul cuore,
disegnando su di esso la sagoma di una mezzaluna che scavò
l’abito, la camicia,
fino a imprimersi sulla pelle come un marchio, segno del giuramento
«che
libererò il corpo del tuo amante e mi lascerò
uccidere senza opporre alcun tipo
di resistenza: sarai l’eroina delle Costellazioni, ma non
avrai più un popolo
da governare».
Si voltò.
«Altrimenti puoi sempre
correre da loro prima che la lava li
raggiunga, ma in quel lungo lasso di tempo io sarò
già fuggito, e un altro
tassello della profezia che pende sulla tua testa sarà al
proprio posto. La
scelta è solo tua» concluse.
Senza esitare, Harmonia
volò via.
---
Fiamme, fiamme ovunque volgesse il
proprio sguardo.
Stava avviandosi verso
l’entrata della città come indicatole da
Antares, quando Myricae -sentito un tremendo boato- aveva avuto la
pessima idea
di alzare gli occhi: i vulcani stavano eruttando, e lei era lontano da
tutte le
persone con le quali avrebbe voluto passare i propri ultimi istanti di
vita.
Fuggire era impossibile:
l’anello di fuoco impediva qualsiasi
spostamento via terra, cenere e lapilli e rocce ardenti avrebbero
ridotto a uno
scolapasta qualsiasi tipo di ala piumata o membranosa di chicchessia
avesse
voluto scappare via aerea, e la lava che riempiva i fiumi -grazie a
ponti di
magma solidificato che andavano formandosi su di essi, permettendo a
quello
fresco di scorrervi sopra- rendeva impraticabile
l’attraversamento degli
stessi. Oltre a tutto ciò, l’aria era ormai
talmente calda da risultare
irrespirabile, e solo le colline come quella dove si trovava lei
offrivano un certo
riparo dalla calura.
Per ora.
Un amaro sorriso si dipinse sul suo
volto: le Ophidians si erano
costruite una gabbia dorata per “proteggersi dal mondo
esterno”, e ora quella
stessa gabbia sarebbe stata la loro condanna a morte.
La sua parte rancorosa non provava
affatto pena per loro, pensando che
se la fossero cercata e che dovessero pagare le conseguenze del loro
egocentrismo o deficienza che fosse; la parte migliore di
sé, invece, quella
più magnanima e disposta al perdono, le gridava che doveva
fare qualcosa: le
avevano fatto del male, ma restavano pur sempre la sua gente.
Proprio quando
quest’ultimo suo lato stava per avere la meglio, la
Myricae più realistica e obiettiva prese parola: voleva
intervenire e salvare
tutti, ma che diavolo avrebbe potuto fare lei?
Harmonia doveva essere in
città da un pezzo, ormai, forse aveva anche
già affrontato Madre Natura, e se avesse potuto rimediare lo
avrebbe certamente
fatto senza pensarci due volte; a giudicare dalla lava che continuava a
colare,
dal fumo sempre più nero e dalle scosse che andavano
crescendo d’intensità e
durata, però, ciò non era accaduto.
“E se non
c’è riuscita lei, allora non posso certo sperare
di
riuscirci io”, si disse.
Rassegnata e piena di vergogna per
la propria inutilità, si voltò per
andarsene… o almeno ci provò, dal momento che una
sagoma incappucciata le corse
incontro a tutta velocità, scontrandosi con lei e facendola
capitombolare per
terra mezza ingarbugliata.
Dopo una lotta infinita con il
losco figuro per districare più di
dieci metri di coda, Myricae riuscì a rialzarsi; lancia alla
mano, puntò l’arma
sotto al mento dell’intruso. Senza opporre alcuna resistenza,
quello alzò le
mani in segno di resa.
Lentamente, fece scorrere la punta
acuminata sull’estremità del
cappuccio, scoprendolo: una cascata di capelli verde acqua si
riversò fuori
dallo stesso.
«… Amira…?» strabuzzò
gli
occhi, tanto stupita quanto incredula «Sei… viva?»
«Non ci vediamo da appena
sette secoli e voi mi credete morta? Ma che
comportazione è mai questa?!» squittì
sorpresa la schiava, alzandosi ed
esibendosi in una curiosa posa stile “Urlo” di
Munch «Ho solamente
settecentoquarantasettemila e novecentrotrentadue anni, Miulë
Myricae, sono nel
pieno del mio stadio embrionale! Piuttooostoooo…»
Senza preavviso, le si
lanciò al petto peggio di prima, iniziando ad
abbracciarla e stringerla con quanta forza avesse in corpo.
«Siete voi ad essermi
mancata tipo TANTOCOSì!
Giurin giurella! Credevo non di rivedermi
piùissimamente!»
come se fosse la cosa più naturale del mondo, le
fiondò la testa in mezzo al
seno «AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAWWWete! Sono ancora
più morbide morbidissime
di quanto ricordassi da che vi massaggiavo tuttecoseH dopo il bagno! Si
vede
che le strizzate per bene tutti i giorni! E le squame sono
così lucide
lucidissime che potrei specchiarmici dentro! Lasciatemi controllare
anche il
vostro pen-»
«Sì,
sì, sono contenta pure io, sono contenta pure io!»
non senza
fatica, sgusciò fuori da quella presa che stava soffocando i
suoi poveri
serpenti. Le mise le mani sulle spalle, tenendo a distanza lei e quelle
sue maledette
grinfie che s’infilavano ovunque
«Cosa ci fai qui?»
«Uh?» la
guardò stranita qualche istante «Ah,
sì! Stavo cercando
vostra madre Airë Tári Phentesilea, in
realtà, non credevo di trovarvi».
«Mia madre?»
«Lei, sì:
è
partita
per la sua consueta preghiera al tempio a pregare qualche ora fa
insieme a due nuove concubine, ma
non è ancora tornata. Dal momento che di solito non ci mette
tanto, ho voluto
raggiungerla, pensando che magari avesse bisogno di qualcosa o si fosse
sentita
male e le altre ragazze non sapessero cosa fare e come farlo. Quando
sono
arrivata però…» fece un profondo
respiro «… il tempio era quasi completamente
crollato, e della regina non c’era alcuna traccia. Tutto
ciò che ho trovato è
stata una specie di sfera di rovi e una grossa Sylkes priva
di-»
«Una Sylkes?»
Annuì.
«… Allora quel
bastardo di Phobos è riuscito a
scappare…» rifletté ad
alta voce.
«Phobos?»
«È una lunga storia, Amira,
lunghissima. Se ne usciremo vive
allora te la racconterò, ma fino ad ora è meglio
se-»
Una tremenda esplosione la
interruppe.
Con le orecchie che ancora
fischiavano, alzarono entrambe il naso al
firmamento: l’aria stava andando a fuoco.
Letteralmente.
Rocce infuocate grandi quanto
elefanti iniziarono a piovere dal cielo,
comete dalla coda fiammeggiante che squarciavano le nuvole nere
cosparse fai
fulmini e ricadevano a terra aprendo profonde ferite sul volto del
regno di
Quetzalli, ferite che avevano l’aspetto di giganteschi
crateri che bruciavano
l’erba e vetrificavano il terreno e sradicavano di prepotenza
qualsiasi cosa o
persona che si trovasse sulla loro traiettoria; in lontananza, le grida
delle
Ophidians iniziarono a riempire l’aria assieme
all’acre odore di zolfo.
Myricae strisciò fino
all’estremità della collina, indecisa se gettare
o meno il proprio sguardo in basso: sapeva già
cos’avrebbe visto, perché
torturarsi? Dopo infiniti attimi di profonda indecisione, si sporse.
E vomitò
l’anima subito dopo.
Con la puzza della carne bruciata
che le assaliva le narici lasciandola
senza fiato e il conseguente disperato tentativo di catturare
l’ossigeno che le
sfuggiva dalla bocca aperta per la sorpresa, un attacco di panico
s’impossessò
delle membra della generalessa di Phantasia, immobilizzandola: non si
muoveva,
non batteva ciglio, sembrava che nemmeno respirasse. Nella sua mente,
l’immagine
dei cadaveri delle sue madri si palesò in modo talmente
vivido che per un
attimo credette che non fosse solo fantasia.
Ingannata dai propri occhi, Myricae
si allungò verso lo strapiombo
chinandosi per raggiungere i loro corpi esanim-
«ATTENTA!»
Un nanosecondo di ritardo da parte
di Amira nel lanciarsi su di lei
per scansarla, e la colossale roccia caduta dinanzi a lei
l’avrebbe ridotta a
una frittella bruciacchiata.
Ancora a terra, la osservarono
entrambe confuse.
«Una… testa di
serpente?» domandò la serva.
Dall’altra non provenne
alcuna risposta.
Semplicemente, la naga si
alzò, offrì una mano alla concubina
perché
si alzasse a sua volta e la portò qualche passo
più in basso sulla collina,
dove -per un gioco di prospettiva- gli alberi si diradavano a
sufficienza da
lasciar vedere le montagne più alte; lì, le
indico un punto preciso.
Aguzzando la vista, Amira
rabbrividì: l’entrata della città era
quasi
completamente collassata su se stessa, un fiume di magma incandescente
che
stava inondando a velocità disarmante non solo il terreno
intorno al regno, ma
persino al di fuori di esso! Di quel passo, anche la corte di Phantasia
avrebbe
bruciato.
A quel pensiero, Myricae
tornò lucida: passa per il torturarla, passa
pure per l’incendiare Quetzalli per vendicarsi, ma guai a
toccare il nido suo e
della sua donna.
Guai.
Mossa dalla
ritrovata intenzione a fare qualcosa -non sapeva precisamente cosa, ma
ci
avrebbe pensato durante il tragitto-, lasciando
la schiava a contemplare quell’inferno, la serpentessa dalle
squame smeraldo
strisciò verso un piccolo tunnel scavato da qualche animale
sotto le foglie: se
suoi calcoli fossero stati esatti giusti, allora sarebbe spuntata nel
cuore del
Tauremorna, se fossero stati sbagliati… nah, meglio non
pensarci.
Quatta
quatta, in silenzio, vi s’infilò dentro non senza
una certa fatica. Nemmeno a
farlo apposta, l’altra la notò.
«State
fuggendo?»
Sorrise.
«Sto
andando a salvare il mondo», e sparì sottoterra.
---
La mano di Phentesilea le
sfiorò le ali, sangue dorato che colava
dalle venature sulle stesse per il massiccio -e inutile- utilizzo di
magia
fatto fino a quel momento.
«Hai fatto il possibile,
non è colpa tua se non basta».
Quante volte erano intenzionate a
ripeterglielo, quel dannatissimo
“non è colpa tua”? Ovvio che fosse colpa
sua, di chi altri avrebbe potuto o
dovuto essere?! Phobos ed Emilia del resto si stavano solo limitando a
fare i
cattivi che erano, era lei che
scarseggiava nel suo ruolo di buona!
Aveva mormorato incantesimi antichi
quanto il mondo e utilizzato fino
all’ultima stilla di magia che le scorreva nelle vene, per
tentare di
interrompere l’Apocalisse, persino Alice aveva mosso i
diggerwurm
nell’entroterra perché facessero da barriera fra
il magma incandescente e le
abitazioni, ma nulla di tutto ciò aveva avuto un effetto
differente dal
rallentare la sua avanzata, più che fermarlo definitivamente.
Quando poi i detriti avevano
iniziato a cadere come asteroidi, il
panico generale aveva investito anche lei.
Era stata tentata di farla cadere,
quell’ultimissima barriera sotto la
quale si trovavano gli harem e tutta la popolazione di Quetzalli,
congedarsi e
lasciare che la fine abbracciasse quel pianeta com’era
accaduto seimila anni
prima, specie perché -considerando quanto
tutto ciò le stava costando in termini di energia- sarebbe
stata comunque
questione di tempo prima che crollasse da sola, o che lo facesse sotto
i colpi
incessanti delle rocce che l’avevano già ben
più che incrinata.
Non erano nemmeno d’aiuto
le parole di conforto delle regine, che la
rassicuravano dicendole dirle che non era colpa sua, che aveva fatto
tutto il
possibile, che nessuno le avrebbe mai rimproverato nulla, non erano
d’aiuto
perché non era vero, che aveva tentato tutto-tutto:
avrebbe potuto restare e spezzare lo scettro di Madre Natura,
anziché correre
in loro soccorso, e non l’aveva fatto.
Non l’aveva fatto.
Non se n’era pentita, sul
momento, mai avrebbe abbandonato la propria
gente a morire senza stare in prima linea a difenderla, ma -ora come
ora- iniziava
a chiedersi se la sua fosse stata la scelta giusta.
Con la coda dell’occhio,
scrutò i volti delle Ophidians intorno a lei:
dalle concubine che da secoli servivano la loro regina alle ultime
catturate,
dalle leggendarie Airë Tári del Calaciryandë alle Miulë più
inesperte, dalle naga solitarie alle genitrici con le proprie neonate
attaccate
al seno che piangevano, tutte loro erano terribilmente spaventate,
terrorizzate, sfiduciate che potesse esserci una qualche speranza di
uscirne
vive.
E anche lei lo era. Tantissimo.
A vedere quella scena, con le madri
che tentavano disperatamente di
essere forti per le loro stesse figlie, la mente non poté
che andare
all’ultimissimo ricordo che aveva della propria, di madre:
aveva appena perso
suo marito, il compagno di una vita che aveva amato con tutta se stessa
e
l’amico migliore che avesse mai avuto, eppure con lei non si
era mostrata
debole nemmeno per un istante, nemmeno per un secondo. Aveva continuato
a
sorridere, lo aveva fatto anche quando -essendo loro due le sole
Starequus
rimaste in vita al massacro, protette dal cadavere di quel re caduto
che fino a
poco prima era stato suo padre- Apophis l’aveva catturata e
torturata e le
aveva strappato mezza ala di fronte alla sua bambina, e aveva sorriso
anche
quando erano fuggite insieme verso solo la Dea Senza Sudditi sapeva
dove.
Poi quella figlia per la quale
continuava ad essere così forte era
morta, e allora quel sorriso era scomparso insieme a lei.
Non aveva visto sua madre morire,
ma di certo la stessa sorte era
toccata anche alla regina dal momento che, una volta riportata in vita,
tutto
ciò che la Sovrana delle Galassie le aveva detto era stato
un semplice “Sei
l’ultima Starequus”, un modo breve e conciso per
dirle “Sei rimasta sola al
mondo, sola nella galassia, sola nell’intero cosmo, non hai
più nessuno”.
E ora quella frase rischiava di
doverla dire lei a una qualche piccola
Ophidians.
A quel pensiero, guardò
Hippolyta e Phentesilea, finalmente riunite
l’una fra le spire dell’altra: erano
così serene, così tranquille, a vederle nessuno
avrebbe detto mai pensato che si stessero abbracciando anche e
soprattutto per consolarsi
a vicenda in quel momento di sconforto, di paura, di consapevolezza che
-dopo
averla ritrovata- forse non avrebbero più rivisto la loro
bambina. Esattamente come
lo temeva lei.
Non sapeva dove fosse Myricae, ma
anche se l’avesse saputo era
cosciente che andare a salvarla avrebbe condannato tutte le altre: se
l’avesse
fatto, se fosse corsa a salvare la sua donna anziché le
Ophidians, allora la
sua partner stessa non gliel’avrebbe mai perdonato. Se ci
fosse stata lei al
suo posto, probabilmente le avrebbe detto di fregarsene della sua
persona e di
combattere finché i suoi polmoni avessero continuato a
espandersi e rilassarsi,
il suo cuore a battere, il suo cervello a suggerirle modi tanto
disperati
quanto improbabili per sopravvivere.
“Faremo a modo tuo,
allora”, si disse accennando un sorriso.
Si toccò il corno,
ancora bollente per tutti gli incantesimi evocati:
aveva ancora un po’ di magia di riserva, avrebbe dato fondo
anche a quella
prima di alzare bandiera bianca.
Issandosi sulla propria lancia, si
rimise in piedi; scordandosi delle
gambe che parevano gelatina e la testa che pareva sul punto di
scoppiarle, tese
le mani dinanzi a sé e chiuse gli occhi, concentrandosi per
richiamare quel
poco di forza rimastole in corpo per sferrare un altro paio di
incantesimi.
Rimase in quella posizione a lungo, ma si rese presto conto che non
stava
riuscendo a raggiungere la concentrazione necessaria: mentre sgombrava
la
mente, di sottofondo sentiva come un mormorio indistinto aleggiarle
nelle
orecchie disturbandola.
Si rivolse verso le serpentesse.
«Potreste cortesemente
fare silenzio?» chiese loro gentilmente,
cercando di non sembrare troppo brusca.
Si scambiarono fra loro sguardi
confusi, poi piantarono i loro occhi
su di lei.
«Hai le allucinazioni,
tesoro, perché nessuna di noi ha parlato»
asserì acida Antiope, proclamandosi portavoce delle sue
simili.
Ora era Harmonia a fissarle
sbalordita: non era pazza, o almeno
sperava di non esserlo.
“Rithannen i
geven
Thangen i harn
Na fennas i
daur!”
«Cosa?»
«Come?»
«Avete detto
qualcosa?»
«Insisti ancora? La
gweriadir che ti porti in giro te lo ha forse
sbattuto talmente tanto nelle orecchie da averti mosso il cervello,
reginella?»
Cielo, quanto avrebbe voluto
staccarle la lingua biforcuta dalla gola!
Per il bene della propria
reputazione, decise di fingere di non aver
sentito la frecciatina della tanto temuta Airë
Tári. Si sforzò di sembrare
calma, calmissima.
«Avete parlato
sì o no?» ripeté alzando la voce.
Tutte scossero la testa.
Avanti, non era pazza! No che non
lo era! Questa volta l’aveva sentito
forte e chiaro, quel suono, aveva udito delle voci vere e proprie e non
solo
dei brusii indistinti, era fottutamente impossibile che
nessun’altra ci avesse
fatto caso!
Un rapido movimento della mano, e
lo scudo da lei evocato si
assottigliò lievemente: se ora si fosse sentito qualcosa,
allora non sarebbe
stata l’unica a sentirlo.
Mai come ora sperava che qualcuno
confermasse le sue parole.
“Ôl
dûr
ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”
Improvvisamente, una piccola
Ophidians dalle squame rosate alzò una
mano.
«Io signora ho sentito
qualcosa» sussurrò.
“Eccheccazzo!
Vedi che non
sei allucinata? Vedi che non sei l’unica? Lo sapevo io
che… che sto parlando da
sola, per l’amor della Dea Senza Sudditi,
vabbè”.
Le si avvicinò,
accovacciandosi alla sua altezza.
«Cosa ti è
parso di sentire, piccola?»
«Ophidiano. Parlanono la
nostra lingua. Hanno detto qualcosa sugli
alberi».
«Gli alberi?»
alzò un sopracciglio sorpresa.
«Gli Aldar, gli alberi
del Tauremorna. È
una canzone che la mamma mi ha letto prima di andare a dormire su un
libro
delle favole, “L’ultima marcia degli
Aldar”».
«Di cosa parla questa
canzone?»
«Della guerra,
signora» rispose con naturalezza agghiacciante.
Tutt’intorno tacque.
«È una bella favola, tesoro
mio, ma è una favola e nulla di più»
intervenne l’altra genitrice, imbarazzata
«Nessuno ha mai visto gli Aldar muoversi, la foresta
è sempre stata in quella
posizione».
Suo malgrado, Harmonia dovette
darle ragione: aveva seimila anni, e
mai in quel lunghissimo lasso di tempo aveva visto alberi spostarsi o
cantare o
fare le piroette; non metteva in dubbio che creature magiche del genere
potessero esistere, ma -se così era- lei non ne aveva mai
fatto la conoscenza.
“Ristar thynd,
cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”
“A me queste voci non
sembrano poi tanto una favola, però”
pensò la Starequus, allarmata: qualsiasi cosa stesse
parlando, reale o meno,
era vicina. Vicinissima.
E dagli sguardi inquieti delle
Ophidians non sembrava
l’unica a pensarlo.
«Ma ti dico che sono
veri!» insistette la bambina «Non li abbiamo
visti muoversi perché stavano aspettando il momento giusto,
ma adesso quel momento
è arrivato!»
«Hai una fervida
immaginazione, cucciola, ma adesso basta» la madre si
fece avanti, prendendola in braccio nonostante le proteste
«Stai facendo
preoccupare tutte, non è affatto una cosa carina da
fare».
«Ma non li ho immaginati!
Loro esistono davvero!»
«Ho detto-»
«Guarda!»
indicò un punto perso nelle alture intorno
all’entrata della
città. Ovviamente, tutti gli sguardi si spostarono in quella
direzione.
Le voci -che da lì
parevano provenire- diventarono sempre più forti,
sempre più nitide, sempre più numerose, fino a
quando non diventarono un coro
così intenso da scuotere la terra e far cadere i frutti
dagli arbusti.
Colossali figure allungate dalle mille sottili braccia fecero capolino
all’orizzonte, i contorni che andarono delineandosi man mano
che si
avvicinavano alla valle: alberi. Aldar.
A dominare la scena dalla rupe
più alta, Myricae.
“Myricae?!”
In quel momento, Harmonia
sentì un principio d’infarto pervaderle il
petto, non si sapeva per la contentezza di rivedere l’amata o
per la sorpresa o
per la voglia di prenderle a calci lo squamoso fondoschiena: cosa
stracazzo ci
faceva lì? Come stracazzo c’era arrivata? Dove
stracazzo si era ficcata fino ad
ora? Perché stra-
«Cosa vi avevo detto?
Esistono!» squittì la bambina, fiera e impettita,
interrompendola.
Come rispondendo alla lancia che
l’Ophidian aveva alzato al cielo, i
guerrieri assopiti del Tauremorna continuarono a discendere dalle
colline
ordinatamente, in fila indiana, divisi in due gruppi che aggiravano a
destra e
sinistra il vulcano collassato -ovvero la porta di Quetzalli-
così che il magma
non ghermisse le loro radici; anche quando ciò accadeva,
però, semplicemente
continuavano a camminare imperterriti, inviolabili nella
serietà di quei volti
scavati nella corteccia da nodi e termiti: erano stati chiamati, e
portare a
termine la loro ultima marcia era un dovere che trascendeva qualsiasi
sacrificio.
Quando tutti quanti ebbero
raggiunto la pianura, migliaia e migliaia
di chiome di ogni forma e colore e dimensione si voltarono
all’unisono verso la
l’anello di fuoco che circondava la città;
allungarono i rami l’uno verso
l’altro per unirsi come una catena, poi levarono un ruggito
al cielo: allora, e
solo allora, iniziarono a risalire i vulcani.
Con le radici forgiate da millenni
di immobilità e indurite dalle
fiamme piantate nella nuda roccia, continuando a intonare ad alta voce
il loro
canto da guerra, gli Aldar scalarono compatti gli impervi pendii delle
montagne
senza mai arrestarsi o retrocedere quando uno di loro cadeva, scavando
il suolo
e riducendo in frantumi qualsiasi masso gli si presentasse davanti; nel
momento
in cui le basi dei loro tronchi uniti in uno solo furono finalmente
piene di
detriti e terra, allora anche la lava -incontrato quel muro
impenetrabile- fu
costretta a retrocedere.
Spinsero indietro il magma
incandescente per così tante decine e
decine di metri da sembrare che le cime di quell’anello di
fuoco fossero
distanti anni luce da loro, ma ad ogni metro che avanzavano era
evidente che
suddetta scalata si facesse sempre più lenta, sempre
più difficoltosa, complici
i corpi che stavano andando pietrificandosi.
Poi, un silenzio di tomba avvolse
la città: gli Aldar avevano concluso
la propria marcia.
Tutto ciò che rimaneva
di loro, era una gigantesca muraglia dai colori
dell’arcobaleno che si snodava lungo tutta la cintura
vulcanica di Quetzalli,
una barriera incurvata di legno percorso da ragnatele di crepe che
-grazie al
tremendo shock termico e alla pressione esercitata dai detriti-
lasciavano
intravedere il cuore d’opale di quelli che un tempo erano
stati i mitologici
guerrieri del Tauremorna, immobili e statuari tanto adesso quanto lo
erano
sempre stati.
Da parte sua, la lava continuava a
sgorgare dai vulcani, sì, ma -a
quella velocità- ci sarebbe voluto almeno un intero giorno
perché riuscisse a
straripare fuori da quel lunghissimo muro di legno opalizzato, e in
quelle
ventiquattro ore la questione Madre Natura sarebbe stata già
bella che
sistemata.
In teoria.
In pratica, ahimè,
c’era da fare tutto fuorché festeggiare e
adagiarsi
sugli allori. O sugli Aldar, insomma.
Come se la montagna più
grande dell’intera città avesse avvertito il
fallimento dei propri fratelli minori, un lamento profondo simile a un
ruggito
si riversò fuori dalle sue viscere a squassare
l’etere, un boato così
assordante da stare aprendo la terra, spazzando via le creature di
Madre
Natura, incrinando ancora di più la già fragile
barriera.
Intanto, il livello
dell’incandescente brodo primordiale contenuto
nella caldera quasi completamente collassata iniziò ad
aumentare di più, sempre
di più, fino a quando non finì per straripare
rovinosamente dal muro di legno
opalizzato; sulla sua superficie, gigantesche bolle di magma e roccia
fusa che
si gonfiavano e scoppiavano e si rigonfiavano al ritmo delle scosse che
parevano provenire dalla terra sotto il vulcano, bubboni dai colori
dell’inferno che lanciavano nell’aria tonnellate e
tonnellate di rocce fuse e
meteoriti infuocate e gas venefici talmente scuri e compatti da non
riflettere
nemmeno la poca luce proveniente dall’ambiente esterno. Pochi
minuti, e
Quetzalli si trovò avvolta in un velo più nero
delle profondità del cosmo.
Allora, tutto parve congelarsi.
Una surreale quiete calò
come una cappa di piombo sulla città, un
clima di silenzio e calma piatta nel quale -aguzzando
l’udito- si sarebbero
potuti udire e contare uno per uno persino i battiti del cuore che
martellava
il petto della Regina di Phantasia, immobile come tutto intorno a lei.
Poi, un lamento profondo simile a
un ruggito squassò l’aria.
Dinanzi all’onda
d’urto di quel tremendo boato, la terrà si
spaccò, le
creature di Madre Natura vennero spazzate via come fuscelli da un
tornado, la
già pericolosamente fragile barriera divenne una cupola
scricchiolante percorsa
da ragnatele chiare.
Una spaventosa esplosione, e della
montagna non rimase che un enorme cratere:
all’interno di esso, emerso dalla cenere e dalla nebbia come
un cadavere lì
seppellito, un colossale leone di magma che trasudava lava dalle zanne
d’ossidiana, dalle fenditure fra le rocce che costituivano il
suo immenso corpo
scuro, da quell’informe ammasso scoppiettante di fuoco e
fiamme che si
protendevano con prepotenza nell’aria bollente che era la
criniera.
Aprì i propri brillanti
occhi gialli, e Harmonia capì che quello
sguardo era diretto a lei e lei soltanto: era una creatura di Phobos,
quella, cos’altro
avrebbe dovuto aspettarsi?
Che si muovesse, magari.
“Merda”.
Nonostante il panico e la paura e
la consapevolezza di non avere più
certezze, la Starequus riuscì comunque a fare chiarezza
nella propria mente,
così da tirare il punto della situazione: era allo stremo
delle forze, aveva
quasi esaurito il proprio repertorio di incantesimi, il suo scudo
avrebbe
ceduto al prossimo minimo tocco condannando l’intera
città e la sua
popolazione, c’era un felino fiammeggiante alto decine di
metri che stava
incendiando qualsiasi cosa sulla quale posasse le proprie zampe che
avanzava
nella sua direzione e, tanto per cambiare, la sua donna era proprio
dove- oh cazzo.
Rendendosi conto che la collina
doveva aveva visto Myricae era la
stessa crollata insieme al vulcano, alzò lo sguardo:
dell’Ophidians non c’era
più traccia.
Una fitta le trapassò il
petto come una coltellata, i polmoni che le
si svuotarono tutto d’un tratto lasciandola senza fiato in
gola: o era
scappata, o era morta.
Tirò un profondo
respiro: si ricompose, chiuse gli occhi e tornò a
mormorare le proprie magie imperterrita, solerte, dedita ai propri
doveri di
regina. Il leone in rapido avvicinamento non la spaventava, non
più dell’idea
di aver perso l’altra metà della mela, del cuore,
dell’anima: era già vissuta
più a lungo della propria gente, sarebbe sopravvissuta anche
a lei?
Il suo cervello le gridò
la risposta.
Non lo volle ascoltare.
---
Gettò la lancia per
terra.
Su un’altura a strapiombo
sul magma sottostante, davanti a sé, Phobos,
scettro alla mano e frecciatine pronte da sputare come veleno sulla
lingua.
Sul volto, un sorrisetto beffardo
che significava solo una cosa: al
contrario di una povera Emily Jane con gli occhi fuori dalle orbite e
la
mandibola per terra, lui non era rimasto per nulla impressionato dallo
spettacoluccio degli Aldar, probabilmente perché -col suo
enorme felino di
fuoco- ne aveva messo in piedi uno decisamente più
interessante, più
pericoloso, più letale.
Prima ancora che Myricae fosse
sufficientemente vicino da poter essere
sentita, il rosso già aveva avvertito della presenza. Non si
era girato, ma
aveva assunto un’aria corrucciata.
«Noto che sei ancora
viva» asserì con tono contrariato.
«Un colpo di
fortuna» fece spallucce lei «niente di
più e niente di
meno. Non avevo un piano di riserva per scappare in caso di pericolo,
ma
Quetzalcoatl deve finalmente avermi notata e aver deciso di darmi una
zampa,
facendomi ruzzolare in una buca quando l’onda
d’urto ha colpito. E poi non
volevo né potevo privarmi del piacere di venire a spaccarti
quel tuo dolce
visino di persona, sarebbe stato scortese lasciare il lavoro a
metà».
«No di certo»
convenne l’altro, ridacchiando «ma temo che tu sia
in
ritardo, tanto per tagliarmi la gola quanto per salvare tutti quanti. È sicuramente stato un nobile
sacrificio, quello dei
tuoi amici ramoscelli, tanto ingegno mi ha addirittura piacevolmente
sorpreso, ma
devo confessarti che è stato anche totalmente inutile: un
mio schiocco di dita»
imitò il gesto «e un paio di placche tettoniche si
scontreranno seduta stante,
aprendo un nuovo Abisso che inghiotta tutti questi ridicoli regni in un
battito
di ciglia. Non che ce ne sia bisogno, sia chiaro, il mio leone
brucerà il
pianeta prima di dovermi scomodare a fare tanto».
Finalmente, si voltò.
«Ho i miei poteri, e ora
anche quelli di Madre Natura: come pensi di
fermarmi?» domandò incuriosito «Come riesci a convincerti di poter
spazzare via tutto ciò che ho
creato con un potere che tu nemmeno puoi immaginare? Come credi di
salvare te
stessa, Harmonia, le tue madri, la tua gente, Exodus intera? Come puoi
sperare
di farlo proprio tu, una semplice Ophidians senza incantesimi
né magia né capacità
particolari, niente più che una grossa e fastidiosa biscia
ermafrodita, uh?»
Allargò le
braccia in segno di sfida.
«Come?»
Lei sorrise.
«Così».
Un rapido movimento per sgusciare
via dalla vita di Madre Natura, e il
serpente mozzatole dal capo si lanciò sulla mano del rosso,
serrando le proprie
zanne intorno ad essa; in una reazione istintiva e primordiale a quel
dolore
lancinante, Phobos aprì le dita.
E lo scettro gli scivolò
nella lava.
Fu come lasciar cadere le tessere
di un domino: i mostri si disfarono
e dissolsero come sabbia portata via dal vento, le nubi nere di
tempesta
evaporarono in una pioggerellina delicata, le meteoriti piroclastiche
esplosero
a mezz’aria come fuochi d’artificio che colorarono
la colorarono, la cenere
venne portata via dalla rugiada per lasciare posto ai caldi raggi dei
due Soli
che rischiaravano il cielo ormai limpido, l’aria bollente
finalmente tornò ad
essere pervasa dal fresco e delicato profumo degli alberi in fiore.
Al leone di magma -ormai prossimo
alla barriera che cadeva a pezzi-
toccò la stessa sorte: partendo dalle zampe fino a salire su
per il possente
corpo in fiamme, poco a poco il fuoco che ardeva nelle sue viscere
venne
soffocato in un guscio di ossidiana; lanciò un ultimo
possente ruggito, quando
la pietrificazione raggiunse l’occhio fiammeggiante e lo
spense, ma venne
interrotto dalla roccia che s’insinuò nella sua
gola.
Myricae non se lo fece dire due
volte: raccolse la propria lancia,
strisciò fino al fianco di un Phobos in stato catatonico e
lì si fermò. Aguzzò
la vista, caricò il braccio all’indietro e prese
la mira. Infine, scoccò.
Un lungo fischio provocato
dall’arma che fendeva l’aria, poi la statua
nera s’infranse in mille e mille pezzi come fragilissimo
cristallo.
Era finita. Finita.
Più o meno.
Nemmeno il tempo di tirare un
sospiro di sollievo, infatti, e si trovò
le mani del rosso strette intorno al collo.
«Maledetta puttana!
Distruggerò il tuo fottuto pianeta! Raderò al
suolo fino all’ultimo filo d’erba di questa
città piena di ermafrodite
ninfomani! E poi toccherà a quella della squilibrata
bipolare! E infine al
regno della tua troia, ma non prima che me la sia scopata! Oh, puoi
stare certa
che me la scoperò, lo farò eccome! Mi
sbatterò pure tua madre, anzi tutte e due
le tue madri! E mi assicurerò che tu assista, che mi caschi
il cazzo se non ti
farò guardare! Ti ridurrò a un ammasso di carne
maciullata, e non potrai fare
proprio nulla per impedirmelo! NULLA!»
Odiava ammetterlo, ma dovette
dargli ragione: lei ci stava pure
provando, a scollarselo di dosso, ma più tentava
più si sentiva le braccia e la
coda molli, di gelatina, come se non avesse più forza in
corpo… e in effetti
era proprio così.
Avrebbe tanto voluto dormire, non
chiedeva altro: accendere qualche candela
alla pesca, qualcuna al limone, acciambellarsi sotto le coperte calde
insieme
ad Harmonia, stringersela al petto, affondare il viso nei suoi capelli
morbidi
e chiudere gli occhi fino al mattino seguente, consapevole che, al
risveglio, l’avrebbe
trovata sempre lì al suo fianco. Andando avanti di quel
passo, effettivamente gli
occhi li avrebbe pure chiusi.
Per sempre, s’intende.
Una ginocchiata sul ventre per
farla piegare, e Phobos la gettò a terra;
le si mise a cavalcioni sull’addome, la presa sempre ben
salda al collo ormai giallo
e blu e viola che le premeva il capo contro l’orlo del
precipizio.
Con la coda dell’occhio,
la naga sbirciò sotto di sé: un lago di lava
incandescente, ecco cosa l’aspettava se fosse caduta.
Nemmeno il tempo di voltarsi, e il
suono del pugno dell’altro che
impattava contro il suo zigomo le riempì le orecchie,
credette quasi di
avvertire ogni singolo frammento d’osso nel quale le aveva
spaccato prima una
guancia, poi l’altra, fino a quando il dolore era diventato
talmente intenso da
non avvertirlo nemmeno più.
«E questo è
solo l’inizio! L’inizio! Ho in serbo cose ben
peggiori per
te!» le gridò contro il rosso, i suoi pugni che
continuavano a cadere con
violenza inaudita sul volto tumefatto.
In un disperato tentativo di
liberarsi, Myricae allungò faticosamente
una mano verso una roccia piatta e appuntita poco lontano da dove si
trovava
costretta; tese il braccio il più possibile,
sentì persino la spalla lussarsi, ma
non aveva importanza: era così vicina, così
vicina!
Poi una stilettata corse veloce
dalle sue dita all’arto intero fino al
cervello, dove il dolore esplose con prepotenza immane. Piantato nella
mano, un
pugnale.
«Credevi davvero di
potermi fottere? E invece!» ringhiò Phobos,
girando
e rigirando il coltello conficcato nelle carni dell’Ophidian.
Si chinò su di lei.
«Avrei preferito tenerti
in vita per lo spettacolo che sarebbe venuto
dopo solo per gustarmi la tua faccia nell’assistervi, ma vedo
che non vuoi collaborare
nel farmi passare la voglia di staccarti la testa qui e subito. Non
sono
paziente» afferrò l’arma e, con uno
strattone, se la riprese «non ho tempo da
perdere» fece scivolare l’altro braccio dal collo
fino a sotto il mento della
naga, così da poter vedere chiaramente le arterie affiorare
sotto la sottile
pelle della gola «e non ho nemmeno fiato da sprecare: me la
sarei pure
risparmiata, ma se la metti su questo spiacevole piano»
puntando alla
giugulare, alzò il braccio al cielo «allora non
collaborerò nemmeno io!» infine,
calò il pugnale.
Che si arrestò a mezzo
centimetro dal collo dell’Ophidians.
Stretto intorno al polso del rosso,
un viticcio rinsecchito che
brillava di un malsano e opaco alone smeraldino.
Precisamente lo stesso che fluiva
dalle esili dita della figlia
dell’Uomo Nero: ritta in piedi qualche metro più
in là, tremante, col fiato
corto -non si sapeva se perché pentitasi dell’aver
tradito chi l’aveva tradita,
o per quanto quella magia recuperata nei meandri delle proprie vene le
stesse
costando in termini di energie- e un’espressione
indecifrabile sul volto, un
misto fra rabbia e terrore puro.
Al contrario, lo stato
d’animo di Phobos era facilmente intuibile, a
giudicare dallo sguardo omicida espresso dalle sue pupille ridotte a
due infime
fessure perse nell’oro.
«QUESTA DOVEVI
RISPARMIARTELA! GIURO CHE TI-» non fece in tempo a
terminare la frase, che si trovò la guancia scarnificata
dalle affilate squame
sul dorso della mano di Myricae.
Non seppe nemmeno lei dove
riuscì a trovare la forza necessaria per
sferrare quel pugno, per gettarsi addosso all’altro
scambiandosi di posto e
sovrastandolo, per stringerlo nelle spire mentre i suoi serpenti lo
tenevano inchiodato
al suolo, fatto stava che ci riuscì. Perse il conto dei
pugni che gli aveva
fatto cadere addosso, dei morsi che i suoi piccoli ofidi avevano dato
al suo
corpo fino a paralizzarlo, delle frustate con la coda con le quali gli
strappò
di dosso i vestiti e la pelle e la carne, perse il conto e non ci tenne
a
sapere da quanto tempo stesse andando avanti: lui non aveva avuto
pietà per
lei, per la sua gente, per il cuore di Harmonia, e nemmeno lei ne
avrebbe
avuta.
Quando di Phobos rimase solo un
grumo insanguinato che borbottava
bestemmie e pregava una certa “Barbie Platinata” di
rifarsi viva, Myricae gettò
lo sguardo sul pugnale scintillante del rosso, ad appena una manciata
di
centimetri da lei: a quella storia era stato posto un punto e virgola,
sette
secoli fa.
Senza nemmeno rendersene conto, si
trovò a girarsi l’arma fra le dita,
contemplando il da farsi: sì, era ora di metterci un punto.
Gli poggiò la lama in
mezzo agli occhi: un punto fermo.
Era lì per
affondarglielo nel cervello e mettere fine alle agonie sue
e altrui, che uno scossone la fece sobbalzare. Abbassò lo
sguardo: vuoi per
tutti i terremoti della giornata, vuoi per le intemperie, vuoi per un
colpo di
sfiga, la roccia sotto di loro si stava sgretolando.
E -a giudicare dal sorriso sornione
che aveva addosso- Phobos doveva
averlo notato da un pezzo.
«Dovrefti vedere la tua
faccia in quefto momento! Non ha affolutamente
prezzo!» rise sputacchiando qualche dente «Cofa
vuoi fare, generaleffa? Uccidermi
e fchioppare pure tu, o lafciarmi andare e sopravvivere? In entrambi i
cafi,
dubito che la tua regina farebbe contenta, no che non lo
farebbe!»
Myricae non rispose.
«Cofa
c’è, il ferpente ti ha mangiato la lingua? Ah no,
tu fteffa fei
un ferpente!» la perculò.
Anche adesso, però,
dalla naga non provenne nessuna risposta: era
silenziosa, immobile, imperscrutabile, e lo era anche mentre lo
spuntone
roccioso dove si trovavano continuava a disgregarsi.
Al contrario, a vedersi
letteralmente mancare la terra sotto i piedi,
il rosso pareva un filino più preoccupato di lei.
«Intendi ftare
lìa guardarmi con quegli occhi da pefce leffo, o vuoi
deciderti a fare qualcofa? Non ti importa proprio niente niente niente
che
moriremo in due e lafcerai sola la tua donna? Non ti fenti nemmeno un
pochiiiiino
in colpa?» le domandò nervosamente dopo qualche
istante di impaziente silenzio,
come se il non aver ricevuto una risposta l’avesse colto di
sorpresa. Tentò un
altro approccio «Non ti vergogni di aver provocato tutto
quefto cafino, uh? Hai
fatto muovere l’efercito di Harmonia, hai provocato la morte
di un fottio di
perfone, ftai provocando l’eftinzione di un popolo che era
fereno, prima del
tuo arrivo. Ne fei fiera, forfe?»
Nulla, nada de nada, solo silenzio.
Di nuovo.
A quel punto, la pazienza del rosso
andò a farsi benedire.
Con uno scatto, afferrò
due dei serpenti che l’Ophidians aveva sul
capo, tirandola prepotentemente a sé.
«Parla! PARLA!
PORCOILCAZZO DÍ QUALCOFA!» sbraitò
iracondo, strattonandola
«Parlami del tempo, delle mezze ftagioni che non ci fono
più, della tua
attività feffuale: dimmi qualfiafi fottuta cosa ma dilla! DILLA!»
Sorrise. Con tutta la calma del
mondo, srotolò la propria coda dal
corpo del nemico, si mozzò a malincuore le due bisce dal
capo e, semplicemente,
indietreggiò.
A vedersi liberato, il rosso la
fissò allibito, sembrava la faccia di
Phentesilea quando le aveva sentito bestemmiare il nome di Medusa
dentro il
tempio di Quetzalcoatl; si rimise in piedi, ma -anziché
porgere attenzione a
dove aveva i piedi- rimase incantato a guardarla stranito, confuso,
pure un po’
gongolante: forse aveva deciso di arrendersi, forse aveva ceduto al suo
charme,
forse voleva tradire la sua regina e passare al lato oscuro!
Come risposta, Myrica
alzò il dito medio.
«Fottiti».
Poi l’intero crostone
roccioso sul quale si trovava Phobos collassò
nella lava, trascinandolo giù nel magma incandescente
insieme a migliaia di
metri cubi di terra e pietre e alberi.
Incuriosita, strisciò
sul bordo dello strapiombo per vederlo morire.
Una timida quanto silenziosa Emily Jane la imitò.
Entrambe, però,
ricevettero un’amara sorpresa: quando il suo corpo fu
a pochi metri dalla morte fatta lava, una fiammata nerastra avvolse il
rosso
come un mantello d’oscurità, facendolo svanire nel
nulla più assoluto.
A quella vista, la Pitchiner
sbiancò.
«Tornerà per
uccidermi» fu tutto ciò che si trovò in
grado di
mormorare, gli occhi sbarrati e la bocca secca che si rifiutava di
mandare giù
la saliva «tornerà per me, sì, e
allora-»
Non fece in tempo a finire, che
tentacoli di fuoco nero spuntarono
dalla foresta e le si avvolsero intorno alle caviglie, trascinandola a
terra;
istintivamente, Myricae si gettò verso di lei, tendendole le
mani perché non
venisse trascinata nel folto degli alberi. Non seppe dirsi
perché lo fece, non
considerando che quella era la stessa donna che aveva fatto torturare
sua madre
e fatto del male alla sua partner e messo in piedi quel gran casino, ma
mise a
tacere il proprio buonsenso pensando che -in una situazione del genere,
rivalità o meno- Harmonia avrebbe fatto la stessa identica
cosa.
Per avere maggiore presa, si
ancorò con la coda a una roccia
sporgente.
«Non lasciare le mie
mani! Non lasciarle andare o sei fottutamente
morta, chiaro?!» gridò alla figlia
dell’Uomo Nero, fin troppo consapevole di
chi ci fosse dietro a quel teatrino. Strinse le spire attorno al masso,
a mo’
di carrucola «Adesso inizio a tirare, va bene? Mi hai
capita?»
«Non mollarmi! Non
mollarmi! Ti prego! Ti scongiuro! Ti supplico!»
«Io non ti mollo sicuro,
ma collabora anche tu, per gli dei! Dammi una
mano e- PER LA FOTTUTA MUTA INVERNALE DI
NAEVIA CHE RIEMPIE IL CASTELLO DI PELI, INTENDEVO METAFORICAMENTE!
METAFORICAMENTE!» strillò tanto adirata
quanto basita vedendo che Emily -forse
presa dal panico, forse semplicemente rincoglionita- aveva mollato una
mano per
porgergliela, salvo quest’ultima venire afferrata dai
tentacoli infuocati. Basita,
tirò fuori il piano “b”, aggiungendo
alla presa delle dita con quella dei suoi
serpenti «E questi vedi di non mollarli!»
precisò.
Ma un conto era dirlo, un altro
farlo: per ogni centimetro
faticosamente guadagnato, allora Phobos -seppur indirettamente
presente- ne
guadagnava cinque, dieci, trenta, cinquanta, un metro e così
via, fino a quando
la coda dell’Ophidian non iniziò a cedere e
srotolarsi piano piano dalla
roccia.
Lo notarono entrambe, ma -se la
naga finse di non farci caso e
continuò a fare ciò che stava facendo, diventando
paonazza in viso per il
tremendo sforzo- fu la Pitchiner a prendere in mano la
situazione…
letteralmente.
«Myricae» la
chiamò, atona.
«Cosa
c’è? Sarei un attimo impegnata a cercare di non
morire, come
vedi».
«Sei davvero fortunata ad
avere Harmonia» le sorrise «Tienitela
stretta, mi raccomando».
Mollò la presa.
Svanì.
Il rinculo per quella tremenda
forza improvvisamente dileguatasi fece
ruzzolare via la naga, spingendola fin sul ciglio del baratro che si
apriva sul
lago di lava. Per sua fortuna, un massiccio tronco venne in suo
soccorso,
fermandola prima che ci cascasse dentro.
Stesa con le braccia larghe e la
coda penzoloni, stremata, indolenzita
al punto da non avere nemmeno più la forza necessaria per
pensare, Myricae impiegò
svariati minuti per realizzare cosa diavolo fosse accaduto negli ultimi
minuti;
spaesata e confusa, si guardò intorno: non c’era
più nessuno, su quell’altura,
solo lei e un profondo, rilassante, solenne silenzio.
Era finita? Era finita veramente,
questa volta?
Una farfalla le si posò
sul naso, scrollandosi la cenere dalle fragili
ali diafane; alzando gli occhi per guardarla, la risposta venne da
sé: il cielo
limpido, le nuvole bianche timidamente tinte dai colori del tramonto,
l’aria
pura che profumava di frutti esotici, una brezza fresca ma piacevole
che donava
sollievo alla pelle martoriata dalle ferite, la calda luce dei Soli che
si
rifletteva sulla muraglia di legno opalizzato, avvolgendo in una gabbia
di
arcobaleni l’intera città. Già, la
città: in una giornata appena, su di essa si
erano scatenati eventi naturali tremendi come meteoriti, terremoti,
inondazioni, incendi, tornado, mostri vari, piante assassine e faglie
che
l’Abisso al confronto era solo una buca scavata con la
paletta da un bambino in
spiaggia, ma a vederla pareva che nulla di tutto ciò
l’avesse mai sfiorata.
Forse il terreno intorno a
Quetzalli somigliava più a una forma di
Emmental bruciacchiata che ad una pianura lussureggiante, forse la
stragrande
maggioranza dei vulcani era stata letteralmente ridotta in polvere,
forse il Tauremorna
era stato quasi completamente raso al suolo perché gli Aldar
salvassero la
città dalla lava, ma gli harem erano intatti, e
così chiunque vi abitasse. C’erano
stati danni ed erano stati danni tremendi, vero, ma -con tanta pazienza
e
dedizione- il terreno si sarebbe sempre potuto bonificare, mentre nulla
al
mondo avrebbe ridato una figlia a una madre, una moglie a una vedova,
un
passato a chi non ne aveva più uno. Fortunatamente, quello
non era il caso.
Sorrise: sì, era
decisamente finita, ed era finita bene.
Con quella consapevolezza ben
chiara nella mente e le membra che
imploravano pietà, decise di concedersi del meritato
riposo… salvo venire
disturbata da un qualcosa di vagamente appuntito che le punse la
schiena. Istintivamente,
scattò sui gomiti.
Sedutasi, si girò per
controllare cosa diavolo fosse: un sassolino, a
quanto sembrava.
Nel momento in cui lo prese fra le
dita per osservarlo, però, quella pietruzza
le parve più un pezzo di carbone, un frammento di brace
scuro ancora caldo e
fumante attraversato da venature smeraldine a dir poco microscopiche.
Non si
sorprese: con tutti gli alberi andati a fuoco in quella giornata,
trovare dei
rimasugli della grigliata organizzata Phobos per il week-end non
sarebbe certo
stato un fenomeno paranormale per il quale convocare Manny in persona!
Stava per gettarlo, quando
notò che il colore di quel tizzone bollente
stesse cambiando proprio sul suo palmo della sua mano, davanti ai suoi
occhi
increduli: da nero che era, prima divenne grigiastro, poi color avorio,
infine
bianco immacolato, come se fosse stato malamente pitturato e la tempera
si
stesse sciogliendo per il calore.
Lo guardò qualche
istante, perplessa, poi recuperò la saccoccia, ce lo
infilò dentro e si assicurò che non uscisse fra
una maglia e l’altra: “Meglio
farlo vedere ad Harmonia”, pensò.
Non senza una certa fatica, si
alzò; dopo qualche istante per trovare
l’equilibrio, diede una vigorosa pacca al borsello.
«E allora andiamo a
farglielo vedere».
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Angolino dell’autrice
… Questo capitolo
avrebbe dovuto essere quello
conclusivo della “saga” di Quetzalli, ma di
conclusivo non c’è un bel niente,
dal momento che c’è stato l’ennesimo
taglio in due capitoli che altrimenti
sarebbero venuti lunghi quanto e più della lingua velenosa
di Phobos, mi scuso
se la sto davvero tirando per le lunghissime ma il dono della sintesi
non l’ho
mai avuto :’D ma almeno si scoprono altarini lunari su
altarini lunari :D
Comunque ecco, sono accadute un bel
po’ di cose e
spero che le varie sequenze non risultino confusionarie, nel caso
abbiate
bisogno di delucidazioni chiedete pure senza problemi :)
Intanto, vi lascio la traduzione
della canzone che ho
inserito, ovvero “The Last March Of The Ents” da
“Il Signore degli Anelli”.