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Autore: Neferikare    03/05/2018    1 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Piume.

Quando riaprì gli occhi, tutto ciò che apparve nel suo campo visivo furono morbide, calde, accoglienti, piume, che la circondavano e le permettevano di conservare quel  briciolo di dignità rimastole in corpo dopo quell’ultima umiliazione, coprendo le sue nudità.

Non si chiese da dove spuntassero, né tantomeno a chi appartenessero: già lo sapeva e, francamente, non le importava.

Non le importava di aver sfiorato la cima della gerarchia sociale ed essere caduta subito dopo, non le importava che Phobos l’avesse tradita così spudoratamente per prendersi il suo scettro e i suoi poteri, non le importava nemmeno che fossero di Harmonia le braccia che la stavano sostenendo e nelle quali, adesso, si stava rifugiando: voleva piangere, niente di più, e farlo da una parte o dall’altra, davanti a una persona piuttosto che a un’altra, le era totalmente indifferente.

Chi non era indifferente invece era il rosso, intento a gongolare per la riuscita di un piano iniziato nella vasca di Madre Natura e finito con quest’ultima stesa a terra in una pozza di sangue e lui lì, ritto, spavaldo, col petto in fuori e lo scettro in mano.

Perfettamente in linea col proprio stile, si girò, si chinò e si abbassò la gonna, mostrando fieramente le chiappe al vento.

«Alla faccia vostra, zittellacce che non siete altro! Baciate il culo di Padre Natura!»

Il solito, appunto.

E, sempre come solito, la Starequus aveva voglia di fare tutto tranne che di perdere tempo davanti a un buffone: c’era la guerra, e ogni minuto che passava a rendersi ridicolo era un minuto in più che i suoi uomini dovevano sopportare contro le bestie di Emily Jane; finché il bastone non veniva spezzato, allora quelle avrebbero continuato a riprodursi.

E non era un lusso che poteva o voleva permettersi.

Fatta comparire sul suo corpo martoriato una tunica pesante che la coprisse e la tenesse al caldo, posò piano la figlia dell’Uomo Nero a terra, scambiandosi con lei solamente un neutrale sguardo che non conteneva traccia né di disprezzo, né di pietà, né di rabbia, solo un tacito “Ti aspettavi che finisse diversamente?”: sarebbe bastato quello a insegnarle la lezione, sperando che stavolta avesse la volontà d’impararla.

Con una mano poggiata sulla propria arma così da non farsi cogliere impreparata, avanzò di qualche passo verso l’altro.

«E quindi? Quali sono i tuoi piani, ora che sei entrato in possesso dello scettro?» domandò.

Lui si grattò la testa.

«Io veramente-»

«Non sto parlando con te» con uno scatto, tese la lancia davanti a sé, interponendola fra la sua persona e il rosso «ma con chi hai nella testa. Dì ad Alexander di farsi vedere, o lo trascinerò giù dalla Luna a suon di schiaffi a palmo teso».

«Luna? “Alexander”? Gente dentro di me?» la guardò stranito, inclinando il capo «Cosa minchia vai blaterando? Altro che “guardiana della fantasia”, tu vedi gli arcobaleni e gli unicorni e tuttecose solo perché ti cali gli acidi potenti! Quel tuo corno deve proprio averti perforato il cervello in qualche modo, se credi che-» s’interruppe.

O meglio, parve proprio spegnersi: lo sguardo perso nel vuoto, il petto che non si alzava e abbassava più al ritmo del suo respiro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lasciò persino cadere lo scettro a terra!

“Adesso o mai più”.

Senza indugiare, Harmonia vi si gettò sopra intenzionata ad afferrarlo.

Tempo di sfiorarlo con le dita, e Phobos -improvvisamente ripresosi- fu più veloce di lei nel raccoglierlo; i loro sguardi si incrociarono solo un istante, quello che bastò alla donna per notare come sotto l’occhio destro gli fosse comparsa dal nulla la sagoma di una mezzaluna nera, identica a quella di… oh no.

Messo al sicuro il bastone, l’uomo si guardò il corpo con aria perplessa qualche istante, squadrando e annusandosi gli abiti con aria schifata.

«Mannaggia a Manny, puzzo d’alcol da fare schifo!» esclamò sorpreso.

Schioccò le dita, e gli abiti da danzatrice del ventre vennero sostituiti da una camicia bianca e da un elegante completo damascato blu violaceo. Se lo aggiustò addosso, compiaciuto.

«Decisamente meglio».

Si girò verso la sovrana e, con tutta l’educazione del mondo, si esibì in un lungo inchino.

«Avrei preferito porgere i miei personalissimi omaggi alla Regina di Phantasia faccia a faccia, ma purtroppo le antiche magie che mi tengono chiuso nel Palazzo di Mezzanotte mi impediscono anche solo di mettere piede fuori di casa. In ogni caso» le prese delicatamente la mano, baciandogliela da vero gentiluomo «rivederti è un onore tutto mio, Harmonia: sono passati sette secoli dal nostro ultimo incontro, ma noto con piacere che risplendi ora più che mai della stessa bellezza che illuminava il dolce volto di tua madre. Quand’era viva, s’intende» rise.

«Suppongo di stare parlando con Apophis il demone, se fai riferimento ad episodi vecchi di millenni antecedenti alla nascita di Apophis il Lunanoff» sempre sorridendo, ritrasse la mano «o meglio, Tsar Alexander Lunar XIII».

«Dodicesimo, prego, ti ricordo che mio fratello mi ha rubato anche il numero in linea di successione, oltre che i poteri» precisò quasi infastidito «ma non te ne faccio una colpa, non temere: quando tornerò a sedere sul trono lunare, allora sentirai talmente tanto spesso il mio nome che ci farai l’abitudine come tutti gli altri, è solo questione di pazientare. E io so essere molto paziente, mia regina, moltissimo».

Si legò i capelli in una coda bassa sulla nuca.

«Rispondendo alla tua domanda beh, siamo la stessa persona da svariato tempo, io e il demone che ha sterminato la tua razza e quella del tuo amante nel giro di qualche minuto, ormai è talmente aggrappato al mio cervello che mi è assolutamente impossibile distinguere i suoi ricordi dai miei. Ma non è un problema: io gli offro ospitalità e lui in cambio mi dà il suo potere, un potere che ormai controllo come se fosse mio dalla nascita». Sfiorò appena un albero: un istante, e questo si sciolse in una cascata di lucidi serpenti neri. Ne pestò uno, stritolandolo sotto la scarpa finché non si ridusse in polvere «Come vedi, noi due conviviamo in un mutualismo perfetto, l’uno guadagna qualcosa dalla presenza dell’altro e viceversa. Tutto sommato siamo in ottimi rapporti» s’interruppe qualche istante, come a voler calcare la voce su quell’ultima frase «a differenza di come io lo sia con Phobos».

«Non stavamo parlando di-»

«Parlare di Phobos, parlare di me: che differenza vuoi che faccia? È sotto il mio completo e totale controllo, distinguerci l’uno dall’altro è inutile, superfluo, crudele… per te».

Voltò le spalle alla regina, iniziando a camminare e borbottare come se stesse intrattenendo un monologo, più che conversando con lei.

«Rinchiuso nel limbo della sua stessa mente» passò una mano sullo scettro, un liquido nero che iniziò a trasudare dalle venature smeraldo, inerpicandosi sulla sommità dello stesso sfidando la gravità «totalmente incapace di gridare il proprio dolore al mondo esterno» lentamente, una massa informe iniziò a gorgogliare sulla punta del bastone, andando aggregandosi «impossibilitato a ricordare, perché effettuo dei reset quotidiani sui quei pochi -ma faticosamente guadagnati, glielo riconosco, s’impegna più di quanto facesse da vivo!- pezzi appartenenti al puzzle di una vita che, ormai, non è che un passato nebuloso e frammentato» quando smise di modellarsi, la sagoma di un sole oscurato da una mezzaluna aveva sostituito l’estremità liscia dell’artefatto.

Lo saggiò girandoselo e rigirandoselo nelle dita, osservandolo soddisfatto.

«Anche in questo preciso istante sta lottando, sai? Non si arrende mai, l’ultimo principe Chronalion ancora in vita, combatte contro il parassita che si è insinuato nella sua mente giorno e notte, ininterrottamente, tentando di riprendere il controllo sulla propria coscienza come se fosse ciò che di più importante ha al mondo» si fece pensieroso «e in effetti immagino sia proprio così, dal momento che vi conserva dentro i ricordi di quasi seimila anni al tuo fianco: la morbidezza della tua pelle, il profumo dei tuoi capelli, il calore del tuo corpo nudo vicino al suo stretti nelle lenzuola. Se la passava bene, il ragazzo, non credi?»

Harmonia non rispose, impegnata com’era a mantenere quella parvenza di normalità per nascondere l’incredulità: aveva passato sette secoli convinta di aver perduto per sempre l’uomo che aveva amato per una vita intera, e adesso cosa scopriva? Che era ancora vivo.

Sepolto sotto strati e strati e strati di torture psicologiche che non osava nemmeno immaginare, ma Phobos c’era, c’era! Poteva ancora salvarlo!

S’impose di contenersi: doveva restare concentrata sul proprio obiettivo, adesso; se si fosse trovata davanti al dover scegliere fra l’ucciderlo -e quindi perderlo una volta per tutte- e il condannare la propria gente, allora non avrebbe dovuto esitare nemmeno un istante a scegliere la prima opzione.

Aveva un regno, una donna che amava alla follia e una vita faticosamente ricostruita al suo fianco, non avrebbe gettato via tutto questo per rincorrere un fantasma.

«Intendi rispondermi oppure vuoi fare la bella statuina, uh?» la canzonò l’altro, seccato.

Tirò un profondo respiro: non l’avrebbe mai fatto, no.

«Mi scuso per averti fatto attendere ma vedi, stavo solo riflettendo su di una cosa».

«Ah sì? E su cosa, mia regina?»

«Qualcuno mi ha detto che le guerre si vincono con i fatti e non con le belle parole, e -sebbene quando me lo disse non fossi d’accordo- credo proprio che quel qualcuno avesse ragione. Non so quali siano i tuoi piani e non voglio nemmeno saperlo, ma una cosa posso assicurartela, Alexander» allargò le ali, il corno che prese a baluginare di scintille argentate e la magia che già scorreva prepotente nelle venature semi-trasparenti sulle stesse «non permetterò in alcun modo che finisca nello stesso modo in cui è finita sei millenni fa».

Phobos -o chi per lui- non parve per nulla impressionato da quelle parole. Semplicemente, poggiò lo scettro al suolo.

«Dimostralo».

Un movimento deciso, e lo conficcò nel terreno finché non vi affondò dentro quasi completamente, solo la mezzaluna visibile fuori da terra.

Immediatamente, una fitta rete di venature si diramò tutt’intorno ad esso, sottili crepe che correvano veloci in ogni direzione spaccando la roccia e sventrando la terra e aprendo immani crepacci lì, nella radura dove si trovavano, dall’altro lato del fiume, nel fitto del Tauremorna, e poi là, sempre più in là, fino a raggiungere il confine estremo di Quetzalli. Una, due, tre, quattro, cinque, dieci forti scosse, una dopo l’altra, una più forte dell’altra, una scossa continua evolutasi in un terremoto talmente devastante da star facendo ondeggiare le acque calme del fiume, da stare incrinando quei millenari tappi di roccia che impedivano ai mostri d’ossidiana di destarsi dal loro antico sonno.

Silenzio.

Quando però il terremoto raggiunse i piedi della cintura di fuoco della città d’oro, un boato detonò nell’aria con potenza tale da essere udito dall’altra parte del pianeta.

L’intera cintura di vulcani intorno alla città esplose, eruttando nell’aria bollente sciami di lapilli e cenere e rocce arroventate le cui dimensioni andavano da quelle di un chicco di riso a quelle di una palla da bowling, una cascata nera che andò oscurando la fioca luce dei Soli che tanto aveva faticato a fare capolino nella tempesta scatenata da Madre Natura. Come spinta da una sotterranea forza invisibile, la lava non si fece attendere: fiumi di magma incandescente iniziarono a sgorgare da quelle bocche che parevano rifornirsi direttamente dall’inferno, riversandosi sui pendii del vulcano di appartenenza e scivolando sui fianchi dello stesso placidamente, senza fretta, facendosi strada fra i massi e gli alberi e gli strapiombi a suon di detriti rotolanti e fiamme.

Pochi minuti, e l’intero regno delle Ophidians si trovò circondato da un anello di fuoco che andava sempre più espandendosi, stringendo le sue abitanti in una morsa fatale.

Con lo sguardo perso nelle fiamme, Harmonia lasciò cadere le armi a terra: no, no, no, no, no! Non poteva stare succedendo per la seconda volta! Non stava davvero fallendo di nuovo nel proteggere la propria gente! Non stava sopravvivendo a tutti ancora! No! No! NO!

Phobos le si avvicinò in silenzio, ponendosi al suo fianco a osservare l’orizzonte.

«Se rimarrai qui e lascerai bruciare la tua gente, allora ti prometto da oggi fino a quando le stelle si spegneranno» si portò un dito sul cuore, disegnando su di esso la sagoma di una mezzaluna che scavò l’abito, la camicia, fino a imprimersi sulla pelle come un marchio, segno del giuramento «che libererò il corpo del tuo amante e mi lascerò uccidere senza opporre alcun tipo di resistenza: sarai l’eroina delle Costellazioni, ma non avrai più un popolo da governare».

Si voltò.

«Altrimenti puoi sempre correre da loro prima che la lava li raggiunga, ma in quel lungo lasso di tempo io sarò già fuggito, e un altro tassello della profezia che pende sulla tua testa sarà al proprio posto. La scelta è solo tua» concluse.

Senza esitare, Harmonia volò via.

 

 

---

 

 

Fiamme, fiamme ovunque volgesse il proprio sguardo.

Stava avviandosi verso l’entrata della città come indicatole da Antares, quando Myricae -sentito un tremendo boato- aveva avuto la pessima idea di alzare gli occhi: i vulcani stavano eruttando, e lei era lontano da tutte le persone con le quali avrebbe voluto passare i propri ultimi istanti di vita.

Fuggire era impossibile: l’anello di fuoco impediva qualsiasi spostamento via terra, cenere e lapilli e rocce ardenti avrebbero ridotto a uno scolapasta qualsiasi tipo di ala piumata o membranosa di chicchessia avesse voluto scappare via aerea, e la lava che riempiva i fiumi -grazie a ponti di magma solidificato che andavano formandosi su di essi, permettendo a quello fresco di scorrervi sopra- rendeva impraticabile l’attraversamento degli stessi. Oltre a tutto ciò, l’aria era ormai talmente calda da risultare irrespirabile, e solo le colline come quella dove si trovava lei offrivano un certo riparo dalla calura.

Per ora.

Un amaro sorriso si dipinse sul suo volto: le Ophidians si erano costruite una gabbia dorata per “proteggersi dal mondo esterno”, e ora quella stessa gabbia sarebbe stata la loro condanna a morte.

La sua parte rancorosa non provava affatto pena per loro, pensando che se la fossero cercata e che dovessero pagare le conseguenze del loro egocentrismo o deficienza che fosse; la parte migliore di sé, invece, quella più magnanima e disposta al perdono, le gridava che doveva fare qualcosa: le avevano fatto del male, ma restavano pur sempre la sua gente.

Proprio quando quest’ultimo suo lato stava per avere la meglio, la Myricae più realistica e obiettiva prese parola: voleva intervenire e salvare tutti, ma che diavolo avrebbe potuto fare lei?

Harmonia doveva essere in città da un pezzo, ormai, forse aveva anche già affrontato Madre Natura, e se avesse potuto rimediare lo avrebbe certamente fatto senza pensarci due volte; a giudicare dalla lava che continuava a colare, dal fumo sempre più nero e dalle scosse che andavano crescendo d’intensità e durata, però, ciò non era accaduto.

“E se non c’è riuscita lei, allora non posso certo sperare di riuscirci io”, si disse.

Rassegnata e piena di vergogna per la propria inutilità, si voltò per andarsene… o almeno ci provò, dal momento che una sagoma incappucciata le corse incontro a tutta velocità, scontrandosi con lei e facendola capitombolare per terra mezza ingarbugliata.

Dopo una lotta infinita con il losco figuro per districare più di dieci metri di coda, Myricae riuscì a rialzarsi; lancia alla mano, puntò l’arma sotto al mento dell’intruso. Senza opporre alcuna resistenza, quello alzò le mani in segno di resa.

Lentamente, fece scorrere la punta acuminata sull’estremità del cappuccio, scoprendolo: una cascata di capelli verde acqua si riversò fuori dallo stesso.

«… Amira…?» strabuzzò gli occhi, tanto stupita quanto incredula «Sei… viva?»

«Non ci vediamo da appena sette secoli e voi mi credete morta? Ma che comportazione è mai questa?!» squittì sorpresa la schiava, alzandosi ed esibendosi in una curiosa posa stile “Urlo” di Munch «Ho solamente settecentoquarantasettemila e novecentrotrentadue anni, Miulë Myricae, sono nel pieno del mio stadio embrionale! Piuttooostoooo…»

Senza preavviso, le si lanciò al petto peggio di prima, iniziando ad abbracciarla e stringerla con quanta forza avesse in corpo.

«Siete voi ad essermi mancata tipo TANTOCOSì! Giurin giurella! Credevo non di rivedermi piùissimamente!» come se fosse la cosa più naturale del mondo, le fiondò la testa in mezzo al seno «AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAWWWete! Sono ancora più morbide morbidissime di quanto ricordassi da che vi massaggiavo tuttecoseH dopo il bagno! Si vede che le strizzate per bene tutti i giorni! E le squame sono così lucide lucidissime che potrei specchiarmici dentro! Lasciatemi controllare anche il vostro pen-»

«Sì, sì, sono contenta pure io, sono contenta pure io!» non senza fatica, sgusciò fuori da quella presa che stava soffocando i suoi poveri serpenti. Le mise le mani sulle spalle, tenendo a distanza lei e quelle sue maledette grinfie che s’infilavano ovunque «Cosa ci fai qui?»

«Uh?» la guardò stranita qualche istante «Ah, sì! Stavo cercando vostra madre Airë Tári Phentesilea, in realtà, non credevo di trovarvi».

«Mia madre?»

«Lei, sì: è partita per la sua consueta preghiera al tempio a pregare qualche ora fa insieme a due nuove concubine, ma non è ancora tornata. Dal momento che di solito non ci mette tanto, ho voluto raggiungerla, pensando che magari avesse bisogno di qualcosa o si fosse sentita male e le altre ragazze non sapessero cosa fare e come farlo. Quando sono arrivata però…» fece un profondo respiro «… il tempio era quasi completamente crollato, e della regina non c’era alcuna traccia. Tutto ciò che ho trovato è stata una specie di sfera di rovi e una grossa Sylkes priva di-»

«Una Sylkes?»

Annuì.

«… Allora quel bastardo di Phobos è riuscito a scappare…» rifletté ad alta voce.

«Phobos?»

«È una lunga storia, Amira, lunghissima. Se ne usciremo vive allora te la racconterò, ma fino ad ora è meglio se-»

Una tremenda esplosione la interruppe.

Con le orecchie che ancora fischiavano, alzarono entrambe il naso al firmamento: l’aria stava andando a fuoco.

Letteralmente.

Rocce infuocate grandi quanto elefanti iniziarono a piovere dal cielo, comete dalla coda fiammeggiante che squarciavano le nuvole nere cosparse fai fulmini e ricadevano a terra aprendo profonde ferite sul volto del regno di Quetzalli, ferite che avevano l’aspetto di giganteschi crateri che bruciavano l’erba e vetrificavano il terreno e sradicavano di prepotenza qualsiasi cosa o persona che si trovasse sulla loro traiettoria; in lontananza, le grida delle Ophidians iniziarono a riempire l’aria assieme all’acre odore di zolfo.

Myricae strisciò fino all’estremità della collina, indecisa se gettare o meno il proprio sguardo in basso: sapeva già cos’avrebbe visto, perché torturarsi? Dopo infiniti attimi di profonda indecisione, si sporse.

E vomitò l’anima subito dopo.

Con la puzza della carne bruciata che le assaliva le narici lasciandola senza fiato e il conseguente disperato tentativo di catturare l’ossigeno che le sfuggiva dalla bocca aperta per la sorpresa, un attacco di panico s’impossessò delle membra della generalessa di Phantasia, immobilizzandola: non si muoveva, non batteva ciglio, sembrava che nemmeno respirasse. Nella sua mente, l’immagine dei cadaveri delle sue madri si palesò in modo talmente vivido che per un attimo credette che non fosse solo fantasia.

Ingannata dai propri occhi, Myricae si allungò verso lo strapiombo chinandosi per raggiungere i loro corpi esanim-

«ATTENTA!»

Un nanosecondo di ritardo da parte di Amira nel lanciarsi su di lei per scansarla, e la colossale roccia caduta dinanzi a lei l’avrebbe ridotta a una frittella bruciacchiata.

Ancora a terra, la osservarono entrambe confuse.

«Una… testa di serpente?» domandò la serva.

Dall’altra non provenne alcuna risposta.

Semplicemente, la naga si alzò, offrì una mano alla concubina perché si alzasse a sua volta e la portò qualche passo più in basso sulla collina, dove -per un gioco di prospettiva- gli alberi si diradavano a sufficienza da lasciar vedere le montagne più alte; lì, le indico un punto preciso.

Aguzzando la vista, Amira rabbrividì: l’entrata della città era quasi completamente collassata su se stessa, un fiume di magma incandescente che stava inondando a velocità disarmante non solo il terreno intorno al regno, ma persino al di fuori di esso! Di quel passo, anche la corte di Phantasia avrebbe bruciato.

A quel pensiero, Myricae tornò lucida: passa per il torturarla, passa pure per l’incendiare Quetzalli per vendicarsi, ma guai a toccare il nido suo e della sua donna.

Guai.

Mossa dalla ritrovata intenzione a fare qualcosa -non sapeva precisamente cosa, ma ci avrebbe pensato durante il tragitto-,  lasciando la schiava a contemplare quell’inferno, la serpentessa dalle squame smeraldo strisciò verso un piccolo tunnel scavato da qualche animale sotto le foglie: se suoi calcoli fossero stati esatti giusti, allora sarebbe spuntata nel cuore del Tauremorna, se fossero stati sbagliati… nah, meglio non pensarci.

Quatta quatta, in silenzio, vi s’infilò dentro non senza una certa fatica. Nemmeno a farlo apposta, l’altra la notò.

«State fuggendo?»

Sorrise.

«Sto andando a salvare il mondo», e sparì sottoterra.

 

 

---

 

 

La mano di Phentesilea le sfiorò le ali, sangue dorato che colava dalle venature sulle stesse per il massiccio -e inutile- utilizzo di magia fatto fino a quel momento.

«Hai fatto il possibile, non è colpa tua se non basta».

Quante volte erano intenzionate a ripeterglielo, quel dannatissimo “non è colpa tua”? Ovvio che fosse colpa sua, di chi altri avrebbe potuto o dovuto essere?! Phobos ed Emilia del resto si stavano solo limitando a fare i cattivi che erano, era lei che scarseggiava nel suo ruolo di buona!

Aveva mormorato incantesimi antichi quanto il mondo e utilizzato fino all’ultima stilla di magia che le scorreva nelle vene, per tentare di interrompere l’Apocalisse, persino Alice aveva mosso i diggerwurm nell’entroterra perché facessero da barriera fra il magma incandescente e le abitazioni, ma nulla di tutto ciò aveva avuto un effetto differente dal rallentare la sua avanzata, più che fermarlo definitivamente.

Quando poi i detriti avevano iniziato a cadere come asteroidi, il panico generale aveva investito anche lei.

Era stata tentata di farla cadere, quell’ultimissima barriera sotto la quale si trovavano gli harem e tutta la popolazione di Quetzalli, congedarsi e lasciare che la fine abbracciasse quel pianeta com’era accaduto seimila anni prima, specie perché -considerando quanto tutto ciò le stava costando in termini di energia- sarebbe stata comunque questione di tempo prima che crollasse da sola, o che lo facesse sotto i colpi incessanti delle rocce che l’avevano già ben più che incrinata.

Non erano nemmeno d’aiuto le parole di conforto delle regine, che la rassicuravano dicendole dirle che non era colpa sua, che aveva fatto tutto il possibile, che nessuno le avrebbe mai rimproverato nulla, non erano d’aiuto perché non era vero, che aveva tentato tutto-tutto: avrebbe potuto restare e spezzare lo scettro di Madre Natura, anziché correre in loro soccorso, e non l’aveva fatto.

Non l’aveva fatto.

Non se n’era pentita, sul momento, mai avrebbe abbandonato la propria gente a morire senza stare in prima linea a difenderla, ma -ora come ora- iniziava a chiedersi se la sua fosse stata la scelta giusta.

Con la coda dell’occhio, scrutò i volti delle Ophidians intorno a lei: dalle concubine che da secoli servivano la loro regina alle ultime catturate, dalle leggendarie Airë Tári del Calaciryandë alle Miulë più inesperte, dalle naga solitarie alle genitrici con le proprie neonate attaccate al seno che piangevano, tutte loro erano terribilmente spaventate, terrorizzate, sfiduciate che potesse esserci una qualche speranza di uscirne vive.

E anche lei lo era. Tantissimo.

A vedere quella scena, con le madri che tentavano disperatamente di essere forti per le loro stesse figlie, la mente non poté che andare all’ultimissimo ricordo che aveva della propria, di madre: aveva appena perso suo marito, il compagno di una vita che aveva amato con tutta se stessa e l’amico migliore che avesse mai avuto, eppure con lei non si era mostrata debole nemmeno per un istante, nemmeno per un secondo. Aveva continuato a sorridere, lo aveva fatto anche quando -essendo loro due le sole Starequus rimaste in vita al massacro, protette dal cadavere di quel re caduto che fino a poco prima era stato suo padre- Apophis l’aveva catturata e torturata e le aveva strappato mezza ala di fronte alla sua bambina, e aveva sorriso anche quando erano fuggite insieme verso solo la Dea Senza Sudditi sapeva dove.

Poi quella figlia per la quale continuava ad essere così forte era morta, e allora quel sorriso era scomparso insieme a lei.

Non aveva visto sua madre morire, ma di certo la stessa sorte era toccata anche alla regina dal momento che, una volta riportata in vita, tutto ciò che la Sovrana delle Galassie le aveva detto era stato un semplice “Sei l’ultima Starequus”, un modo breve e conciso per dirle “Sei rimasta sola al mondo, sola nella galassia, sola nell’intero cosmo, non hai più nessuno”.

E ora quella frase rischiava di doverla dire lei a una qualche piccola Ophidians.

A quel pensiero, guardò Hippolyta e Phentesilea, finalmente riunite l’una fra le spire dell’altra: erano così serene, così tranquille, a vederle nessuno avrebbe detto mai pensato che si stessero abbracciando anche e soprattutto per consolarsi a vicenda in quel momento di sconforto, di paura, di consapevolezza che -dopo averla ritrovata- forse non avrebbero più rivisto la loro bambina. Esattamente come lo temeva lei.

Non sapeva dove fosse Myricae, ma anche se l’avesse saputo era cosciente che andare a salvarla avrebbe condannato tutte le altre: se l’avesse fatto, se fosse corsa a salvare la sua donna anziché le Ophidians, allora la sua partner stessa non gliel’avrebbe mai perdonato. Se ci fosse stata lei al suo posto, probabilmente le avrebbe detto di fregarsene della sua persona e di combattere finché i suoi polmoni avessero continuato a espandersi e rilassarsi, il suo cuore a battere, il suo cervello a suggerirle modi tanto disperati quanto improbabili per sopravvivere.

“Faremo a modo tuo, allora”, si disse accennando un sorriso.

Si toccò il corno, ancora bollente per tutti gli incantesimi evocati: aveva ancora un po’ di magia di riserva, avrebbe dato fondo anche a quella prima di alzare bandiera bianca.

Issandosi sulla propria lancia, si rimise in piedi; scordandosi delle gambe che parevano gelatina e la testa che pareva sul punto di scoppiarle, tese le mani dinanzi a sé e chiuse gli occhi, concentrandosi per richiamare quel poco di forza rimastole in corpo per sferrare un altro paio di incantesimi. Rimase in quella posizione a lungo, ma si rese presto conto che non stava riuscendo a raggiungere la concentrazione necessaria: mentre sgombrava la mente, di sottofondo sentiva come un mormorio indistinto aleggiarle nelle orecchie disturbandola.

Si rivolse verso le serpentesse.

«Potreste cortesemente fare silenzio?» chiese loro gentilmente, cercando di non sembrare troppo brusca.

Si scambiarono fra loro sguardi confusi, poi piantarono i loro occhi su di lei.

«Hai le allucinazioni, tesoro, perché nessuna di noi ha parlato» asserì acida Antiope, proclamandosi portavoce delle sue simili.

Ora era Harmonia a fissarle sbalordita: non era pazza, o almeno sperava di non esserlo.

 

“Rithannen i geven
Thangen i harn
Na fennas i daur!”

 

«Cosa?»

«Come?»

«Avete detto qualcosa?»

«Insisti ancora? La gweriadir che ti porti in giro te lo ha forse sbattuto talmente tanto nelle orecchie da averti mosso il cervello, reginella?»

Cielo, quanto avrebbe voluto staccarle la lingua biforcuta dalla gola!

Per il bene della propria reputazione, decise di fingere di non aver sentito la frecciatina della tanto temuta Airë Tári. Si sforzò di sembrare calma, calmissima.

«Avete parlato sì o no?» ripeté alzando la voce.

Tutte scossero la testa.

Avanti, non era pazza! No che non lo era! Questa volta l’aveva sentito forte e chiaro, quel suono, aveva udito delle voci vere e proprie e non solo dei brusii indistinti, era fottutamente impossibile che nessun’altra ci avesse fatto caso!

Un rapido movimento della mano, e lo scudo da lei evocato si assottigliò lievemente: se ora si fosse sentito qualcosa, allora non sarebbe stata l’unica a sentirlo.

Mai come ora sperava che qualcuno confermasse le sue parole.

 

“Ôl dûr ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”

 

Improvvisamente, una piccola Ophidians dalle squame rosate alzò una mano.

«Io signora ho sentito qualcosa» sussurrò.

Eccheccazzo! Vedi che non sei allucinata? Vedi che non sei l’unica? Lo sapevo io che… che sto parlando da sola, per l’amor della Dea Senza Sudditi, vabbè”.

Le si avvicinò, accovacciandosi alla sua altezza.

«Cosa ti è parso di sentire, piccola?»

«Ophidiano. Parlanono la nostra lingua. Hanno detto qualcosa sugli alberi».

«Gli alberi?» alzò un sopracciglio sorpresa.

«Gli Aldar, gli alberi del Tauremorna. È una canzone che la mamma mi ha letto prima di andare a dormire su un libro delle favole, “L’ultima marcia degli Aldar”».

«Di cosa parla questa canzone?»

«Della guerra, signora» rispose con naturalezza agghiacciante.

Tutt’intorno tacque.

«È una bella favola, tesoro mio, ma è una favola e nulla di più» intervenne l’altra genitrice, imbarazzata «Nessuno ha mai visto gli Aldar muoversi, la foresta è sempre stata in quella posizione».

Suo malgrado, Harmonia dovette darle ragione: aveva seimila anni, e mai in quel lunghissimo lasso di tempo aveva visto alberi spostarsi o cantare o fare le piroette; non metteva in dubbio che creature magiche del genere potessero esistere, ma -se così era- lei non ne aveva mai fatto la conoscenza.

 

“Ristar thynd, cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”

 

“A me queste voci non sembrano poi tanto una favola, però” pensò la Starequus, allarmata: qualsiasi cosa stesse parlando, reale o meno, era vicina. Vicinissima.

E dagli sguardi inquieti delle Ophidians non sembrava l’unica a pensarlo.

«Ma ti dico che sono veri!» insistette la bambina «Non li abbiamo visti muoversi perché stavano aspettando il momento giusto, ma adesso quel momento è arrivato!»

«Hai una fervida immaginazione, cucciola, ma adesso basta» la madre si fece avanti, prendendola in braccio nonostante le proteste «Stai facendo preoccupare tutte, non è affatto una cosa carina da fare».

«Ma non li ho immaginati! Loro esistono davvero!»

«Ho detto-»

«Guarda!» indicò un punto perso nelle alture intorno all’entrata della città. Ovviamente, tutti gli sguardi si spostarono in quella direzione.

Le voci -che da lì parevano provenire- diventarono sempre più forti, sempre più nitide, sempre più numerose, fino a quando non diventarono un coro così intenso da scuotere la terra e far cadere i frutti dagli arbusti. Colossali figure allungate dalle mille sottili braccia fecero capolino all’orizzonte, i contorni che andarono delineandosi man mano che si avvicinavano alla valle: alberi. Aldar.

A dominare la scena dalla rupe più alta, Myricae.

“Myricae?!”

In quel momento, Harmonia sentì un principio d’infarto pervaderle il petto, non si sapeva per la contentezza di rivedere l’amata o per la sorpresa o per la voglia di prenderle a calci lo squamoso fondoschiena: cosa stracazzo ci faceva lì? Come stracazzo c’era arrivata? Dove stracazzo si era ficcata fino ad ora? Perché stra-

«Cosa vi avevo detto? Esistono!» squittì la bambina, fiera e impettita, interrompendola.

Come rispondendo alla lancia che l’Ophidian aveva alzato al cielo, i guerrieri assopiti del Tauremorna continuarono a discendere dalle colline ordinatamente, in fila indiana, divisi in due gruppi che aggiravano a destra e sinistra il vulcano collassato -ovvero la porta di Quetzalli- così che il magma non ghermisse le loro radici; anche quando ciò accadeva, però, semplicemente continuavano a camminare imperterriti, inviolabili nella serietà di quei volti scavati nella corteccia da nodi e termiti: erano stati chiamati, e portare a termine la loro ultima marcia era un dovere che trascendeva qualsiasi sacrificio.

Quando tutti quanti ebbero raggiunto la pianura, migliaia e migliaia di chiome di ogni forma e colore e dimensione si voltarono all’unisono verso la l’anello di fuoco che circondava la città; allungarono i rami l’uno verso l’altro per unirsi come una catena, poi levarono un ruggito al cielo: allora, e solo allora, iniziarono a risalire i vulcani.

Con le radici forgiate da millenni di immobilità e indurite dalle fiamme piantate nella nuda roccia, continuando a intonare ad alta voce il loro canto da guerra, gli Aldar scalarono compatti gli impervi pendii delle montagne senza mai arrestarsi o retrocedere quando uno di loro cadeva, scavando il suolo e riducendo in frantumi qualsiasi masso gli si presentasse davanti; nel momento in cui le basi dei loro tronchi uniti in uno solo furono finalmente piene di detriti e terra, allora anche la lava -incontrato quel muro impenetrabile- fu costretta a retrocedere.

Spinsero indietro il magma incandescente per così tante decine e decine di metri da sembrare che le cime di quell’anello di fuoco fossero distanti anni luce da loro, ma ad ogni metro che avanzavano era evidente che suddetta scalata si facesse sempre più lenta, sempre più difficoltosa, complici i corpi che stavano andando pietrificandosi.

Poi, un silenzio di tomba avvolse la città: gli Aldar avevano concluso la propria marcia.

Tutto ciò che rimaneva di loro, era una gigantesca muraglia dai colori dell’arcobaleno che si snodava lungo tutta la cintura vulcanica di Quetzalli, una barriera incurvata di legno percorso da ragnatele di crepe che -grazie al tremendo shock termico e alla pressione esercitata dai detriti- lasciavano intravedere il cuore d’opale di quelli che un tempo erano stati i mitologici guerrieri del Tauremorna, immobili e statuari tanto adesso quanto lo erano sempre stati.

Da parte sua, la lava continuava a sgorgare dai vulcani, sì, ma -a quella velocità- ci sarebbe voluto almeno un intero giorno perché riuscisse a straripare fuori da quel lunghissimo muro di legno opalizzato, e in quelle ventiquattro ore la questione Madre Natura sarebbe stata già bella che sistemata.

In teoria.

 

In pratica, ahimè, c’era da fare tutto fuorché festeggiare e adagiarsi sugli allori. O sugli Aldar, insomma.

 

Come se la montagna più grande dell’intera città avesse avvertito il fallimento dei propri fratelli minori, un lamento profondo simile a un ruggito si riversò fuori dalle sue viscere a squassare l’etere, un boato così assordante da stare aprendo la terra, spazzando via le creature di Madre Natura, incrinando ancora di più la già fragile barriera.

Intanto, il livello dell’incandescente brodo primordiale contenuto nella caldera quasi completamente collassata iniziò ad aumentare di più, sempre di più, fino a quando non finì per straripare rovinosamente dal muro di legno opalizzato; sulla sua superficie, gigantesche bolle di magma e roccia fusa che si gonfiavano e scoppiavano e si rigonfiavano al ritmo delle scosse che parevano provenire dalla terra sotto il vulcano, bubboni dai colori dell’inferno che lanciavano nell’aria tonnellate e tonnellate di rocce fuse e meteoriti infuocate e gas venefici talmente scuri e compatti da non riflettere nemmeno la poca luce proveniente dall’ambiente esterno. Pochi minuti, e Quetzalli si trovò avvolta in un velo più nero delle profondità del cosmo.

Allora, tutto parve congelarsi.

Una surreale quiete calò come una cappa di piombo sulla città, un clima di silenzio e calma piatta nel quale -aguzzando l’udito- si sarebbero potuti udire e contare uno per uno persino i battiti del cuore che martellava il petto della Regina di Phantasia, immobile come tutto intorno a lei.

Poi, un lamento profondo simile a un ruggito squassò l’aria.

Dinanzi all’onda d’urto di quel tremendo boato, la terrà si spaccò, le creature di Madre Natura vennero spazzate via come fuscelli da un tornado, la già pericolosamente fragile barriera divenne una cupola scricchiolante percorsa da ragnatele chiare.

Una spaventosa esplosione, e della montagna non rimase che un enorme cratere: all’interno di esso, emerso dalla cenere e dalla nebbia come un cadavere lì seppellito, un colossale leone di magma che trasudava lava dalle zanne d’ossidiana, dalle fenditure fra le rocce che costituivano il suo immenso corpo scuro, da quell’informe ammasso scoppiettante di fuoco e fiamme che si protendevano con prepotenza nell’aria bollente che era la criniera.

Aprì i propri brillanti occhi gialli, e Harmonia capì che quello sguardo era diretto a lei e lei soltanto: era una creatura di Phobos, quella, cos’altro avrebbe dovuto aspettarsi?

Che si muovesse, magari.

“Merda”.

Nonostante il panico e la paura e la consapevolezza di non avere più certezze, la Starequus riuscì comunque a fare chiarezza nella propria mente, così da tirare il punto della situazione: era allo stremo delle forze, aveva quasi esaurito il proprio repertorio di incantesimi, il suo scudo avrebbe ceduto al prossimo minimo tocco condannando l’intera città e la sua popolazione, c’era un felino fiammeggiante alto decine di metri che stava incendiando qualsiasi cosa sulla quale posasse le proprie zampe che avanzava nella sua direzione e, tanto per cambiare, la sua donna era proprio dove- oh cazzo.

Rendendosi conto che la collina doveva aveva visto Myricae era la stessa crollata insieme al vulcano, alzò lo sguardo: dell’Ophidians non c’era più traccia.

Una fitta le trapassò il petto come una coltellata, i polmoni che le si svuotarono tutto d’un tratto lasciandola senza fiato in gola: o era scappata, o era morta.

Tirò un profondo respiro: si ricompose, chiuse gli occhi e tornò a mormorare le proprie magie imperterrita, solerte, dedita ai propri doveri di regina. Il leone in rapido avvicinamento non la spaventava, non più dell’idea di aver perso l’altra metà della mela, del cuore, dell’anima: era già vissuta più a lungo della propria gente, sarebbe sopravvissuta anche a lei?

Il suo cervello le gridò la risposta.

Non lo volle ascoltare.

 

 

---

 

 

Gettò la lancia per terra.

Su un’altura a strapiombo sul magma sottostante, davanti a sé, Phobos, scettro alla mano e frecciatine pronte da sputare come veleno sulla lingua.

Sul volto, un sorrisetto beffardo che significava solo una cosa: al contrario di una povera Emily Jane con gli occhi fuori dalle orbite e la mandibola per terra, lui non era rimasto per nulla impressionato dallo spettacoluccio degli Aldar, probabilmente perché -col suo enorme felino di fuoco- ne aveva messo in piedi uno decisamente più interessante, più pericoloso, più letale.

Prima ancora che Myricae fosse sufficientemente vicino da poter essere sentita, il rosso già aveva avvertito della presenza. Non si era girato, ma aveva assunto un’aria corrucciata.

«Noto che sei ancora viva» asserì con tono contrariato.

«Un colpo di fortuna» fece spallucce lei «niente di più e niente di meno. Non avevo un piano di riserva per scappare in caso di pericolo, ma Quetzalcoatl deve finalmente avermi notata e aver deciso di darmi una zampa, facendomi ruzzolare in una buca quando l’onda d’urto ha colpito. E poi non volevo né potevo privarmi del piacere di venire a spaccarti quel tuo dolce visino di persona, sarebbe stato scortese lasciare il lavoro a metà».

«No di certo» convenne l’altro, ridacchiando «ma temo che tu sia in ritardo, tanto per tagliarmi la gola quanto per salvare tutti quanti. È sicuramente stato un nobile sacrificio, quello dei tuoi amici ramoscelli, tanto ingegno mi ha addirittura piacevolmente sorpreso, ma devo confessarti che è stato anche totalmente inutile: un mio schiocco di dita» imitò il gesto «e un paio di placche tettoniche si scontreranno seduta stante, aprendo un nuovo Abisso che inghiotta tutti questi ridicoli regni in un battito di ciglia. Non che ce ne sia bisogno, sia chiaro, il mio leone brucerà il pianeta prima di dovermi scomodare a fare tanto».

Finalmente, si voltò.

«Ho i miei poteri, e ora anche quelli di Madre Natura: come pensi di fermarmi?» domandò incuriosito «Come riesci a convincerti di poter spazzare via tutto ciò che ho creato con un potere che tu nemmeno puoi immaginare? Come credi di salvare te stessa, Harmonia, le tue madri, la tua gente, Exodus intera? Come puoi sperare di farlo proprio tu, una semplice Ophidians senza incantesimi né magia né capacità particolari, niente più che una grossa e fastidiosa biscia ermafrodita, uh?»

Allargò le braccia in segno di sfida.

«Come?»

Lei sorrise.

«Così».

Un rapido movimento per sgusciare via dalla vita di Madre Natura, e il serpente mozzatole dal capo si lanciò sulla mano del rosso, serrando le proprie zanne intorno ad essa; in una reazione istintiva e primordiale a quel dolore lancinante, Phobos aprì le dita.

 

E lo scettro gli scivolò nella lava.

 

Fu come lasciar cadere le tessere di un domino: i mostri si disfarono e dissolsero come sabbia portata via dal vento, le nubi nere di tempesta evaporarono in una pioggerellina delicata, le meteoriti piroclastiche esplosero a mezz’aria come fuochi d’artificio che colorarono la colorarono, la cenere venne portata via dalla rugiada per lasciare posto ai caldi raggi dei due Soli che rischiaravano il cielo ormai limpido, l’aria bollente finalmente tornò ad essere pervasa dal fresco e delicato profumo degli alberi in fiore.

Al leone di magma -ormai prossimo alla barriera che cadeva a pezzi- toccò la stessa sorte: partendo dalle zampe fino a salire su per il possente corpo in fiamme, poco a poco il fuoco che ardeva nelle sue viscere venne soffocato in un guscio di ossidiana; lanciò un ultimo possente ruggito, quando la pietrificazione raggiunse l’occhio fiammeggiante e lo spense, ma venne interrotto dalla roccia che s’insinuò nella sua gola.

Myricae non se lo fece dire due volte: raccolse la propria lancia, strisciò fino al fianco di un Phobos in stato catatonico e lì si fermò. Aguzzò la vista, caricò il braccio all’indietro e prese la mira. Infine, scoccò.

Un lungo fischio provocato dall’arma che fendeva l’aria, poi la statua nera s’infranse in mille e mille pezzi come fragilissimo cristallo.

Era finita. Finita.

 

Più o meno.

 

Nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo, infatti, e si trovò le mani del rosso strette intorno al collo.

«Maledetta puttana! Distruggerò il tuo fottuto pianeta! Raderò al suolo fino all’ultimo filo d’erba di questa città piena di ermafrodite ninfomani! E poi toccherà a quella della squilibrata bipolare! E infine al regno della tua troia, ma non prima che me la sia scopata! Oh, puoi stare certa che me la scoperò, lo farò eccome! Mi sbatterò pure tua madre, anzi tutte e due le tue madri! E mi assicurerò che tu assista, che mi caschi il cazzo se non ti farò guardare! Ti ridurrò a un ammasso di carne maciullata, e non potrai fare proprio nulla per impedirmelo! NULLA!»

Odiava ammetterlo, ma dovette dargli ragione: lei ci stava pure provando, a scollarselo di dosso, ma più tentava più si sentiva le braccia e la coda molli, di gelatina, come se non avesse più forza in corpo… e in effetti era proprio così.

Avrebbe tanto voluto dormire, non chiedeva altro: accendere qualche candela alla pesca, qualcuna al limone, acciambellarsi sotto le coperte calde insieme ad Harmonia, stringersela al petto, affondare il viso nei suoi capelli morbidi e chiudere gli occhi fino al mattino seguente, consapevole che, al risveglio, l’avrebbe trovata sempre lì al suo fianco. Andando avanti di quel passo, effettivamente gli occhi li avrebbe pure chiusi.

Per sempre, s’intende.

Una ginocchiata sul ventre per farla piegare, e Phobos la gettò a terra; le si mise a cavalcioni sull’addome, la presa sempre ben salda al collo ormai giallo e blu e viola che le premeva il capo contro l’orlo del precipizio.

Con la coda dell’occhio, la naga sbirciò sotto di sé: un lago di lava incandescente, ecco cosa l’aspettava se fosse caduta.

Nemmeno il tempo di voltarsi, e il suono del pugno dell’altro che impattava contro il suo zigomo le riempì le orecchie, credette quasi di avvertire ogni singolo frammento d’osso nel quale le aveva spaccato prima una guancia, poi l’altra, fino a quando il dolore era diventato talmente intenso da non avvertirlo nemmeno più.

«E questo è solo l’inizio! L’inizio! Ho in serbo cose ben peggiori per te!» le gridò contro il rosso, i suoi pugni che continuavano a cadere con violenza inaudita sul volto tumefatto.

In un disperato tentativo di liberarsi, Myricae allungò faticosamente una mano verso una roccia piatta e appuntita poco lontano da dove si trovava costretta; tese il braccio il più possibile, sentì persino la spalla lussarsi, ma non aveva importanza: era così vicina, così vicina!

Poi una stilettata corse veloce dalle sue dita all’arto intero fino al cervello, dove il dolore esplose con prepotenza immane. Piantato nella mano, un pugnale.

«Credevi davvero di potermi fottere? E invece!» ringhiò Phobos, girando e rigirando il coltello conficcato nelle carni dell’Ophidian.

Si chinò su di lei.

«Avrei preferito tenerti in vita per lo spettacolo che sarebbe venuto dopo solo per gustarmi la tua faccia nell’assistervi, ma vedo che non vuoi collaborare nel farmi passare la voglia di staccarti la testa qui e subito. Non sono paziente» afferrò l’arma e, con uno strattone, se la riprese «non ho tempo da perdere» fece scivolare l’altro braccio dal collo fino a sotto il mento della naga, così da poter vedere chiaramente le arterie affiorare sotto la sottile pelle della gola «e non ho nemmeno fiato da sprecare: me la sarei pure risparmiata, ma se la metti su questo spiacevole piano» puntando alla giugulare, alzò il braccio al cielo «allora non collaborerò nemmeno io!» infine, calò il pugnale.

Che si arrestò a mezzo centimetro dal collo dell’Ophidians.

Stretto intorno al polso del rosso, un viticcio rinsecchito che brillava di un malsano e opaco alone smeraldino.

Precisamente lo stesso che fluiva dalle esili dita della figlia dell’Uomo Nero: ritta in piedi qualche metro più in là, tremante, col fiato corto -non si sapeva se perché pentitasi dell’aver tradito chi l’aveva tradita, o per quanto quella magia recuperata nei meandri delle proprie vene le stesse costando in termini di energie- e un’espressione indecifrabile sul volto, un misto fra rabbia e terrore puro.

 

Al contrario, lo stato d’animo di Phobos era facilmente intuibile, a giudicare dallo sguardo omicida espresso dalle sue pupille ridotte a due infime fessure perse nell’oro.

«QUESTA DOVEVI RISPARMIARTELA! GIURO CHE TI-» non fece in tempo a terminare la frase, che si trovò la guancia scarnificata dalle affilate squame sul dorso della mano di Myricae.

Non seppe nemmeno lei dove riuscì a trovare la forza necessaria per sferrare quel pugno, per gettarsi addosso all’altro scambiandosi di posto e sovrastandolo, per stringerlo nelle spire mentre i suoi serpenti lo tenevano inchiodato al suolo, fatto stava che ci riuscì. Perse il conto dei pugni che gli aveva fatto cadere addosso, dei morsi che i suoi piccoli ofidi avevano dato al suo corpo fino a paralizzarlo, delle frustate con la coda con le quali gli strappò di dosso i vestiti e la pelle e la carne, perse il conto e non ci tenne a sapere da quanto tempo stesse andando avanti: lui non aveva avuto pietà per lei, per la sua gente, per il cuore di Harmonia, e nemmeno lei ne avrebbe avuta.

Quando di Phobos rimase solo un grumo insanguinato che borbottava bestemmie e pregava una certa “Barbie Platinata” di rifarsi viva, Myricae gettò lo sguardo sul pugnale scintillante del rosso, ad appena una manciata di centimetri da lei: a quella storia era stato posto un punto e virgola, sette secoli fa.

Senza nemmeno rendersene conto, si trovò a girarsi l’arma fra le dita, contemplando il da farsi: sì, era ora di metterci un punto.

Gli poggiò la lama in mezzo agli occhi: un punto fermo.

Era lì per affondarglielo nel cervello e mettere fine alle agonie sue e altrui, che uno scossone la fece sobbalzare. Abbassò lo sguardo: vuoi per tutti i terremoti della giornata, vuoi per le intemperie, vuoi per un colpo di sfiga, la roccia sotto di loro si stava sgretolando.

E -a giudicare dal sorriso sornione che aveva addosso- Phobos doveva averlo notato da un pezzo.

«Dovrefti vedere la tua faccia in quefto momento! Non ha affolutamente prezzo!» rise sputacchiando qualche dente «Cofa vuoi fare, generaleffa? Uccidermi e fchioppare pure tu, o lafciarmi andare e sopravvivere? In entrambi i cafi, dubito che la tua regina farebbe contenta, no che non lo farebbe!»

Myricae non rispose.

«Cofa c’è, il ferpente ti ha mangiato la lingua? Ah no, tu fteffa fei un ferpente!» la perculò.

Anche adesso, però, dalla naga non provenne nessuna risposta: era silenziosa, immobile, imperscrutabile, e lo era anche mentre lo spuntone roccioso dove si trovavano continuava a disgregarsi.

Al contrario, a vedersi letteralmente mancare la terra sotto i piedi, il rosso pareva un filino più preoccupato di lei.

«Intendi ftare lìa guardarmi con quegli occhi da pefce leffo, o vuoi deciderti a fare qualcofa? Non ti importa proprio niente niente niente che moriremo in due e lafcerai sola la tua donna? Non ti fenti nemmeno un pochiiiiino in colpa?» le domandò nervosamente dopo qualche istante di impaziente silenzio, come se il non aver ricevuto una risposta l’avesse colto di sorpresa. Tentò un altro approccio «Non ti vergogni di aver provocato tutto quefto cafino, uh? Hai fatto muovere l’efercito di Harmonia, hai provocato la morte di un fottio di perfone, ftai provocando l’eftinzione di un popolo che era fereno, prima del tuo arrivo. Ne fei fiera, forfe?»

Nulla, nada de nada, solo silenzio. Di nuovo.

A quel punto, la pazienza del rosso andò a farsi benedire.

Con uno scatto, afferrò due dei serpenti che l’Ophidians aveva sul capo, tirandola prepotentemente a sé.

«Parla! PARLA! PORCOILCAZZO DÍ QUALCOFA!» sbraitò iracondo, strattonandola «Parlami del tempo, delle mezze ftagioni che non ci fono più, della tua attività feffuale: dimmi qualfiafi fottuta cosa ma dilla! DILLA!»

Sorrise. Con tutta la calma del mondo, srotolò la propria coda dal corpo del nemico, si mozzò a malincuore le due bisce dal capo e, semplicemente, indietreggiò.

A vedersi liberato, il rosso la fissò allibito, sembrava la faccia di Phentesilea quando le aveva sentito bestemmiare il nome di Medusa dentro il tempio di Quetzalcoatl; si rimise in piedi, ma -anziché porgere attenzione a dove aveva i piedi- rimase incantato a guardarla stranito, confuso, pure un po’ gongolante: forse aveva deciso di arrendersi, forse aveva ceduto al suo charme, forse voleva tradire la sua regina e passare al lato oscuro!

Come risposta, Myrica alzò il dito medio.

«Fottiti».

 

Poi l’intero crostone roccioso sul quale si trovava Phobos collassò nella lava, trascinandolo giù nel magma incandescente insieme a migliaia di metri cubi di terra e pietre e alberi.

 

Incuriosita, strisciò sul bordo dello strapiombo per vederlo morire. Una timida quanto silenziosa Emily Jane la imitò.

Entrambe, però, ricevettero un’amara sorpresa: quando il suo corpo fu a pochi metri dalla morte fatta lava, una fiammata nerastra avvolse il rosso come un mantello d’oscurità, facendolo svanire nel nulla più assoluto.

A quella vista, la Pitchiner sbiancò.

«Tornerà per uccidermi» fu tutto ciò che si trovò in grado di mormorare, gli occhi sbarrati e la bocca secca che si rifiutava di mandare giù la saliva «tornerà per me, sì, e allora-»

Non fece in tempo a finire, che tentacoli di fuoco nero spuntarono dalla foresta e le si avvolsero intorno alle caviglie, trascinandola a terra; istintivamente, Myricae si gettò verso di lei, tendendole le mani perché non venisse trascinata nel folto degli alberi. Non seppe dirsi perché lo fece, non considerando che quella era la stessa donna che aveva fatto torturare sua madre e fatto del male alla sua partner e messo in piedi quel gran casino, ma mise a tacere il proprio buonsenso pensando che -in una situazione del genere, rivalità o meno- Harmonia avrebbe fatto la stessa identica cosa.

Per avere maggiore presa, si ancorò con la coda a una roccia sporgente.

«Non lasciare le mie mani! Non lasciarle andare o sei fottutamente morta, chiaro?!» gridò alla figlia dell’Uomo Nero, fin troppo consapevole di chi ci fosse dietro a quel teatrino. Strinse le spire attorno al masso, a mo’ di carrucola «Adesso inizio a tirare, va bene? Mi hai capita?»

«Non mollarmi! Non mollarmi! Ti prego! Ti scongiuro! Ti supplico!»

«Io non ti mollo sicuro, ma collabora anche tu, per gli dei! Dammi una mano e- PER LA FOTTUTA MUTA INVERNALE DI NAEVIA CHE RIEMPIE IL CASTELLO DI PELI, INTENDEVO METAFORICAMENTE! METAFORICAMENTE!» strillò tanto adirata quanto basita vedendo che Emily -forse presa dal panico, forse semplicemente rincoglionita- aveva mollato una mano per porgergliela, salvo quest’ultima venire afferrata dai tentacoli infuocati. Basita, tirò fuori il piano “b”, aggiungendo alla presa delle dita con quella dei suoi serpenti «E questi vedi di non mollarli!» precisò.

Ma un conto era dirlo, un altro farlo: per ogni centimetro faticosamente guadagnato, allora Phobos -seppur indirettamente presente- ne guadagnava cinque, dieci, trenta, cinquanta, un metro e così via, fino a quando la coda dell’Ophidian non iniziò a cedere e srotolarsi piano piano dalla roccia.

Lo notarono entrambe, ma -se la naga finse di non farci caso e continuò a fare ciò che stava facendo, diventando paonazza in viso per il tremendo sforzo- fu la Pitchiner a prendere in mano la situazione… letteralmente.

«Myricae» la chiamò, atona.

«Cosa c’è? Sarei un attimo impegnata a cercare di non morire, come vedi».

«Sei davvero fortunata ad avere Harmonia» le sorrise «Tienitela stretta, mi raccomando».

Mollò la presa. Svanì.

Il rinculo per quella tremenda forza improvvisamente dileguatasi fece ruzzolare via la naga, spingendola fin sul ciglio del baratro che si apriva sul lago di lava. Per sua fortuna, un massiccio tronco venne in suo soccorso, fermandola prima che ci cascasse dentro.

Stesa con le braccia larghe e la coda penzoloni, stremata, indolenzita al punto da non avere nemmeno più la forza necessaria per pensare, Myricae impiegò svariati minuti per realizzare cosa diavolo fosse accaduto negli ultimi minuti; spaesata e confusa, si guardò intorno: non c’era più nessuno, su quell’altura, solo lei e un profondo, rilassante, solenne silenzio.

Era finita? Era finita veramente, questa volta?

Una farfalla le si posò sul naso, scrollandosi la cenere dalle fragili ali diafane; alzando gli occhi per guardarla, la risposta venne da sé: il cielo limpido, le nuvole bianche timidamente tinte dai colori del tramonto, l’aria pura che profumava di frutti esotici, una brezza fresca ma piacevole che donava sollievo alla pelle martoriata dalle ferite, la calda luce dei Soli che si rifletteva sulla muraglia di legno opalizzato, avvolgendo in una gabbia di arcobaleni l’intera città. Già, la città: in una giornata appena, su di essa si erano scatenati eventi naturali tremendi come meteoriti, terremoti, inondazioni, incendi, tornado, mostri vari, piante assassine e faglie che l’Abisso al confronto era solo una buca scavata con la paletta da un bambino in spiaggia, ma a vederla pareva che nulla di tutto ciò l’avesse mai sfiorata.

Forse il terreno intorno a Quetzalli somigliava più a una forma di Emmental bruciacchiata che ad una pianura lussureggiante, forse la stragrande maggioranza dei vulcani era stata letteralmente ridotta in polvere, forse il Tauremorna era stato quasi completamente raso al suolo perché gli Aldar salvassero la città dalla lava, ma gli harem erano intatti, e così chiunque vi abitasse. C’erano stati danni ed erano stati danni tremendi, vero, ma -con tanta pazienza e dedizione- il terreno si sarebbe sempre potuto bonificare, mentre nulla al mondo avrebbe ridato una figlia a una madre, una moglie a una vedova, un passato a chi non ne aveva più uno. Fortunatamente, quello non era il caso.

Sorrise: sì, era decisamente finita, ed era finita bene.

Con quella consapevolezza ben chiara nella mente e le membra che imploravano pietà, decise di concedersi del meritato riposo… salvo venire disturbata da un qualcosa di vagamente appuntito che le punse la schiena. Istintivamente, scattò sui gomiti.

Sedutasi, si girò per controllare cosa diavolo fosse: un sassolino, a quanto sembrava.

Nel momento in cui lo prese fra le dita per osservarlo, però, quella pietruzza le parve più un pezzo di carbone, un frammento di brace scuro ancora caldo e fumante attraversato da venature smeraldine a dir poco microscopiche. Non si sorprese: con tutti gli alberi andati a fuoco in quella giornata, trovare dei rimasugli della grigliata organizzata Phobos per il week-end non sarebbe certo stato un fenomeno paranormale per il quale convocare Manny in persona!

Stava per gettarlo, quando notò che il colore di quel tizzone bollente stesse cambiando proprio sul suo palmo della sua mano, davanti ai suoi occhi increduli: da nero che era, prima divenne grigiastro, poi color avorio, infine bianco immacolato, come se fosse stato malamente pitturato e la tempera si stesse sciogliendo per il calore.

Lo guardò qualche istante, perplessa, poi recuperò la saccoccia, ce lo infilò dentro e si assicurò che non uscisse fra una maglia e l’altra: “Meglio farlo vedere ad Harmonia”, pensò.

Non senza una certa fatica, si alzò; dopo qualche istante per trovare l’equilibrio, diede una vigorosa pacca al borsello.

«E allora andiamo a farglielo vedere».

 

 

 

_______________________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

… Questo capitolo avrebbe dovuto essere quello conclusivo della “saga” di Quetzalli, ma di conclusivo non c’è un bel niente, dal momento che c’è stato l’ennesimo taglio in due capitoli che altrimenti sarebbero venuti lunghi quanto e più della lingua velenosa di Phobos, mi scuso se la sto davvero tirando per le lunghissime ma il dono della sintesi non l’ho mai avuto :’D ma almeno si scoprono altarini lunari su altarini lunari :D

Comunque ecco, sono accadute un bel po’ di cose e spero che le varie sequenze non risultino confusionarie, nel caso abbiate bisogno di delucidazioni chiedete pure senza problemi :)

Intanto, vi lascio la traduzione della canzone che ho inserito, ovvero “The Last March Of The Ents” da “Il Signore degli Anelli”.

 


DAL TESTO

“Rithannen i geven
Thangen i harn
Na fennas i daur!”

“Ôl dûr ristannen
Eryn echuiannen
I ngelaidh dagrar!”

“Ristar thynd, cúa tawar
Dambedir enyd i ganed!
Si linna i waew trin ylf
isto i dur i chuiyl!
I ngelaidh dagrar!”

 

TRADUZIONE

“Earth shakes
Stone breaks
The forest is at your door!”

The dark sleep is broken
The woods have awoken
The trees have gone to war!”

“Roots rend, wood bends
The Ents have answered the call!
Through branches now the wind sings
Feel the power of living things!
The trees have gone to war!”


Oh, se qualcuno non sa cosa sia il legno opalizzato vi lascio qualche foto per rendere l’idea :)

Alla prossima!


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