Febbraio 1946,
Londra
Quando
aprì gli occhi, Francis si
accorse immediatamente di due cose: la prima era che il sole filtrava
prepotentemente tra le spesse pieghe della tenda che copriva la
finestra,
fendendo l’aria e cadendo esattamente dov’erano i
suoi occhi, accecandolo; la
seconda fu la voce soave di un uomo che cantava una lenta e dolce
melodia
dall’altra parte della casa, seguita dallo sgradevole odore
di cibo bruciato
che si insinuava in ogni anfratto dell’appartamento come un
parassita.
Francis si
passò una mano sugli occhi
ancora pesanti dal sonno mentre si metteva lentamente seduto sul letto.
I suoi
capelli erano un disastro, come ogni mattina, e cadevano in ciocche
arruffate
sul volto e sulle spalle. Liberatosi finalmente dalla luce traditrice,
il
francese si stiracchiò allungando le braccia sulla testa e
sbadigliando. La
camicia da notte che portava cadde morbida dalle sue braccia
scoprendole,
rivelando anche l’avambraccio numerato.
Svegliarsi
presto stava cominciando a
diventare sempre più difficile con il passare del tempo,
soprattutto se durante
la sera e la notte era costretto a partecipare ad eventi di vita
mondana con
Arthur. Nonostante il suo odio spropositato per la movida inglese,
Arthur era
ancora l’ultimo erede della prestigiosa famiglia Kirkland, e
aveva degli
obblighi da rispettare.
Poggiando i
piedi nudi sulla moquette
morbida, Francis si alzò dal letto e, grattandosi la nuca
ancora assonnato, si
diresse verso la cucina, la fonte dell’odore disgustoso che
appestava l’aria.
Come aveva immaginato, nella cucina c’era Arthur che
canticchiava la sua
adorata ninna nanna mentre cucinava, o torturava, qualcosa sui
fornelli. Francis
si fermò sulla soglia della porta ad osservare la scena, per
poi appoggiarsi allo
stipite con la spalla e la testa, sorridendo.
I suoi occhi vagarono su tutta la figura bassa e snella del britannico,
sul suo
collo roseo e scoperto, sulle spalle strette e gentili, sui fianchi che
sostenevano i lacci legati del grembiule, sul suo fondoschiena piccolo
e sodo,
morbido, che combaciava perfettamente con le grosse mani del francese.
Arthur non si
accorse della presenza
del francese finché, abbassandosi per aprire il forno e
prendere la teglia di
scones carbonizzati, non si bruciò un dito nonostante le
presine. Subito il
ragazzo iniziò a imprecare nella sua lingua natia una serie
incalcolabile di
nomi, oggetti ed esclamazioni strane, finché la risata di
Francis non lo fece
girare verso la porta.
“Cosa
diavolo ridi, stupida rana?”
Urlò mentre il suo volto diventava rosso per
l’imbarazzo.
Francis, che
intanto aveva dato
un’occhiata più approfondita al suo fondoschiena,
continuò a ridere di gusto.
Arthur era sempre stato negato per la cucina fin da quando si erano
conosciuti
anni addietro, quando Francis era soltanto un orfano affamato
introdotto nella
ricchissima famiglia Kirkland. Aveva più volte cercato di
insegnargli almeno i
concetti base di come usare i fornelli, ma era stato tutto inutile.
Spostandosi dallo stipite della porta, il francese si
avvicinò lentamente ad
Arthur e gli prese la mano baciando il dito scottato e facendogli
l’occhiolino.
Il britannico arrossì vistosamente e poi distolse lo sguardo
con un leggero
cipiglio e un borbottio incomprendibile.
“Devi
stare più attento, mon ami!”
“T-taci!
Non solo mi sono svegliato
presto per cercare di cucinarti la colazione, devo essere anche preso
in giro
così!”
Francis
sbatté varie volte le ciglia
stupito: se Arthur diceva di essersi svegliato presto, e già
di per sé si
svegliava presto, ciò significava che quella teglia di
biscotti deformi non era
stata la prima aberrazione che era uscita da quel forno quella mattina.
Un
brivido lo scosse lungo tutta la schiena al pensiero di quanti
ingredienti
preziosi erano stati sacrificati nelle mani dell’inglese.
“Merci,
mon ami, io apprezzo sempre
quello che fai per me!” Canticchiò mentre spingeva
l’altro verso una sedia del
tavolo “Ma è mattina inoltrata e io ho fame. Ora
da bravo rimani qui seduto e
aspetta che cucini qualcosa di buono… o per lo meno
commestibile…”
Arthur
cercò di fare resistenza mentre
la sua bocca sciorinava una serie di imprecazioni da vero londinese,
infine si
arrese e si sedette togliendosi il grembiule da cucina e lanciandolo
contro
Francis, che lo prese al volo.
“Su
su, tesoro, non essere così
arrabbiato! Piuttosto, cosa vorresti per colazione?”
Legandosi il
grembiule dietro la
schiena, Francis iniziò a recuperare tegami e altri
strumenti da cucina.
Sorrise quando vide il cestino, che di solito Arthur usava per fare la
spesa,
contenere uova, farina e latte fresco. In realtà il francese
non aveva mai
capito come il suo compagno riuscisse a procurarsi quei beni alimentari
quasi
di lusso mentre il resto della popolazione era affamata e per strada
tra le
macerie.
Un pensiero che per ora non era molto importante.
“I
miei scones, per favore!” Rispose
con veleno l’altro biondo da dietro le sue spalle.
Francis
lanciò un’occhiata alla teglia
ancora fumante con sopra i biscotti quasi carbonizzati. Scosse la testa
in
disapprovazione e iniziò a riunire degli ingredienti in una
ciotola,
amalgamandoli con una frusta.
“Mon
dieu, non vorrai davvero mangiare
quella roba tutta bruciacchiata? Non vorresti invece una bella crepe
con un po’
di thè?”
Arthur rispose
con un verso frustato,
rimanendo il silenzio per il resto del tempo. Francis sorrise sotto i
baffi, il
suo amico era così orgoglioso da non voler ammettere che
preferiva il cibo
francese piuttosto che i suoi biscotti cotti male inglesi.
Fischiettando, il biondo mischiò per bene gli ingredienti
nella ciotola
roteando la frusta velocemente e con decisione, la manica della camicia
da
notte che rivelava i numeri sull’avambraccio a ogni colpo di
frusta. Francis
sentiva lo sguardo di Arthur forargli la schiena, ma non disse nulla.
Prendendo una
padella e mettendola sul
fuoco, in poco tempo riempì un piatto di fumanti e deliziose
crepes dall’odore
invitante. Mentre aspettava che l’ultimo crepe si cuocesse
nella padella, prese
la teglia ormai fredda e la svuotò in un sacchetto di carta.
Da dietro le sue
spalle Arthur esclamò la sua disapprovazione.
“Non
voglio sprecarli, conosco molte
persone che li apprezzeranno nonostante siano così
bruciati”
“Ma io
li ho fatti per te!”
“Lo
so, mon ami, ma sai anche che non
li mangerò!”
Non era per
cattiveria, ma da quando
era tornato in Inghilterra vari mesi prima, Francis aveva giurato a
sé stesso
di non mangiare più alcun cibo se non fosse stato della
cucina francese e
cucinato da lui. Gli dispiaceva offendere in quel modo il suo adorato
compagno,
ma purtroppo il suo fisico non si era ancora ripreso dagli abusi subiti
durante
la sua prigionia nonostante fosse trascorso più di un anno
dalla sua
liberazione, e intendeva mangiare in modo salutare per cercare di
salvare il
salvabile. I medici che lo avevano visitato gli avevano assicurato che
si
sarebbe rimesso in sesto presto, ma Francis sentiva il suo fisico, e
soprattutto la sua mente, compromessi per sempre.
Un pugno sul tavolo lo riportò alla realtà.
“Stupida
rana! Crepa! Sparisci dalla
mia vista!”
Francis rise di
gusto a quelle parole.
Da quando era stato accolto nella casa della famiglia Kirkland, Arthur
aveva
sempre avuto il vizio di inveire contro di lui quando qualcosa non era
di suo
gradimento, o semplicemente quando era arrabbiato o nervoso. Di solito
Francis
portava il conto delle volte che Arthur gli diceva quella frase per il
semplice
gusto far infuriare maggiormente il suo compagno, che trovava
semplicemente
adorabile in quello stato. Questo era un gioco che facevano prima che
lui
partisse per il fronte, ma da quando era tornato Arthur non glie
l’aveva ancora
mai detta.
Con un rapido
colpo di spatola, il
francese girò la pastella sul fuoco e stava per rispondere
ad Arthur iniziando
il conto degli insulti, quando due braccia gli strinsero il busto da
dietro.
Arthur premette il petto contro la sua schiena, poggiando la fronte
sulla
spalla del ragazzo, che sorpreso da quel gesto posò la
spatola sulla cucina.
“No….
Ti prego, non farlo…”
“A-Arthur?”
Il rumore di
alcuni singhiozzi arrivò
alle orecchie del francese. Dietro la sua schiena Arthur strofinava il
suo
volto sulla sua spalla, bagnandola di lacrime.
“Non
voglio che tu… che tu muoia, o… o
che te ne vada… Non voglio rimanere solo… di
nuovo”
Francis strinse
le labbra mentre i
suoi occhi si inumidivano e il suo cuore si stringeva per il dolore. Se
per lui
quegli anni erano stati difficili, per Arthur, che non sapeva dove si
trovasse
e se fosse ancora vivo, lo erano stati altrettanto.
Girò su sé stesso senza rompere
l’abbraccio e strinse il britannico al suo
petto accarezzandogli con una mano la schiena mentre con
l’altra i capelli.
“Tranquillo
Arthur, tesoro… non vado
da nessuna parte. Io non ti lascerò mai più, te
lo prometto!”
A quelle parole
Arthur strinse ancor
più il corpo del francese e gemette nel pianto. Francis gli
prese il mento con
la mano e gli alzò il volto per guardarlo negli occhi. Lo
sguardo di Arthur era
bagnato e carico di dolore, i bordi degli occhi e le guance rossi
mentre le
lacrime scendevano copiose.
Francis rimase incantato dalla sua bellezza.
“Arthur”
Sussurrò, poi chiuse le
distanze tra di loro.
Le labbra di Arthur erano morbide e sottili, mentre quelle di Francis
screpolate e carnose. Il francese diede un piccolo morso a quelle
labbra così
invitanti, poi approfondì il bacio chiedendo il permesso di
poter esplorare la
bocca dell’altro con la sua lingua, permesso subito
accordato. Arthur si chinò
leggermente all’indietro spinto dalla forza gentile ma decisa
del bacio, mentre
il suo corpo si spostò per combaciare perfettamente a quello
del suo compagno e
le braccia si strinsero attorno al suo collo.
La stanza si
riempì velocemente
dell’odore pungente di cibo bruciato, ma la coppia
sembrò non farci caso
tant’era concentrata nel baciarsi.
Francis non riuscì a resistere e fece scivolare le sue mani
dalla vita
dell’inglese fin sul fondoschiena che strinse forte,
facendolo gemere per la
sorpresa e rompendo il bacio.
Il francese sorrise e appoggiò la fronte sulla sua.
“Non
esiste nulla al mondo che possa allontanarmi
di nuovo da te! Soltanto la morte forse, e dovrà combattere
molto… sono un osso
duro, sai?” Fece l’occhiolino.
Arthur sorrise
mentre un’ultima
lacrima scivolava sulla guancia, poi annuì di rimando e si
alzò in punta di
piedi per iniziare un altro appassionato bacio.
Maggio 1950, San
Pietroburgo
Toris si
passò la manica del giubbotto
sulla fronte mentre camminava per le strade trafficate della grande
città
russa. Il sole picchiava senza tregua sui palazzi e sulle strade
illuminando e
scaldando tutti i pedoni che frettolosamente camminavano ovunque
intorno a lui,
guardandolo con vivo stupore e con una punta di giudizio.
Il ragazzo lituano camminava a passo svelto coperto da un lungo
cappotto e una
sciarpa, decisamente troppo pesanti per quella stagione, madido di
sudore e con
un grosso sacchetto della spesa tra le braccia. Cercò di
ignorare le lunghe
occhiatacce che la gente gli lanciava mentre cercava di allargare la
sciarpa
quel tanto che bastava per non farla aderire alla pelle del collo e
quindi
farlo sudare ulteriormente. Almeno aveva avuto la decenza di legare i
capelli
con un nastro, anche se sulla fronte e vicino le orecchie erano tutti
bagnati.
Schivando i vari
veicoli che ronzavano
ovunque con il loro rumore assordante, finalmente riuscì ad
arrivare al portone
del palazzo dove condivideva un appartamento con il suo compagno Ivan.
Dopo essere stato salvato dal campo di concentramento, Toris era stato
oggetto
di una corte quasi da romanzo rosa da parte del soldato russo che in
quella
fatidica notte era saltato fuori dal carro armato come una inaspettata
quanto
bellissima sorpresa. Inizialmente Toris non gli diede molto credito,
guidato
anche Feliks e i suoi amici che non vedevano di buon occhi Ivan, ma a
lungo
andare cedette al corteggiamento, trasferendosi in Russia con lui.
Girando la
chiave nella grossa
serratura del portone, Toris fu colpito da una folata d’aria
fredda proveniente
dalla tromba delle scale appena aprì l’anta.
Girava sempre una piacevole aria
fresca nel grande atrio del condominio, che d’estate
rinfrescava e d’inverno
invece scaldava quel tanto che bastava per ritrovare la
sensibilità alle dita
degli arti.
Il loro appartamento si trovava al terzo piano, dopo una scalinata
degna di
qualunque scalata su di una montagna. Dopo aver salito quelle rampe di
scale
Toris aveva sempre il fiato corto, soprattutto se portava altri pesi
con sé
come il sacchetto della spesa. Gli altri coinquilini russi, tra cui
anche Ivan,
non sembravano soffrire della cosa.
Arrivato sul
pianerottolo davanti il
portone, Toris esitò qualche istante prima di infilare la
chiave nella
serratura e girare la maniglia. Si diede quasi dello sciocco per
quell’attimo
di incertezza, cercando di reprimere un lieve senso di paura che stava
crescendo dal suo interno.
La sua vita in Russia era tranquilla e appagante, Ivan gli voleva bene,
non
avevano problemi economici gravi.
Non aveva nulla da temere.
Eppure, quando
l’odore pungente della
vodka lo assalì dopo aver aperto la porta, Toris
sentì lo stomaco chiudersi dal
terrore e una sgradevole sensazione, che provava ogni volta che sentiva
l’odore
o alla vista della vodka, pesare sulla sua pelle.
“No,
ti prego no… non di nuovo” Pensò
mentre entrava lentamente e guardingo nella sala d’ingresso.
L’odore
della vodka proveniva in
cucina dove una radio suonava una melodia piuttosto ritmata russa,
seguita dal rumore
dello sfrigolare di una padella. Toris raggiunse la cucina stringendo
forte il
sacchetto tra le sue braccia e cercando di non fare alcun rumore nella
speranza
di non essere scoperto.
Ivan era seduto
al tavolo intento a
leggere un quotidiano russo mentre ascoltava rilassato la radio, sulla
cucina qualcosa
aromatizzato alla vodka cuoceva nella padella. Appena Toris vide Ivan
leggere
il giornale con il suo solito sorriso ingenuo sul volto tutta la sua
tensione
si sciolse all’istante, seguita dal nodo allo stomaco.
Ritrovando una certa
serenità, entrò nella cucina salutando
allegramente il russo che intanto balzò
sulla sedia spaventato dall’improvvisa voce.
“T-Toris!
Non ti ho sentito arrivare!”
Esclamò mentre il suo sorriso si allargava in volto,
appoggiando il giornale
aperto sul tavolo.
“Sono
stato piuttosto bravo a non
farmi sentire, vero? Potrei lavorare come spia!”
Il ragazzo bruno
posò il sacchetto sul
tavolo mentre Ivan rispondeva positivamente e si alzava per salutarlo
con un
bacio sulla guancia. Appena le sue labbra toccarono la pelle sudata, il
russo
si accorse dell’abbigliamento e dello stato del suo compagno.
“Toris,
perché indossi ancora questi
vestiti pesanti? Sei un bagno di sudore. Pensavo che ti fossi abituato
ormai al
clima russo e che riconoscessi il cambio delle stagioni”
Cerco di afferrare la
sciarpa per tirarla via ma Toris scostò la mano e con delle
scuse si allontanò
da lui.
“Non
preoccuparti tesoro, avevo freddo
stamattina quand’ero uscito e il cambiamento del tempo mi ha
sorpreso, tutto
qui. E poi anche tu porti una sciarpa, non dovresti
criticarmi” Disse mentre si
avviava verso il bagno inseguito dai borbottii di Ivan, che era stato
preso in
contropiede “Vado a farmi una doccia, potresti sistemare la
spesa? Ho comprato
tutto il necessario per cucinare i pirozhki!”
Un’esclamazione
euforica e il
frusciare della busta di carta furono le ultime cose che
sentì prima di
chiudere la porta del bagno.
Toris sospirò e iniziò a slegarsi i capelli e
spogliarsi da quei pesanti
vestiti impregnati di sudore. Mentre i panni scivolavano a terra la sua
pelle
rivelava il motivo per cui il ragazzo insisteva a coprirsi tanto anche
se era
iniziata la stagione calda: lividi ovunque, grandi, piccoli, lunghi e
viola,
oppure maturati e sbiaditi, accompagnati da tagli freschi, in via di
guarigioni
e cicatrici piccole e lunghe.
Soprattutto saltava all’occhio un grosso livido sul collo che
aveva la forma di
due paia di mani che si allargavano dalla base fino sotto il pomo
d’Adamo, d’un
viola molto acceso, ultimo ricordo di una nottata d’incubo.
Toris
finì di spogliarsi e guardò la
sua immagine riflessa nel piccolo specchio appeso sopra il lavandino.
Con un
dito toccò il grosso livido sul collo e seguì il
contorno fino ad arrivare al
muscolo trapezio, l’incavo tra il collo e la spalla, mentre
la sua mente
tornava indietro ad alcune notti precedenti e il suo sguardo si faceva
triste.
Dopo essere
stato liberato dalla
prigionia, pur avendo affrontato un lungo periodo di convalescenza sia
in
Lituania sia in Russia con Ivan, Toris non era ancora riuscito a
liberarsi del
ricordo degli orrori del campo di concentramento, e soprattutto dei
traumi che
ne sono derivati.
Incubi notturni, panico nei luoghi affollati, la persistente sensazione
di
essere osservato e inseguito ovunque, la paura di essere catturato
nuovamente e
imprigionato in un altro di quei campi infernali, questi erano alcuni
dei
problemi che Toris doveva giornalmente affrontare.
Il ragazzo aveva cercato di nascondere i suoi traumi al suo compagno
per non
creargli problemi, ma era fermamente convinto che Ivan avesse intuito
qualcosa
e cercasse in modo discreto di aiutarlo. In effetti il ragazzo russo
era sempre
stato molto premuroso con lui e quando aveva qualsiasi tipo di problema
era
sempre al suo fianco per aiutarlo.
Purtroppo, anche
Ivan soffriva di
traumi dovuti alla guerra.
Si agitava quando sentiva rumori forti che potevano ricordare cannonate
o lo
scoppio di mine e granate; aveva un’ossessione nel accertarsi
della provenienza
della carne che acquistava, a volte pretendendo addirittura di vedere
il
macellaio all’opera sull’animale; spesso soffriva
d’ansia che lo portava a
vagare in casa come se attendesse qualche evento catastrofico da un
momento
all’altro; aveva sviluppato anche una mania compulsiva di
accumulare il cibo in
una vecchia valigia sotto il suo letto, nel caso dovesse succedere
qualsiasi
cosa, diceva.
Ma il trauma più grave di cui soffriva erano le
allucinazioni.
Di giorno queste allucinazioni si limitavano ad essere soltanto sonore,
dove
Ivan sentiva i rumori di un combattimento in atto o le grida dei nemici
morenti, mentre di notte esse diventavano più forti e
aggressive, spesso
accompagnate da visioni.
Nonostante Ivan
fosse stato fin da
subito sincero circa i suoi problemi con Toris, il russo non aveva mai
accennato alle sue allucinazioni, sicuramente nel tentativo di
proteggerlo e
per non allarmarlo, ma dopo poco tempo il lituano lo venne a scoprire,
e nel
peggiore dei modi.
Per tentare di fermare le allucinazioni che lo facevano cadere in
fortissimi
stati depressivi, Ivan aveva cominciato a bere per cercare di stordire
la sua
mente. Spesso il metodo funzionava e Toris trovava il suo povero
compagno
accasciato sul tavolo mentre piangeva e mormorava parole incoerenti, la
bottiglia di vodka vuota accanto a un bicchiere rovesciato su un
fianco. In
quelle situazioni Toris cercava di tranquillizzare il russo con carezze
e
paroline dolci, poi lo aiutava a raggiungere il letto, dove
quest’ultimo cadeva
in un sonno profondo.
Altre volte invece, Ivan non era così fortunato da placare
le sue
allucinazioni, anzi l’alcol le amplificava rendendolo
violento.
In quelle situazioni Toris aveva due scelte: nascondersi e aspettare
che il suo
compagno cadesse incosciente, sperando che nel frattempo non cercasse
di
ferirsi o addirittura uccidersi; oppure affrontare Ivan nel tentativo
di
tranquillizzarlo.
Toris sceglieva sempre la seconda.
Di solito il
tutto finiva nell’arco di
una diecina di minuti da quando Toris andava da Ivan per cercare di
placarlo,
arco di tempo in cui Ivan rompeva qualsiasi cosa gli finisse sotto
tiro,
lanciava piatti e bottiglie urlando frasi ingiuriose contro Toris, che
veniva
visto come il nemico, cercando di colpirlo con calci e pugni.
Passati quei minuti infernali, l’adrenalina di Ivan finiva
lasciando il posto
alla fatica e l’enorme ragazzo russo si accasciava su
sé stesso esausto,
riacquistando gradualmente la sua lucidità.
Toris era
particolarmente bravo a
schivare i colpi del compagno e a sgusciare dalle sue prese, ottenendo
a volte
qualche ferita dovuta dalla ceramica o dai vetri rotti, oppure qualche
livido
qua e là sulle braccia e sul torace. Durante il periodo
della resistenza contro
l’occupazione tedesca era stato addestrato anche al
combattimento corpo a
corpo, così in quei particolari momenti poteva applicare le
sue conoscenze sia
per non farsi male sia per non fare male ad Ivan.
Sfortunatamente,
due notti prima non
era riuscito ad evitare un pugno allo stomaco e, mentre si accasciava
per il
dolore, Ivan gli aveva messo le mani al collo per cercare di
strangolarlo.
Toris ne era uscito con solo un grosso livido perché era
riuscito a fermare il
russo sferrandogli un forte colpo al pomo d’Adamo,
soffocandolo momentaneamente
e indebolendolo a tal punto da liberarsi. Quella fu la prima notte che
scelse
anche la prima possibilità, ovvero quella di nascondersi.
Incredibilmente,
le mattine dopo
quelle nottate d’inferno il russo non ricordava nulla. La
sbronza non sembrava
avere alcun effetto su di lui, che si svegliava di buonora, riposato e
tranquillo. Toris cercava di nascondere ogni prova di quei momenti
tragici,
buttando i cocci rotti e pulendo tutto, attribuendo il caos generale ai
ladri
che in quegli anni frequentemente rubavano in casa e nascondendo i
lividi e i
tagli ai suoi occhi.
Ivan sembrava crederci ogni volta, dimostrando
un’ingenuità quasi disarmate, e
si comportava nuovamente in modo affettuoso come se non fosse mai
successo
nulla.
“Sono
stato io a farteli, non è vero?”
Toris
saltò sul posto nel sentire la
voce di Ivan che proveniva dalla porta socchiusa. Immediatamente
cercò di
coprirsi non la virilità ma i lividi sul corpo, girandosi
verso la fonte,
spaventato.
La porta era stata aperta quel tanto che bastava per permettere a Ivan
di
guardare all’interno del bagno. Metà del suo volto
era nascosto dal legno
laccato di bianco, mentre l’altra metà presentava
uno sguardo spento e
addolorato, il suo sorriso era stato sostituito una smorfia triste.
Toris rimase a
bocca aperta mentre
sosteneva lo sguardo di Ivan, che intanto vagava su ogni segno non
nascosto
dalle braccia, fermandosi infine sul collo. Cercò di dire
qualcosa ma un nodo
in gola non gli permise di continuare.
Come faceva a sapere che quei lividi erano colpa sua?
Toris era certo di non aver rivelato nulla di tutto ciò e di
aver nascosto bene
le prove.
Vedendolo in
difficoltà, Ivan sospirò
e aprì la porta per entrare nel bagno. Toris non
accennò a muoversi né ad
indietreggiare mentre Ivan socchiudeva la porta e lo raggiungeva, non
perché
terrorizzato ma perché si fidava ciecamente del suo compagno.
Raggiunto il ragazzo lituano, Ivan cedette a un moto
d’affetto e lo abbracciò
stringendolo a sé mentre si curvava per premere il volto tra
l’incavo del suo
collo. Toris si ritrovò premuto contro il petto largo del
suo compagno, che lo
sovrastava di parecchi centimetri.
Ancora cercando
di capire cosa stesse
succedendo, un singhiozzo attirò la sua attenzione. Il corpo
di Ivan iniziò a
tremare mentre sentiva il suo naso tirare su un paio di volte.
“Ivan..?”
“E’…
è arrivata una lettera da Feliks.
Io, io l’ho letta. Ero curioso di sapere cosa…
cosa vi dicevate, un po' geloso
anche… e...” La voce gli morì in gola
mentre veniva scosso da altri singhiozzi.
Toris
ricambiò l’abbraccio poggiando
la testa sul suo torace, stringendo i denti.
L’amicizia con Feliks era durata anche al di fuori del campo
di concentramento
tramite scambio epistolare, e occasionalmente Toris e Ivan passavano
qualche
settimana in vacanza nella tenuta Lukasiewicz.
Mentre con gli altri detenuti i rapporti erano
stati interrotti dai contrasti sorti dopo la guerra circa la
spartizione dei
territori alle nazioni vincitrici, di fatto allontanando sempre
più l’Europa
dell’Est dal resto dell’Europa e
dell’America, i rapporti con Feliks rimasero
saldi e forti. I due sopravvissuti si consideravano quasi come
fratelli, e Feliks
si arrogava il diritto di trattare Toris come un fratello minore
dandogli
consigli e criticando o approvando le sue idee.
Spesso Feliks finiva le sue lunghe lettere, quasi interamente
incentrate sui
suoi cavalli, con una filippica che cercava di persuadere il lituano a
lasciare
Ivan e a trasferirsi da lui. Egli sapeva dei problemi di Ivan e delle
violenze
che compiva su Toris, lui glie ne aveva parlato, e cercava in ogni modo
di
proteggere il suo amico convincendolo a sottrarsi da
quell’amore malato. Toris
però non considerava il loro rapporto malato, anzi.
Mentre con una
mano iniziava ad
accarezzare la schiena, con l’altra scompigliava i capelli
chiari del suo
compagno, nel tentativo di tranquillizzarlo.
“Da
quanto tempo?” Chiese Ivan quando
riuscì a calmarsi quel tanto che bastava per poter
ricominciare a parlare “Da
quanto tempo va avanti questa storia?”
“Alcuni
anni” Si limitò a rispondere
Toris.
Ivan trattenne
il respiro mentre la
sua presa si stringeva ulteriormente sul corpo di fronte. Toris
sentì il suo
cuore stringersi potendo solo immaginare come stava soffrendo in quel
momento
il suo compagno.
Rimasero in quella posizione, abbracciati l’un
l’altro, con Ivan che respirava
forte per cercare di calmarsi e Toris che lo accarezzava per
tranquillizzarlo,
per diverso tempo, finché il russo non prese improvvisamente
la parola.
“Sono
un mostro…” Sussurrò “Tu
meriti
di meglio…”
Toris
sgranò gli occhi mentre le
parole del russo riecheggiavano nelle sue orecchie.
Non aveva davvero detto quelle parole, vero?
Sentì la presa su di sé lentamente sciogliersi e
l’aria fredda del bagno
insinuarsi sul suo torace ancora caldo dal contatto fisico con
l’altro.
Ivan lo stava liberando dal suo abbraccio. Lui lo stava lasciando.
Toris
alzò lo sguardo incredulo verso
il volto dell’altro mentre la sua presa si stringeva con
forza per non
lasciarlo andare, ma il ragazzo dai capelli chiari cercò in
ogni modo di non
incrociare il suo sguardo, guardando ovunque tranne che verso di lui.
“Cosa
stai dicendo?” Sussurrò
incredulo.
Ivan
abbassò lo sguardo a terra
mordendosi un labbro mentre le sue braccia cadevano lungo i fianchi,
inermi e
stanche.
Non ci fu risposta, ma Toris non ne voleva alcuna.
Serrando le sue braccia intorno al corpo più grande,
premette il volto contro
il petto di Ivan e non accennò a lasciarlo andare.
Il russo sospirò e cercò gentilmente di
allontanarlo spingendolo dalle spalle,
ma la sua presa era così inaspettatamente forte che non
cedette di un
millimetro.
“Toris”
Sbuffò infine “Io-“
“Se
avessi voluto…” Lo interruppe il
lituano con la sua voce ovattata dal suo maglione “Se avessi
voluto lasciarti,
l’avrei fatto molto tempo fa. L’avrei fatto la
prima volta che sono stato
testimone dei tuoi problemi, o la prima volta che i miei compagni
d’arme mi
incitarono a farlo, o quando Feliks mi chiedeva disperatamente di
trasferirmi
da lui”
Mentre parlava,
la sua testa si
sollevò dal petto del russo e lo sguardo cercò il
suo incredulo e ancora
addolorato.
“Ma io
non l’ho fatto, semplicemente
perché non volevo farlo, anche se ho avuto moltissime
occasioni. Io volevo
stare al tuo fianco e voglio starci ancora, qualsiasi cosa succeda,
perché so
che mi ami e so che quella persona violenta che mi procura tutti questi
lividi
non sei tu!”
Le sue mani si
posarono sulle guance
pallide del russo, accarezzandole affettuosamente. Ivan aveva socchiuso
gli
occhi gonfi nuovamente di lacrime, le labbra tremavano per
l’emozione. Strinse
di nuovo il corpo nudo a sé circondandolo alla vita e
tirò su col naso nel vano
tentativo di trattenere le lacrime.
Toris ne
asciugò qualcuna con il
pollice, lanciando un timido sorriso al suo compagno.
“S-scusami….
avrei dovuto
parlarti dei miei problemi…”
“Ivan,
non devi scusarti. Anzi sono io
a doverlo fare, non solo non ti ho parlato dei miei di problemi, ma non
ho
nemmeno provato ad aiutarti. Ma ti prometto che d’ora in
avanti affronteremo
tutto insieme, va bene?”
Ivan
annuì un paio di volte mentre le
lacrime gocciolavano sulla pelle esposta del lituano, che stava
cominciando a reagire
al freddo della stanza. Ivan diede un bacio sulla testa di Toris
sussurrandogli
innumerevoli volte grazie, poi accorgendosi della pelle raffreddata,
iniziò a
strofinarla con le mani per scaldarlo.
“Ma tu
stai congelando! Ti lascio al
tuo bagno allora, anche se non vorrei davvero farlo”
“Allora
facciamolo insieme!” Propose
Toris con un dolce sorriso.
Ivan rispose a sua volta con un sorrisetto e annuì mentre si
allungava per
chiudere la porta.
Qualche ora
più tardi, quando il bagno
e il pranzo erano state consumate e Ivan era andato a riposare per
prepararsi
al turno notturno del lavoro, Toris si sedette allo scrittoio
nell’angolino
della sala di lettura e aprì l’ultima lettera di
Feliks.
Il biondo polacco aveva scritto a Toris circa una sua cavalla che
partoriva,
com’era nel suo solito, e del fatto che
quell’invernata era stata molto gelida
in Polonia, forse molto più che in Russia (Toris ne dubitava
fortemente), inoltre
si scusava per il ritardo delle sue prossime lettere perché
il sistema postale
polacco stava avendo dei problemi a causa di “non sapeva il
perché” (tipico di
Feliks non sapere nulla di ciò che non lo toccava
direttamente).
La lettera finiva con la sua solita, lunga filippica sulla violenza di
Ivan e
sul come Toris doveva immediatamente lasciarlo per mettersi in
sicurezza da lui
o dai suoi amici (preferibilmente da lui).
Toris sorrise
per quasi tutta la
lettura sentendo un moto d’affetto e di nostalgia nei suoi
confronti, ma il
sorriso svanì quando lesse le ultime righe, come sempre
quando leggeva quelle
parole che erano frequenti nel loro scambio epistolare.
Prendendo un foglio dal cassetto e una penna, il ragazzo bruno
cominciò a
scrivere una lettera di risposta per il suo amico.
Raccontò quant’era stato duro l’inverno
in Russia e quanta neve era caduta
nelle strade, e come la cosa lo disturbò non poco
ricordandogli il crollo del
capannone. Gli raccontò anche un episodio buffo accaduto in
un negozio qualche
settimana prima, e come era scivolato in modo imbarazzante su una
lastra di
ghiaccio semi sciolto per una strada trafficata del centro.
Ebbe premura di
non nominare mai Ivan,
com’era il suo solito, per non scatenare le risposte seccanti
dell’amico,
scrivendo molti episodi che aveva vissuto con lui come se fosse stato
solo in
quei momenti. Quando arrivò alla terza pagina, decise di
concludere la lettera
con una risposta a tono alle premure malvolute dell’amico.
Brevemente, gli spiegò il perché delle sue scelte
e il perché non avesse ancora
lasciato Ivan, ripetendo tra l’altro ciò che aveva
detto al suo compagno ore
prima. Chiese gentilmente all’amico di non insistere, anche
se sapeva che
quella richiesta sarebbe stata totalmente ignorata, e concluse con un
saluto di
commiato, la data del giorno e la sua firma.
Rilesse
nuovamente il foglio
aggiustando qualche errore qua e là, poi prese una busta e
un francobollo dal
cassetto e preparò la lettera per essere spedita
l’indomani.
Mentre scriveva l’indirizzo della villa di Feliks,
ripensò agli eventi della
mattina e alle parole di Feliks.
Certo, sia lui sia i suoi amici avevano ragione, Ivan diventava molto
pericoloso quando era preda delle allucinazioni, soprattutto quando
beveva, ma
anche lui aveva dei problemi significativi e Ivan era stato sempre al
suo
fianco per aiutarlo in ogni modo possibile.
“Affronteremo
insieme questi problemi
e li supereremo” Pensò mentre posava la lettera
sul mobile “Non sarà facile, ma
insieme ci riusciremo. E poi nessuno è perfetto,
no?”
Dicembre 1963,
Berlino Ovest
La sirena
riecheggiò in tutto
l’edificio con un suono forte e pulito, annunciando la fine
del turno. Ludwig
sospirò mentre lasciava la sua postazione vicino alla
fonderia per premere dei
bottoni su un pannello e spegnere il macchinario per la stampa dei
barattoli in
latta. Gli altri operai, che come lui avevano appena finito il turno,
sciamarono in silenzio verso l’uscita
dell’edificio, diretti allo stanzone dove
si trovavano i loro armadietti. Qualcuno provò a intavolare
un discorso, ma la
maggior parte di loro era stanca e desiderava soltanto tornare a casa,
e la
domanda o l’esclamazione volava via portata dal vento gelido,
senza risposta.
Togliendosi le
poche protezioni che
aveva, Ludwig seguì il gruppo in silenzio, conformandosi
all’umore generale.
Da quando era stato catturato nel campo di concentramento e processato
a
Norimberga, Ludwig aveva speso i successivi quindici anni della sua
vita in un
carcere di Berlino, divenuta nel frattempo Berlino Ovest. La sporcizia,
il
trattamento a dir poco disumano che le guardie riservavano ai detenuti,
il cibo
scadente e quasi assente, i criminali che lo circondavano, tutto in
quel posto
lo aveva fatto tremare fin dentro le ossa e tolto per molti notti il
sonno.
Durante quei
lunghissimi anni di
prigionia era stato indirizzato in progetto lavorativo in ambito
metallurgico,
formandolo per un presunto lavoro in vista della sua scarcerazione. In
effetti,
poco tempo dopo essere tornato libero era riuscito a trovare lavoro
presso la
fabbrica di barattoli di latta dove si trovava ora.
La colonna di
uomini silenziosi
imboccò un piccolo corridoio che li portò nello
stanzone degli armadietti.
Velocemente, molti di loro afferrarono le loro cose e con pochi saluti
si dileguarono.
Ludwig sapeva bene del perché di quella fretta, di solito
gli operai erano
sempre molto lenti nel prendere i loro averi e andarsene, spesso si
fermavano
per brevi chiacchierate o per organizzare un gruppetto per andare al
pub, ma
quello era il giorno di paga e molti di loro avevano fretta di prendere
i pochi
soldi che gli spettavano.
Alcuni li avrebbero portati a casa per pagare i debiti e per comprare
da
mangiare alla famiglia, altri li avrebbe dilapidati in alcol o
scommesse
clandestine.
Ludwig non si
affrettò anche se l’idea
di avere finalmente la sua paga mensile era esaltante, non aveva
nessuna voglia
di andare al pub e non aveva nessuno ad aspettarlo a casa.
Nuovamente libero, Ludwig faticò non per trovare lavoro,
bensì per trovare
un’abitazione a causa degli affitti troppo alti. Si dovette
accontentare di un
bugigattolo di tre stanze che condivideva con un emigrato spagnolo
sempre
allegro e spensierato, che come lui lavorava nella fabbrica ma in un
altro
settore.
Indossò
il lungo e pesante cappotto rattoppato
e, mettendosi la borsa sulle spalle, si avviò verso gli
uffici dei dirigenti
per riscuotere il frutto del suo lavoro. Mentre raggiungeva il gruppo
di
persone che si ammassava nervosa davanti gli uffici, fu raggiunto da
Antonio,
il suo coinquilino, che aveva appena terminato un turno di straordinari.
Ludwig lo salutò con poco slancio mentre il bruno gli
lanciava un caloroso
sorriso.
“Hola,
amigo! Anche tu hai appena
finito il turno?”
“Ja,
stavo giusto andando a prendere
la paga. Devi riceverla anche tu?”
“Oh,
no, no, io l’ho presa a fine
turno. Sono venuto qui soltanto per incontrarti, così
andiamo a casa insieme”
Raggiunsero i
restanti operai mentre
dagli uffici usciva un amministratore che con un elenco
cominciò a chiamare
cognomi di varie nazionalità, spesso deformandoli.
Finalmente Ludwig si girò a guardare il suo amico per la
prima volta da quando
si erano incrociati.
“Non
avevi un turno di straordinari?”
Chiese accigliandosi mentre Antonio incominciava a ridere con una
strana risata
musicale.
“No,
in realtà era un turno normale,
solo che sono arrivati dei nuovi operai appena emigrati e mi hanno
chiesto di
fargli fare un giro della fabbrica e di spiegargli alcune
cose”
Ludwig
annuì sovrappensiero mentre
tornava a guardare l’amministratore che girava il foglio
accedendo a un’altra
lista. Dopo poco tempo venne urlato il suo nome e il ragazzo biondo si
affrettò
a raggiungere l’uomo, intascare la piccola busta contenenti
la sua paga, e
tornare da Antonio. Nel mentre, Ludwig si sentì
più di qualche sguardo puntato
addosso.
Aveva cercato con ogni mezzo di nascondere la sua parentela con la
famiglia
caduta in rovina dei
Beilschmidt,
arrivando perfino a negare una presunta parentela con suo padre, che
con la
caduta del regime si era suicidato insieme alla moglie come la maggior
parte
degli ufficiali di alto rango del Fuhrer. La quasi totalità
degli operai gli
aveva creduto, ma alcuni avevano ancora molti sospetti e lo fissavano
senza
pudore con uno sguardo diffidente, bollandolo nella loro mente come uno
sporco
nazista.
Antonio era
rimasto nel posto dove lo
aveva lasciato. Facendogli un cenno con la testa, i due cominciarono a
camminare verso l’uscita della grande fabbrica, pronti ad
affrontare una serata
gelida e nevosa per tornare nella loro abitazione.
“Sai,
quelli nuovi che sono arrivati
sono molto simpatici, ci sono anche un gruppetto di spagnoli!
E’ stato bello
chiacchierare con loro nella nostra lingua, e non essendo delle mie
parti ci
siamo raccontati qualcosa del nostro territorio a vicenda”
“Sembra
bello. Hai intenzione di
cucinare tu stasera?”
“Uh?
Ah si, magari una tortilla, tanto
le patate non mancano mai, dovrei comprare soltanto le
uova…”
“Allora
mentre torniamo ci fermiamo
dal droghiere” Rispose il tedesco mentre abbozzava un mezzo
sorriso,
pregustando la cucina spagnola di cui era segretamente ghiotto.
“Vale
(Va bene)!” Rispose di rimando
lo spagnolo, poi sorrise nuovamente “Di cosa parlavamo?
Giusto, dei nuovi
arrivati! Ci sono anche due francesi, sono davvero splendidi, con il
loro
accento così morbido…”
Antonio
cominciò a raccontare di ogni
singolo individuo che era stato assunto quel giorno nella fabbrica.
Ludwig
gradualmente smise di ascoltarlo e si concentrò su un
piccolo gruppetto di
persone che chiacchierava davanti la porta d’uscita. Antonio
aveva il vizio di
parlare troppo e Ludwig aveva capito di non possedere più la
pazienza infinita
di cui andava tanto fiero da giovane. Però, non volendo
offendere il suo amico,
il tedesco si limitava a fingere di ascoltare, annuendo qualche volta
ed
esclamando stupore.
Mentre si
avvicinavano, dal gruppetto
si staccò un ragazzo bruno che iniziò a strillare
verso un corridoio con fare
quasi animalesco. Ludwig si fermò all’istante per
due motivi, attirando la
curiosità dello spagnolo che smise con la sua filippica su
quanto sono poco
simpatici gli olandesi.
Il primo motivo fu il comportamento quasi osceno del ragazzo, che si
era messo
a urlare come se qualcuno lo stesse scorticando vivo.
Il secondo motivo era che aveva urlato qualcosa di incomprensibile in
una
lingua armoniosa, sembrava quasi stesse cantando a squarciagola.
Ma a uno sguardo più attento, Ludwig trovò un
terzo motivo, di gran lunga
superiore ai primi due: quel ragazzo era uguale a Feliciano.
Nei quindici
anni che aveva passato in
carcere, la mente di Ludwig era volata innumerevoli volte verso
l’italiano, disperandosi
di non poterlo più vedere e immaginando cosa stesse facendo
in quello stesso
momento. Inizialmente l’immagine di Feliciano era nitida
nella sua mente, i
capelli castani lisci che ondeggiavano al vento con lo strano ricciolo
ribelle,
il suo corpo mingherlino da proteggere, i suoi occhi vivaci e luminosi,
il suo
sorriso caldo e rassicurante.
Ma anche se la mente del tedesco era costantemente impegnata nel
ricordo del
suo amato, con i vari mesi l’immagine di Feliciano
iniziò ad affievolirsi, a
sfumare i contorni, a perdere i dettagli e i colori, finché
non rimase che un
forte senso di angoscia e di perdita che portò Ludwig a non
pensarci più pur di
non soffrire ulteriormente.
Una volta libero, Ludwig fu così sopraffatto dagli eventi
circostanti da non
pensare più al bell’italiano che gli aveva fatto
girare la testa, ritrovandosi
però un vuoto nell’animo così
incolmabile che nemmeno le birre oppure solo
l’idea di trovare qualcun altro potevano risolvere.
Ma in quel
momento, la vista dei
capelli bruni e lisci, la bassa statura e il corpo mingherlino, la voce
forte
che urlava parole in italiano…
Feliciano era lì, davanti a lui, finalmente poteva rivederlo.
Ludwig fu
travolto da una forte ondata
di gioia, che velocemente si tramutò in panico.
Con quale faccia poteva andare davanti all’italiano, ex
prigioniero del campo
di concentramento che gestiva con suo fratello, e restaurare un
rapporto malato
nato tra sofferenza e torture varie?
Feliciano avrebbe potuto provare sentimenti di odio e repulsione alla
sua
vista, ricordando quei momenti terribili, e avrebbe potuto scacciarlo
in malo
modo, infliggendogli una ferita quasi mortale.
Indeciso sul da
farsi, rimase fermo a
fissare l’italiano sbalordito, trattenendo il fiato. Antonio
lo guardò
dubbioso, poi notò il ragazzo bruno e sorrise allegramente.
“E’
vero, mi sono dimenticato di dirti
che ci sono anche degli italiani! Davvero gente simpatica, ma un
po’ maleducata.
Si dice in giro che uno di loro ha il codice sul braccio!”
Ludwig
deglutì, tutto corrispondeva.
Vedendo che il suo amico non rispondeva, lo spagnolo si rivolse al
ragazzo
bruno chiamandolo e salutandolo a gran voce.
Ludwig non fece in tempo a fermarlo, e quando l’italiano si
girò il suo cuore
affondò nel petto con un dolore sordo.
Non era lui.
Quel ragazzo gli assomigliava moltissimo, ma non era Feliciano. Il
colore dei
capelli e la corporatura erano praticamente identici, anche se il
taglio era
leggermente diverso, ma il suo sguardo e il suo volto era totalmente
differenti,
più duri e ostili.
Ludwig respirò a pieni polmoni per cercare di calmarsi e di
abbassare l’ondata
d’adrenalina. Era stato un falso allarme, una speranza che
era nata e morta in
poco meno di trenta secondi, tutto stava tornando alla triste
normalità.
Antonio si
avvicinò allegramente al
ragazzo, mentre quest’ultimo si accorse di lui e
indietreggiò di qualche passo.
“Hola
mi amigo!! Allora, ti è piaciuta
la fabbrica? Dove lavorerai?”
“Cosa!!!
Ancora tu? Cosa cazzo vuoi?”
“Suvvia,
non essere così diffidente…
ehm… come hai detto che ti chiami?”
“Non
te l’ho detto, e non lo farò mai!
E ora sparisci, mi metti i brividi! E tu idiota, muoviti che fa
freddo!” Urlò l’italiano
verso il corridoio da dove provenivano dei passi affrettati, non
prestando più
attenzione ad Antonio.
“Ve!
Arrivo!”
Lo sguardo di
Ludwig seguì la figura
appena entrata nell’atrio, che correva verso
l’italiano, vedendola a
rallentatore, come se fossero tanti piccoli fotogrammi messi su un
proiettore.
Il suo cuore perse qualche battito mentre il suo respiro si bloccava in
gola.
Feliciano raggiunse l’altro ragazzo bruno, chinandosi un
po’ su sé stesso per
riprendere fiato, per poi salutare Antonio con il suo solito
entusiasmo.
Tutti i suoi
pensieri, tutti i sogni,
i sentimenti, i desideri che aveva avuto su quella figura ormai quasi
sbadita
dal tempo e dalla memoria traditrice, vennero a galla prepotentemente,
rinvigoriti dalla presenza del centro del suo mondo da ormai quindici
anni, lì,
proprio lì in Germania, a Berlino Ovest, in quella fabbrica.
Ludwig sentì la testa leggera e un forte senso di vertigine.
Feliciano
continuò a parlare
allegramente con Antonio, presentando l’altro italiano come
suo fratello
Romano, che intanto si rifiutava di guardare lo spagnolo interessandosi
invece
alla neve che cadeva visibile da una finestra.
“Piacere
di conoscerti, Romano. In
effetti sei stato un dei pochi che non si è presentato
quando abbiamo finito il
giro della fabbrica! Lasciate invece che vi presenti il mio amico e
coinquilino
Ludwig”
Di tutti e tre
gli sguardi che si
posarono sulla sua statura, Ludwig vide soltanto quello di Feliciano.
L’italiano tardò a posare il suo sguardo su di
lui, come se quel nome
significasse che lui fosse effettivamente lì. Nessuno
pensò a un caso di
omonimia, appena pronunciati i loro nomi entrambi seppero che
l’altro era lì,
davanti a loro.
Gli occhi di
Feliciano si
spalancarono, seguiti da quelli di Romano. Evidentemente il fratello
sapeva
della sua esistenza, altrimenti non si spiegava il suo repentino
cambiamento da
arrabbiato a furioso.
Feliciano invece non si scompose, rimase a fissare il tedesco stupito e
quasi
inebetito mentre le sue labbra si dischiudevano lentamente per formare
una
piccola “o”.
Ludwig anche
rimase immobile, con la
testa vuota e il corpo pesante, incapace di pensare o muoversi. Il suo
sguardo
era fisso in quello dell’italiano, si guardavano
l’un l’altro scrutandosi
nell’animo senza presentare alcun cenno di voler fare il
primo passo.
Probabilmente Feliciano perché era incredulo
dall’averlo trovato nella fabbrica
in cui stava iniziando a lavorare, Ludwig perché sopraffatto
e terrorizzato dai
sentimenti e dai pensieri negativi che ad essi seguivano.
Probabilmente, se Antonio non fosse intervenuto per fendere
l’aria pesante che
si era creata con una risata e qualche parola, loro sarebbero potuti
rimanere
immobili a fissarsi per ore intere.
Romano invece
era rosso in volto e
tremava dalla rabbia che a stento tratteneva. Ludwig non seppe mai
perché in
quel momento il fratello dal carattere difficile dell’uomo
che amava non aveva
accorciato le loro distanze velocemente e non lo aveva colpito con
forza in
volto, un dubbio che preferì non chiarire mai.
“Fusososo,
cos’è tutta questa
timidezza, Ludwig? Vieni a conoscere i nostri nuovi compagni!”
“Tu…”
Appellò Romano, ma fu subito
azzittito da Feliciano che, facendo un passo incerto in avanti verso il
ragazzo
biondo, si leccò le labbra spaccate dal freddo.
“Ludwig…”
Iniziò, ma non potette aggiungere
nessun’altra parola.
Preso da una
fortissima ondata di
panico, appena visto che Feliciano stava facendo il primo passo verso
di lui,
il ragazzo tedesco ebbe paura e, voltandosi velocemente,
scappò verso il lato
opposto all’interno della fabbrica.
Molti fissarono la scena confusi, alcuni perfino sorridendo al gesto
inaspettato di Ludwig, che era stato sempre una persona molto seria e
composta,
alcuni soltanto sorpresi dell’accaduto, come Antonio che non
si aspettava una
reazione simile dal suo amico “serio come la morte”
(così lo chiamava
scherzosamente).
Romano invece fu il primo ad uscire dal suo stato di stupore e ad
esclamare
qualcosa di volgare in italiano.
Feliciano
osservò immobile con la
bocca spalancata Ludwig correre nella direzione opposta, per poi
svoltare l’angolo.
Incerto su cosa fare, guardò suo fratello per un istante,
ricevendo uno sguardo
di incomprensione, e poi iniziò a correre anche lui.
Le urla di Romano che gli intimavano di tornare indietro riecheggiarono
per
tutto l’atrio, ma Feliciano non accennò a
rallentare. Mentre i suoi occhi si
riempivano di lacrime, la sua mente era una mescolanza di pensieri.
Di tutte le cose
che aveva immaginato
quando aveva deciso di seguire il fratello in Germania per cercare
lavoro, il
ritrovare Ludwig, per di più nella stessa fabbrica dove era
stato assunto, non
era tra quelle.
Quei quindici anni di lontananza li aveva spesi ad aspettare
un’occasione, un
modo, oppure un miracolo, per poter ritrovare o anche solo vedere per
un
momento il giovane tedesco. Aveva passato giornate intere a sognare ad
occhi
aperti davanti una finestra, e speso le più lunghe e buie
nottate a piangere
con il volto premuto sul cuscino. Suo fratello lo aveva rimproverato
non
ricordava quante volte, maledicendolo e maledicendo quel demonio
tedesco che
gli aveva procurato così tanto dolore, e che lo stava
facendo soffrire anche in
quel momento.
Pian piano il suo dolore prese la sfumatura di sorda rassegnazione,
finché
Feliciano non divenne disilluso: soltanto un miracolo da un dio molto
beffardo
avrebbe potuto fargli rincontrare Ludwig, qualcosa che non avrebbe mai
potuto
ottenere.
Lentamente il suo comportamento tornò alla
normalità, facendo tirare un sospiro
di sollievo al fratello, una normalità che celava
però una grande sofferenza.
Con la coda
dell’occhio, mentre
svoltava l’angolo, Ludwig vide Feliciano muoversi ed
accelerò il passo. La
consapevolezza di essere un codardo per essersela data a gambe in quel
modo
davanti tutti e senza una spiegazione, insieme alla paura e il timore
di dover
affrontare Feliciano e dovergli chiedere un perdono che non sarebbe
venuto, gli
pesavano sull’animo e sullo stomaco come un macigno.
Correva come se
da quel gesto
dipendesse la sua vita, il lungo giubbotto che svolazzava intorno alle
gambe
ormai non più toniche come un tempo. Soltanto una volta
nella sua intera vita
aveva corso in quel modo, ed era stato in quel maledetto giorno in cui
i russi
avevano liberato il campo di concentramento.
La gente che incrociava per i grandi corridoi lo guardava stupita,
alcuni si
giravano per seguirlo con lo sguardo.
A Ludwig non importava, tutto ciò che voleva era nascondersi
da Feliciano,
colui che in quel momento stava cercando di raggiungerlo e urlava il
suo nome
disperato.
Ad ogni suo urlo, Ludwig sentiva aprirsi una lacerazione nel suo
interno.
Correndo senza
una meta precisa, il
ragazzo biondo si infilò all’ultimo secondo in una
porta attraverso cui si
accedeva a un settore della fabbrica a lui sconosciuto. Macchinari
giganteschi
ed enormi tubature apparvero davanti i suoi occhi avvolte quasi del
tutto
dall’oscurità, con nastri trasportatori immobili
che si snodavano per chissà
quanti metri nel buio più totale.
Incerto sul da farsi, decise di nascondersi dietro un robusto tubo che
dal
macchinario si immetteva nel suolo con un’elegante curva,
premendo la schiena
contro l’acciaio gelato e coprendosi la bocca con una mano
per celare la sua
presenza.
Dopo pochi
secondi, la porta fu
violentemente aperta e dei passi affrettati, seguiti da un ansimare,
riecheggiarono per tutto lo stanzone. Feliciano si guardò
disperatamente
attorno, cercando di intravedere il tedesco tra tutti i macchinari e il
fitto
buio in quella stanza. Non riuscendo a trovare nulla, iniziò
a gemere e
singhiozzare.
“Ludwig…
Ludwig sei qui? Ti prego
Ludwig… ti prego…”
Nessuna risposta.
Lentamente, Feliciano indietreggiò fino alla porta mentre
piangeva in silenzio.
“Ve…
non è qui…” Sussurrò a
sé stesso,
poi uscì dalla porta e ricominciò a correre.
Quando i suoi
passi furono lontani,
Ludwig si lasciò sfuggire un sospiro. Le sue gambe tremarono
e si accovacciò
con la schiena contro il grosso tubo, mentre le mani gli coprivano il
volto
rigato dalle lacrime.
I giorni
seguenti a quell’incontro
furono un totale inferno per Ludwig, costretto non solo a schivare le
sempre
più spinose domande del suo coinquilino e di calmare la sua
fortissima
agitazione dovuta ai vecchi sentimenti che erano riaffiorati
tutt’insieme, ma
anche a dover trovare un modo per entrare e uscire dalla fabbrica senza
farsi
vedere dal gruppo di italiani che circondava perennemente i due
fratelli bruni.
Inoltre, come
scoprì con stupore,
Feliciano si rivelò un ragazzo piuttosto tenace: ogni
giorno, e per almeno un
paio di volte, gli operai che lavoravano nello stesso settore gestito
da Ludwig
gli riferivano che un italiano aveva chiesto di lui sperando in un
colloquio,
anche se breve. Ludwig non sapeva come aveva fatto a capire in quale
settore
della fabbrica lavorasse, ma sospettava ci fosse uno zampino spagnolo.
Comunque
sia, si era premurato fin dall’inizio di informare i suoi
compagni di non
permettere di far entrare nel settore altri operai non addetti,
specialmente
l’italiano che aveva dipinto, malvolentieri, come un
piantagrane che lo aveva
preso di mira. Non gli riuscì particolarmente difficile
convincere gli altri
operai in quanto gli italiani non avevano una buona nomea, o meglio
erano
famosi per essere malviventi, attaccabrighe e piuttosto seccanti quando
prendevano di mira qualcuno.
I primi giorni
Feliciano non accennò a
desistere, ma con il passare delle settimane la sua resistenza
vacillò passando
da cercarlo ininterrottamente per più volte al giorno a
cercarlo di meno, poi a
giorni alterni, infine smettendo del tutto.
Ludwig non sapeva se la cosa doveva fargli piacere oppure renderlo
triste,
aveva dei sentimenti piuttosto confusi a riguardo: sollievo, ansia,
tristezza,
rimorso, rassegnazione.
In effetti, più pensava a tal proposito più
concludeva che doveva esserne
triste, ma che doveva comunque lasciar correre e andare avanti, anche
se questo
avrebbe significato una maggiore sofferenza.
Un loro riavvicinamento non avrebbe giovato per nessuno dei due.
Per cercare di
non pensare troppo a
quella situazione, Ludwig accettò di buon grado degli
straordinari malpagati
che lo costringevano a rimanere fino a notte fonda nel suo settore, in
compagnia di metallo fuso e macchinari per stampa rumorosi e ormai
obsoleti.
Molti dei suoi compagni accettarono gli straordinari come lui,
cosicché a fine
lavoro si formava un gruppo piuttosto folto di persone che, silenziosi
e con
andatura stanca, si trascinava fin fuori dalla fabbrica dove il vento
gelido
notturno li aggrediva senza pietà facendoli rabbrividire
violentemente.
Con quegli straordinari, Ludwig era costretto in fabbrica per quindici
ore, e
quando tornava a casa trovava Antonio già addormentato da
tempo, ma la cena
fredda a base di pietanze spagnole pronta sul tavolo.
Gli straordinari
sarebbero durati per
tutto il mese, ma dopo una settimana Ludwig già si chiedeva
come sarebbe
riuscito a portarli a termine, esausto com’era per le troppe
ore di lavoro e il
poco sonno a disposizione.
Quella sera colui che gestiva il settore in cui lavorava si era
ammalato
improvvisamente, lasciando tutto il lavoro nelle sue mani,
costringendolo a una
doppia fatica. Quando finalmente il fischio sancì la fine
dei turni di
straordinario, Ludwig si piegò sulle gambe asciugandosi la
fronte e sospirando
per il sollievo. Gli altri operai iniziarono a sistemare i macchinari e
a
sciamare in gruppi verso la porta dello stabile, alcuni in vena di
chiacchiere,
altri semplicemente trascinandosi fuori, come sempre.
Il tedesco si rimise dritto e andò al pannello di controllo
per spegnere tutti
i macchinari, la corrente elettrica e altre cose che gli erano state
spiegate
qualche ora prima. Controllando scrupolosamente di aver sistemato
tutto, si
accertò di essere l’ultimo in quella stanza e
uscì chiudendosi la grande porta
alle spalle.
Nello stanzone
degli armadietti,
mentre recuperava le sue cose infilandosi il suo lungo e pesante
cappotto nero,
Ludwig sentì gli altri operai parlottare eccitati in vari
gruppetti, qualche
volta ridendo, altre invece esclamando per lo stupore. Incuriosito da
quell’insolito scoppio di vitalità a
quell’ora di notte e soprattutto dopo il
lavoro, il ragazzo biondo cercò di tendere
l’orecchio, senza molto successo. Il
vociare era così sussurrato e fitto che era quasi
impossibile distinguere
qualche parola.
Senza perderci
altro tempo, lasciò la
stanza infilando il cappello sui capelli tirati all’indietro
e seguì le altre
persone che si incamminavano verso l’atrio della fabbrica.
Mentre proseguiva
sovrappensiero, immaginando già quale cena il suo amato
coinquilino gli avesse
preparato, un gruppetto davanti a lui si fermò
all’improvviso esclamando a voce
alta.
Ludwig quasi andò a sbattere contro uno di loro.
“Incredibile!
Allora è vero!”
“Ve lo
dicevo che quella gente è
strana, meglio non avere niente a che fare con loro”
“Cosa
succede?” Domandò Ludwig, ormai
preso dalla curiosità.
Uno degli operai si girò a guardarlo e, dopo averlo
squadrato per qualche
ragione a lui sconosciuta, gli sorrise e gli spiegò la
situazione.
“Dicono
che dal fine turno regolare un
uomo si è messo ad aspettare davanti il cancello della
fabbrica, sotto il
lampione, non si sa chi! E’ da oggi pomeriggio che sta
lì impalato, e ha
nevicato ben due volte. Pensavamo che fosse una di quelle storielle
stupide
inventate per passare il tempo mentre si lavora, ma a vedere tutta
questa gente
che fissa fuori dalle finestre, dev’essere vero!”
L’uomo
indicò un folto gruppo di
persone che si accalcavano davanti la porta dell’atrio
cercando di guardare
fuori dalle finestre. Un forte vocio riempiva tutta la stanza.
Ludwig si accarezzò il mento con fare dubbioso, la pelle dei
guanti che
strofinava dando una sensazione di morbidezza sull’accenno di
ricrescita della
barba sul suo volto.
Quella storia sapeva di assurdo, eppure il tedesco non credeva che
all’improvviso tutti gli operai degli straordinari fossero
impazziti
all’unisono. Sentendo la sua curiosità crescere in
modo esponenziale, ringraziò
l’uomo per la spiegazione e si avvicinò al folto
gruppo di persone che si
accalcava nell’atrio per cercare di capire qualcosa in
più, o almeno per
cercare di uscire dalla fabbrica e tornare a casa.
Nella massa
trovò alcuni suoi compagni
di settore con cui aveva scambiato qualche parola ogni tanto e li
raggiunse. Salutando
in modo cortese, Ludwig fece capire di essere interessato alla storia
che stava
infuocando gli animi di tutta la fabbrica.
“Non
hai sentito? Pare che un uomo sia
rimasto da oggi pomeriggio fino ad adesso sotto quel palo della luce
davanti al
cancello senza muoversi mai! E’ incredibile vero? Ed ha pure
nevicato molto
oggi, ma non ha accennato ad andarsene. Secondo alcuni sta aspettando
qualcuno
o qualcosa, ma secondo me è soltanto un pazzo. Se ti affacci
alla finestra puoi
vederlo, il lampione lo illumina tutto”
Ludwig
cercò di sfruttare la sua
statura per affacciarsi a uno dei finestroni che fiancheggiavano
l’uscita,
quasi del tutto coperto dalle teste degli altri curiosi che sbirciavano
fuori.
Riuscì a intravedere, nel buio più totale della
notte, il fascio di luce del
lampione che veniva smorzato dai fiocchi di neve che cadevano
velocemente
portati dal vento, e in mezzo ad esso la sagoma di un’esile
figura.
“Secondo
me è morto in piedi,
congelato dal freddo, ed è rimasto in quel modo”
Commentò un altro compagno “E’
impossibile sopravvivere a tutto quel freddo con quei pochi stracci che
ha
addosso”
A uno sguardo
dubbioso di Ludwig,
annuì e spostò lo sguardo verso il finestrone.
“Si,
sono stato uno dei primi degli
straordinari a vederlo. E’ vestito come se fosse estate, quel
disgraziato,
starà patendo le pene dell’inferno. E pensare che
il fratello ha cercato in
tutti i modi di portarlo via”
A quelle parole
Ludwig distolse lo
sguardo dal panorama esterno per concentrarlo totalmente sul suo
interlocutore.
“Fratello?”
Chiese ansiosamente.
“Si, o
così mi hanno detto. Pare
abbiano messo su un bello spettacolino, con urla e percosse tanto forti
che
infine hanno dovuto portare via il fratello indiavolato in tre,
altrimenti avrebbe
davvero ammazzato quello scemo”
L’uomo
continuò a parlare, ma Ludwig
non prestò più attenzione alle sue parole. Aveva
un bruttissimo presentimento
riguardo colui che stava compiendo quel gesto quasi da suicida e voleva
chiarire il dubbio. Cercò di farsi avanti spingendo da parte
le altre persone e
avanzando nella folla, senza staccare gli occhi dal finestrone e dalla
sagoma
che di tanto in tanto si muoveva cercando di scrollarsi di dosso la
neve e il
freddo.
Mentre avanzava, sentiva parti dei discorsi degli altri operai.
“Ma
quello è pazzo-“
“Ehi,
non spingere”
“State
bloccando l’uscita, voglio
andare a casa! Fate passare!”
“-cono
che è vestito di stracci, forse
è un barbone!”
“Si,
il fratello gli urlava nella loro
lingua come se lo stessero scorticando vivo. Giuro-“
“Sai
come sono fatti questi italiani,
no? Gente rozza, senza la minima educazione, io li rimanderei nella
loro
nazione-“
La mano guantata
di Ludwig poggiò a
palmo aperto sul ferro della porta, mentre l’altra
girò con forza il pomello,
quasi rompendolo. Una folata di vento e neve colpì la folla
facendogli gonfiare
i giubbotti mentre usciva di corsa fuori il cortile della fabbrica.
La neve copriva ogni cosa a perdita d’occhio, sia a terra
dove le impronte
degli operai erano state coperte da tempo, sia i muretti e i tetti
delle case
circostanti. Il buio era quasi totale, spezzato soltanto da qualche
lampione
qua e là e da qualche finestra lontana con la luce ancora
accesa. Il silenzio
era quasi sacro, rotto soltanto dalle folate di vento e da qualche
starnuto che
si sentiva da lontano, dalla sagoma che sotto il lampione aspettava con
una
compostezza quasi militare. Ludwig cercò di abituare gli
occhi all’oscurità,
mentre faceva qualche passo nella neve. Sentiva tutti gli occhi degli
operai
che da dietro i vetri della finestra gli bucavano la schiena, curiosi e
avidi
di storie assurde da poter raccontare il giorno dopo ai loro compagni,
ma non
gli importava.
Non gli importava di nulla se non della figura che sotto il lampione
moriva dal
freddo.
La sagoma non
accennò a muoversi
nonostante si avvicinasse sempre di più, e ad ogni passo
riusciva a cogliere un
dettaglio nuovo: la magrezza della figura, l’assenza di
vestiti pesanti, gli sbuffi
di respiro caldo portati via dal vento, i capelli castani scompigliati
che
volavano ovunque.
Ad ogni passo il suo cuore accelerava di un battito, minacciando di
scoppiare
tant’era forte. Poteva sentire la sua pressione in gola, le
mani tremavano nei
guanti di pelle mentre la testa iniziava a pulsare.
Infine, si
fermò all’altezza del
grosso cancello che segnava il confine della proprietà della
fabbrica, lo
sguardo fisso davanti a sé.
Dall’altra parte della strada, Feliciano ricambiava il suo
sguardo tremando
come una foglia sotto la luce del lampione, pallido come un cadavere e
con il
volto rosso e bruciato dal freddo. Non si mosse né
cercò di attirare
l’attenzione su di lui, semplicemente rimase rigido nella sua
posizione a
sostenere lo sguardo di colui che aveva aspettato per tutto quel tempo.
Il tedesco era
completamente
paralizzato, lo stupore non gli permise di pensare velocemente. Poi un
ricordo
si fece largo nella sua mente confusa come una lama affilata che
affonda nel
burro. Ai suoi occhi, Feliciano non vestiva più i leggeri
panni colorati con
cui cercava di proteggersi dal freddo, bensì gli stracci a
strisce nere e
bianche del campo di concentramento, il suo sguardo lo fissava da
dietro una
rete elettrificata mentre il suo corpo era consumato dalla fatica e
dalla fame,
sul volto i segni delle violenze subite dalle altre guardie.
Gli ci vollero
pochi secondi di corsa
per raggiungerlo, Feliciano che sorrideva felice mentre Ludwig si
sfilava il
lungo cappotto nero per coprirlo. Quando infine lo raggiunse, lo
avvolse con il
cappotto e lo strattonò violentemente.
“Stupido!
Sei uno stupido! Le persone
muoiono con questo freddo!”
“Ve…
Ludwig, finalmente…” Rispose con
voce debole, distorta dalla gola fredda e probabilmente ammalata.
Ludwig avrebbe
voluto urlargli contro,
schiaffeggiarlo e maledirlo per essere così sconsiderato e
per aver messo in
pericolo la sua vita, facendo inoltre preoccupare suo fratello, ma
rinunciò
quando vide il sorriso raggiante dell’italiano e il suo
sguardo caldo e colmo
d’affetto su di lui.
Con un sospiro di rassegnazione, rimboccò il pesante
giubbotto sulle spalle di
Feliciano. Il ragazzo si avvicinò velocemente a lui e lo
abbracciò senza alcun
preavviso.
“Ve…
sei così caldo!”
“Si,
me l’avevi già detto”
Sussurrò
lui mentre circondava affettuosamente il corpo del ragazzo con le sue
braccia.
“Allora
lo ricordi ancora!” Chiese con
stupore l’italiano guardandolo direttamente negli occhi.
Un rumore
metallico si diffuse per
tutto il cortile fino all’esterno, seguito da alcuni passi
ovattati nella neve.
Evidentemente gli altri operai stavano uscendo fuori dalla fabbrica per
tornare
alle proprie case, o più probabilmente per assistere meglio
al loro incontro.
“Si,
ma non è questo il posto per
parlare. Vieni, andiamo da questa parte”
Prendendo una
mano gelata nella sua
guantata, Ludwig portò velocemente via Feliciano da sotto
quel lampione,
spostandosi di qualche isolato e imboccando molte stradine secondarie
per
seminare quegli spioni che proprio non ne volevano sapere di tornare
nelle loro
case.
Dopo poco tempo,
trovata una casa
semidistrutta dai bombardamenti e non ricostruita, i due uomini si
ripararono
dalla nevicata sotto il tetto fatiscente della struttura. Feliciano era
rimasto
in silenzio per tutto il tempo, cosa piuttosto strana in quanto il
tedesco lo
ricordava piuttosto rumoroso, ma manteneva ancora il suo genuino
sorriso sul
volto. Per quanto riguardava Ludwig, temeva seriamente di poter morire
da un
momento all’altro per quanto fosse veloce e forte il suo
battito cardiaco.
“Aspetteremo
qui che la nevicata
diminuisca o smetta del tutto. Dove abiti?” Chiese infine
“Ti riporto a casa da
tuo fratello, sicuramente sarà molto preoccupato”
“Io
non voglio tornare a casa, non ora
che finalmente ho avuto l’occasione di rincontrarti, di
poterti parlare di
nuovo” Eruppe l’italiano con lo sguardo che stava
velocemente tendendo al
lacrimevole “Ho aspettato così tanto tempo per
questo!”
Ludwig
ricordò le parole dei suoi
compagni, di come Feliciano si era messo ad aspettare fuori dalla
fabbrica alla
fine del turno regolare. Ma erano più di otto ore, no?
Dubbioso su quanto effettivamente quella testa di rapa avesse
aspettato,
domandò di preciso quanto tempo era stato ad attendere.
Feliciano gli lanciò un sorriso con una forte sfumatura di
tristezza.
“Quindici
anni”
Qualcosa si
ruppe in quel preciso
istante in Ludwig.
Quel numero, quelle due parole dal semplice significato, gli fecero
riaffiorare
nella mente e nell’animo tutti i ricordi e le sensazioni
provate dal momento in
cui aveva messo piede nel campo di concentramento fino in quel momento:
tutte
lo sofferenze, le gioie, l’amore che aveva provato per lui,
l’odio per il
fratello e poi l’atroce sofferenza di perderlo per sempre, la
paura e
l’angoscia provata in carcere, la rassegnazione e la
tristezza che provava ora…
Si
ritrovò a piangere violentemente
mentre abbracciava con forza l’italiano tirandoselo al suo
petto.
Mentre piangeva si scusava con insistenza, chiedendo perdono per tutta
la
sofferenza che aveva dovuto patire per colpa sua, ma chiedendo perdono
anche a
sé stesso per aver negato il suo stesso essere.
Feliciano
ricambiava l’abbraccio e
l’affetto seguendo il compagno con grosse lacrime,
sussurrandogli parole
rassicuranti e accarezzando lentamente la schiena con il palmo della
mano.
Quando entrambi si furono calmati, Feliciano prese il viso di Ludwig
tra le
mani e sorrise:
“Il
destino vuole proprio farci stare
insieme”
“Chi
sono io per oppormi ad esso?”
Feliciano
assunse un’espressione
meravigliata a quelle parole, e Ludwig ne approfittò per
avvicinarsi e lasciare
un morbido bacio sulle sue labbra.
Ci fu un’improvvisa folata di vento, ma Ludwig non la
sentì tant’era preso dal
baciare Feliciano. Quando si divisero, l’italiano rise di
felicità e si
risistemò il giubbotto sulle spalle, che nel frattempo era
scivolato
minacciando di cadere e lasciarlo scoperto.
“Ha
smesso di nevicare, ti riporto a
casa”
“No!
Non voglio che tutto questo
finisca, come in quelle opere teatrali dove infine il protagonista si
risveglia
scoprendo di aver sognato tutto! Ve, non voglio!”
“Farò
tutto ciò che è in mio potere
per non farlo finire” Rispose il tedesco prendendogli la mano
“Te lo prometto”
Feliciano
rispose con un ampio sorriso
mentre si incamminarono verso le case popolari dei sobborghi di Berlino
Ovest.
Gennaio 1964,
Berlino Est
Se non era la
neve a congelare persino
l’anima, era il vento sferzante e gelido che si incanalava
nei vari vicoli
diventando forte quasi quanto una burrasca. E se non il vento, ci
pensavano la
pioggia e la grandine a tormentare le povere persone di Berlino Est.
Ma se quelle più fortunate potevano contare su eleganti
ombrelli, giubbotti
lunghi e caldi e su posti rinomati per ripararsi come i
Cafè, le persone che
non possedevano nulla erano costrette a ripararsi come meglio potevano,
nei
posti più bui e sporchi della città, frugando
nell’immondizia nella speranza di
trovare qualcosa da mettersi addosso oppure qualcosa da mangiare.
Le giornate di
Gilbert erano tutte più
o meno uguali, tutte spese a guardare la gente passare concentrata
sulla
propria vita e completamente cieca al pezzente che, sbragato a ridosso
di un
muro, li fissava con uno sguardo vitreo nella speranza di ricevere
qualche soldo
o qualcosa da mangiare.
Le persone camminavano a passo svelto cercando di non scivolare sul
ghiaccio
che si era formato a terra, strette nei loro lunghi vestiti pesanti e
caldi, a
volte scavalcando le lunghe gambe dell’albino che si
allungavano sul
marciapiede.
Gilbert cercava
di attirare la loro
attenzione allungando verso di loro un cappello mal rattoppato e ormai
inutilizzabile e sussurrando richieste di pietà, sperando in
qualche elemosina.
I dollari e i rubli erano il denaro più ambito
perché di maggiore valore, ma si
sarebbe accontentato anche solo di qualche marco per riuscire a
comprare un
tozzo di pane e placare quell’insaziabile fame che lo
accompagnava da quando
era tornato libero.
In prigione non
se l’era cavata troppo
male, era stato confinato con altri nazisti, formando un solido gruppo
in cui
si spalleggiavano a vicenda, ma una volta fuori dalla prigione Gilbert
realizzò
con amarezza che il mondo era cambiato, si era evoluto, e che si era
dimenticato di lui.
Non c’era più posto per lui in quel mondo, un
nazista povero di una famiglia
decaduta che aveva speso gli ultimi diciassette anni in carcere, eppure
continuava ad aggrapparsi alla vita con forza cercando di tirare avanti
ogni
singolo giorno come poteva.
Aveva cercato di
trovare un lavoro
discreto, o almeno che gli permettesse di comprare un po’ di
cibo ogni giorno,
ma velocemente scoprì che il regime sovietico non era stato
così gentile con il
suo paese, che l’economia era disastrosa e che nessuno in
quelle condizioni gli
avrebbe potuto offrire un lavoro, non con quella spalla lesionata che
non gli
permetteva di fare sforzi e nemmeno di alzare il braccio oltre
l’altezza del
mento.
Intorno a lui vi erano così tanti uomini in buona salute che
cercavano lavoro,
accettando anche pagamenti e condizioni disumane, che quando provava a
farsi
assumere il più delle volte i datori di lavoro gli ridevano
in faccia, o lo
additavano come un poveraccio e lo cacciavano via.
Alla fine era davvero diventato un pezzente.
I peggiori erano
i russi, con i loro
modi di fare rudi e senza il minimo scrupolo, trattavano la gente come
se fosse
inferiore, per non parlare di coloro che si trovavano nella condizione
di
Gilbert. Lui soprattutto era preso sempre di mira per il suo aspetto
inusuale,
spesso era costretto a scappare e nascondersi tra le macerie non ancora
rimosse
degli edifici per sfuggire a un linciaggio, uniche sue colpe essere un
senzatetto ed essere albino.
Qualche volta non era stato così fortunato e portava ancora
addosso le
cicatrici delle coltellate che aveva ricevuto.
No, nessuno in quel mondo aveva pietà dei barboni.
Dopo aver
passato ore a tendere il
braccio in direzione dei passanti, Gilbert si arrese e posò
il cappello a
terra, rannicchiandosi il più possibile sui cartoni per
difendersi dal freddo.
Quel giorno era riuscito a recuperare pochi pfennig (centesimi di
marco),
insufficienti anche per un quarto di pane, e il freddo era
più intenso che mai.
“Forse
è arrivato il giorno in cui ci rimetterò
finalmente le penne” Pensò mentre osservava la
gente che, diminuita
sensibilmente, si affrettava a tornare a casa dopo un estenuante turno
di
lavoro.
Alcuni volti non
erano nuovi per
l’albino, sedendo in quel punto del marciapiede da
più di un anno ogni singolo
giorno, ormai conosceva bene tutti quelli che passavano quotidianamente
per
quella strada:
un uomo con il giubbotto rattoppato e di pessima fattura che usciva
dalla
fabbrica e si andava a rintanare subito in un pub a bere birra; una
donna ormai
sulla cinquantina che si affrettava a tornare a casa con una busta
piena di
alimenti; un ragazzo che portava sulle spalle la lunga scopa da
spazzacamino
che si puliva insistentemente il volto dalla fuliggine, imbrattandolo
ancora di
più; un uno piuttosto alto dal lungo giaccone e
incappucciato di cui non
riusciva a vedere mai il volto tant’era stretto nei suoi
abiti, con una lunga
sciarpa bianca che gli cadeva fino alle gambe.
Mentre passava,
l’uomo senza volto si
girò a guardarlo per una frazione di secondo, lasciando
cadere una singola
moneta dalla manica del giubbotto che gli copriva le mani, per poi
continuare
il suo cammino come se niente fosse. Gilbert non riuscì a
vedere il suo viso a
causa dell’ombra del cappuccio, ma si avventò
sulla moneta come un avvoltoio su
una carcassa, urlando lodi e ringraziamenti mentre intascava la
preziosissima
moneta da un marco.
Grazie a quell’uomo, anche quel giorno avrebbe mangiato.
Gilbert
lasciò la sua postazione di
lavoro quando calò il sole. Subito si mise a piegare i suoi
preziosi fogli di
cartone, senza i quali non poteva difendersi in alcun modo dal freddo
dell’inverno e dalla neve, e si precipitò nel
negozio di alimentari nei
sobborghi periferici della città, dove tutti coloro che non
avevano di che
vivere potevano riuscire a mettere le mani su un pezzo di pane per
pochi soldi.
Mentre addentava
freneticamente il
cibo e gustava la sensazione della fame placata, l’albino
ripensò all’uomo
incappucciato che gli aveva donato la moneta. Non era la prima volta
che incontrava
quello strano individuo, e non era la prima volta che riceveva del
denaro da
lui. Anzi, a pensarci bene, quell’uomo era l’unico
che ogni qual volta passasse
davanti a lui, gli lasciava una moneta da un marco, qualche volta
addirittura
un rublo.
Ogni volta che Gilbert pensava a quell’uomo una sorta di
calore si diffondeva
nel suo petto, la sua compassione era quasi commovente. Spesso gli
ricordava
Matthew e il suo sguardo dolce, l’unica persona che non lo
aveva giudicato ma
accettato per quello che era, qualcuno che ormai non avrebbe mai
più rivisto se
non nella sua mente.
“Non
è un russo, impossibile che sia
un russo, nessuno di loro sarebbe così gentile con
me!” Farfugliò a bocca
piena, parlando tra sé e sé.
Se non russo
allora era un tedesco di
buon cuore, non c’era alcun dubbio, era rarissimo incontrare
stranieri da quel
lato del muro.
Gilbert finì in poco tempo il suo pasto e iniziò
a vagare per la periferia
della città cercando un posto adatto per passare la notte.
Doveva essere
prudente e meticoloso nella ricerca, sia perché di notte era
più facile essere
assaliti per un senzatetto, sia perché doveva trovare un
posto coperto e
asciutto per proteggersi dal freddo.
Ogni notte era come tentare la fortuna con i dati, poteva sbucare nel
buio o da
dietro un angolo un malvivente con l’intenzione di rubare
quelle poche cose che
possedeva, oppure un gruppetto di ricchi figli di papà con
l’intento di passare
la serata a torturare la gente povera e a lasciarla morire senza
pietà.
Inoltrandosi nei
fitti vicoli sporchi
e maleodoranti della periferia, ad un certo punto Gilbert vide una
sagoma
passargli davanti a una distanza di una decina di passi. Subito si
nascose
dietro un cumulo di macerie nella speranza di non essere visto,
fissando con
paura davanti a sé. La sagoma continuò a
camminare come se nulla fosse a passo
svelto, la neve che scricchiolava sotto le sue scarpe. Quando
passò sotto il
piccolo lampione a gas che sporgeva da un muro illuminando
l’incrocio di
vicoli, Gilbert vide l’uomo incappucciato e dalla lunga
sciarpa imboccare una
di quelle stradine, silenzioso e veloce come un fantasma.
Che cosa ci
faceva quell’uomo in un
posto del genere a quell’ora di notte?
Forse era anche lui un senzatetto che cercava un posto per passare la
notte, ma
l’albino scartò subito l’idea ricordando
quanti soldi gli aveva dato in
elemosina per tutto questo tempo.
“Un
uomo con tanti soldi come lui non
può non avere una casa” Pensò mentre si
alzava.
Improvvisamente
il rumore di altri
passi si fece largo tra i vicoli, costringendo Gilbert ad accucciarsi
nuovamente dietro i detriti di pietra. Un gruppo di tre uomini dal
volto poco
rassicurante passò velocemente sotto il lampione,
palesemente seguendo le orme
che aveva lasciando l’altro pochi secondi prima. Qualcuno
borbottò qualcosa
aggiustandosi il colbacco sulla testa.
Gilbert non aveva dubbi, quelli erano russi e anche della peggiore
specie.
Attese qualche
altro secondo nascosto
nella paura di incappare in un secondo gruppo di uomini, ma quando vide
che non
sarebbe arrivato nessun altro, si alzò e iniziò a
camminare lentamente verso
l’incrocio dove la moltitudine di impronte nella neve veniva
illuminata dal
lampione.
Forse era
soltanto un caso che
quell’uomo caritatevole fosse passato da quelle parti prima
del gruppo di
russi, ma l’albino aveva il fortissimo presentimento che non
fosse così, e che
anzi quell’uomo era in serio pericolo.
“Non
sono affari tuoi” Gli sussurrò
una vocina nella testa, forse la coscienza
“Quell’uomo sicuramente si è messo
in qualche guaio con i russi, e non è un tuo problema.
Cercare un posto per
dormire, è questo quello a cui devi pensare ora!”
Ma il ricordo
dell’uomo che gli
regalava una moneta mentre passava, guardandolo per qualche secondo
come se
stesse dicendo “io ti vedo, tu esisti”, si fece
largo prepotentemente nella sua
mente, spazzando via quella vocina fastidiosa ed egoista.
Seguendo le orme a terra, anche Gilbert imboccò il vicolo e
con passo svelto
cercò di raggiungere l’uomo incappucciato, o
almeno il gruppo di russi,
sperando di non arrivare troppo tardi.
Trovò
entrambi in un piccolo spiazzale
dietro una grossa chiesa abbandonata, l’uno di fronte agli
altri a fissarsi
mentre il vento soffiava violentemente tra i vicoli, i russi che davano
le
spalle alla stradina da cui Gilbert assisteva alla scena.
Uno dei tre fece un passo avanti e indicò l’altro
uomo con una mano guantata.
“Finalmente
ti abbiamo in pugno” Disse
con il suo forte accento dell’est “E’
inutile che neghi, sappiamo chi sei e
cosa fai, stronzo”
“Sei
una schifosa spia americana, e a
noi le spie non piacciono” Continuò un altro, il
pelo del colbacco e svolazzava
ovunque a causa del vento.
Gilbert non fu
particolarmente colpito
da quelle parole, infatti non molto tempo prima aveva sollevato i suoi
dubbi
riguardo quell’uomo, ma nonostante ciò il tono di
quei russi gli mise i
brividi. Sentì che l’uomo incappucciato era in
guai seri e che quella
situazione sarebbe precipitata in poco tempo.
L’uomo
rimase in silenzio a fissare il
gruppo ostile ancora per qualche secondo, le mani nascoste nelle grosse
tasche
del cappotto.
I tre russi si spazientirono in fretta del suo silenzio, due di loro
cacciando
delle pistole dalle tasche, mentre il terzo un coltello a serramanico.
“Cos’è,
il gatto ti ha mangiato la
lingua, maledetto americano? Ma sta tranquillo, in un modo o
nell’altro faremo
in modo che tu non possa più parlare per sempre! Il governo
russo non ha
bisogno di spie nemiche nel suo territorio!” Urlò
infine.
Gilbert vide il
metallo delle pistole
luccicare alla luce dei lampioni dello spiazzale. Da quella posizione,
era in
grado di raggiungere con poche falcate gli uomini, mentre
l’altro si trovava
più lontano e soprattutto a portata di tiro. Dal suo
comportamento tranquillo,
Gilbert era sicuro che quell’uomo non si era accorto che i
russi erano armati
ed erano pronti a sparargli in qualsiasi momento. Doveva agire,
altrimenti lo
avrebbero ammazzato con pochi colpi di pistola, ma cosa poteva mai fare
debole,
invalido e disarmato com’era?
Infine,
l’uomo solo rispose con una
voce così leggera che il vento la portò via
immediatamente, ma nonostante ciò
arrivò comunque alle orecchie dei russi e di Gilbert.
“Sono
canadese”
In quel momento,
Gilbert sentì
un’ondata fortissima di adrenalina corrergli per tutto il
corpo. Sprofondando
un piede nella neve, si diede lo slancio per uscire fuori dal vicolo e
correre
verso il gruppo dei russi, che presi alle spalle di sorpresa, non
riuscirono a
controbattere in tempo. Le pallottole sparate dalle pistole a casaccio
guidate
dalla paura fischiarono ovunque mentre Gilbert saltava su uno di loro,
aggrappandosi con tutte le sue forze alla sua schiena con le braccia e
le
gambe, urlando all’uomo incappucciato di scappare.
Non si accorse che nel frattempo aveva estratto una pistola e stava
sparando
contro i russi, freddandoli con singoli colpi precisi.
Dopo quei pochi
secondi di adrenalina
pura dove la mente si ridusse a un insieme di immagini sfocate e urla
ovattate,
l’albino si ritrovò con la schiena sulla neve
schiacciato dal corpo pesante e
privo di vita del russo.
Improvvisamente tutto diventò silenzioso, soltanto il vento
con il suo
incessante ululato era ancora udibile, accompagnato dal calpestio della
neve.
“Stai
bene?” Infine, urlò l’uomo
mentre si chinava su Gilbert e lo aiutava a spostare il corpo morto con
un tono
molto preoccupato.
Mentre liberava
le gambe dal peso,
finalmente Gilbert riuscì a vedere per la prima volta il
volto dell’uomo, e
quasi non svenne per l’emozione.
“T-tu…”
Balbettò senza riuscire a
continuare.
Matthew gli
sorrise mentre gli porse
la mano per aiutarlo ad alzarsi. Gilbert era così scioccato
da quella scoperta
che la testa gli girava vorticosamente, o forse era soltanto
l’adrenalina che
abbandonava il suo corpo. Comunque sia, non riuscì a
distogliere gli occhi dal
suo volto pallido e sorridente.
Era incredibile che Matthew fosse lì in quel preciso
momento, forse Gilbert era
morto nel tentativo di aiutare l’uomo caritatevole, e un
angelo con le sembianze
di Matthew era venuto a prenderlo per portarlo di fronte al giudizio
divino.
Ma Matthew sembrava più tangibile e reale di
un’illusione mistica e alata.
Non era cambiato
di una virgola in
tutti quegli anni.
I suoi occhi erano ancora brillanti e caldi, e lo guardavano con gioia
e amore,
il suo sorriso era così genuino da sembrare quasi finto,
mentre i capelli
biondi e vaporosi erano portati ancora semi lunghi. La cosa che
attirò più di
tutti l’attenzione dell’albino fu la montatura
degli occhiali, di legno con
sofisticati intagli, come quelli che gli aveva regalato nel campo di
concentramento e che erano andati distrutti. Ma come
diavolo…?
Matthew rimase
in silenzio per tutto
il tempo, dando al tedesco il tempo necessario elaborare quella nuova
scoperta,
aspettando pazientemente mentre si toglieva la sciarpa per arrotolarla
intorno
al suo collo scoperto.
Infine Gilbert riuscì a mettere insieme una frase coerente e
ad articolarla in
modo comprensibile.
“Cosa
diavolo ci fai qui?”
“Gilbert,
dovresti saperlo, sono una
spia” Rispose piano Matthew dopo essersi guardato intorno
“Ma non è sicuro
parlare qui fuori, anche i muri potrebbero avere le orecchie. Vieni con
me, ho
un appartamento a pochi isolati da qui. Ti offro qualcosa di caldo se
ti va”
A Gilbert andava
ovviamente, ma lo
stupore era così forte che si ricordò a malapena
di annuire.
Per tutto il tragitto rimasero in silenzio, Gilbert con la mente piena
di
domande e Matthew guardingo e con il perenne presentimento di essere
seguito.
Infine, raggiunsero un piccolo edificio condominiale dove Matthew
alloggiava,
nella zona meno malfamata della periferia di Berlino Est.
L’appartamento
tutto sommato era
scadente e poco accogliente, con qualche mobile sporadico e spifferi
ovunque,
ma dopo aver vissuto più di un anno per strada, per Gilbert
quel posto sembrava
una villa. Matthew lo fece accomodare su un divano malmesso mentre si
liberava
del lungo soprabito invernale e iniziava a preparare del tè
caldo.
“Riguardo
alla tua domanda” disse
all’improvviso facendo sobbalzare l’albino, che
ormai si era abituato al
silenzio “Sono in missione” Si limitò a
dire.
“Missione?”
Nella stanza
cadde nuovamente il
silenzio. Il bollitore emanò un lungo fischio e Matthew lo
tolse dal fuoco per
versare l’acqua calda in due grosse tazze, aggiungendo
l’infuso e qualche
zolletta di zucchero. Quando offrì la tazza al suo compagno
questo subito la
prese e bevve avidamente qualche sorso scottandosi la lingua, ma la
sete e il
bisogno di calore era così forte che quasi non ci fece caso.
Invece notò un
grosso pupazzo di pezza bianco a forma di orso polare che sedeva
rigidamente su
un angolo del divano, una scritta blu si intravedeva sotto una zampa.
Dopo aver sorseggiato per un po’ il suo tè in
silenzio, Matthew posò la tazza
un piccolo tavolino e guardò l’albino direttamente
negli occhi.
“Dopo
che il campo di concentramento è
stato liberato, sono stato riportato in patria e decorato con varie
onorificenze. Sono rimasto in riabilitazione per molto tempo prima di
poter
ritornare a lavorare. In quel periodo, in cui ho incontrato nuovamente
la mia
famiglia, ho deciso di continuare a lavorare per l’esercito
come spia. Ho
accettato questo incarico appena ho potuto”
“Capisco…”
Si limitò a rispondere
Gilbert. Sorseggiò ancora per qualche momento il suo
tè, poi quando lo finì se
ne fece versare dell’altro e ricominciò a bere.
Sapere che il canadese era riuscito a ricrearsi una vita normale dopo
la
liberazione fece provare a Gilbert del sollievo, ma il ricordare qual
era stata
la causa dei suoi mali gli mise addosso un forte senso di angoscia.
“Perciò,
l’uomo caritatevole eri tu”
Esclamò d’un tratto “Tu mi permettevi di
comprare da mangiare con l’elemosina,
tu rimanevi a fissarmi per ore facendo finta di leggere il giornale
appoggiato
al muro, eri tu che…” Rimase con le parole a
mezz’aria.
“La
missione prevede di recuperare più
informazioni possibili sul regime russo” Interruppe Matthew
con la voce
alterata “ma non l’ho accettata per questo. Io
l’ho accettata per un altro
motivo…”
Gilbert
posò la sua tazza ancora
semipiena sul tavolo, sbalordito. I suoi occhi si aprirono per lo
stupore
mentre le parole venivano assimilate nella sua mente.
Matthew era qui per lui?
Impossibile negare che per tutto quel tempo non aveva mai dimenticato
il
piccolo e fragile canadese, ma Gilbert aveva cercato con forza di
metterci una
pietra sopra, di rassegnarsi a non poterlo mai più rivedere,
anzi a non averne
il diritto dopo tutto quello che era successo, dopo quant’era
stato disumano
con lui e con gli altri prigionieri.
Gilbert si portava dietro delle colpe che difficilmente avrebbe potuto
espiare,
Dio abbia pietà di lui.
“Matthew…”
Sussurrò.
Il canadese
sorrise e abbassò lo
sguardo, togliendosi gli occhiali e rigirandoseli tra le mani. Quel
gesto pieno
di significato quasi fece commuovere Gilbert, ma nonostante
ciò non riuscì ad
esprimere la moltitudine di sensazioni e sentimenti che imperversavano
nel suo
animo.
Era tutto così strano, così veloce e improbabile
che Gilbert quasi temesse
fosse un sogno.
“Io…
non sono riuscito a dimenticare,
Gilbert” Fu tutto ciò che disse.
L’albino
rimase in silenzio per qualche
istante, poi sorrise:
“E’ normale, io sono troppo fantastico per essere
dimenticato”
Non diceva
quella frase da tempo
ormai, e dirla in quel preciso momento, vestito di stracci e smagrito
difronte
a colui che un tempo aveva perseguitato con ferocia, era davvero fuori
luogo e
lasciava un sapore piuttosto amaro in bocca, ma Matthew si
limitò ad annuire
con il sorriso.
“Si,
è vero!”
Il ragazzo dai
capelli argentei vide l’altro
cercare di trattenere a stento le lacrime mentre il suo sorriso
vacillava pericolosamente.
Si alzò di scatto e abbracciò stretto
quell’uomo che per tutto quel tempo non
aveva smesso di cercarlo, nonostante lui si fosse rassegnato al destino.
“No,
sei tu ad essere fantastico. Non
ci sarà giorno in cui non lo ricorderò al mondo
intero”
Matthew
ricambiò l’abbraccio con
forza, premendo il viso sulla sua spalla.
Da una delle maniche che posavano morbidamente sulle braccia si
intravedevano i
numeri cuciti sottopelle.
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Arthur
e Francis convissero in un piccolo appartamento al centro
di Londra per sette anni, finché Arthur non passò
a miglior vita a causa di una
cirrosi epatica malcurata. Rimasto solo, Francis continuò a
coltivare le rose
di Arthur deponendone una sulla sua tomba nella cappella di famiglia,
ogni
giorno. All’età di 53 anni si spense a causa di un
infarto fulminante e fu tumulato
nella stessa cappella accanto ad Arthur, permettendogli di poter stare
insieme
per l’eternità. La loro morte mise fine alla lunga
discendenza della famiglia
Kirkland. La proprietà di famiglia venne trasformata in un
ricovero per i
reduci di guerra, secondo le loro volontà testamentarie, con
l’obbiettivo del loro
reinserimento nella società.
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Ivan
si impegnò a seguire una terapia riabilitativa per liberarsi
definitivamente dei suoi problemi post traumatici, ma quando il regime
iniziò a
bollare le persone in terapia come malati mentali e a rinchiuderli nei
manicomi,
dovette smettere. Con il passare degli anni, gli attacchi divennero
sempre più
frequenti e violenti, finché una notte di inizio dicembre,
quando si trovavano nella
tenuta di Feliks in vacanza, Toris fu gravemente ferito da Ivan in
preda a una
forte crisi e ricoverato in ospedale.
Compresa la gravità della situazione, ormai non
più sostenibile né risolvibile,
Ivan affidò il compagno a Feliks, lasciando la villa la
notte stessa. Fu
trovato impiccato ad un albero alcuni giorni dopo in un terreno incolto
non
lontano dalla residenza.
Feliks non ebbe mai il coraggio di dire la verità a Toris,
né quest’ultimo
chiese mai nulla, semplicemente comprese e si rassegnò. Di
tanto in tanto però Feliks
poteva sentire di notte i lamenti del pianto dell’amico
attraverso i muri delle
camere.
Toris non tornò più in Russia e
l’appartamento che condivideva con Ivan rimane
ancora oggi chiuso e inutilizzato, tutti i loro averi
all’interno, nel
frigorifero gli ingredienti ormai liquefatti per la torta di compleanno
di Ivan.
Vivono tuttora nella residenza Lukasiewicz.
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Chiariti
i loro sentimenti, Ludwig e Feliciano iniziarono una
relazione stabile e segreta mal accettata da Romano e supportata da
Antonio.
Dopo molti corteggiamenti da parte di quest’ultimo, alla fine
Romano si arrese
e iniziò a frequentare lo spagnolo, facilitando di molto lo
scambio di inquilini
che permise a Ludwig di vivere con Feliciano e a Romano di vivere con
Antonio.
Nel 1975, a causa di un grave incidente sul lavoro, Feliciano rimase
paralizzato dalla vita in giù senza alcuna
possibilità di riabilitazione. Continua
tuttora a godere dell’assistenza dei suoi famigliari e del
suo compagno mentre
si afferma definitivamente nel mondo dell’arte come pittore
paesaggista.
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Abbandonata
finalmente la strada, Gilbert iniziò a convivere con
Matthew, cercando di non disturbare l’operato della spia.
Insieme aderirono a
un movimento clandestino dedito al rovesciamento del regime comunista e
all’abbattimento
del muro di Berlino. Durante il loro operato nella
“resistenza”, entrambi si
impegnarono per aiutare coloro che volevano superare il muro per
ricongiungersi
con i propri famigliari nella parte occidentale.
Oggigiorno vivono a Bonn in una piccola casa di campagna dove Gilbert
alleva
canarini.
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Alfred
combatté sul fronte occidentale contro i tedeschi,
successivamente prestò servizio sul fronte asiatico contro i
giapponesi. Dopo
un’epica disavventura, con il finire della guerra, rimase
qualche anno in
Giappone per poi ritornare in patria accompagnato dall’amico
Kiku Honda, dove
poté finalmente incontrare suo fratello e sua madre.
Divenuto addestratore di nuove reclute nell’esercito
americano, attualmente si
gode la pensione in un Ranch in Texas insieme al suo amante Kiku.
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Dopo
la liberazione del campo di concentramento prussiano, di
Roderich non si ebbero più notizie. Voci ufficiali affermano
che sia morto durante
la liberazione e che il suo corpo sia stato seppellito nelle fosse
comuni insieme
agli altri caduti, mentre voci di corridoio lo vorrebbero vivo e vegeto
in Venezuela,
dove riuscì a stabilirsi con altri ufficiali nazisti
sfuggiti ai processi, e a
formare una famiglia.
Non si seppe mai la verità.
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Il
9 novembre 1989 il muro di Berlino fu abbattuto, riunificando la
città e il paese per sempre e mettendo fine alla guerra
fredda tra USA e URSS.
All’età
di 60 anni, i due fratelli Beilschmidt
potettero finalmente riabbracciarsi.
Il
Blocco H3T4-L14
Fine
Note
dell'Autore
Scusate
il terribile ritardo e la qualità del capitolo.
Grazie di avermi accompagnato lungo questa bellissima avventura.
Tornerò!!!
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