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Autore: Estethell    01/06/2018    1 recensioni
Grazie a una promozione, il soldato nazista (non per scelta) Ludwig viene inviato nel campo di concentramento prussiano come co-amministratore di suo fratello, il feroce Gilbert.
Contemporaneamente nel campo arrivano dei prigionieri che vengono subito smistati nei vari blocchi dormitorio-fabbrica. Il blocco H3T4-L14, sopranominato hetalia, è amministrato direttamente da Gilbert ed è il luogo peggiore di tutto il campo. In poco tempo vi si ritroveranno prigionieri di vari paesi, tra cui un dissidente politico e filo-russo lituano, un polacco che aiutava gli ebrei a fuggire dai rastrellamenti tedeschi, un ex soldato volontario francese, una spia canadese e un partigiano italiano.
Ludwig cercherà in ogni modo di aiutare i poveri malcapitati del blocco H3T4-L14 a sfuggire dalla violenza del fratello, sviluppando sentimenti nuovi e complessi per il dolce e ingenuo italiano, mentre Gilbert scoprirà grazie a un timido canadese che l'amore vince su ogni cosa, anche sulla violenza.
Principalmente Gerita e Prucan, Fruk sullo sfondo, qualche accenno di Rusliet.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Febbraio 1946, Londra

Quando aprì gli occhi, Francis si accorse immediatamente di due cose: la prima era che il sole filtrava prepotentemente tra le spesse pieghe della tenda che copriva la finestra, fendendo l’aria e cadendo esattamente dov’erano i suoi occhi, accecandolo; la seconda fu la voce soave di un uomo che cantava una lenta e dolce melodia dall’altra parte della casa, seguita dallo sgradevole odore di cibo bruciato che si insinuava in ogni anfratto dell’appartamento come un parassita.

Francis si passò una mano sugli occhi ancora pesanti dal sonno mentre si metteva lentamente seduto sul letto. I suoi capelli erano un disastro, come ogni mattina, e cadevano in ciocche arruffate sul volto e sulle spalle. Liberatosi finalmente dalla luce traditrice, il francese si stiracchiò allungando le braccia sulla testa e sbadigliando. La camicia da notte che portava cadde morbida dalle sue braccia scoprendole, rivelando anche l’avambraccio numerato.

Svegliarsi presto stava cominciando a diventare sempre più difficile con il passare del tempo, soprattutto se durante la sera e la notte era costretto a partecipare ad eventi di vita mondana con Arthur. Nonostante il suo odio spropositato per la movida inglese, Arthur era ancora l’ultimo erede della prestigiosa famiglia Kirkland, e aveva degli obblighi da rispettare.

Poggiando i piedi nudi sulla moquette morbida, Francis si alzò dal letto e, grattandosi la nuca ancora assonnato, si diresse verso la cucina, la fonte dell’odore disgustoso che appestava l’aria.
Come aveva immaginato, nella cucina c’era Arthur che canticchiava la sua adorata ninna nanna mentre cucinava, o torturava, qualcosa sui fornelli. Francis si fermò sulla soglia della porta ad osservare la scena, per poi appoggiarsi allo stipite con la spalla e la testa, sorridendo.
I suoi occhi vagarono su tutta la figura bassa e snella del britannico, sul suo collo roseo e scoperto, sulle spalle strette e gentili, sui fianchi che sostenevano i lacci legati del grembiule, sul suo fondoschiena piccolo e sodo, morbido, che combaciava perfettamente con le grosse mani del francese.

Arthur non si accorse della presenza del francese finché, abbassandosi per aprire il forno e prendere la teglia di scones carbonizzati, non si bruciò un dito nonostante le presine. Subito il ragazzo iniziò a imprecare nella sua lingua natia una serie incalcolabile di nomi, oggetti ed esclamazioni strane, finché la risata di Francis non lo fece girare verso la porta.

“Cosa diavolo ridi, stupida rana?” Urlò mentre il suo volto diventava rosso per l’imbarazzo.

Francis, che intanto aveva dato un’occhiata più approfondita al suo fondoschiena, continuò a ridere di gusto. Arthur era sempre stato negato per la cucina fin da quando si erano conosciuti anni addietro, quando Francis era soltanto un orfano affamato introdotto nella ricchissima famiglia Kirkland. Aveva più volte cercato di insegnargli almeno i concetti base di come usare i fornelli, ma era stato tutto inutile.
Spostandosi dallo stipite della porta, il francese si avvicinò lentamente ad Arthur e gli prese la mano baciando il dito scottato e facendogli l’occhiolino. Il britannico arrossì vistosamente e poi distolse lo sguardo con un leggero cipiglio e un borbottio incomprendibile.

“Devi stare più attento, mon ami!”

“T-taci! Non solo mi sono svegliato presto per cercare di cucinarti la colazione, devo essere anche preso in giro così!”

Francis sbatté varie volte le ciglia stupito: se Arthur diceva di essersi svegliato presto, e già di per sé si svegliava presto, ciò significava che quella teglia di biscotti deformi non era stata la prima aberrazione che era uscita da quel forno quella mattina. Un brivido lo scosse lungo tutta la schiena al pensiero di quanti ingredienti preziosi erano stati sacrificati nelle mani dell’inglese.

“Merci, mon ami, io apprezzo sempre quello che fai per me!” Canticchiò mentre spingeva l’altro verso una sedia del tavolo “Ma è mattina inoltrata e io ho fame. Ora da bravo rimani qui seduto e aspetta che cucini qualcosa di buono… o per lo meno commestibile…”

Arthur cercò di fare resistenza mentre la sua bocca sciorinava una serie di imprecazioni da vero londinese, infine si arrese e si sedette togliendosi il grembiule da cucina e lanciandolo contro Francis, che lo prese al volo.

“Su su, tesoro, non essere così arrabbiato! Piuttosto, cosa vorresti per colazione?”

Legandosi il grembiule dietro la schiena, Francis iniziò a recuperare tegami e altri strumenti da cucina. Sorrise quando vide il cestino, che di solito Arthur usava per fare la spesa, contenere uova, farina e latte fresco. In realtà il francese non aveva mai capito come il suo compagno riuscisse a procurarsi quei beni alimentari quasi di lusso mentre il resto della popolazione era affamata e per strada tra le macerie.
Un pensiero che per ora non era molto importante.

“I miei scones, per favore!” Rispose con veleno l’altro biondo da dietro le sue spalle.

Francis lanciò un’occhiata alla teglia ancora fumante con sopra i biscotti quasi carbonizzati. Scosse la testa in disapprovazione e iniziò a riunire degli ingredienti in una ciotola, amalgamandoli con una frusta.

“Mon dieu, non vorrai davvero mangiare quella roba tutta bruciacchiata? Non vorresti invece una bella crepe con un po’ di thè?”

Arthur rispose con un verso frustato, rimanendo il silenzio per il resto del tempo. Francis sorrise sotto i baffi, il suo amico era così orgoglioso da non voler ammettere che preferiva il cibo francese piuttosto che i suoi biscotti cotti male inglesi.
Fischiettando, il biondo mischiò per bene gli ingredienti nella ciotola roteando la frusta velocemente e con decisione, la manica della camicia da notte che rivelava i numeri sull’avambraccio a ogni colpo di frusta. Francis sentiva lo sguardo di Arthur forargli la schiena, ma non disse nulla.

Prendendo una padella e mettendola sul fuoco, in poco tempo riempì un piatto di fumanti e deliziose crepes dall’odore invitante. Mentre aspettava che l’ultimo crepe si cuocesse nella padella, prese la teglia ormai fredda e la svuotò in un sacchetto di carta. Da dietro le sue spalle Arthur esclamò la sua disapprovazione.

“Non voglio sprecarli, conosco molte persone che li apprezzeranno nonostante siano così bruciati”

“Ma io li ho fatti per te!”

“Lo so, mon ami, ma sai anche che non li mangerò!”

Non era per cattiveria, ma da quando era tornato in Inghilterra vari mesi prima, Francis aveva giurato a sé stesso di non mangiare più alcun cibo se non fosse stato della cucina francese e cucinato da lui. Gli dispiaceva offendere in quel modo il suo adorato compagno, ma purtroppo il suo fisico non si era ancora ripreso dagli abusi subiti durante la sua prigionia nonostante fosse trascorso più di un anno dalla sua liberazione, e intendeva mangiare in modo salutare per cercare di salvare il salvabile. I medici che lo avevano visitato gli avevano assicurato che si sarebbe rimesso in sesto presto, ma Francis sentiva il suo fisico, e soprattutto la sua mente, compromessi per sempre.
Un pugno sul tavolo lo riportò alla realtà.

“Stupida rana! Crepa! Sparisci dalla mia vista!”

Francis rise di gusto a quelle parole. Da quando era stato accolto nella casa della famiglia Kirkland, Arthur aveva sempre avuto il vizio di inveire contro di lui quando qualcosa non era di suo gradimento, o semplicemente quando era arrabbiato o nervoso. Di solito Francis portava il conto delle volte che Arthur gli diceva quella frase per il semplice gusto far infuriare maggiormente il suo compagno, che trovava semplicemente adorabile in quello stato. Questo era un gioco che facevano prima che lui partisse per il fronte, ma da quando era tornato Arthur non glie l’aveva ancora mai detta.

Con un rapido colpo di spatola, il francese girò la pastella sul fuoco e stava per rispondere ad Arthur iniziando il conto degli insulti, quando due braccia gli strinsero il busto da dietro. Arthur premette il petto contro la sua schiena, poggiando la fronte sulla spalla del ragazzo, che sorpreso da quel gesto posò la spatola sulla cucina.

“No…. Ti prego, non farlo…”

“A-Arthur?”

Il rumore di alcuni singhiozzi arrivò alle orecchie del francese. Dietro la sua schiena Arthur strofinava il suo volto sulla sua spalla, bagnandola di lacrime.

“Non voglio che tu… che tu muoia, o… o che te ne vada… Non voglio rimanere solo… di nuovo”

Francis strinse le labbra mentre i suoi occhi si inumidivano e il suo cuore si stringeva per il dolore. Se per lui quegli anni erano stati difficili, per Arthur, che non sapeva dove si trovasse e se fosse ancora vivo, lo erano stati altrettanto.
Girò su sé stesso senza rompere l’abbraccio e strinse il britannico al suo petto accarezzandogli con una mano la schiena mentre con l’altra i capelli.

“Tranquillo Arthur, tesoro… non vado da nessuna parte. Io non ti lascerò mai più, te lo prometto!”

A quelle parole Arthur strinse ancor più il corpo del francese e gemette nel pianto. Francis gli prese il mento con la mano e gli alzò il volto per guardarlo negli occhi. Lo sguardo di Arthur era bagnato e carico di dolore, i bordi degli occhi e le guance rossi mentre le lacrime scendevano copiose.
Francis rimase incantato dalla sua bellezza.

“Arthur” Sussurrò, poi chiuse le distanze tra di loro.
Le labbra di Arthur erano morbide e sottili, mentre quelle di Francis screpolate e carnose. Il francese diede un piccolo morso a quelle labbra così invitanti, poi approfondì il bacio chiedendo il permesso di poter esplorare la bocca dell’altro con la sua lingua, permesso subito accordato. Arthur si chinò leggermente all’indietro spinto dalla forza gentile ma decisa del bacio, mentre il suo corpo si spostò per combaciare perfettamente a quello del suo compagno e le braccia si strinsero attorno al suo collo.

La stanza si riempì velocemente dell’odore pungente di cibo bruciato, ma la coppia sembrò non farci caso tant’era concentrata nel baciarsi.
Francis non riuscì a resistere e fece scivolare le sue mani dalla vita dell’inglese fin sul fondoschiena che strinse forte, facendolo gemere per la sorpresa e rompendo il bacio.
Il francese sorrise e appoggiò la fronte sulla sua.

“Non esiste nulla al mondo che possa allontanarmi di nuovo da te! Soltanto la morte forse, e dovrà combattere molto… sono un osso duro, sai?” Fece l’occhiolino.

Arthur sorrise mentre un’ultima lacrima scivolava sulla guancia, poi annuì di rimando e si alzò in punta di piedi per iniziare un altro appassionato bacio.

 

Maggio 1950, San Pietroburgo

Toris si passò la manica del giubbotto sulla fronte mentre camminava per le strade trafficate della grande città russa. Il sole picchiava senza tregua sui palazzi e sulle strade illuminando e scaldando tutti i pedoni che frettolosamente camminavano ovunque intorno a lui, guardandolo con vivo stupore e con una punta di giudizio.
Il ragazzo lituano camminava a passo svelto coperto da un lungo cappotto e una sciarpa, decisamente troppo pesanti per quella stagione, madido di sudore e con un grosso sacchetto della spesa tra le braccia. Cercò di ignorare le lunghe occhiatacce che la gente gli lanciava mentre cercava di allargare la sciarpa quel tanto che bastava per non farla aderire alla pelle del collo e quindi farlo sudare ulteriormente. Almeno aveva avuto la decenza di legare i capelli con un nastro, anche se sulla fronte e vicino le orecchie erano tutti bagnati.

Schivando i vari veicoli che ronzavano ovunque con il loro rumore assordante, finalmente riuscì ad arrivare al portone del palazzo dove condivideva un appartamento con il suo compagno Ivan.
Dopo essere stato salvato dal campo di concentramento, Toris era stato oggetto di una corte quasi da romanzo rosa da parte del soldato russo che in quella fatidica notte era saltato fuori dal carro armato come una inaspettata quanto bellissima sorpresa. Inizialmente Toris non gli diede molto credito, guidato anche Feliks e i suoi amici che non vedevano di buon occhi Ivan, ma a lungo andare cedette al corteggiamento, trasferendosi in Russia con lui.

Girando la chiave nella grossa serratura del portone, Toris fu colpito da una folata d’aria fredda proveniente dalla tromba delle scale appena aprì l’anta. Girava sempre una piacevole aria fresca nel grande atrio del condominio, che d’estate rinfrescava e d’inverno invece scaldava quel tanto che bastava per ritrovare la sensibilità alle dita degli arti.
Il loro appartamento si trovava al terzo piano, dopo una scalinata degna di qualunque scalata su di una montagna. Dopo aver salito quelle rampe di scale Toris aveva sempre il fiato corto, soprattutto se portava altri pesi con sé come il sacchetto della spesa. Gli altri coinquilini russi, tra cui anche Ivan, non sembravano soffrire della cosa.

Arrivato sul pianerottolo davanti il portone, Toris esitò qualche istante prima di infilare la chiave nella serratura e girare la maniglia. Si diede quasi dello sciocco per quell’attimo di incertezza, cercando di reprimere un lieve senso di paura che stava crescendo dal suo interno.
La sua vita in Russia era tranquilla e appagante, Ivan gli voleva bene, non avevano problemi economici gravi.
Non aveva nulla da temere.

Eppure, quando l’odore pungente della vodka lo assalì dopo aver aperto la porta, Toris sentì lo stomaco chiudersi dal terrore e una sgradevole sensazione, che provava ogni volta che sentiva l’odore o alla vista della vodka, pesare sulla sua pelle.

“No, ti prego no… non di nuovo” Pensò mentre entrava lentamente e guardingo nella sala d’ingresso.

L’odore della vodka proveniva in cucina dove una radio suonava una melodia piuttosto ritmata russa, seguita dal rumore dello sfrigolare di una padella. Toris raggiunse la cucina stringendo forte il sacchetto tra le sue braccia e cercando di non fare alcun rumore nella speranza di non essere scoperto.

Ivan era seduto al tavolo intento a leggere un quotidiano russo mentre ascoltava rilassato la radio, sulla cucina qualcosa aromatizzato alla vodka cuoceva nella padella. Appena Toris vide Ivan leggere il giornale con il suo solito sorriso ingenuo sul volto tutta la sua tensione si sciolse all’istante, seguita dal nodo allo stomaco. Ritrovando una certa serenità, entrò nella cucina salutando allegramente il russo che intanto balzò sulla sedia spaventato dall’improvvisa voce.

“T-Toris! Non ti ho sentito arrivare!” Esclamò mentre il suo sorriso si allargava in volto, appoggiando il giornale aperto sul tavolo.

“Sono stato piuttosto bravo a non farmi sentire, vero? Potrei lavorare come spia!”

Il ragazzo bruno posò il sacchetto sul tavolo mentre Ivan rispondeva positivamente e si alzava per salutarlo con un bacio sulla guancia. Appena le sue labbra toccarono la pelle sudata, il russo si accorse dell’abbigliamento e dello stato del suo compagno.

“Toris, perché indossi ancora questi vestiti pesanti? Sei un bagno di sudore. Pensavo che ti fossi abituato ormai al clima russo e che riconoscessi il cambio delle stagioni” Cerco di afferrare la sciarpa per tirarla via ma Toris scostò la mano e con delle scuse si allontanò da lui.

“Non preoccuparti tesoro, avevo freddo stamattina quand’ero uscito e il cambiamento del tempo mi ha sorpreso, tutto qui. E poi anche tu porti una sciarpa, non dovresti criticarmi” Disse mentre si avviava verso il bagno inseguito dai borbottii di Ivan, che era stato preso in contropiede “Vado a farmi una doccia, potresti sistemare la spesa? Ho comprato tutto il necessario per cucinare i pirozhki!”

Un’esclamazione euforica e il frusciare della busta di carta furono le ultime cose che sentì prima di chiudere la porta del bagno.
Toris sospirò e iniziò a slegarsi i capelli e spogliarsi da quei pesanti vestiti impregnati di sudore. Mentre i panni scivolavano a terra la sua pelle rivelava il motivo per cui il ragazzo insisteva a coprirsi tanto anche se era iniziata la stagione calda: lividi ovunque, grandi, piccoli, lunghi e viola, oppure maturati e sbiaditi, accompagnati da tagli freschi, in via di guarigioni e cicatrici piccole e lunghe.
Soprattutto saltava all’occhio un grosso livido sul collo che aveva la forma di due paia di mani che si allargavano dalla base fino sotto il pomo d’Adamo, d’un viola molto acceso, ultimo ricordo di una nottata d’incubo.

Toris finì di spogliarsi e guardò la sua immagine riflessa nel piccolo specchio appeso sopra il lavandino. Con un dito toccò il grosso livido sul collo e seguì il contorno fino ad arrivare al muscolo trapezio, l’incavo tra il collo e la spalla, mentre la sua mente tornava indietro ad alcune notti precedenti e il suo sguardo si faceva triste.

Dopo essere stato liberato dalla prigionia, pur avendo affrontato un lungo periodo di convalescenza sia in Lituania sia in Russia con Ivan, Toris non era ancora riuscito a liberarsi del ricordo degli orrori del campo di concentramento, e soprattutto dei traumi che ne sono derivati.
Incubi notturni, panico nei luoghi affollati, la persistente sensazione di essere osservato e inseguito ovunque, la paura di essere catturato nuovamente e imprigionato in un altro di quei campi infernali, questi erano alcuni dei problemi che Toris doveva giornalmente affrontare.
Il ragazzo aveva cercato di nascondere i suoi traumi al suo compagno per non creargli problemi, ma era fermamente convinto che Ivan avesse intuito qualcosa e cercasse in modo discreto di aiutarlo. In effetti il ragazzo russo era sempre stato molto premuroso con lui e quando aveva qualsiasi tipo di problema era sempre al suo fianco per aiutarlo.

Purtroppo, anche Ivan soffriva di traumi dovuti alla guerra.
Si agitava quando sentiva rumori forti che potevano ricordare cannonate o lo scoppio di mine e granate; aveva un’ossessione nel accertarsi della provenienza della carne che acquistava, a volte pretendendo addirittura di vedere il macellaio all’opera sull’animale; spesso soffriva d’ansia che lo portava a vagare in casa come se attendesse qualche evento catastrofico da un momento all’altro; aveva sviluppato anche una mania compulsiva di accumulare il cibo in una vecchia valigia sotto il suo letto, nel caso dovesse succedere qualsiasi cosa, diceva.
Ma il trauma più grave di cui soffriva erano le allucinazioni.
Di giorno queste allucinazioni si limitavano ad essere soltanto sonore, dove Ivan sentiva i rumori di un combattimento in atto o le grida dei nemici morenti, mentre di notte esse diventavano più forti e aggressive, spesso accompagnate da visioni.

Nonostante Ivan fosse stato fin da subito sincero circa i suoi problemi con Toris, il russo non aveva mai accennato alle sue allucinazioni, sicuramente nel tentativo di proteggerlo e per non allarmarlo, ma dopo poco tempo il lituano lo venne a scoprire, e nel peggiore dei modi.
Per tentare di fermare le allucinazioni che lo facevano cadere in fortissimi stati depressivi, Ivan aveva cominciato a bere per cercare di stordire la sua mente. Spesso il metodo funzionava e Toris trovava il suo povero compagno accasciato sul tavolo mentre piangeva e mormorava parole incoerenti, la bottiglia di vodka vuota accanto a un bicchiere rovesciato su un fianco. In quelle situazioni Toris cercava di tranquillizzare il russo con carezze e paroline dolci, poi lo aiutava a raggiungere il letto, dove quest’ultimo cadeva in un sonno profondo.
Altre volte invece, Ivan non era così fortunato da placare le sue allucinazioni, anzi l’alcol le amplificava rendendolo violento.
In quelle situazioni Toris aveva due scelte: nascondersi e aspettare che il suo compagno cadesse incosciente, sperando che nel frattempo non cercasse di ferirsi o addirittura uccidersi; oppure affrontare Ivan nel tentativo di tranquillizzarlo.
Toris sceglieva sempre la seconda.

Di solito il tutto finiva nell’arco di una diecina di minuti da quando Toris andava da Ivan per cercare di placarlo, arco di tempo in cui Ivan rompeva qualsiasi cosa gli finisse sotto tiro, lanciava piatti e bottiglie urlando frasi ingiuriose contro Toris, che veniva visto come il nemico, cercando di colpirlo con calci e pugni.
Passati quei minuti infernali, l’adrenalina di Ivan finiva lasciando il posto alla fatica e l’enorme ragazzo russo si accasciava su sé stesso esausto, riacquistando gradualmente la sua lucidità.

Toris era particolarmente bravo a schivare i colpi del compagno e a sgusciare dalle sue prese, ottenendo a volte qualche ferita dovuta dalla ceramica o dai vetri rotti, oppure qualche livido qua e là sulle braccia e sul torace. Durante il periodo della resistenza contro l’occupazione tedesca era stato addestrato anche al combattimento corpo a corpo, così in quei particolari momenti poteva applicare le sue conoscenze sia per non farsi male sia per non fare male ad Ivan.

Sfortunatamente, due notti prima non era riuscito ad evitare un pugno allo stomaco e, mentre si accasciava per il dolore, Ivan gli aveva messo le mani al collo per cercare di strangolarlo. Toris ne era uscito con solo un grosso livido perché era riuscito a fermare il russo sferrandogli un forte colpo al pomo d’Adamo, soffocandolo momentaneamente e indebolendolo a tal punto da liberarsi. Quella fu la prima notte che scelse anche la prima possibilità, ovvero quella di nascondersi.

Incredibilmente, le mattine dopo quelle nottate d’inferno il russo non ricordava nulla. La sbronza non sembrava avere alcun effetto su di lui, che si svegliava di buonora, riposato e tranquillo. Toris cercava di nascondere ogni prova di quei momenti tragici, buttando i cocci rotti e pulendo tutto, attribuendo il caos generale ai ladri che in quegli anni frequentemente rubavano in casa e nascondendo i lividi e i tagli ai suoi occhi.
Ivan sembrava crederci ogni volta, dimostrando un’ingenuità quasi disarmate, e si comportava nuovamente in modo affettuoso come se non fosse mai successo nulla.

“Sono stato io a farteli, non è vero?”

Toris saltò sul posto nel sentire la voce di Ivan che proveniva dalla porta socchiusa. Immediatamente cercò di coprirsi non la virilità ma i lividi sul corpo, girandosi verso la fonte, spaventato.
La porta era stata aperta quel tanto che bastava per permettere a Ivan di guardare all’interno del bagno. Metà del suo volto era nascosto dal legno laccato di bianco, mentre l’altra metà presentava uno sguardo spento e addolorato, il suo sorriso era stato sostituito una smorfia triste.

Toris rimase a bocca aperta mentre sosteneva lo sguardo di Ivan, che intanto vagava su ogni segno non nascosto dalle braccia, fermandosi infine sul collo. Cercò di dire qualcosa ma un nodo in gola non gli permise di continuare.
Come faceva a sapere che quei lividi erano colpa sua?
Toris era certo di non aver rivelato nulla di tutto ciò e di aver nascosto bene le prove.

Vedendolo in difficoltà, Ivan sospirò e aprì la porta per entrare nel bagno. Toris non accennò a muoversi né ad indietreggiare mentre Ivan socchiudeva la porta e lo raggiungeva, non perché terrorizzato ma perché si fidava ciecamente del suo compagno.
Raggiunto il ragazzo lituano, Ivan cedette a un moto d’affetto e lo abbracciò stringendolo a sé mentre si curvava per premere il volto tra l’incavo del suo collo. Toris si ritrovò premuto contro il petto largo del suo compagno, che lo sovrastava di parecchi centimetri.

Ancora cercando di capire cosa stesse succedendo, un singhiozzo attirò la sua attenzione. Il corpo di Ivan iniziò a tremare mentre sentiva il suo naso tirare su un paio di volte.

“Ivan..?”

“E’… è arrivata una lettera da Feliks. Io, io l’ho letta. Ero curioso di sapere cosa… cosa vi dicevate, un po' geloso anche… e...” La voce gli morì in gola mentre veniva scosso da altri singhiozzi.

Toris ricambiò l’abbraccio poggiando la testa sul suo torace, stringendo i denti.
L’amicizia con Feliks era durata anche al di fuori del campo di concentramento tramite scambio epistolare, e occasionalmente Toris e Ivan passavano qualche settimana in vacanza nella tenuta
Lukasiewicz. Mentre con gli altri detenuti i rapporti erano stati interrotti dai contrasti sorti dopo la guerra circa la spartizione dei territori alle nazioni vincitrici, di fatto allontanando sempre più l’Europa dell’Est dal resto dell’Europa e dell’America, i rapporti con Feliks rimasero saldi e forti. I due sopravvissuti si consideravano quasi come fratelli, e Feliks si arrogava il diritto di trattare Toris come un fratello minore dandogli consigli e criticando o approvando le sue idee.
Spesso Feliks finiva le sue lunghe lettere, quasi interamente incentrate sui suoi cavalli, con una filippica che cercava di persuadere il lituano a lasciare Ivan e a trasferirsi da lui. Egli sapeva dei problemi di Ivan e delle violenze che compiva su Toris, lui glie ne aveva parlato, e cercava in ogni modo di proteggere il suo amico convincendolo a sottrarsi da quell’amore malato. Toris però non considerava il loro rapporto malato, anzi.

Mentre con una mano iniziava ad accarezzare la schiena, con l’altra scompigliava i capelli chiari del suo compagno, nel tentativo di tranquillizzarlo.

“Da quanto tempo?” Chiese Ivan quando riuscì a calmarsi quel tanto che bastava per poter ricominciare a parlare “Da quanto tempo va avanti questa storia?”

“Alcuni anni” Si limitò a rispondere Toris.

Ivan trattenne il respiro mentre la sua presa si stringeva ulteriormente sul corpo di fronte. Toris sentì il suo cuore stringersi potendo solo immaginare come stava soffrendo in quel momento il suo compagno.
Rimasero in quella posizione, abbracciati l’un l’altro, con Ivan che respirava forte per cercare di calmarsi e Toris che lo accarezzava per tranquillizzarlo, per diverso tempo, finché il russo non prese improvvisamente la parola.

“Sono un mostro…” Sussurrò “Tu meriti di meglio…”

Toris sgranò gli occhi mentre le parole del russo riecheggiavano nelle sue orecchie.
Non aveva davvero detto quelle parole, vero?
Sentì la presa su di sé lentamente sciogliersi e l’aria fredda del bagno insinuarsi sul suo torace ancora caldo dal contatto fisico con l’altro.
Ivan lo stava liberando dal suo abbraccio. Lui lo stava lasciando.

Toris alzò lo sguardo incredulo verso il volto dell’altro mentre la sua presa si stringeva con forza per non lasciarlo andare, ma il ragazzo dai capelli chiari cercò in ogni modo di non incrociare il suo sguardo, guardando ovunque tranne che verso di lui.

“Cosa stai dicendo?” Sussurrò incredulo.

Ivan abbassò lo sguardo a terra mordendosi un labbro mentre le sue braccia cadevano lungo i fianchi, inermi e stanche.
Non ci fu risposta, ma Toris non ne voleva alcuna.
Serrando le sue braccia intorno al corpo più grande, premette il volto contro il petto di Ivan e non accennò a lasciarlo andare.
Il russo sospirò e cercò gentilmente di allontanarlo spingendolo dalle spalle, ma la sua presa era così inaspettatamente forte che non cedette di un millimetro.

“Toris” Sbuffò infine “Io-“

“Se avessi voluto…” Lo interruppe il lituano con la sua voce ovattata dal suo maglione “Se avessi voluto lasciarti, l’avrei fatto molto tempo fa. L’avrei fatto la prima volta che sono stato testimone dei tuoi problemi, o la prima volta che i miei compagni d’arme mi incitarono a farlo, o quando Feliks mi chiedeva disperatamente di trasferirmi da lui”

Mentre parlava, la sua testa si sollevò dal petto del russo e lo sguardo cercò il suo incredulo e ancora addolorato.

“Ma io non l’ho fatto, semplicemente perché non volevo farlo, anche se ho avuto moltissime occasioni. Io volevo stare al tuo fianco e voglio starci ancora, qualsiasi cosa succeda, perché so che mi ami e so che quella persona violenta che mi procura tutti questi lividi non sei tu!”

Le sue mani si posarono sulle guance pallide del russo, accarezzandole affettuosamente. Ivan aveva socchiuso gli occhi gonfi nuovamente di lacrime, le labbra tremavano per l’emozione. Strinse di nuovo il corpo nudo a sé circondandolo alla vita e tirò su col naso nel vano tentativo di trattenere le lacrime.
 Toris ne asciugò qualcuna con il pollice, lanciando un timido sorriso al suo compagno.

“S-scusami….  avrei dovuto parlarti dei miei problemi…”

“Ivan, non devi scusarti. Anzi sono io a doverlo fare, non solo non ti ho parlato dei miei di problemi, ma non ho nemmeno provato ad aiutarti. Ma ti prometto che d’ora in avanti affronteremo tutto insieme, va bene?”

Ivan annuì un paio di volte mentre le lacrime gocciolavano sulla pelle esposta del lituano, che stava cominciando a reagire al freddo della stanza. Ivan diede un bacio sulla testa di Toris sussurrandogli innumerevoli volte grazie, poi accorgendosi della pelle raffreddata, iniziò a strofinarla con le mani per scaldarlo.

“Ma tu stai congelando! Ti lascio al tuo bagno allora, anche se non vorrei davvero farlo”

“Allora facciamolo insieme!” Propose Toris con un dolce sorriso.
Ivan rispose a sua volta con un sorrisetto e annuì mentre si allungava per chiudere la porta.

 

Qualche ora più tardi, quando il bagno e il pranzo erano state consumate e Ivan era andato a riposare per prepararsi al turno notturno del lavoro, Toris si sedette allo scrittoio nell’angolino della sala di lettura e aprì l’ultima lettera di Feliks.
Il biondo polacco aveva scritto a Toris circa una sua cavalla che partoriva, com’era nel suo solito, e del fatto che quell’invernata era stata molto gelida in Polonia, forse molto più che in Russia (Toris ne dubitava fortemente), inoltre si scusava per il ritardo delle sue prossime lettere perché il sistema postale polacco stava avendo dei problemi a causa di “non sapeva il perché” (tipico di Feliks non sapere nulla di ciò che non lo toccava direttamente).
La lettera finiva con la sua solita, lunga filippica sulla violenza di Ivan e sul come Toris doveva immediatamente lasciarlo per mettersi in sicurezza da lui o dai suoi amici (preferibilmente da lui).

Toris sorrise per quasi tutta la lettura sentendo un moto d’affetto e di nostalgia nei suoi confronti, ma il sorriso svanì quando lesse le ultime righe, come sempre quando leggeva quelle parole che erano frequenti nel loro scambio epistolare.
Prendendo un foglio dal cassetto e una penna, il ragazzo bruno cominciò a scrivere una lettera di risposta per il suo amico.
Raccontò quant’era stato duro l’inverno in Russia e quanta neve era caduta nelle strade, e come la cosa lo disturbò non poco ricordandogli il crollo del capannone. Gli raccontò anche un episodio buffo accaduto in un negozio qualche settimana prima, e come era scivolato in modo imbarazzante su una lastra di ghiaccio semi sciolto per una strada trafficata del centro.

Ebbe premura di non nominare mai Ivan, com’era il suo solito, per non scatenare le risposte seccanti dell’amico, scrivendo molti episodi che aveva vissuto con lui come se fosse stato solo in quei momenti. Quando arrivò alla terza pagina, decise di concludere la lettera con una risposta a tono alle premure malvolute dell’amico.
Brevemente, gli spiegò il perché delle sue scelte e il perché non avesse ancora lasciato Ivan, ripetendo tra l’altro ciò che aveva detto al suo compagno ore prima. Chiese gentilmente all’amico di non insistere, anche se sapeva che quella richiesta sarebbe stata totalmente ignorata, e concluse con un saluto di commiato, la data del giorno e la sua firma.

Rilesse nuovamente il foglio aggiustando qualche errore qua e là, poi prese una busta e un francobollo dal cassetto e preparò la lettera per essere spedita l’indomani.
Mentre scriveva l’indirizzo della villa di Feliks, ripensò agli eventi della mattina e alle parole di Feliks.
Certo, sia lui sia i suoi amici avevano ragione, Ivan diventava molto pericoloso quando era preda delle allucinazioni, soprattutto quando beveva, ma anche lui aveva dei problemi significativi e Ivan era stato sempre al suo fianco per aiutarlo in ogni modo possibile.

“Affronteremo insieme questi problemi e li supereremo” Pensò mentre posava la lettera sul mobile “Non sarà facile, ma insieme ci riusciremo. E poi nessuno è perfetto, no?”

 

Dicembre 1963, Berlino Ovest

La sirena riecheggiò in tutto l’edificio con un suono forte e pulito, annunciando la fine del turno. Ludwig sospirò mentre lasciava la sua postazione vicino alla fonderia per premere dei bottoni su un pannello e spegnere il macchinario per la stampa dei barattoli in latta. Gli altri operai, che come lui avevano appena finito il turno, sciamarono in silenzio verso l’uscita dell’edificio, diretti allo stanzone dove si trovavano i loro armadietti. Qualcuno provò a intavolare un discorso, ma la maggior parte di loro era stanca e desiderava soltanto tornare a casa, e la domanda o l’esclamazione volava via portata dal vento gelido, senza risposta.

Togliendosi le poche protezioni che aveva, Ludwig seguì il gruppo in silenzio, conformandosi all’umore generale.
Da quando era stato catturato nel campo di concentramento e processato a Norimberga, Ludwig aveva speso i successivi quindici anni della sua vita in un carcere di Berlino, divenuta nel frattempo Berlino Ovest. La sporcizia, il trattamento a dir poco disumano che le guardie riservavano ai detenuti, il cibo scadente e quasi assente, i criminali che lo circondavano, tutto in quel posto lo aveva fatto tremare fin dentro le ossa e tolto per molti notti il sonno.

Durante quei lunghissimi anni di prigionia era stato indirizzato in progetto lavorativo in ambito metallurgico, formandolo per un presunto lavoro in vista della sua scarcerazione. In effetti, poco tempo dopo essere tornato libero era riuscito a trovare lavoro presso la fabbrica di barattoli di latta dove si trovava ora.

La colonna di uomini silenziosi imboccò un piccolo corridoio che li portò nello stanzone degli armadietti. Velocemente, molti di loro afferrarono le loro cose e con pochi saluti si dileguarono. Ludwig sapeva bene del perché di quella fretta, di solito gli operai erano sempre molto lenti nel prendere i loro averi e andarsene, spesso si fermavano per brevi chiacchierate o per organizzare un gruppetto per andare al pub, ma quello era il giorno di paga e molti di loro avevano fretta di prendere i pochi soldi che gli spettavano.
Alcuni li avrebbero portati a casa per pagare i debiti e per comprare da mangiare alla famiglia, altri li avrebbe dilapidati in alcol o scommesse clandestine.

Ludwig non si affrettò anche se l’idea di avere finalmente la sua paga mensile era esaltante, non aveva nessuna voglia di andare al pub e non aveva nessuno ad aspettarlo a casa.
Nuovamente libero, Ludwig faticò non per trovare lavoro, bensì per trovare un’abitazione a causa degli affitti troppo alti. Si dovette accontentare di un bugigattolo di tre stanze che condivideva con un emigrato spagnolo sempre allegro e spensierato, che come lui lavorava nella fabbrica ma in un altro settore.

 Indossò il lungo e pesante cappotto rattoppato e, mettendosi la borsa sulle spalle, si avviò verso gli uffici dei dirigenti per riscuotere il frutto del suo lavoro. Mentre raggiungeva il gruppo di persone che si ammassava nervosa davanti gli uffici, fu raggiunto da Antonio, il suo coinquilino, che aveva appena terminato un turno di straordinari.
Ludwig lo salutò con poco slancio mentre il bruno gli lanciava un caloroso sorriso.

“Hola, amigo! Anche tu hai appena finito il turno?”

“Ja, stavo giusto andando a prendere la paga. Devi riceverla anche tu?”

“Oh, no, no, io l’ho presa a fine turno. Sono venuto qui soltanto per incontrarti, così andiamo a casa insieme”

Raggiunsero i restanti operai mentre dagli uffici usciva un amministratore che con un elenco cominciò a chiamare cognomi di varie nazionalità, spesso deformandoli.
Finalmente Ludwig si girò a guardare il suo amico per la prima volta da quando si erano incrociati.

“Non avevi un turno di straordinari?” Chiese accigliandosi mentre Antonio incominciava a ridere con una strana risata musicale.

“No, in realtà era un turno normale, solo che sono arrivati dei nuovi operai appena emigrati e mi hanno chiesto di fargli fare un giro della fabbrica e di spiegargli alcune cose”

Ludwig annuì sovrappensiero mentre tornava a guardare l’amministratore che girava il foglio accedendo a un’altra lista. Dopo poco tempo venne urlato il suo nome e il ragazzo biondo si affrettò a raggiungere l’uomo, intascare la piccola busta contenenti la sua paga, e tornare da Antonio. Nel mentre, Ludwig si sentì più di qualche sguardo puntato addosso.
Aveva cercato con ogni mezzo di nascondere la sua parentela con la famiglia caduta in rovina
dei Beilschmidt, arrivando perfino a negare una presunta parentela con suo padre, che con la caduta del regime si era suicidato insieme alla moglie come la maggior parte degli ufficiali di alto rango del Fuhrer. La quasi totalità degli operai gli aveva creduto, ma alcuni avevano ancora molti sospetti e lo fissavano senza pudore con uno sguardo diffidente, bollandolo nella loro mente come uno sporco nazista.

Antonio era rimasto nel posto dove lo aveva lasciato. Facendogli un cenno con la testa, i due cominciarono a camminare verso l’uscita della grande fabbrica, pronti ad affrontare una serata gelida e nevosa per tornare nella loro abitazione.

“Sai, quelli nuovi che sono arrivati sono molto simpatici, ci sono anche un gruppetto di spagnoli! E’ stato bello chiacchierare con loro nella nostra lingua, e non essendo delle mie parti ci siamo raccontati qualcosa del nostro territorio a vicenda”

“Sembra bello. Hai intenzione di cucinare tu stasera?”

“Uh? Ah si, magari una tortilla, tanto le patate non mancano mai, dovrei comprare soltanto le uova…”

“Allora mentre torniamo ci fermiamo dal droghiere” Rispose il tedesco mentre abbozzava un mezzo sorriso, pregustando la cucina spagnola di cui era segretamente ghiotto.

“Vale (Va bene)!” Rispose di rimando lo spagnolo, poi sorrise nuovamente “Di cosa parlavamo? Giusto, dei nuovi arrivati! Ci sono anche due francesi, sono davvero splendidi, con il loro accento così morbido…”

Antonio cominciò a raccontare di ogni singolo individuo che era stato assunto quel giorno nella fabbrica. Ludwig gradualmente smise di ascoltarlo e si concentrò su un piccolo gruppetto di persone che chiacchierava davanti la porta d’uscita. Antonio aveva il vizio di parlare troppo e Ludwig aveva capito di non possedere più la pazienza infinita di cui andava tanto fiero da giovane. Però, non volendo offendere il suo amico, il tedesco si limitava a fingere di ascoltare, annuendo qualche volta ed esclamando stupore.

Mentre si avvicinavano, dal gruppetto si staccò un ragazzo bruno che iniziò a strillare verso un corridoio con fare quasi animalesco. Ludwig si fermò all’istante per due motivi, attirando la curiosità dello spagnolo che smise con la sua filippica su quanto sono poco simpatici gli olandesi.
Il primo motivo fu il comportamento quasi osceno del ragazzo, che si era messo a urlare come se qualcuno lo stesse scorticando vivo.
Il secondo motivo era che aveva urlato qualcosa di incomprensibile in una lingua armoniosa, sembrava quasi stesse cantando a squarciagola.
Ma a uno sguardo più attento, Ludwig trovò un terzo motivo, di gran lunga superiore ai primi due: quel ragazzo era uguale a Feliciano.

Nei quindici anni che aveva passato in carcere, la mente di Ludwig era volata innumerevoli volte verso l’italiano, disperandosi di non poterlo più vedere e immaginando cosa stesse facendo in quello stesso momento. Inizialmente l’immagine di Feliciano era nitida nella sua mente, i capelli castani lisci che ondeggiavano al vento con lo strano ricciolo ribelle, il suo corpo mingherlino da proteggere, i suoi occhi vivaci e luminosi, il suo sorriso caldo e rassicurante.
Ma anche se la mente del tedesco era costantemente impegnata nel ricordo del suo amato, con i vari mesi l’immagine di Feliciano iniziò ad affievolirsi, a sfumare i contorni, a perdere i dettagli e i colori, finché non rimase che un forte senso di angoscia e di perdita che portò Ludwig a non pensarci più pur di non soffrire ulteriormente.
Una volta libero, Ludwig fu così sopraffatto dagli eventi circostanti da non pensare più al bell’italiano che gli aveva fatto girare la testa, ritrovandosi però un vuoto nell’animo così incolmabile che nemmeno le birre oppure solo l’idea di trovare qualcun altro potevano risolvere.

Ma in quel momento, la vista dei capelli bruni e lisci, la bassa statura e il corpo mingherlino, la voce forte che urlava parole in italiano…
Feliciano era lì, davanti a lui, finalmente poteva rivederlo.

Ludwig fu travolto da una forte ondata di gioia, che velocemente si tramutò in panico.
Con quale faccia poteva andare davanti all’italiano, ex prigioniero del campo di concentramento che gestiva con suo fratello, e restaurare un rapporto malato nato tra sofferenza e torture varie?
Feliciano avrebbe potuto provare sentimenti di odio e repulsione alla sua vista, ricordando quei momenti terribili, e avrebbe potuto scacciarlo in malo modo, infliggendogli una ferita quasi mortale.

Indeciso sul da farsi, rimase fermo a fissare l’italiano sbalordito, trattenendo il fiato. Antonio lo guardò dubbioso, poi notò il ragazzo bruno e sorrise allegramente.

“E’ vero, mi sono dimenticato di dirti che ci sono anche degli italiani! Davvero gente simpatica, ma un po’ maleducata. Si dice in giro che uno di loro ha il codice sul braccio!”

Ludwig deglutì, tutto corrispondeva.
Vedendo che il suo amico non rispondeva, lo spagnolo si rivolse al ragazzo bruno chiamandolo e salutandolo a gran voce.
Ludwig non fece in tempo a fermarlo, e quando l’italiano si girò il suo cuore affondò nel petto con un dolore sordo.

Non era lui.
Quel ragazzo gli assomigliava moltissimo, ma non era Feliciano. Il colore dei capelli e la corporatura erano praticamente identici, anche se il taglio era leggermente diverso, ma il suo sguardo e il suo volto era totalmente differenti, più duri e ostili.
Ludwig respirò a pieni polmoni per cercare di calmarsi e di abbassare l’ondata d’adrenalina. Era stato un falso allarme, una speranza che era nata e morta in poco meno di trenta secondi, tutto stava tornando alla triste normalità.

Antonio si avvicinò allegramente al ragazzo, mentre quest’ultimo si accorse di lui e indietreggiò di qualche passo.

“Hola mi amigo!! Allora, ti è piaciuta la fabbrica? Dove lavorerai?”

“Cosa!!! Ancora tu? Cosa cazzo vuoi?”

“Suvvia, non essere così diffidente… ehm… come hai detto che ti chiami?”

“Non te l’ho detto, e non lo farò mai! E ora sparisci, mi metti i brividi! E tu idiota, muoviti che fa freddo!” Urlò l’italiano verso il corridoio da dove provenivano dei passi affrettati, non prestando più attenzione ad Antonio.

“Ve! Arrivo!”

Lo sguardo di Ludwig seguì la figura appena entrata nell’atrio, che correva verso l’italiano, vedendola a rallentatore, come se fossero tanti piccoli fotogrammi messi su un proiettore.
Il suo cuore perse qualche battito mentre il suo respiro si bloccava in gola.
Feliciano raggiunse l’altro ragazzo bruno, chinandosi un po’ su sé stesso per riprendere fiato, per poi salutare Antonio con il suo solito entusiasmo.

Tutti i suoi pensieri, tutti i sogni, i sentimenti, i desideri che aveva avuto su quella figura ormai quasi sbadita dal tempo e dalla memoria traditrice, vennero a galla prepotentemente, rinvigoriti dalla presenza del centro del suo mondo da ormai quindici anni, lì, proprio lì in Germania, a Berlino Ovest, in quella fabbrica.
Ludwig sentì la testa leggera e un forte senso di vertigine.

Feliciano continuò a parlare allegramente con Antonio, presentando l’altro italiano come suo fratello Romano, che intanto si rifiutava di guardare lo spagnolo interessandosi invece alla neve che cadeva visibile da una finestra.

“Piacere di conoscerti, Romano. In effetti sei stato un dei pochi che non si è presentato quando abbiamo finito il giro della fabbrica! Lasciate invece che vi presenti il mio amico e coinquilino Ludwig”

Di tutti e tre gli sguardi che si posarono sulla sua statura, Ludwig vide soltanto quello di Feliciano. L’italiano tardò a posare il suo sguardo su di lui, come se quel nome significasse che lui fosse effettivamente lì. Nessuno pensò a un caso di omonimia, appena pronunciati i loro nomi entrambi seppero che l’altro era lì, davanti a loro.

Gli occhi di Feliciano si spalancarono, seguiti da quelli di Romano. Evidentemente il fratello sapeva della sua esistenza, altrimenti non si spiegava il suo repentino cambiamento da arrabbiato a furioso.
Feliciano invece non si scompose, rimase a fissare il tedesco stupito e quasi inebetito mentre le sue labbra si dischiudevano lentamente per formare una piccola “o”.

Ludwig anche rimase immobile, con la testa vuota e il corpo pesante, incapace di pensare o muoversi. Il suo sguardo era fisso in quello dell’italiano, si guardavano l’un l’altro scrutandosi nell’animo senza presentare alcun cenno di voler fare il primo passo. Probabilmente Feliciano perché era incredulo dall’averlo trovato nella fabbrica in cui stava iniziando a lavorare, Ludwig perché sopraffatto e terrorizzato dai sentimenti e dai pensieri negativi che ad essi seguivano.
Probabilmente, se Antonio non fosse intervenuto per fendere l’aria pesante che si era creata con una risata e qualche parola, loro sarebbero potuti rimanere immobili a fissarsi per ore intere.

Romano invece era rosso in volto e tremava dalla rabbia che a stento tratteneva. Ludwig non seppe mai perché in quel momento il fratello dal carattere difficile dell’uomo che amava non aveva accorciato le loro distanze velocemente e non lo aveva colpito con forza in volto, un dubbio che preferì non chiarire mai.

“Fusososo, cos’è tutta questa timidezza, Ludwig? Vieni a conoscere i nostri nuovi compagni!”

“Tu…” Appellò Romano, ma fu subito azzittito da Feliciano che, facendo un passo incerto in avanti verso il ragazzo biondo, si leccò le labbra spaccate dal freddo.

“Ludwig…” Iniziò, ma non potette aggiungere nessun’altra parola.

Preso da una fortissima ondata di panico, appena visto che Feliciano stava facendo il primo passo verso di lui, il ragazzo tedesco ebbe paura e, voltandosi velocemente, scappò verso il lato opposto all’interno della fabbrica.
Molti fissarono la scena confusi, alcuni perfino sorridendo al gesto inaspettato di Ludwig, che era stato sempre una persona molto seria e composta, alcuni soltanto sorpresi dell’accaduto, come Antonio che non si aspettava una reazione simile dal suo amico “serio come la morte” (così lo chiamava scherzosamente).
Romano invece fu il primo ad uscire dal suo stato di stupore e ad esclamare qualcosa di volgare in italiano.

Feliciano osservò immobile con la bocca spalancata Ludwig correre nella direzione opposta, per poi svoltare l’angolo. Incerto su cosa fare, guardò suo fratello per un istante, ricevendo uno sguardo di incomprensione, e poi iniziò a correre anche lui.
Le urla di Romano che gli intimavano di tornare indietro riecheggiarono per tutto l’atrio, ma Feliciano non accennò a rallentare. Mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime, la sua mente era una mescolanza di pensieri.

Di tutte le cose che aveva immaginato quando aveva deciso di seguire il fratello in Germania per cercare lavoro, il ritrovare Ludwig, per di più nella stessa fabbrica dove era stato assunto, non era tra quelle.
Quei quindici anni di lontananza li aveva spesi ad aspettare un’occasione, un modo, oppure un miracolo, per poter ritrovare o anche solo vedere per un momento il giovane tedesco. Aveva passato giornate intere a sognare ad occhi aperti davanti una finestra, e speso le più lunghe e buie nottate a piangere con il volto premuto sul cuscino. Suo fratello lo aveva rimproverato non ricordava quante volte, maledicendolo e maledicendo quel demonio tedesco che gli aveva procurato così tanto dolore, e che lo stava facendo soffrire anche in quel momento.
Pian piano il suo dolore prese la sfumatura di sorda rassegnazione, finché Feliciano non divenne disilluso: soltanto un miracolo da un dio molto beffardo avrebbe potuto fargli rincontrare Ludwig, qualcosa che non avrebbe mai potuto ottenere.
Lentamente il suo comportamento tornò alla normalità, facendo tirare un sospiro di sollievo al fratello, una normalità che celava però una grande sofferenza.

Con la coda dell’occhio, mentre svoltava l’angolo, Ludwig vide Feliciano muoversi ed accelerò il passo. La consapevolezza di essere un codardo per essersela data a gambe in quel modo davanti tutti e senza una spiegazione, insieme alla paura e il timore di dover affrontare Feliciano e dovergli chiedere un perdono che non sarebbe venuto, gli pesavano sull’animo e sullo stomaco come un macigno.  

Correva come se da quel gesto dipendesse la sua vita, il lungo giubbotto che svolazzava intorno alle gambe ormai non più toniche come un tempo. Soltanto una volta nella sua intera vita aveva corso in quel modo, ed era stato in quel maledetto giorno in cui i russi avevano liberato il campo di concentramento.
La gente che incrociava per i grandi corridoi lo guardava stupita, alcuni si giravano per seguirlo con lo sguardo.
A Ludwig non importava, tutto ciò che voleva era nascondersi da Feliciano, colui che in quel momento stava cercando di raggiungerlo e urlava il suo nome disperato.
Ad ogni suo urlo, Ludwig sentiva aprirsi una lacerazione nel suo interno.

Correndo senza una meta precisa, il ragazzo biondo si infilò all’ultimo secondo in una porta attraverso cui si accedeva a un settore della fabbrica a lui sconosciuto. Macchinari giganteschi ed enormi tubature apparvero davanti i suoi occhi avvolte quasi del tutto dall’oscurità, con nastri trasportatori immobili che si snodavano per chissà quanti metri nel buio più totale.
Incerto sul da farsi, decise di nascondersi dietro un robusto tubo che dal macchinario si immetteva nel suolo con un’elegante curva, premendo la schiena contro l’acciaio gelato e coprendosi la bocca con una mano per celare la sua presenza.

Dopo pochi secondi, la porta fu violentemente aperta e dei passi affrettati, seguiti da un ansimare, riecheggiarono per tutto lo stanzone. Feliciano si guardò disperatamente attorno, cercando di intravedere il tedesco tra tutti i macchinari e il fitto buio in quella stanza. Non riuscendo a trovare nulla, iniziò a gemere e singhiozzare.

“Ludwig… Ludwig sei qui? Ti prego Ludwig… ti prego…”

Nessuna risposta.
Lentamente, Feliciano indietreggiò fino alla porta mentre piangeva in silenzio.

“Ve… non è qui…” Sussurrò a sé stesso, poi uscì dalla porta e ricominciò a correre.

Quando i suoi passi furono lontani, Ludwig si lasciò sfuggire un sospiro. Le sue gambe tremarono e si accovacciò con la schiena contro il grosso tubo, mentre le mani gli coprivano il volto rigato dalle lacrime.

 

I giorni seguenti a quell’incontro furono un totale inferno per Ludwig, costretto non solo a schivare le sempre più spinose domande del suo coinquilino e di calmare la sua fortissima agitazione dovuta ai vecchi sentimenti che erano riaffiorati tutt’insieme, ma anche a dover trovare un modo per entrare e uscire dalla fabbrica senza farsi vedere dal gruppo di italiani che circondava perennemente i due fratelli bruni.

Inoltre, come scoprì con stupore, Feliciano si rivelò un ragazzo piuttosto tenace: ogni giorno, e per almeno un paio di volte, gli operai che lavoravano nello stesso settore gestito da Ludwig gli riferivano che un italiano aveva chiesto di lui sperando in un colloquio, anche se breve. Ludwig non sapeva come aveva fatto a capire in quale settore della fabbrica lavorasse, ma sospettava ci fosse uno zampino spagnolo. Comunque sia, si era premurato fin dall’inizio di informare i suoi compagni di non permettere di far entrare nel settore altri operai non addetti, specialmente l’italiano che aveva dipinto, malvolentieri, come un piantagrane che lo aveva preso di mira. Non gli riuscì particolarmente difficile convincere gli altri operai in quanto gli italiani non avevano una buona nomea, o meglio erano famosi per essere malviventi, attaccabrighe e piuttosto seccanti quando prendevano di mira qualcuno.

I primi giorni Feliciano non accennò a desistere, ma con il passare delle settimane la sua resistenza vacillò passando da cercarlo ininterrottamente per più volte al giorno a cercarlo di meno, poi a giorni alterni, infine smettendo del tutto.
Ludwig non sapeva se la cosa doveva fargli piacere oppure renderlo triste, aveva dei sentimenti piuttosto confusi a riguardo: sollievo, ansia, tristezza, rimorso, rassegnazione.
In effetti, più pensava a tal proposito più concludeva che doveva esserne triste, ma che doveva comunque lasciar correre e andare avanti, anche se questo avrebbe significato una maggiore sofferenza.
Un loro riavvicinamento non avrebbe giovato per nessuno dei due.

Per cercare di non pensare troppo a quella situazione, Ludwig accettò di buon grado degli straordinari malpagati che lo costringevano a rimanere fino a notte fonda nel suo settore, in compagnia di metallo fuso e macchinari per stampa rumorosi e ormai obsoleti.
Molti dei suoi compagni accettarono gli straordinari come lui, cosicché a fine lavoro si formava un gruppo piuttosto folto di persone che, silenziosi e con andatura stanca, si trascinava fin fuori dalla fabbrica dove il vento gelido notturno li aggrediva senza pietà facendoli rabbrividire violentemente.
Con quegli straordinari, Ludwig era costretto in fabbrica per quindici ore, e quando tornava a casa trovava Antonio già addormentato da tempo, ma la cena fredda a base di pietanze spagnole pronta sul tavolo.

Gli straordinari sarebbero durati per tutto il mese, ma dopo una settimana Ludwig già si chiedeva come sarebbe riuscito a portarli a termine, esausto com’era per le troppe ore di lavoro e il poco sonno a disposizione.
Quella sera colui che gestiva il settore in cui lavorava si era ammalato improvvisamente, lasciando tutto il lavoro nelle sue mani, costringendolo a una doppia fatica. Quando finalmente il fischio sancì la fine dei turni di straordinario, Ludwig si piegò sulle gambe asciugandosi la fronte e sospirando per il sollievo. Gli altri operai iniziarono a sistemare i macchinari e a sciamare in gruppi verso la porta dello stabile, alcuni in vena di chiacchiere, altri semplicemente trascinandosi fuori, come sempre.
Il tedesco si rimise dritto e andò al pannello di controllo per spegnere tutti i macchinari, la corrente elettrica e altre cose che gli erano state spiegate qualche ora prima. Controllando scrupolosamente di aver sistemato tutto, si accertò di essere l’ultimo in quella stanza e uscì chiudendosi la grande porta alle spalle.

Nello stanzone degli armadietti, mentre recuperava le sue cose infilandosi il suo lungo e pesante cappotto nero, Ludwig sentì gli altri operai parlottare eccitati in vari gruppetti, qualche volta ridendo, altre invece esclamando per lo stupore. Incuriosito da quell’insolito scoppio di vitalità a quell’ora di notte e soprattutto dopo il lavoro, il ragazzo biondo cercò di tendere l’orecchio, senza molto successo. Il vociare era così sussurrato e fitto che era quasi impossibile distinguere qualche parola.

Senza perderci altro tempo, lasciò la stanza infilando il cappello sui capelli tirati all’indietro e seguì le altre persone che si incamminavano verso l’atrio della fabbrica. Mentre proseguiva sovrappensiero, immaginando già quale cena il suo amato coinquilino gli avesse preparato, un gruppetto davanti a lui si fermò all’improvviso esclamando a voce alta.
Ludwig quasi andò a sbattere contro uno di loro.

“Incredibile! Allora è vero!”

“Ve lo dicevo che quella gente è strana, meglio non avere niente a che fare con loro”

“Cosa succede?” Domandò Ludwig, ormai preso dalla curiosità.
Uno degli operai si girò a guardarlo e, dopo averlo squadrato per qualche ragione a lui sconosciuta, gli sorrise e gli spiegò la situazione.

“Dicono che dal fine turno regolare un uomo si è messo ad aspettare davanti il cancello della fabbrica, sotto il lampione, non si sa chi! E’ da oggi pomeriggio che sta lì impalato, e ha nevicato ben due volte. Pensavamo che fosse una di quelle storielle stupide inventate per passare il tempo mentre si lavora, ma a vedere tutta questa gente che fissa fuori dalle finestre, dev’essere vero!”

L’uomo indicò un folto gruppo di persone che si accalcavano davanti la porta dell’atrio cercando di guardare fuori dalle finestre. Un forte vocio riempiva tutta la stanza.
Ludwig si accarezzò il mento con fare dubbioso, la pelle dei guanti che strofinava dando una sensazione di morbidezza sull’accenno di ricrescita della barba sul suo volto.
Quella storia sapeva di assurdo, eppure il tedesco non credeva che all’improvviso tutti gli operai degli straordinari fossero impazziti all’unisono. Sentendo la sua curiosità crescere in modo esponenziale, ringraziò l’uomo per la spiegazione e si avvicinò al folto gruppo di persone che si accalcava nell’atrio per cercare di capire qualcosa in più, o almeno per cercare di uscire dalla fabbrica e tornare a casa.

Nella massa trovò alcuni suoi compagni di settore con cui aveva scambiato qualche parola ogni tanto e li raggiunse. Salutando in modo cortese, Ludwig fece capire di essere interessato alla storia che stava infuocando gli animi di tutta la fabbrica.

“Non hai sentito? Pare che un uomo sia rimasto da oggi pomeriggio fino ad adesso sotto quel palo della luce davanti al cancello senza muoversi mai! E’ incredibile vero? Ed ha pure nevicato molto oggi, ma non ha accennato ad andarsene. Secondo alcuni sta aspettando qualcuno o qualcosa, ma secondo me è soltanto un pazzo. Se ti affacci alla finestra puoi vederlo, il lampione lo illumina tutto”

Ludwig cercò di sfruttare la sua statura per affacciarsi a uno dei finestroni che fiancheggiavano l’uscita, quasi del tutto coperto dalle teste degli altri curiosi che sbirciavano fuori. Riuscì a intravedere, nel buio più totale della notte, il fascio di luce del lampione che veniva smorzato dai fiocchi di neve che cadevano velocemente portati dal vento, e in mezzo ad esso la sagoma di un’esile figura.

“Secondo me è morto in piedi, congelato dal freddo, ed è rimasto in quel modo” Commentò un altro compagno “E’ impossibile sopravvivere a tutto quel freddo con quei pochi stracci che ha addosso”

A uno sguardo dubbioso di Ludwig, annuì e spostò lo sguardo verso il finestrone.

“Si, sono stato uno dei primi degli straordinari a vederlo. E’ vestito come se fosse estate, quel disgraziato, starà patendo le pene dell’inferno. E pensare che il fratello ha cercato in tutti i modi di portarlo via”

A quelle parole Ludwig distolse lo sguardo dal panorama esterno per concentrarlo totalmente sul suo interlocutore.

“Fratello?” Chiese ansiosamente.

“Si, o così mi hanno detto. Pare abbiano messo su un bello spettacolino, con urla e percosse tanto forti che infine hanno dovuto portare via il fratello indiavolato in tre, altrimenti avrebbe davvero ammazzato quello scemo”

L’uomo continuò a parlare, ma Ludwig non prestò più attenzione alle sue parole. Aveva un bruttissimo presentimento riguardo colui che stava compiendo quel gesto quasi da suicida e voleva chiarire il dubbio. Cercò di farsi avanti spingendo da parte le altre persone e avanzando nella folla, senza staccare gli occhi dal finestrone e dalla sagoma che di tanto in tanto si muoveva cercando di scrollarsi di dosso la neve e il freddo.
Mentre avanzava, sentiva parti dei discorsi degli altri operai.

“Ma quello è pazzo-“

“Ehi, non spingere”

“State bloccando l’uscita, voglio andare a casa! Fate passare!”

“-cono che è vestito di stracci, forse è un barbone!”

“Si, il fratello gli urlava nella loro lingua come se lo stessero scorticando vivo. Giuro-“

“Sai come sono fatti questi italiani, no? Gente rozza, senza la minima educazione, io li rimanderei nella loro nazione-“

La mano guantata di Ludwig poggiò a palmo aperto sul ferro della porta, mentre l’altra girò con forza il pomello, quasi rompendolo. Una folata di vento e neve colpì la folla facendogli gonfiare i giubbotti mentre usciva di corsa fuori il cortile della fabbrica.
La neve copriva ogni cosa a perdita d’occhio, sia a terra dove le impronte degli operai erano state coperte da tempo, sia i muretti e i tetti delle case circostanti. Il buio era quasi totale, spezzato soltanto da qualche lampione qua e là e da qualche finestra lontana con la luce ancora accesa. Il silenzio era quasi sacro, rotto soltanto dalle folate di vento e da qualche starnuto che si sentiva da lontano, dalla sagoma che sotto il lampione aspettava con una compostezza quasi militare. Ludwig cercò di abituare gli occhi all’oscurità, mentre faceva qualche passo nella neve. Sentiva tutti gli occhi degli operai che da dietro i vetri della finestra gli bucavano la schiena, curiosi e avidi di storie assurde da poter raccontare il giorno dopo ai loro compagni, ma non gli importava.
Non gli importava di nulla se non della figura che sotto il lampione moriva dal freddo.

La sagoma non accennò a muoversi nonostante si avvicinasse sempre di più, e ad ogni passo riusciva a cogliere un dettaglio nuovo: la magrezza della figura, l’assenza di vestiti pesanti, gli sbuffi di respiro caldo portati via dal vento, i capelli castani scompigliati che volavano ovunque.
Ad ogni passo il suo cuore accelerava di un battito, minacciando di scoppiare tant’era forte. Poteva sentire la sua pressione in gola, le mani tremavano nei guanti di pelle mentre la testa iniziava a pulsare.

Infine, si fermò all’altezza del grosso cancello che segnava il confine della proprietà della fabbrica, lo sguardo fisso davanti a sé.
Dall’altra parte della strada, Feliciano ricambiava il suo sguardo tremando come una foglia sotto la luce del lampione, pallido come un cadavere e con il volto rosso e bruciato dal freddo. Non si mosse né cercò di attirare l’attenzione su di lui, semplicemente rimase rigido nella sua posizione a sostenere lo sguardo di colui che aveva aspettato per tutto quel tempo.

Il tedesco era completamente paralizzato, lo stupore non gli permise di pensare velocemente. Poi un ricordo si fece largo nella sua mente confusa come una lama affilata che affonda nel burro. Ai suoi occhi, Feliciano non vestiva più i leggeri panni colorati con cui cercava di proteggersi dal freddo, bensì gli stracci a strisce nere e bianche del campo di concentramento, il suo sguardo lo fissava da dietro una rete elettrificata mentre il suo corpo era consumato dalla fatica e dalla fame, sul volto i segni delle violenze subite dalle altre guardie.

Gli ci vollero pochi secondi di corsa per raggiungerlo, Feliciano che sorrideva felice mentre Ludwig si sfilava il lungo cappotto nero per coprirlo. Quando infine lo raggiunse, lo avvolse con il cappotto e lo strattonò violentemente.

“Stupido! Sei uno stupido! Le persone muoiono con questo freddo!”

“Ve… Ludwig, finalmente…” Rispose con voce debole, distorta dalla gola fredda e probabilmente ammalata.

Ludwig avrebbe voluto urlargli contro, schiaffeggiarlo e maledirlo per essere così sconsiderato e per aver messo in pericolo la sua vita, facendo inoltre preoccupare suo fratello, ma rinunciò quando vide il sorriso raggiante dell’italiano e il suo sguardo caldo e colmo d’affetto su di lui.
Con un sospiro di rassegnazione, rimboccò il pesante giubbotto sulle spalle di Feliciano. Il ragazzo si avvicinò velocemente a lui e lo abbracciò senza alcun preavviso.

“Ve… sei così caldo!”

“Si, me l’avevi già detto” Sussurrò lui mentre circondava affettuosamente il corpo del ragazzo con le sue braccia.

“Allora lo ricordi ancora!” Chiese con stupore l’italiano guardandolo direttamente negli occhi.

Un rumore metallico si diffuse per tutto il cortile fino all’esterno, seguito da alcuni passi ovattati nella neve. Evidentemente gli altri operai stavano uscendo fuori dalla fabbrica per tornare alle proprie case, o più probabilmente per assistere meglio al loro incontro.

“Si, ma non è questo il posto per parlare. Vieni, andiamo da questa parte”

Prendendo una mano gelata nella sua guantata, Ludwig portò velocemente via Feliciano da sotto quel lampione, spostandosi di qualche isolato e imboccando molte stradine secondarie per seminare quegli spioni che proprio non ne volevano sapere di tornare nelle loro case.

Dopo poco tempo, trovata una casa semidistrutta dai bombardamenti e non ricostruita, i due uomini si ripararono dalla nevicata sotto il tetto fatiscente della struttura. Feliciano era rimasto in silenzio per tutto il tempo, cosa piuttosto strana in quanto il tedesco lo ricordava piuttosto rumoroso, ma manteneva ancora il suo genuino sorriso sul volto. Per quanto riguardava Ludwig, temeva seriamente di poter morire da un momento all’altro per quanto fosse veloce e forte il suo battito cardiaco.

“Aspetteremo qui che la nevicata diminuisca o smetta del tutto. Dove abiti?” Chiese infine “Ti riporto a casa da tuo fratello, sicuramente sarà molto preoccupato”

“Io non voglio tornare a casa, non ora che finalmente ho avuto l’occasione di rincontrarti, di poterti parlare di nuovo” Eruppe l’italiano con lo sguardo che stava velocemente tendendo al lacrimevole “Ho aspettato così tanto tempo per questo!”

Ludwig ricordò le parole dei suoi compagni, di come Feliciano si era messo ad aspettare fuori dalla fabbrica alla fine del turno regolare. Ma erano più di otto ore, no?
Dubbioso su quanto effettivamente quella testa di rapa avesse aspettato, domandò di preciso quanto tempo era stato ad attendere.
Feliciano gli lanciò un sorriso con una forte sfumatura di tristezza.

“Quindici anni”

Qualcosa si ruppe in quel preciso istante in Ludwig.
Quel numero, quelle due parole dal semplice significato, gli fecero riaffiorare nella mente e nell’animo tutti i ricordi e le sensazioni provate dal momento in cui aveva messo piede nel campo di concentramento fino in quel momento: tutte lo sofferenze, le gioie, l’amore che aveva provato per lui, l’odio per il fratello e poi l’atroce sofferenza di perderlo per sempre, la paura e l’angoscia provata in carcere, la rassegnazione e la tristezza che provava ora…

Si ritrovò a piangere violentemente mentre abbracciava con forza l’italiano tirandoselo al suo petto.
Mentre piangeva si scusava con insistenza, chiedendo perdono per tutta la sofferenza che aveva dovuto patire per colpa sua, ma chiedendo perdono anche a sé stesso per aver negato il suo stesso essere.

Feliciano ricambiava l’abbraccio e l’affetto seguendo il compagno con grosse lacrime, sussurrandogli parole rassicuranti e accarezzando lentamente la schiena con il palmo della mano.
Quando entrambi si furono calmati, Feliciano prese il viso di Ludwig tra le mani e sorrise:

“Il destino vuole proprio farci stare insieme”

“Chi sono io per oppormi ad esso?”

Feliciano assunse un’espressione meravigliata a quelle parole, e Ludwig ne approfittò per avvicinarsi e lasciare un morbido bacio sulle sue labbra.
Ci fu un’improvvisa folata di vento, ma Ludwig non la sentì tant’era preso dal baciare Feliciano. Quando si divisero, l’italiano rise di felicità e si risistemò il giubbotto sulle spalle, che nel frattempo era scivolato minacciando di cadere e lasciarlo scoperto.

“Ha smesso di nevicare, ti riporto a casa”

“No! Non voglio che tutto questo finisca, come in quelle opere teatrali dove infine il protagonista si risveglia scoprendo di aver sognato tutto! Ve, non voglio!”

“Farò tutto ciò che è in mio potere per non farlo finire” Rispose il tedesco prendendogli la mano “Te lo prometto”

Feliciano rispose con un ampio sorriso mentre si incamminarono verso le case popolari dei sobborghi di Berlino Ovest.

 

Gennaio 1964, Berlino Est

Se non era la neve a congelare persino l’anima, era il vento sferzante e gelido che si incanalava nei vari vicoli diventando forte quasi quanto una burrasca. E se non il vento, ci pensavano la pioggia e la grandine a tormentare le povere persone di Berlino Est.
Ma se quelle più fortunate potevano contare su eleganti ombrelli, giubbotti lunghi e caldi e su posti rinomati per ripararsi come i Cafè, le persone che non possedevano nulla erano costrette a ripararsi come meglio potevano, nei posti più bui e sporchi della città, frugando nell’immondizia nella speranza di trovare qualcosa da mettersi addosso oppure qualcosa da mangiare.

Le giornate di Gilbert erano tutte più o meno uguali, tutte spese a guardare la gente passare concentrata sulla propria vita e completamente cieca al pezzente che, sbragato a ridosso di un muro, li fissava con uno sguardo vitreo nella speranza di ricevere qualche soldo o qualcosa da mangiare.
Le persone camminavano a passo svelto cercando di non scivolare sul ghiaccio che si era formato a terra, strette nei loro lunghi vestiti pesanti e caldi, a volte scavalcando le lunghe gambe dell’albino che si allungavano sul marciapiede.

Gilbert cercava di attirare la loro attenzione allungando verso di loro un cappello mal rattoppato e ormai inutilizzabile e sussurrando richieste di pietà, sperando in qualche elemosina. I dollari e i rubli erano il denaro più ambito perché di maggiore valore, ma si sarebbe accontentato anche solo di qualche marco per riuscire a comprare un tozzo di pane e placare quell’insaziabile fame che lo accompagnava da quando era tornato libero.

In prigione non se l’era cavata troppo male, era stato confinato con altri nazisti, formando un solido gruppo in cui si spalleggiavano a vicenda, ma una volta fuori dalla prigione Gilbert realizzò con amarezza che il mondo era cambiato, si era evoluto, e che si era dimenticato di lui.
Non c’era più posto per lui in quel mondo, un nazista povero di una famiglia decaduta che aveva speso gli ultimi diciassette anni in carcere, eppure continuava ad aggrapparsi alla vita con forza cercando di tirare avanti ogni singolo giorno come poteva.

Aveva cercato di trovare un lavoro discreto, o almeno che gli permettesse di comprare un po’ di cibo ogni giorno, ma velocemente scoprì che il regime sovietico non era stato così gentile con il suo paese, che l’economia era disastrosa e che nessuno in quelle condizioni gli avrebbe potuto offrire un lavoro, non con quella spalla lesionata che non gli permetteva di fare sforzi e nemmeno di alzare il braccio oltre l’altezza del mento.
Intorno a lui vi erano così tanti uomini in buona salute che cercavano lavoro, accettando anche pagamenti e condizioni disumane, che quando provava a farsi assumere il più delle volte i datori di lavoro gli ridevano in faccia, o lo additavano come un poveraccio e lo cacciavano via.
Alla fine era davvero diventato un pezzente.

I peggiori erano i russi, con i loro modi di fare rudi e senza il minimo scrupolo, trattavano la gente come se fosse inferiore, per non parlare di coloro che si trovavano nella condizione di Gilbert. Lui soprattutto era preso sempre di mira per il suo aspetto inusuale, spesso era costretto a scappare e nascondersi tra le macerie non ancora rimosse degli edifici per sfuggire a un linciaggio, uniche sue colpe essere un senzatetto ed essere albino.
Qualche volta non era stato così fortunato e portava ancora addosso le cicatrici delle coltellate che aveva ricevuto.
No, nessuno in quel mondo aveva pietà dei barboni.

Dopo aver passato ore a tendere il braccio in direzione dei passanti, Gilbert si arrese e posò il cappello a terra, rannicchiandosi il più possibile sui cartoni per difendersi dal freddo. Quel giorno era riuscito a recuperare pochi pfennig (centesimi di marco), insufficienti anche per un quarto di pane, e il freddo era più intenso che mai.

“Forse è arrivato il giorno in cui ci rimetterò finalmente le penne” Pensò mentre osservava la gente che, diminuita sensibilmente, si affrettava a tornare a casa dopo un estenuante turno di lavoro.

Alcuni volti non erano nuovi per l’albino, sedendo in quel punto del marciapiede da più di un anno ogni singolo giorno, ormai conosceva bene tutti quelli che passavano quotidianamente per quella strada:
un uomo con il giubbotto rattoppato e di pessima fattura che usciva dalla fabbrica e si andava a rintanare subito in un pub a bere birra; una donna ormai sulla cinquantina che si affrettava a tornare a casa con una busta piena di alimenti; un ragazzo che portava sulle spalle la lunga scopa da spazzacamino che si puliva insistentemente il volto dalla fuliggine, imbrattandolo ancora di più; un uno piuttosto alto dal lungo giaccone e incappucciato di cui non riusciva a vedere mai il volto tant’era stretto nei suoi abiti, con una lunga sciarpa bianca che gli cadeva fino alle gambe.

Mentre passava, l’uomo senza volto si girò a guardarlo per una frazione di secondo, lasciando cadere una singola moneta dalla manica del giubbotto che gli copriva le mani, per poi continuare il suo cammino come se niente fosse. Gilbert non riuscì a vedere il suo viso a causa dell’ombra del cappuccio, ma si avventò sulla moneta come un avvoltoio su una carcassa, urlando lodi e ringraziamenti mentre intascava la preziosissima moneta da un marco.
Grazie a quell’uomo, anche quel giorno avrebbe mangiato.

Gilbert lasciò la sua postazione di lavoro quando calò il sole. Subito si mise a piegare i suoi preziosi fogli di cartone, senza i quali non poteva difendersi in alcun modo dal freddo dell’inverno e dalla neve, e si precipitò nel negozio di alimentari nei sobborghi periferici della città, dove tutti coloro che non avevano di che vivere potevano riuscire a mettere le mani su un pezzo di pane per pochi soldi.

Mentre addentava freneticamente il cibo e gustava la sensazione della fame placata, l’albino ripensò all’uomo incappucciato che gli aveva donato la moneta. Non era la prima volta che incontrava quello strano individuo, e non era la prima volta che riceveva del denaro da lui. Anzi, a pensarci bene, quell’uomo era l’unico che ogni qual volta passasse davanti a lui, gli lasciava una moneta da un marco, qualche volta addirittura un rublo.
Ogni volta che Gilbert pensava a quell’uomo una sorta di calore si diffondeva nel suo petto, la sua compassione era quasi commovente. Spesso gli ricordava Matthew e il suo sguardo dolce, l’unica persona che non lo aveva giudicato ma accettato per quello che era, qualcuno che ormai non avrebbe mai più rivisto se non nella sua mente.

“Non è un russo, impossibile che sia un russo, nessuno di loro sarebbe così gentile con me!” Farfugliò a bocca piena, parlando tra sé e sé.

Se non russo allora era un tedesco di buon cuore, non c’era alcun dubbio, era rarissimo incontrare stranieri da quel lato del muro.
Gilbert finì in poco tempo il suo pasto e iniziò a vagare per la periferia della città cercando un posto adatto per passare la notte. Doveva essere prudente e meticoloso nella ricerca, sia perché di notte era più facile essere assaliti per un senzatetto, sia perché doveva trovare un posto coperto e asciutto per proteggersi dal freddo.
Ogni notte era come tentare la fortuna con i dati, poteva sbucare nel buio o da dietro un angolo un malvivente con l’intenzione di rubare quelle poche cose che possedeva, oppure un gruppetto di ricchi figli di papà con l’intento di passare la serata a torturare la gente povera e a lasciarla morire senza pietà.

Inoltrandosi nei fitti vicoli sporchi e maleodoranti della periferia, ad un certo punto Gilbert vide una sagoma passargli davanti a una distanza di una decina di passi. Subito si nascose dietro un cumulo di macerie nella speranza di non essere visto, fissando con paura davanti a sé. La sagoma continuò a camminare come se nulla fosse a passo svelto, la neve che scricchiolava sotto le sue scarpe. Quando passò sotto il piccolo lampione a gas che sporgeva da un muro illuminando l’incrocio di vicoli, Gilbert vide l’uomo incappucciato e dalla lunga sciarpa imboccare una di quelle stradine, silenzioso e veloce come un fantasma.

Che cosa ci faceva quell’uomo in un posto del genere a quell’ora di notte?
Forse era anche lui un senzatetto che cercava un posto per passare la notte, ma l’albino scartò subito l’idea ricordando quanti soldi gli aveva dato in elemosina per tutto questo tempo.

“Un uomo con tanti soldi come lui non può non avere una casa” Pensò mentre si alzava.

Improvvisamente il rumore di altri passi si fece largo tra i vicoli, costringendo Gilbert ad accucciarsi nuovamente dietro i detriti di pietra. Un gruppo di tre uomini dal volto poco rassicurante passò velocemente sotto il lampione, palesemente seguendo le orme che aveva lasciando l’altro pochi secondi prima. Qualcuno borbottò qualcosa aggiustandosi il colbacco sulla testa.
Gilbert non aveva dubbi, quelli erano russi e anche della peggiore specie.

Attese qualche altro secondo nascosto nella paura di incappare in un secondo gruppo di uomini, ma quando vide che non sarebbe arrivato nessun altro, si alzò e iniziò a camminare lentamente verso l’incrocio dove la moltitudine di impronte nella neve veniva illuminata dal lampione.

Forse era soltanto un caso che quell’uomo caritatevole fosse passato da quelle parti prima del gruppo di russi, ma l’albino aveva il fortissimo presentimento che non fosse così, e che anzi quell’uomo era in serio pericolo.

“Non sono affari tuoi” Gli sussurrò una vocina nella testa, forse la coscienza “Quell’uomo sicuramente si è messo in qualche guaio con i russi, e non è un tuo problema. Cercare un posto per dormire, è questo quello a cui devi pensare ora!”

Ma il ricordo dell’uomo che gli regalava una moneta mentre passava, guardandolo per qualche secondo come se stesse dicendo “io ti vedo, tu esisti”, si fece largo prepotentemente nella sua mente, spazzando via quella vocina fastidiosa ed egoista.
Seguendo le orme a terra, anche Gilbert imboccò il vicolo e con passo svelto cercò di raggiungere l’uomo incappucciato, o almeno il gruppo di russi, sperando di non arrivare troppo tardi.

Trovò entrambi in un piccolo spiazzale dietro una grossa chiesa abbandonata, l’uno di fronte agli altri a fissarsi mentre il vento soffiava violentemente tra i vicoli, i russi che davano le spalle alla stradina da cui Gilbert assisteva alla scena.
Uno dei tre fece un passo avanti e indicò l’altro uomo con una mano guantata.

“Finalmente ti abbiamo in pugno” Disse con il suo forte accento dell’est “E’ inutile che neghi, sappiamo chi sei e cosa fai, stronzo”

“Sei una schifosa spia americana, e a noi le spie non piacciono” Continuò un altro, il pelo del colbacco e svolazzava ovunque a causa del vento.

Gilbert non fu particolarmente colpito da quelle parole, infatti non molto tempo prima aveva sollevato i suoi dubbi riguardo quell’uomo, ma nonostante ciò il tono di quei russi gli mise i brividi. Sentì che l’uomo incappucciato era in guai seri e che quella situazione sarebbe precipitata in poco tempo.

L’uomo rimase in silenzio a fissare il gruppo ostile ancora per qualche secondo, le mani nascoste nelle grosse tasche del cappotto.
I tre russi si spazientirono in fretta del suo silenzio, due di loro cacciando delle pistole dalle tasche, mentre il terzo un coltello a serramanico.

“Cos’è, il gatto ti ha mangiato la lingua, maledetto americano? Ma sta tranquillo, in un modo o nell’altro faremo in modo che tu non possa più parlare per sempre! Il governo russo non ha bisogno di spie nemiche nel suo territorio!” Urlò infine.

Gilbert vide il metallo delle pistole luccicare alla luce dei lampioni dello spiazzale. Da quella posizione, era in grado di raggiungere con poche falcate gli uomini, mentre l’altro si trovava più lontano e soprattutto a portata di tiro. Dal suo comportamento tranquillo, Gilbert era sicuro che quell’uomo non si era accorto che i russi erano armati ed erano pronti a sparargli in qualsiasi momento. Doveva agire, altrimenti lo avrebbero ammazzato con pochi colpi di pistola, ma cosa poteva mai fare debole, invalido e disarmato com’era?

Infine, l’uomo solo rispose con una voce così leggera che il vento la portò via immediatamente, ma nonostante ciò arrivò comunque alle orecchie dei russi e di Gilbert.

“Sono canadese”

In quel momento, Gilbert sentì un’ondata fortissima di adrenalina corrergli per tutto il corpo. Sprofondando un piede nella neve, si diede lo slancio per uscire fuori dal vicolo e correre verso il gruppo dei russi, che presi alle spalle di sorpresa, non riuscirono a controbattere in tempo. Le pallottole sparate dalle pistole a casaccio guidate dalla paura fischiarono ovunque mentre Gilbert saltava su uno di loro, aggrappandosi con tutte le sue forze alla sua schiena con le braccia e le gambe, urlando all’uomo incappucciato di scappare.
Non si accorse che nel frattempo aveva estratto una pistola e stava sparando contro i russi, freddandoli con singoli colpi precisi.

Dopo quei pochi secondi di adrenalina pura dove la mente si ridusse a un insieme di immagini sfocate e urla ovattate, l’albino si ritrovò con la schiena sulla neve schiacciato dal corpo pesante e privo di vita del russo.
Improvvisamente tutto diventò silenzioso, soltanto il vento con il suo incessante ululato era ancora udibile, accompagnato dal calpestio della neve.

“Stai bene?” Infine, urlò l’uomo mentre si chinava su Gilbert e lo aiutava a spostare il corpo morto con un tono molto preoccupato.

Mentre liberava le gambe dal peso, finalmente Gilbert riuscì a vedere per la prima volta il volto dell’uomo, e quasi non svenne per l’emozione.

“T-tu…” Balbettò senza riuscire a continuare.

Matthew gli sorrise mentre gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. Gilbert era così scioccato da quella scoperta che la testa gli girava vorticosamente, o forse era soltanto l’adrenalina che abbandonava il suo corpo. Comunque sia, non riuscì a distogliere gli occhi dal suo volto pallido e sorridente.
Era incredibile che Matthew fosse lì in quel preciso momento, forse Gilbert era morto nel tentativo di aiutare l’uomo caritatevole, e un angelo con le sembianze di Matthew era venuto a prenderlo per portarlo di fronte al giudizio divino.
Ma Matthew sembrava più tangibile e reale di un’illusione mistica e alata.

Non era cambiato di una virgola in tutti quegli anni.
I suoi occhi erano ancora brillanti e caldi, e lo guardavano con gioia e amore, il suo sorriso era così genuino da sembrare quasi finto, mentre i capelli biondi e vaporosi erano portati ancora semi lunghi. La cosa che attirò più di tutti l’attenzione dell’albino fu la montatura degli occhiali, di legno con sofisticati intagli, come quelli che gli aveva regalato nel campo di concentramento e che erano andati distrutti. Ma come diavolo…?

Matthew rimase in silenzio per tutto il tempo, dando al tedesco il tempo necessario elaborare quella nuova scoperta, aspettando pazientemente mentre si toglieva la sciarpa per arrotolarla intorno al suo collo scoperto.
Infine Gilbert riuscì a mettere insieme una frase coerente e ad articolarla in modo comprensibile.

“Cosa diavolo ci fai qui?”

“Gilbert, dovresti saperlo, sono una spia” Rispose piano Matthew dopo essersi guardato intorno “Ma non è sicuro parlare qui fuori, anche i muri potrebbero avere le orecchie. Vieni con me, ho un appartamento a pochi isolati da qui. Ti offro qualcosa di caldo se ti va”

A Gilbert andava ovviamente, ma lo stupore era così forte che si ricordò a malapena di annuire.
Per tutto il tragitto rimasero in silenzio, Gilbert con la mente piena di domande e Matthew guardingo e con il perenne presentimento di essere seguito. Infine, raggiunsero un piccolo edificio condominiale dove Matthew alloggiava, nella zona meno malfamata della periferia di Berlino Est.

L’appartamento tutto sommato era scadente e poco accogliente, con qualche mobile sporadico e spifferi ovunque, ma dopo aver vissuto più di un anno per strada, per Gilbert quel posto sembrava una villa. Matthew lo fece accomodare su un divano malmesso mentre si liberava del lungo soprabito invernale e iniziava a preparare del tè caldo.

“Riguardo alla tua domanda” disse all’improvviso facendo sobbalzare l’albino, che ormai si era abituato al silenzio “Sono in missione” Si limitò a dire.

“Missione?”

Nella stanza cadde nuovamente il silenzio. Il bollitore emanò un lungo fischio e Matthew lo tolse dal fuoco per versare l’acqua calda in due grosse tazze, aggiungendo l’infuso e qualche zolletta di zucchero. Quando offrì la tazza al suo compagno questo subito la prese e bevve avidamente qualche sorso scottandosi la lingua, ma la sete e il bisogno di calore era così forte che quasi non ci fece caso. Invece notò un grosso pupazzo di pezza bianco a forma di orso polare che sedeva rigidamente su un angolo del divano, una scritta blu si intravedeva sotto una zampa.
Dopo aver sorseggiato per un po’ il suo tè in silenzio, Matthew posò la tazza un piccolo tavolino e guardò l’albino direttamente negli occhi.

“Dopo che il campo di concentramento è stato liberato, sono stato riportato in patria e decorato con varie onorificenze. Sono rimasto in riabilitazione per molto tempo prima di poter ritornare a lavorare. In quel periodo, in cui ho incontrato nuovamente la mia famiglia, ho deciso di continuare a lavorare per l’esercito come spia. Ho accettato questo incarico appena ho potuto”

“Capisco…” Si limitò a rispondere Gilbert. Sorseggiò ancora per qualche momento il suo tè, poi quando lo finì se ne fece versare dell’altro e ricominciò a bere.
Sapere che il canadese era riuscito a ricrearsi una vita normale dopo la liberazione fece provare a Gilbert del sollievo, ma il ricordare qual era stata la causa dei suoi mali gli mise addosso un forte senso di angoscia.

“Perciò, l’uomo caritatevole eri tu” Esclamò d’un tratto “Tu mi permettevi di comprare da mangiare con l’elemosina, tu rimanevi a fissarmi per ore facendo finta di leggere il giornale appoggiato al muro, eri tu che…” Rimase con le parole a mezz’aria.

“La missione prevede di recuperare più informazioni possibili sul regime russo” Interruppe Matthew con la voce alterata “ma non l’ho accettata per questo. Io l’ho accettata per un altro motivo…”

Gilbert posò la sua tazza ancora semipiena sul tavolo, sbalordito. I suoi occhi si aprirono per lo stupore mentre le parole venivano assimilate nella sua mente.
Matthew era qui per lui?
Impossibile negare che per tutto quel tempo non aveva mai dimenticato il piccolo e fragile canadese, ma Gilbert aveva cercato con forza di metterci una pietra sopra, di rassegnarsi a non poterlo mai più rivedere, anzi a non averne il diritto dopo tutto quello che era successo, dopo quant’era stato disumano con lui e con gli altri prigionieri.
Gilbert si portava dietro delle colpe che difficilmente avrebbe potuto espiare, Dio abbia pietà di lui.

“Matthew…” Sussurrò.

Il canadese sorrise e abbassò lo sguardo, togliendosi gli occhiali e rigirandoseli tra le mani. Quel gesto pieno di significato quasi fece commuovere Gilbert, ma nonostante ciò non riuscì ad esprimere la moltitudine di sensazioni e sentimenti che imperversavano nel suo animo.
Era tutto così strano, così veloce e improbabile che Gilbert quasi temesse fosse un sogno.

“Io… non sono riuscito a dimenticare, Gilbert” Fu tutto ciò che disse.

L’albino rimase in silenzio per qualche istante, poi sorrise:
“E’ normale, io sono troppo fantastico per essere dimenticato”

Non diceva quella frase da tempo ormai, e dirla in quel preciso momento, vestito di stracci e smagrito difronte a colui che un tempo aveva perseguitato con ferocia, era davvero fuori luogo e lasciava un sapore piuttosto amaro in bocca, ma Matthew si limitò ad annuire con il sorriso.

“Si, è vero!”

Il ragazzo dai capelli argentei vide l’altro cercare di trattenere a stento le lacrime mentre il suo sorriso vacillava pericolosamente. Si alzò di scatto e abbracciò stretto quell’uomo che per tutto quel tempo non aveva smesso di cercarlo, nonostante lui si fosse rassegnato al destino.

“No, sei tu ad essere fantastico. Non ci sarà giorno in cui non lo ricorderò al mondo intero”

Matthew ricambiò l’abbraccio con forza, premendo il viso sulla sua spalla.
Da una delle maniche che posavano morbidamente sulle braccia si intravedevano i numeri cuciti sottopelle.

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Arthur e Francis convissero in un piccolo appartamento al centro di Londra per sette anni, finché Arthur non passò a miglior vita a causa di una cirrosi epatica malcurata. Rimasto solo, Francis continuò a coltivare le rose di Arthur deponendone una sulla sua tomba nella cappella di famiglia, ogni giorno. All’età di 53 anni si spense a causa di un infarto fulminante e fu tumulato nella stessa cappella accanto ad Arthur, permettendogli di poter stare insieme per l’eternità. La loro morte mise fine alla lunga discendenza della famiglia Kirkland. La proprietà di famiglia venne trasformata in un ricovero per i reduci di guerra, secondo le loro volontà testamentarie, con l’obbiettivo del loro reinserimento nella società.

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Ivan si impegnò a seguire una terapia riabilitativa per liberarsi definitivamente dei suoi problemi post traumatici, ma quando il regime iniziò a bollare le persone in terapia come malati mentali e a rinchiuderli nei manicomi, dovette smettere. Con il passare degli anni, gli attacchi divennero sempre più frequenti e violenti, finché una notte di inizio dicembre, quando si trovavano nella tenuta di Feliks in vacanza, Toris fu gravemente ferito da Ivan in preda a una forte crisi e ricoverato in ospedale.
Compresa la gravità della situazione, ormai non più sostenibile né risolvibile, Ivan affidò il compagno a Feliks, lasciando la villa la notte stessa. Fu trovato impiccato ad un albero alcuni giorni dopo in un terreno incolto non lontano dalla residenza.
Feliks non ebbe mai il coraggio di dire la verità a Toris, né quest’ultimo chiese mai nulla, semplicemente comprese e si rassegnò. Di tanto in tanto però Feliks poteva sentire di notte i lamenti del pianto dell’amico attraverso i muri delle camere.
Toris non tornò più in Russia e l’appartamento che condivideva con Ivan rimane ancora oggi chiuso e inutilizzato, tutti i loro averi all’interno, nel frigorifero gli ingredienti ormai liquefatti per la torta di compleanno di Ivan.
Vivono tuttora nella residenza Lukasiewicz.

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Chiariti i loro sentimenti, Ludwig e Feliciano iniziarono una relazione stabile e segreta mal accettata da Romano e supportata da Antonio. Dopo molti corteggiamenti da parte di quest’ultimo, alla fine Romano si arrese e iniziò a frequentare lo spagnolo, facilitando di molto lo scambio di inquilini che permise a Ludwig di vivere con Feliciano e a Romano di vivere con Antonio.
Nel 1975, a causa di un grave incidente sul lavoro, Feliciano rimase paralizzato dalla vita in giù senza alcuna possibilità di riabilitazione. Continua tuttora a godere dell’assistenza dei suoi famigliari e del suo compagno mentre si afferma definitivamente nel mondo dell’arte come pittore paesaggista.

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Abbandonata finalmente la strada, Gilbert iniziò a convivere con Matthew, cercando di non disturbare l’operato della spia. Insieme aderirono a un movimento clandestino dedito al rovesciamento del regime comunista e all’abbattimento del muro di Berlino. Durante il loro operato nella “resistenza”, entrambi si impegnarono per aiutare coloro che volevano superare il muro per ricongiungersi con i propri famigliari nella parte occidentale.
Oggigiorno vivono a Bonn in una piccola casa di campagna dove Gilbert alleva canarini.

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Alfred combatté sul fronte occidentale contro i tedeschi, successivamente prestò servizio sul fronte asiatico contro i giapponesi. Dopo un’epica disavventura, con il finire della guerra, rimase qualche anno in Giappone per poi ritornare in patria accompagnato dall’amico Kiku Honda, dove poté finalmente incontrare suo fratello e sua madre.
Divenuto addestratore di nuove reclute nell’esercito americano, attualmente si gode la pensione in un Ranch in Texas insieme al suo amante Kiku.

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Dopo la liberazione del campo di concentramento prussiano, di Roderich non si ebbero più notizie. Voci ufficiali affermano che sia morto durante la liberazione e che il suo corpo sia stato seppellito nelle fosse comuni insieme agli altri caduti, mentre voci di corridoio lo vorrebbero vivo e vegeto in Venezuela, dove riuscì a stabilirsi con altri ufficiali nazisti sfuggiti ai processi, e a formare una famiglia.
Non si seppe mai la verità.

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Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino fu abbattuto, riunificando la città e il paese per sempre e mettendo fine alla guerra fredda tra USA e URSS.

All’età di 60 anni, i due fratelli Beilschmidt potettero finalmente riabbracciarsi.

 

 

Il Blocco H3T4-L14

Fine













Note dell'Autore
Scusate il terribile ritardo e la qualità del capitolo.
Grazie di avermi accompagnato lungo questa bellissima avventura.
Tornerò!!!
   
 
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