L'ultimo è
quello buono
“Sara non
riusciva a prendere
la decisione giusta. Quell'ascensore l'avrebbe portata fino al
4°
piano e fino alla camera 647, e sapeva benissimo cosa, ma soprattutto
chi ci avrebbe trovato!!!!”
*****
(parole:
1166)
Durante il
tragitto per
tornare a casa, seduta sul sedile posteriore del taxi che l'aveva
prelevata dall'aeroporto, continuò a domandarsi se quei
pochi
giorni che si era presa per riflettere sulla sua vita fossero stati
sufficienti, oppure se, una volta varcata quella soglia, tutto sarebbe
stato come prima.
Sara non era
famosa per
essere una persona decisa, spesso si sentiva smarrita senza il supporto
della sua famiglia, o delle sue amiche. E sì che sul lavoro
era
tutta un'altra cosa! La chiamavano la draghessa,
perché quando qualcosa non andava come voleva lei, o
qualcuno
non era all'altezza delle sue aspettative, era capace di sbranare il
malcapitato di turno. Ma nella vita privata, ahimé...
Quando
aprì la porta
del suo appartamento e fece il primo passo sul vecchio parquet
cigolante, intravide qualcosa sotto la suola del sandalo. Si
portò gli occhiali da sole sulla testa e strizzò
gli
occhi per vedere meglio, poiché l'appartamento era immerso
nella
penombra e fuori invece c'era un sole estivo.
Era una busta
da lettera color acquamarina con piccoli ed eleganti ghirigori
argentati in rilievo.
Emise un breve
gridolino,
lasciando cadere a terra la borsa da viaggio, il mazzo di chiavi con il
pupazzetto del suo cartone animato preferito di quando era adolescente
e tutta la posta arretrata che aveva faticato ad estrarre dalla casella
della posta. Poi, quasi nel panico, guardò a destra e a
sinistra
del pianerottolo e si affrettò a chiudersi la porta alle
spalle.
Il cuore
iniziò a battere più veloce.
Questa volta lui
c'era andato fin troppo vicino. Non aveva bisogno di aprire e leggere
cosa gli scriveva. Raccolse la busta da terra e, stringendola al petto,
arrivò fino al frigorifero, dal quale prese una
lattina di
soda all'arancia. Le serviva qualcosa di forte. Oh, sì!
Questo
era uno di quei casi in cui era sacrosanto arrendersi e bere quella
dannata bibita. Ce l'aveva lì a disposizione da
più di
tre mesi dall'ultima litigata. Quella volta alla fine aveva resistito,
ma ora...
Buttò
i sandali sotto il tavolino basso e si accasciò con uno
sbuffo sul divano morbidoso.
Sentiva le guance diventare gradualmente bollenti.
Picchiettò le
unghie sulla lattina, rimuginando sul da farsi: doveva chiamare sua
madre e dirglielo, oppure doveva indire una chat d'emergenza
con Tina e le altre?
Di certo loro
avrebbe
voluto essere aggiornate su com'era andata la vacanza che tanto avevano
insistito si prendesse e non avrebbero perso tempo a subissarla di
consigli, più o meno truculenti, su come risolvere il
suo problema.
Sbuffò.
Ancora.
Ingollò
l'ultimo
lunghissimo sorso di veleno zuccheroso e si stravaccò per
bene
sul divano. Chiuse gli occhi, cercando di non pensare a niente, ma
inevitabilmente la sua mente tornava a quella busta che era andata a
raggiungere le altre, che dall'inizio dell'anno lui
le aveva fatto pervenire e che lei teneva nella mensola portabottiglie
del frigorifero. Ogni volta trovava i modi più fantasiosi e
originali; ma questa volta, benché fosse andato sul
tradizionale, la sorpresa l'aveva travolta come una fresca onda del
mare.
Non si accorse
del passare
delle ore fin quando il suo stomaco non le diede la sveglia con un
sonoro gorgoglio; fuori dalla finestra il sole stava ormai tramontando,
il bagaglio era rimasto abbandonato nell'ingresso come una vittima di
guerra, doveva fare la spesa – altrimenti per cena sarebbe
stata
costretta a mangiare la pizza surgelata vegana che le aveva portato
Tina l'ultima volta che aveva invaso casa sua – e passare
dalla
vicina per recuperare Perlina, la sua micetta. Ma di tutte quelle cose
proprio non aveva voglia di fare niente, almeno in quel momento.
«Ma
perché non
mi vuole lasciare in pace?» borbottò, entrando in
camera
da letto e lasciando cadere a terra i vestiti nel tragitto. Questa
volta doveva proprio decidersi e chiudere la faccenda in modo
definitivo e una bella doccia fredda le avrebbe sicuramente tolto la
stanchezza del viaggio e dato la scossa necessaria per affrontarlo.
Ci mise quasi
due ore per
prepararsi, intanto che ripassava il discorsetto che gli avrebbe fatto;
e, una volta messa una pietra sopra si sarebbe concessa una cenetta al
ristorante del Grand Hotel, tanto l'avrebbe messa sul suo conto:
aragosta e carpaccio di pesce spada avrebbero di certo soddisfatto il
suo stomaco.
Quando
uscì di casa
il suo spirito battagliero era ai massimi livelli, ma più si
avvicinava alla sua meta, più i dubbi si riaffacciavano in
lei.
«No,
no, no.
Sarò dura e risoluta!» si ripeteva come un mantra,
per
farsi coraggio. Persino di fronte alle porte dell'ascensore continuava
a recitarlo, persino a dispetto delle occhiate di quelli che le
passavano accanto, entrando e uscendo dagli altri ascensori.
Attese che non
ci fosse
nessuno per salire. Eppure, nonostante le diverse occasioni che le si
erano presentate nei minuti successivi, i suoi piedi non volevano
collaborare. Quell'ascensore l'avrebbe portata fino al quarto piano e
poi, avrebbe dovuto percorrere il corridoio fino in fondo, fino alla
camera 647, una suite privata che lei conosceva come casa sua. Sapeva
benissimo cosa l'avrebbe aspettata e soprattutto chi ci avrebbe
trovato. Ma era davvero pronta ad affrontare tutto quello? Se lo avesse
preso, in un modo o nell'altro la sua vita sarebbe cambiata. Stava a
lei decidere in che modo.
Era
così difficile...
Si
ritrovò a
camminare in circolo davanti agli ascensori che di tanto in tanto si
aprivano e si chiudevano, borbottando fra sé e tormentandosi
le
unghie. Le sue belle unghie decorate con le nail-art che si era
fatta fare sul lungomare di Rimini la mattina prima di partire.
«Ma
perché sto ancora qua?» si chiese a voce alta,
sempre sovrappensiero.
«Già,
me lo chiedo anch'io», le rispose in tono suadente una voce
maschile che lei conosceva alla perfezione.
Sara
alzò di scatto la testa e in quel momento si
sentì avvampare.
«Lorenzo»
«Sara»
L'uomo
sfoggiava un sorriso magnifico
– proprio come il suo soprannome –, nonostante
l'angolo della bocca fosse sporco di briciole di torta.
«Sapevo
che questa volta avresti ceduto. I colori Tiffany
sono sempre stati i tuoi preferiti. Vieni, sopra stiamo divorando gli
assaggi delle torte nuziali. Abbiamo già stabilito tutto,
manca
solo la farcitura. Se non mi sbaglio la tua preferita era la mousse
alla pesca, vero?»
Le prese la
mano e la
trascinò nell'ascensore, premendo subito il pulsante per il
quarto piano per non darle il tempo di fuggire.
Aveva
preparato tutto da
mesi, gli inviti ufficiali erano stati stampati con ognuna delle carte
che le aveva mandato per l'approvazione, gli anelli erano in mano al
testimone, la chiesa prenotata, l'abito attendeva la sua padrona
nell'armadio, le composizioni floreali decise. Giugno era il momento
giusto e non le avrebbe permesso di dirgli di no.
Non era
abituato ai
rifiuti, ma aveva sempre trovato divertente le titubanze della sua
fidanzata. Almeno fino a quel momento, perché se quella
farsa si
fosse protratta più a lungo, avrebbe perso la faccia con
chiunque lo conosceva. Ora era arrivato il tempo per entrambi di
mettere la testa a posto e di fare il passo decisivo.
note:
Qui ci vuole un piccolo chiarimento su questa one-shot e sulle prossime
due. I brani sono stati scritti per una differente gara indetta dal
gruppo fb Letture Sale & Pepe, che consisteva nel dare una
frase guida e tirar fuori un racconto. La frase in questione poteva
essere ripresa pari pari, modificarla e adattarla all'occorrenza, o anche solo prenderne ispirazione.
In queste tre one-shot, le parole in corsivo quindi non si riferiranno
a parole assegnate, ma sono parole se sottolineano o sottintendono qualcosa
di particolare, che altrimenti andrebbe messo fra le classiche
virgolette; parole che esaltano situazioni, enfatizzano l'ironia dei
date situazioni.
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