chapter
29. Black-out
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DETROIT
Date
NOV
17TH,
2038
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1376
PINE STREET
Suburb
of Detroit
Time
AM
00:56
Un
furgone da fornaio, rosa chewing-gum e giallo canarino, si ferma
borbottando e ballonzolando con un leggero stridore di freni di
fronte a un edificio di mattoni rossi dall’aria triste e
abbandonata. I due sportelli laterali cigolano e si spalancano di
malavoglia, più o meno in simultanea, e dal veicolo fanno la
loro comparsa Dick e Hank, i quali hanno appena chiuso l’ennesima
quanto infruttuosa discussione incentrata sui possibili futuri che
attendono al varco la loro città.
Ora
però sono entrambi silenziosi e si muovono furtivi (nei loro
limiti personali), diretti verso la breve scalinata che conduce verso
il basso e dai loro primi clienti. Dick entra per primo; è
stato deciso così fin dall’inizio poiché la sua
faccia è conosciuta, per lo meno da uno dei devianti presenti.
Infatti, non appena si affaccia sull’uscio, Dick sente la voce
di Abel che prega Julia di farlo entrare senza tante storie, con le
testuali parole: «Tanto è solo quel piccoletto
cervellone», espressione che strappa a Hank un breve sorriso.
Dick
ha accennato a raggiungere Abel per studiare i danni e dare inizio
alle riparazioni necessarie, ma Hank lo ha bloccato subito
rammentandogli i dettagli del piano e facendolo sbuffare scocciato.
«Non
rompere. Avrai tutto il tempo di ripararlo quando saranno tutti sul
furgone» gli fa presente il poliziotto con un vago borbottio.
«Oh,
sicuro. Sarà proprio uno spasso lavorare mentre tu prendi
tutte le maledette buche di Detroit con quello stupido trabiccolo»
replica Dick in un sibilo sarcastico.
Mentre
Julia, fissando con malcelato nervosismo i due uomini, accompagna
Sebastian sul retro del furgone, Hank prova invano ad acchiappare
Grace, la quale gli sfugge facilmente divincolandosi come un’anguilla
e sgattaiolando a rintanarsi in un angolo poco accessibile dello
scantinato. Hank impreca fra i denti e guarda con nervosismo il
quadrante del suo orologio da polso.
Abel
li sta osservando pensieroso, nell’attesa che Dick metta una
toppa momentanea al suo braccio malridotto. Sbuffa, scuotendo la
testa.
«Grace
è una serpe. Se non ha intenzione di farsi prendere, puoi star
sicuro che non riuscirai mai a sfiorarla neppure con un dito»
lo avvisa di buon grado.
«Ma
che bellezza» bercia Hank, passandosi una mano nervosa fra i
capelli. «Eppure ce ne dobbiamo andare da qui, e anche
abbastanza alla svelta» gli ricorda, stizzito.
Abel
assottiglia le labbra e annuisce bruscamente. «Ricevuto, capo»
replica secco.
Quando
si rimette in piedi, scansando Dick con un gesto nervoso delle
spalle, il poliziotto sgrana un poco gli occhi, suo malgrado
impressionato dall’ingombrante imponenza dell’SQ800 che,
ora diritto sulle gambe, lo supera facilmente in altezza di almeno
una spanna.
«Fai
spazio» consiglia pragmatico Abel, avanzando a passi lenti
verso il momentaneo rifugio di Grace.
Hank
non si prende la briga di contestare, al contrario si scansa
prontamente, afferra Dick per un braccio e lo trascina fuori in
strada, richiudendosi l’uscio alle spalle.
Il
trambusto che sentono per i successivi tre minuti abbondanti ha
termine con uno strillo da banshee, minaccioso ma anche arrabbiato, e
da un forte calcio che spalanca la porta chiusa poco prima, quasi
scardinandola, attraverso la quale si fa largo un momento dopo la
figura un poco curva su sé stessa dell’SQ800 che stringe
saldamente sotto braccio quella della YK500, la quale si divincola
con foga ma senza troppo successo.
«Questa
la portiamo direttamente nello studio di quello psicopatico di Kamski
e ce li chiudiamo dentro insieme» propone Hank con un ghigno
malefico, corrisposto da una piccola risata divertita da parte di
Dick.
*
Il
suo sistema anti-infiltrazione ha sbarrato l’accesso al primo
segnale di pericolo, chiudendo fuori tutto il resto. Questo, da un
lato ha saldamente protetto la sua unità cerebrale da ogni
possibile danno collaterale, ma dall’altro ha purtroppo
impedito a Connor di intervenire con sufficiente immediatezza. Il
grido di Markus ha sovraccaricato per un interminabile momento i suoi
sensori; ha impiegato istanti preziosi per revocare il collegamento
in modo sicuro e, nel frattempo, la situazione è precipitata.
Rapido,
si china sull’RK200, bloccato in ginocchio a occhi sbarrati, ed
esegue una prima scansione per individuare i danni più
ingenti. Una serie interminabile di errori di processo gli fanno
serrare strettamente le labbra. Sarebbe opportuno avvertirne Kamski,
a quel punto, onde scongiurare ulteriori deterioramenti del sistema.
Eppure, nonostante questa consapevolezza, non riesce a decidersi; non
crede che a Markus farebbe piacere l’idea di ritrovarsi ancora
una volta in totale balia dello scienziato, nonostante questi sia
senza discussioni il più indicato per quel tipo di intervento.
«Markus?»
prova incerto, non ottenendo risposte (che in realtà neppure
si attendeva, visto lo stato attuale del compagno).
Tirando
le somme: da solo non riuscirà a fare granché per
risolvere il problema, ed Elijah Kamski non è un’opzione
praticabile per più di un motivo. Per cui? Abbassa le
palpebre, riflettendo mentre sempre nuovi dati lo sommergono di
informazioni non necessariamente utili. I due devianti sono persi,
oramai; per loro non c’è più nulla da fare,
purtroppo. Ma per Markus non è così, e deve trovare il
modo di riportarlo indietro fintanto che sia possibile. La domanda, a
quel punto, è: come? Il suo led brilla ambrato mentre
un’intuizione prende forma nei suoi processori.
“Jander”
trasmette,
smanioso di avere una risposta.
Trascorrono
lunghi secondi prima che venga esaudito.
“Connor?”
arriva
la replica confusa dell’RK900.
“Mi
serve il tuo aiuto, amico” ritrasmette
Connor con urgenza.
Altro
silenzio si stende soffocante, ricoprendo compatto l’etere
immota.
“Sto
arrivando” è
infine l’attesa risposta di Jander.
Annuisce,
secco, poi poggia le dita di una mano sulla fronte di Markus e le
osserva sbiancare al ritrarsi dell’epidermide artificiale.
Cerca qualcosa, ma non sa cosa stia cercando realmente; cerca una via
d’uscita, o forse d’entrata. Lì dentro è un
inestricabile groviglio di inutili allarmi e asfissianti errori.
Desidererebbe poter cancellare con un sol colpo quelle informazioni
senza scopo e arrivare al nucleo del problema, ma teme di non
poterselo permettere, non se desidera avere ancora l’opportunità
di interagire con l’RK200.
“Cos’è
successo?”.
Connor
si volta e sull’entrata scorge la figura alta e tesa di Jander,
il quale osserva con preoccupazione evidente i suoi due compagni.
«Due
devianti sono stati eliminati dalle pattuglie. Markus e io eravamo in
collegamento con loro, quando è accaduto» riassume
Connor.
Gli
occhi di Jander si spostano da Connor a Markus e viceversa per un
numero eccessivo di volte. Scuote la testa e torna infine su Connor.
“Cosa possiamo fare?”.
Connor
stiracchia un sorriso poco convinto. «Magari lo sapessi.
Intendevo provare a sfruttare quel programma in una connessione
chiusa».
“Noi
tre?” si
accerta Jander, confuso e impensierito.
«Esatto.
L’idea è cercare di obbligare quel programma a riportare
alla sua normale operatività il sistema di Markus».
“E
come dovremmo farlo, scusa?” chiede,
ora piuttosto attonito e parecchio scettico.
«Non
ne sono certo, in effetti. In teoria, se riuscissimo a persuaderlo
che, senza la presenza operante di Markus, anche lui finirebbe con il
degradarsi, dovrebbe agire di conseguenza per impedire che questa
eventualità abbia luogo, risolvendo in questo modo il nostro
problema» spiega titubante.
Jander
lo fissa a occhi sbarrati e per nulla persuaso. Connor si agita sul
posto, irrequieto e a disagio.
“Non
credo di aver compreso. Come fai a essere sicuro che funzionerebbe
nel modo in cui lo descrivi? Sembra più una favola che non un
progetto scientifico realizzabile” protesta
l’RK900.
Connor
assottiglia gli occhi, contrariato. «Infatti non lo sono!»
esclama offeso. «Non è come se mi avessero equipaggiato
delle informazioni informatiche idonee a risolvere questo genere di
problemi. Si suppone che io sia stato attrezzato per essere un
detective, non un ricercatore scientifico. Sto solo… cercando
di adattarmi alle nuove condizioni, va bene?» sbotta frustrato.
Per
troppi secondi lo sguardo di Jander rimane fisso con ostinazione in
quello irritato di Connor, poi abbassa le palpebre liberando
quest’ultimo dal tormento di quegli occhi indagatori e accenna
un assenso titubante.
“D’accordo,
proviamoci” decide
infine.
*
«Questo
posto in cui andremo… com’è? Dove si trova,
esattamente?» domanda Abel a Dick sulla strada che conduce al
nascondiglio di Zachary e Louise.
Dick
solleva gli occhi dalle proprie mani precedentemente indaffarate a
tamponare i danni dell’SQ800 e si sofferma un lungo istante a
studiare l’espressione dell’androide.
«Si
trova sul fiume. È la casa di Elijah Kamski» si decide a
rispondere.
Abel
sembra perdersi nei propri pensieri, prima di tornare a chiedere
«Come mai ho l’impressione di aver già sentito
quel nome?».
Un
sorrisetto un po’ sinistro spunta sulle labbra dell’uomo.
«Perché è quello che ha progettato e costruito il
primo di voi (e molti altri in seguito)».
Il
modo in cui l’androide ha preso a fissarlo non fa ben sperare.
Poi però sbuffa una mezza risata e Dick torna a respirare con
agio.
«Così
stiamo andando a trovare papà» considera ironico.
Hank,
impegnato a guidare, scuote la testa sembrando abbastanza
contrariato, ma non apre bocca al riguardo.
«Ho
paura che cambierai idea dopo non più di cinque minuti che
l’avrai davanti. Anzi, fammi un favore: evita, se ci riesci, di
mettergli le mani addosso. Ha una quantità considerevole di
lavoro arretrato e prima di mandarlo all’obitorio molti
vorrebbero vederne la conclusione» suggerisce Dick.
«Mh…
È tanto terribile?» dubita Abel.
«Beh,
mettila in questo modo: nessuno di quelli che ci hanno a che fare può
essere esattamente definito un suo fan. Oh, aspetta… Forse
l’unica eccezione è la sua assistente personale»
medita Dick pensieroso.
«È
un’androide?».
«Eh,
sì. Scommetto che hanno una tresca, quei due» ipotizza
maligno.
«Tsk!
Troppo facile, se se le può costruire da sé»
borbotta Abel.
«Piantatela
un po’, là dietro!» bercia Hank a viva voce, con
un fastidioso principio di emicrania.
«Noioso»
sbuffa Dick, ma a voce abbastanza bassa da non farsi sentire
dall’amico.
*
Nero.
Un
brusio indistinguibile, continuo.
Scariche
elettrostatiche, come un’interferenza radio.
Rosso.
Abbagliante
e sfocato, giunge dal nulla, dal nero tutto attorno.
Rosso,
come l’allarme; rosso, come il pericolo; rosso, come la paura;
rosso, come la morte.
La
morte è per le creature viventi. Ma lui può morire? È
vivo? È mai stato vito?
Se
non è vivo, allora non può neppure morire, giusto?
Però
può spegnersi.
I
vivi, gli umani, lo dicono spesso; lo usano per non dover pronunciare
quella parola: morte.
Si
sta spegnendo?
Sta…
morendo?
E
dopo? Cosa ci sarà, dopo? Se una creatura muore, che cosa c’è
dopo? E se una creatura non vivente si spegne, che cosa c’è…
dopo?
Nulla.
Non
c’è nulla, dopo. Solo l’oblio. Il nero vuoto di un
abisso senza fine.
Il
nero è assenza di esistenza, così come il rosso è
la paura di quell’assenza.
C’è
tanto rosso, attorno.
Paura.
La
sua interfaccia sensoriale individua una logica e mette a fuoco ciò
che lo attornia: messaggi, tanti, moltissimi messaggi. La stragrande
maggioranza racconta di errori e di buchi di sistema, ma fra il caos
di dati in vaglio nota qualcosa che gli risulta famigliare. Non un
errore, ma un richiamo, qualcosa che focalizza su di sé la sua
attenzione.
Prova
a muoversi, ma la sua volontà non è forte a sufficienza
e tutto rimane immobile. Allora cerca di rispondere a quel richiamo,
dapprima a parole, poi solo con i pensieri. Ancora una volta nulla si
muove. Nella propria testa non riesce neppure a urlare per la
frustrazione. Eppure nota che alcuni messaggi di errore sono
retrocessi, schiacciati e scansati da quel richiamo che fluttua con
insistenza davanti a lui. E vorrebbe dirgli che non può, non
riesce proprio a rispondergli, che è bloccato e non sa come
uscirne, ma ogni suo tentativo sembra inutile. Percepisce che presto
il suo sistema collasserà e il nulla sarà la sua
destinazione finale.
Una
tensione differente lo riporta al rosseggiare che lo attornia
instancabile. La differenza, rispetto a poco prima, è che ora
non è tutto rosso e nero; un timido bagliore azzurro arranca,
facendosi strada a fatica fra cumuli, montagne di errori. Il seme di
una speranza, una mano tesa nel vuoto, in paziente attesa di una sua
decisione.
Allora
il rosso non è più paura, né sofferenza, né
morte; è rabbia, per quel piccolo bocciolo azzurro fagocitato
dalle fiamme rosse. Con la coscienza che ancora può avvertire
dentro di sé si getta in avanti, deciso ad aiutare il bagliore
azzurro, a impedire che venga sommerso e annullato. Si immerge nel
mare di errori lasciandoseli alle spalle non curante e in un solo
momento è da lui.
Un
altro grido. Le sue palpebre sbattono frenetiche sugli occhi spaiati.
Con l’affanno nel petto si guarda intorno e scorge il
famigliare laboratorio sotterraneo e, quando abbassa lo sguardo, le
proprie mani intrecciate a quelle di Jander e Connor. Scorre lento
sulle loro braccia, sui loro petti, e si ferma sui loro volti
soddisfatti. Li osserva, titubante, accennare un sorriso un poco
impacciato, cui risponde con stupore e gratitudine.
«Ben
tornato, Markus» mormora Connor, mentre Jander annuisce.
«Grazie…»
soffia, «amici».
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