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Autore: Roiben    14/05/2019    0 recensioni
Che cos'è la devianza? Un semplice virus digitale diffusosi fra gli androidi a seguito di contatti e scambio di dati? Un malfunzionamento patogeno causato da un errore di progettazione? L'evoluzione autonoma di un programma preinserito? O la semplice presa di coscienza della propria esistenza e di un pensiero indipendente?
Come l'hanno percepita gli androidi? E gli esseri umani?
Anche gli androidi hanno dei sogni?
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Connor/RK800, Elijah Kamski, Hank Anderson, Markus/RK200
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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chapter 29. Black-out

 

 

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DETROIT

Date

NOV 17TH, 2038

 

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1376 PINE STREET

Suburb of Detroit

Time

AM 00:56

 

Un furgone da fornaio, rosa chewing-gum e giallo canarino, si ferma borbottando e ballonzolando con un leggero stridore di freni di fronte a un edificio di mattoni rossi dall’aria triste e abbandonata. I due sportelli laterali cigolano e si spalancano di malavoglia, più o meno in simultanea, e dal veicolo fanno la loro comparsa Dick e Hank, i quali hanno appena chiuso l’ennesima quanto infruttuosa discussione incentrata sui possibili futuri che attendono al varco la loro città.

 

Ora però sono entrambi silenziosi e si muovono furtivi (nei loro limiti personali), diretti verso la breve scalinata che conduce verso il basso e dai loro primi clienti. Dick entra per primo; è stato deciso così fin dall’inizio poiché la sua faccia è conosciuta, per lo meno da uno dei devianti presenti. Infatti, non appena si affaccia sull’uscio, Dick sente la voce di Abel che prega Julia di farlo entrare senza tante storie, con le testuali parole: «Tanto è solo quel piccoletto cervellone», espressione che strappa a Hank un breve sorriso.

 

Dick ha accennato a raggiungere Abel per studiare i danni e dare inizio alle riparazioni necessarie, ma Hank lo ha bloccato subito rammentandogli i dettagli del piano e facendolo sbuffare scocciato.

 

«Non rompere. Avrai tutto il tempo di ripararlo quando saranno tutti sul furgone» gli fa presente il poliziotto con un vago borbottio.

 

«Oh, sicuro. Sarà proprio uno spasso lavorare mentre tu prendi tutte le maledette buche di Detroit con quello stupido trabiccolo» replica Dick in un sibilo sarcastico.

 

Mentre Julia, fissando con malcelato nervosismo i due uomini, accompagna Sebastian sul retro del furgone, Hank prova invano ad acchiappare Grace, la quale gli sfugge facilmente divincolandosi come un’anguilla e sgattaiolando a rintanarsi in un angolo poco accessibile dello scantinato. Hank impreca fra i denti e guarda con nervosismo il quadrante del suo orologio da polso.

 

Abel li sta osservando pensieroso, nell’attesa che Dick metta una toppa momentanea al suo braccio malridotto. Sbuffa, scuotendo la testa.

 

«Grace è una serpe. Se non ha intenzione di farsi prendere, puoi star sicuro che non riuscirai mai a sfiorarla neppure con un dito» lo avvisa di buon grado.

 

«Ma che bellezza» bercia Hank, passandosi una mano nervosa fra i capelli. «Eppure ce ne dobbiamo andare da qui, e anche abbastanza alla svelta» gli ricorda, stizzito.

 

Abel assottiglia le labbra e annuisce bruscamente. «Ricevuto, capo» replica secco.

 

Quando si rimette in piedi, scansando Dick con un gesto nervoso delle spalle, il poliziotto sgrana un poco gli occhi, suo malgrado impressionato dall’ingombrante imponenza dell’SQ800 che, ora diritto sulle gambe, lo supera facilmente in altezza di almeno una spanna.

 

«Fai spazio» consiglia pragmatico Abel, avanzando a passi lenti verso il momentaneo rifugio di Grace.

 

Hank non si prende la briga di contestare, al contrario si scansa prontamente, afferra Dick per un braccio e lo trascina fuori in strada, richiudendosi l’uscio alle spalle.

 

Il trambusto che sentono per i successivi tre minuti abbondanti ha termine con uno strillo da banshee, minaccioso ma anche arrabbiato, e da un forte calcio che spalanca la porta chiusa poco prima, quasi scardinandola, attraverso la quale si fa largo un momento dopo la figura un poco curva su sé stessa dell’SQ800 che stringe saldamente sotto braccio quella della YK500, la quale si divincola con foga ma senza troppo successo.

 

«Questa la portiamo direttamente nello studio di quello psicopatico di Kamski e ce li chiudiamo dentro insieme» propone Hank con un ghigno malefico, corrisposto da una piccola risata divertita da parte di Dick.

 

*

 

Il suo sistema anti-infiltrazione ha sbarrato l’accesso al primo segnale di pericolo, chiudendo fuori tutto il resto. Questo, da un lato ha saldamente protetto la sua unità cerebrale da ogni possibile danno collaterale, ma dall’altro ha purtroppo impedito a Connor di intervenire con sufficiente immediatezza. Il grido di Markus ha sovraccaricato per un interminabile momento i suoi sensori; ha impiegato istanti preziosi per revocare il collegamento in modo sicuro e, nel frattempo, la situazione è precipitata.

 

Rapido, si china sull’RK200, bloccato in ginocchio a occhi sbarrati, ed esegue una prima scansione per individuare i danni più ingenti. Una serie interminabile di errori di processo gli fanno serrare strettamente le labbra. Sarebbe opportuno avvertirne Kamski, a quel punto, onde scongiurare ulteriori deterioramenti del sistema. Eppure, nonostante questa consapevolezza, non riesce a decidersi; non crede che a Markus farebbe piacere l’idea di ritrovarsi ancora una volta in totale balia dello scienziato, nonostante questi sia senza discussioni il più indicato per quel tipo di intervento.

 

«Markus?» prova incerto, non ottenendo risposte (che in realtà neppure si attendeva, visto lo stato attuale del compagno).

 

Tirando le somme: da solo non riuscirà a fare granché per risolvere il problema, ed Elijah Kamski non è un’opzione praticabile per più di un motivo. Per cui? Abbassa le palpebre, riflettendo mentre sempre nuovi dati lo sommergono di informazioni non necessariamente utili. I due devianti sono persi, oramai; per loro non c’è più nulla da fare, purtroppo. Ma per Markus non è così, e deve trovare il modo di riportarlo indietro fintanto che sia possibile. La domanda, a quel punto, è: come? Il suo led brilla ambrato mentre un’intuizione prende forma nei suoi processori.

 

Jander” trasmette, smanioso di avere una risposta.

 

Trascorrono lunghi secondi prima che venga esaudito.

 

Connor?” arriva la replica confusa dell’RK900.

 

Mi serve il tuo aiuto, amico” ritrasmette Connor con urgenza.

 

Altro silenzio si stende soffocante, ricoprendo compatto l’etere immota.

 

Sto arrivando” è infine l’attesa risposta di Jander.

 

Annuisce, secco, poi poggia le dita di una mano sulla fronte di Markus e le osserva sbiancare al ritrarsi dell’epidermide artificiale. Cerca qualcosa, ma non sa cosa stia cercando realmente; cerca una via d’uscita, o forse d’entrata. Lì dentro è un inestricabile groviglio di inutili allarmi e asfissianti errori. Desidererebbe poter cancellare con un sol colpo quelle informazioni senza scopo e arrivare al nucleo del problema, ma teme di non poterselo permettere, non se desidera avere ancora l’opportunità di interagire con l’RK200.

 

Cos’è successo?”.

 

Connor si volta e sull’entrata scorge la figura alta e tesa di Jander, il quale osserva con preoccupazione evidente i suoi due compagni.

 

«Due devianti sono stati eliminati dalle pattuglie. Markus e io eravamo in collegamento con loro, quando è accaduto» riassume Connor.

 

Gli occhi di Jander si spostano da Connor a Markus e viceversa per un numero eccessivo di volte. Scuote la testa e torna infine su Connor. “Cosa possiamo fare?”.

 

Connor stiracchia un sorriso poco convinto. «Magari lo sapessi. Intendevo provare a sfruttare quel programma in una connessione chiusa».

 

Noi tre?” si accerta Jander, confuso e impensierito.

 

«Esatto. L’idea è cercare di obbligare quel programma a riportare alla sua normale operatività il sistema di Markus».

 

E come dovremmo farlo, scusa?” chiede, ora piuttosto attonito e parecchio scettico.

 

«Non ne sono certo, in effetti. In teoria, se riuscissimo a persuaderlo che, senza la presenza operante di Markus, anche lui finirebbe con il degradarsi, dovrebbe agire di conseguenza per impedire che questa eventualità abbia luogo, risolvendo in questo modo il nostro problema» spiega titubante.

 

Jander lo fissa a occhi sbarrati e per nulla persuaso. Connor si agita sul posto, irrequieto e a disagio.

 

Non credo di aver compreso. Come fai a essere sicuro che funzionerebbe nel modo in cui lo descrivi? Sembra più una favola che non un progetto scientifico realizzabile” protesta l’RK900.

 

Connor assottiglia gli occhi, contrariato. «Infatti non lo sono!» esclama offeso. «Non è come se mi avessero equipaggiato delle informazioni informatiche idonee a risolvere questo genere di problemi. Si suppone che io sia stato attrezzato per essere un detective, non un ricercatore scientifico. Sto solo… cercando di adattarmi alle nuove condizioni, va bene?» sbotta frustrato.

 

Per troppi secondi lo sguardo di Jander rimane fisso con ostinazione in quello irritato di Connor, poi abbassa le palpebre liberando quest’ultimo dal tormento di quegli occhi indagatori e accenna un assenso titubante.

 

D’accordo, proviamoci” decide infine.

 

*

 

«Questo posto in cui andremo… com’è? Dove si trova, esattamente?» domanda Abel a Dick sulla strada che conduce al nascondiglio di Zachary e Louise.

 

Dick solleva gli occhi dalle proprie mani precedentemente indaffarate a tamponare i danni dell’SQ800 e si sofferma un lungo istante a studiare l’espressione dell’androide.

 

«Si trova sul fiume. È la casa di Elijah Kamski» si decide a rispondere.

 

Abel sembra perdersi nei propri pensieri, prima di tornare a chiedere «Come mai ho l’impressione di aver già sentito quel nome?».

 

Un sorrisetto un po’ sinistro spunta sulle labbra dell’uomo. «Perché è quello che ha progettato e costruito il primo di voi (e molti altri in seguito)».

 

Il modo in cui l’androide ha preso a fissarlo non fa ben sperare. Poi però sbuffa una mezza risata e Dick torna a respirare con agio.

 

«Così stiamo andando a trovare papà» considera ironico.

 

Hank, impegnato a guidare, scuote la testa sembrando abbastanza contrariato, ma non apre bocca al riguardo.

 

«Ho paura che cambierai idea dopo non più di cinque minuti che l’avrai davanti. Anzi, fammi un favore: evita, se ci riesci, di mettergli le mani addosso. Ha una quantità considerevole di lavoro arretrato e prima di mandarlo all’obitorio molti vorrebbero vederne la conclusione» suggerisce Dick.

 

«Mh… È tanto terribile?» dubita Abel.

 

«Beh, mettila in questo modo: nessuno di quelli che ci hanno a che fare può essere esattamente definito un suo fan. Oh, aspetta… Forse l’unica eccezione è la sua assistente personale» medita Dick pensieroso.

 

«È un’androide?».

 

«Eh, sì. Scommetto che hanno una tresca, quei due» ipotizza maligno.

 

«Tsk! Troppo facile, se se le può costruire da sé» borbotta Abel.

 

«Piantatela un po’, là dietro!» bercia Hank a viva voce, con un fastidioso principio di emicrania.

 

«Noioso» sbuffa Dick, ma a voce abbastanza bassa da non farsi sentire dall’amico.

 

*

 

Nero.

Un brusio indistinguibile, continuo.

Scariche elettrostatiche, come un’interferenza radio.

Rosso.

Abbagliante e sfocato, giunge dal nulla, dal nero tutto attorno.

Rosso, come l’allarme; rosso, come il pericolo; rosso, come la paura; rosso, come la morte.

La morte è per le creature viventi. Ma lui può morire? È vivo? È mai stato vito?

Se non è vivo, allora non può neppure morire, giusto?

Però può spegnersi.

I vivi, gli umani, lo dicono spesso; lo usano per non dover pronunciare quella parola: morte.

Si sta spegnendo?

Sta… morendo?

E dopo? Cosa ci sarà, dopo? Se una creatura muore, che cosa c’è dopo? E se una creatura non vivente si spegne, che cosa c’è… dopo?

Nulla.

Non c’è nulla, dopo. Solo l’oblio. Il nero vuoto di un abisso senza fine.

Il nero è assenza di esistenza, così come il rosso è la paura di quell’assenza.

C’è tanto rosso, attorno.

Paura.

 

La sua interfaccia sensoriale individua una logica e mette a fuoco ciò che lo attornia: messaggi, tanti, moltissimi messaggi. La stragrande maggioranza racconta di errori e di buchi di sistema, ma fra il caos di dati in vaglio nota qualcosa che gli risulta famigliare. Non un errore, ma un richiamo, qualcosa che focalizza su di sé la sua attenzione.

 

Prova a muoversi, ma la sua volontà non è forte a sufficienza e tutto rimane immobile. Allora cerca di rispondere a quel richiamo, dapprima a parole, poi solo con i pensieri. Ancora una volta nulla si muove. Nella propria testa non riesce neppure a urlare per la frustrazione. Eppure nota che alcuni messaggi di errore sono retrocessi, schiacciati e scansati da quel richiamo che fluttua con insistenza davanti a lui. E vorrebbe dirgli che non può, non riesce proprio a rispondergli, che è bloccato e non sa come uscirne, ma ogni suo tentativo sembra inutile. Percepisce che presto il suo sistema collasserà e il nulla sarà la sua destinazione finale.

 

Una tensione differente lo riporta al rosseggiare che lo attornia instancabile. La differenza, rispetto a poco prima, è che ora non è tutto rosso e nero; un timido bagliore azzurro arranca, facendosi strada a fatica fra cumuli, montagne di errori. Il seme di una speranza, una mano tesa nel vuoto, in paziente attesa di una sua decisione.

 

Allora il rosso non è più paura, né sofferenza, né morte; è rabbia, per quel piccolo bocciolo azzurro fagocitato dalle fiamme rosse. Con la coscienza che ancora può avvertire dentro di sé si getta in avanti, deciso ad aiutare il bagliore azzurro, a impedire che venga sommerso e annullato. Si immerge nel mare di errori lasciandoseli alle spalle non curante e in un solo momento è da lui.

 

Un altro grido. Le sue palpebre sbattono frenetiche sugli occhi spaiati. Con l’affanno nel petto si guarda intorno e scorge il famigliare laboratorio sotterraneo e, quando abbassa lo sguardo, le proprie mani intrecciate a quelle di Jander e Connor. Scorre lento sulle loro braccia, sui loro petti, e si ferma sui loro volti soddisfatti. Li osserva, titubante, accennare un sorriso un poco impacciato, cui risponde con stupore e gratitudine.

 

«Ben tornato, Markus» mormora Connor, mentre Jander annuisce.

 

«Grazie…» soffia, «amici».


  
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