Note: Questa FF è
di soli tre capitoli, ispirata ai fatti accaduti prima, dopo e durante
l'ultimo concerto dei Sex Pistols (Stadio Winterland di San Francisco,
14.01.1978); mi sono permessa di reinterpretare la cosa,
perchè i fatti originali avrebbero visto semplicemente la
partenza di John per l'Inghilterra, il ricovero di Sid e la rottura del
gruppo.
Malcolm
McLaren è il manager dei Sex, nonché
co-proprietario con la Westwood del negozio su King's Road, Tiberi
è realmente esistito e faceva parte dell'entourage dei
Pistols, Sid Vicious fu sottoposto ad agopuntura da lui, mentre John
Lydon (aka Rotten) partiva per l'UK. Nella storia, il punto di vista
è quello alternato di Sid e John.
No fun without you.
Prologo
Ci
trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci
avevano
affibbiato. Faceva schifo, era lurida, era marcia.
Pessima.
Noi
li guardammo senza in realtà vederli, mentre ci portavano
via di lì per recarci
chissà dove, non ricordo, non ci chiesero spiegazioni,
diedero tutto per
scontato.
Stemmo
vicini per tutto il tragitto in limousine, una limousine che ormai era
giunto
il momento di restituire, semmai non ce l’avessero sottratta
da sotto i sederi
mentre stavamo per strada.
Era
giunta la nostra fine, la fine della nostra pazzesca storia, la fine
dei Sex
Pistols. Sentivo il mio cervello lontano, come se fosse rimasto
incatenato a
quel motel di San Francisco.
Più
consumavamo strada, più i miei pensieri venivano strappati
via, ed io rimanevo
come un vegetale sradicato, fermo, pallido, emaciato.
Sentivo
il calore della sua spalla contro la mia, ma Sid non mi vedeva. Non
vedevamo
più nulla, eravamo vuoti e morti. Non vedevamo
più nessuno, né noi stessi né il
mondo che ci circondava. Non c’era nessun futuro, nessun
futuro. Non era
divertente.
No fun, my babe, no
fun.
Capitolo I
Belsen was a gas.
Non
eravamo in vacanza, si trattava di lavoro lavoro lavoro. Non credevo
sarebbe
diventato un lavoro, quello di suonare nella mia band preferita. Non
doveva
essere un lavoro, non avrebbe dovuto essere un lavoro.
Tutto
il tour era stato un vero disastro, uno schifo indicibile, per cui ci
avevano
privato della maggior parte degli attrezzisti e gente varia.
Ero
una star del rock’n’roll internazionale, eppure mi
spostavo con il basso in
spalla, come avrei fatto quasi due anni prima, camminando per
King’s Road.
Cook
e Jones stavano sempre più in disparte, tra di loro, fatto a
cui ci eravamo
tutti un po’ abituati. Spesso si parlava di separazione, ma
il gruppo aveva
ancora troppe cose in ballo per poterci dividere: dopo la data a San
Francisco,
nel giro di nemmeno un mese, sarebbe iniziata un’altra
turnée in Svezia.
Chi
mi preoccupava davvero, ad essere sincero, era John.
Camminava
sempre più chino, più gobbo, con lo sguardo
rabbuiato e un sacco di lamentele
sempre in bocca. Mi chiedevo davvero cosa stesse succedendo a tutti
noi, cosa
stessimo combinando.
«Signor
McLaren, dopo il disastro a Dallas, credete che il gruppo
riuscirà a conquistare
San Francisco?» la cronista spingeva il microfono verso la
bocca di Malcolm,
quasi fino a farglielo leccare, ma lui si rifiutò di
rispondere ad ogni
domanda, mentre varcavamo le porte del MiYako Hotel.
Gli
americani avevano due opinioni totalmente opposte sui Sex Pistols: o li
amavano, o li odiavano a morte.
Alcuni
di quegli zotici avrebbero voluto vederci morire in un lago di sangue,
avrebbero voluto farci fuori con le loro mani. Più ci
addentravamo nella logica
americana, più questo ci appariva chiaro.
Vedevo
John soffrire dell’intera situazione, dei concerti che erano
stati cancellati,
delle bugie che venivano dette sul nostro conto, anche dai nostri
stessi
impresari.
Era
stressante, se non trovavi qualcosa a cui aggrapparti.
Io
qualcosa avevo, avevo l’alcol, e, si, avevo anche Nancy ad
aspettarmi in
Inghilterra.
Improvvisamente,
mi sentii assalire da un’ondata di malinconia e di straziante
malessere fisico,
era parecchio che non stavo così male.
John
se ne accorse, ma non disse nulla, era troppo occupato a litigare con
Malcolm,
il quale ci stava informando con fin troppo garbo che non
c’erano stanze per
me, in quell’albergo. Il direttore non mi voleva: la mia
trista fama mi aveva
preceduto anche lì.
Estremamente
scocciato, John l’aveva ricoperto di insulti, per poi
afferrarmi malamente per
un braccio e trascinarmi fuori, accompagnati da due guardie del corpo.
John
mi odiava per il fatto della droga, io l’avevo ormai capito,
ma eravamo grandi
amici sin dai tempi della scuola, sapevo che non mi avrebbe mai
abbandonato.
«Stammi
lontano, non mi va di parlare con te.» «Lasciami in
pace Sid, non abbiamo nulla
a che spartire» «Malcolm, non intendo viaggiare con
Sid Vicious.» Erano queste
le cose che diceva, sempre più spesso.
Parlava
così, ma era sempre lui a prendersi i miei sputi in faccia,
quando rimaneva
chiuso in una stanza con me per intere giornate, durante le
disintossicazioni e
le conseguenti crisi d’astinenza.
«Senti,
Malcolm non ci vuole qui, e tu devi essere in grado almeno di stare in
piedi domani…»mi
rimproverò, quando fummo su un devastatissimo camioncino in
compagnia delle
guardie del corpo e dei roadies.
Quando
John mi sgridava, il suo sguardo si ammorbidiva sempre. Faceva uno
strano
effetto: più era arrabbiato, più lo sguardo duro
da psicopatico scivolava via
dal suo volto contorto, dalla mascella serrata nelle più
grottesche smorfie,
fino a lasciare lì, di fronte a me, il timidissimo ragazzino
irlandese emaciato
e gobbo che avevo conosciuto nella mia primissima adolescenza.
Non
so come accadesse, forse, semplicemente, John non amava imporsi su di
me,
oppure non si sentiva nella posizione di consigliare chiunque, o,
più
probabilmente, io non stavo deludendo Johnny Rotten, stavo deludendo il
ragazzino conosciuto a Finsbury Park.
Annuii
senza dire una parola, totalmente immerso nella valanga di pensieri
negativi
che il malessere e quel senso di colpa mi stavano insediando nel
cervello da
ormai parecchi giorni.
Con
il basso in spalla e senza guardie del corpo, che avevano deciso di
aver
concluso con l’incarico, ci arrampicammo su una rampa di
scale scivolosa ed
angusta, su, fino al secondo piano del Motel San José, un
posto squallido e
terribile, ma un posto dove ci volevano.
Avevamo
pochi soldi, così si decise per dividere una stanza, anche
se l’idea non faceva
di certo piacere a John.
Quella
stessa mattina, ci avevano portati a fare una breve sosta in uno di
quei locali
per camionisti, lungo la strada. Io e Sid amavamo quei posti, ci
entusiasmavano. Li trovavamo deliziosamente disgustosi ed erano pieni
di
CowBoys terribili, di cui Sid amava copiare l’abbigliamento.
Non appena
cambiavamo città, bang,
Sid si andava
a comprare degli stivali da rodeo o un cappello, così da
poter assomigliare a
quei tizi. Aveva già una giacca di pelle. Era veramente
terribile, terribile.
A
San Francisco, in uno di questi posti, ordinammo della birra a
colazione,
poiché non avevamo dormito e per noi il senso del tempo era
diventato un
contro-senso. Inutile seguire una serie di abitudini, se estrapolate
dal
contesto.
Ordinammo
queste birre, e Sid si mise a berciare con un tipo ubriaco -mi
ricordò molto la
situazione del Bill Grundy Show- e, per irritarlo ancora di
più, prese a
canticchiare Belsen
Was a Gas. Già
per un europeo era a dir poco inaccettabile ed oscena, quella canzone,
ma
cantata ad un americano ubriaco, gli effetti furono quelli che furono.
Potete
immaginare cosa potesse significare fare a botte con un motociclista di
quel
genere, in un locale pieno gremito di suoi simili. In un attimo, ci
furono
tutti addosso. Sid cerco di defilarsi, come faceva sempre, ma, quando
ebbe
capito che ormai eravamo dentro fino al collo, afferrò una
sedia e la fracassò
in testa ad uno di quei bastardi. Io avevo iniziato a fare rissa
già dal primo
minuto, non perché mi piacesse, ma perché odiavo
la situazione in generale e
provavo piacere nel poter sfogare queste acidità. Steve e
Cook si unirono ben
presto alla caciara, nella maniera più violenta possibile,
come loro solito: in
particolare Steve cercava sempre di sottomettere il pubblico durante i
nostri
concerti, sfidandolo a muso duro ed istigando risse epocali,
perciò non gli
sembrava proprio vero di avere l’opportunità,
finalmente, di pestare qualcuno
con diritto.
«CowBoy
del cazzo!» sentii strillare Sid, spaccando
l’ennesima sedia in testa a
qualcuno, il quale cadde riverso sul pavimento, trascinandosi dietro la
mia
disgrazia. Mentre mi impegnavo per scansare l’ennesimo
cazzotto, vidi Sid
rotolare sul proprio avversario.
Era
incredibile, pensai, come quel ragazzo alto ed allampanato, vagamente
sottopeso, riuscisse a tenere testa senza troppa difficoltà
ad un uomo che sarà
pesato su per giù due volte lui. Cosa poteva dargli tutta
quell’energia? Io
avevo la rabbia, Steve aveva un’infanzia di violenze da
espiare, Paul era
semplicemente un bonaccione, ma Sid? Cosa spingeva Sid, un ragazzo
intelligente, buono e ingenuo ad essere così violento?
Poi
un fulmine mi attraversò il cervello, proprio
nell’istante in cui un orrido
individuo gli fracassava sulla faccia un boccale vuoto di birra, in
un’esplosione di sangue. La droga, era la droga a dargli
quell’energia
innaturale. Sentii la nausea strizzarmi le viscere, mentre la rissa
scemava ed
io barcollavo verso un Sid Vicious delirante e straziato, che menava
ancora
fendenti come se non si fosse affatto accorto di avere la faccia
irrorata della
sua stessa linfa vitale.
Ero
abbastanza abituato, oramai, ad asciugare il sangue che gli colava
giù, lungo
il mento. Capitava spesso e non mi preoccupava affatto: per quanto mi
divertissi assieme a lui, io desideravo davvero che Sid morisse.
Lo
pensavo così spesso, con tanta rabbia, che mi auto convinsi
che fosse così, che
io odiassi davvero Sid.
È
triste, davvero triste non riuscire ad essere sinceri con se stessi,
quando con
gli altri sono in assoluto la persona più onesta che esista
su questo lerciume
di pianeta.
«Cazzo,
fottuto, bastardo.» biascicò Sid, scostando la mia
mano con delicatezza e
passando rudemente la sua sul labbro ferito.
«Cazzo.» sputò a terra un grume di
sangue arancionastro.
«Andiamo,
prima che si risvegli.» osservai, notando che
l’uomo a terra si stava muovendo,
soccorso malamente da uno degli uomini ancora interessati, mentre il
resto
della banda si era già ricomposta, per ricominciare a bere.
Il
gioco è bello finché dura poco.
John
era fantastico, sapeva trasformarsi da ragazzino dall’aspetto
bislacco ma quasi
innocuo in un’arma letale. Davvero, mi faceva impressione.
Ero io quello che si
cacciava sempre nei guai, ero io che cercavo sempre qualcuno con cui
fare a
botte, anche se poi tendevo a tirarmi indietro. Avevo una gran paura
del
dolore, prima di conoscere Nancy, ero un codardo. Fu dopo, dopo la
droga e dopo
Nancy che compresi quanto poco valesse la mia salute. Vivere o morire,
per
cosa? Nulla, niente, nessuna importanza. L’importante era
fare ciò che mi
andava di fare e farlo a modo mio.
John
no, lui non amava cercare lo scontro fisico, lui era una mitraglia
verbale, lui
sapeva sfidare, affrontare e sotterrare una persona con le sole parole
ed un
decimo della fatica che facevo io per prendere a schiaffi una di quelle
facce
barbute. Eppure era lì, a pochi metri da me, pronto a
vincere una rissa al mio
fianco. Nonostante mi odiasse, nonostante non riuscisse più
nemmeno a guardarmi
in faccia senza provare disgusto –sentimento estremamente
visibile sul suo
volto così espressivo-, nonostante non provasse
più nessun sentimento nei miei
confronti. Un uomo mi si avvicinò, credo fosse il barista,
ma non ci feci caso,
mi disse che voleva che ce ne andassimo. Era stranamente calmo e
gentile. Presi
una sedie e gliela ruppi in testa, beandomi del rumore sordo che fece
il suo
corpo afflosciandosi a terra. Ma non mi sentivo meglio, mi sentivo solo
molto
più furioso.
«CowBoy
del cazzo!» cominciai a strillare, atterrandone un altro e
poi un altro, finché
uno non mi tirò giù con sé.
Mentre
provavo a difendermi, tirandomi contemporaneamente su, qualcuno mi
colpì in
faccia con qualcosa. I ricordi di ciò che accadde dopo sono
confusi, ma so che
non mi fermai. Non sentivo dolore, non avevo paura, non provavo nulla
se non il
cieco desiderio di uccidere. Uccidere me stesso.
Pochi
secondi dopo mi trovavo appeso ad un braccio di Cook, mentre John mi
passava
una mano sulle labbra e sul mento. La sua mano.
Improvvisamente
mi sembrò di fuoco, cinque lunghe e strette lingue di fuoco
che lambivano la
mia carne scoperta e vulnerabile, le spostai, poi il dolore giunse
tutto d’un
colpo.
Attraverso
le pupille sporche di sangue, potevo vedere il volto di John a pochi
millimetri
dal mio, il suo volto indifferente, gelido e tagliente come i versi
delle
canzoni che scriveva. Sembrava cattivo, sembrava distaccato allo stesso
tempo.
Come se non gli importasse nulla, mi fece cenno di muovermi e disse
qualcosa
che io non capii.
Imprecando
e sputando, uscimmo dal locale.
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