Always proud of you
Titolo: Always proud of you
Autore: My
Pride
Fandom: Super
Sons
Tipologia: One-shot
[ 2426 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Damian Bruce
Wayne, Jonathan
Samuel Kent,
Thomas
Alfred Wayne-Kent (OC)
Rating: Giallo
Genere: Generale,
Slice of life, Fluff, Smut
Avvertimenti: What
if?, Slash, Hurt/Comfort
Advent Calendar: 126. Tra le righe
SUPER SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
Jon
ebbe appena il tempo di aprire la porta di casa che Tommy, nervoso, lo
superò per gettare in un angolo la mazza da baseball e il casco,
correndo al piano di sopra sotto lo sguardo sconfortato di suo padre.
Conosceva bene quella sensazione di sconfitta e la
cocente delusione che si annidava nel petto dopo una partita andata
male, la sensazione degli sguardi degli altri compagni di squadra che
sembravano incolparti per la sconfitta e la voglia di correre il più
lontano possibile per nascondersi dagli sguardi giudicanti, quindi Jon
sapeva come potesse sentirsi Tommy in quel momento. In quanto padre
avrebbe dovuto essere di supporto, parlargli a cuore aperto e cercare
di confortarlo, ma ricordava bene il desiderio di voler restare da solo
con i propri pensieri… e se Tommy avesse avuto bisogno di quello stesso
spazio? Aveva undici anni, stava crescendo e facendo i conti con le
complicanze che a volte comportava il diabete, quindi forse--
«Vuoi che ci parli io?» si fece sentire d’un tratto
Damian, accostandosi a lui per poggiargli una mano sulla sua spalla e
riscuoterlo dai suoi pensieri.
Andare insieme aveva aiutato a far sentire Tommy il
più supportato possibile – lo avevano visto voltarsi verso le tribune e
regalar loro un gran sorriso – ma, a dispetto di tutto il tifo che lui
e Damian avevano fatto, quando il lanciatore della squadra avversaria
gli aveva rifilato tutti e tre gli strike… il sorriso sulle labbra di
Tommy si era affievolito fino a scomparire ed entrambi lo avevano visto
chiudersi in sé stesso al suono dei fischi degli altri ragazzi e dei
rimproveri per aver sbagliato. Jon stesso era rimasto immobile sugli
spalti, lo sguardo fisso sul figlio che usciva dal campo e la mano di
Damian sulla coscia, più che consapevole di ciò che aveva provato
Tommy. Aveva provato la stessa cosa, e anche cercare di tirarlo su
durante il tragitto di ritorno – Damian aveva persino proposto di
fermarsi per un gelato, cosa più che strana se detta da uno come lui –
era stato inutile; Tommy si era limitato a brontolare un “No” con la
guancia premuta contro il finestrino del furgone, le braccia incrociate
al petto e lo sguardo spento, e a Jon aveva fatto davvero male vederlo
così. E quella reazione a casa era stata la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso.
«Grazie, D, ma… credo… credo sia meglio che vada
io», disse infine Jon, voltandosi per cercare di sorridere
rassicurante. Damian aveva partecipato ad una delle sue partire
quand’era più giovane e aveva anche saputo della sconfitta, quindi Jon
gli era davvero grato per quella premura… ma sentiva che avrebbe dovuto
affrontare la cosa senza girarci intorno o provare a scappare. Suo
figlio aveva bisogno di lui.
Capendo, Damian si limitò ad annuire e si chiuse la
porta alle spalle. «Fai un fischio se hai bisogno».
«Preoccupato che Tommy possa piangere?» stemperò
Jon, ma Damian scoppiò a ridere.
«Sono piuttosto preoccupato che potresti farlo tu».
Si sporse verso di lui per baciarlo a fior di labbra quando sentì Jon
borbottare, fissandolo con attenzione negli occhi qualche attimo dopo.
«Perdere è… sempre un brutto colpo, in qualunque campo. Thomas è un
ragazzo emotivo, ma ne verrete a capo».
Jon lo fissò per un lungo istante, il capo chino
verso il volto di Damian; si perse in quegli enormi occhi verdi e lesse
in essi tutto il supporto di cui aveva bisogno, facendo scivolare una
mano lungo il braccio di Damian per afferrargli le dita e intrecciarle
con le sue, prendendosi un altro piccolo momento per concederne ancora
anche a Tommy stesso. Forse quei modi sarebbero potuti sembrare strani
per altre persone, per certi versi persino controproducenti – erano
loro gli adulti della situazione, secondo molte persone avrebbero
dovuto avere la verità in mano ma non era così che funzionava –, eppure
la loro dinamica aveva sempre funzionato nel corso di quegli undici
anni. E Jon, dopo aver stretto ancora un po’ quelle dita, alla fine
sorrise e annuì quando Damian gli sorrise a sua volta, allentando la
presa per imboccare le scale e salire al piano di sopra.
Davanti alla porta di Tommy, Jon indugiò con una
mano a mezz’aria, le nocche già pronte a bussare ma che ancora non si
decidevano a farlo. Avere undici anni non era facile, tutti gli adulti
ci erano già passati ma la maggior parte di essi dimenticavano com’era
stato, e forse era anche merito del suo cervello per metà kryptoniano
se aveva immagazzinato con attenzione quei ricordi; era incerto se
lasciare ancora un po’ di spazio a Tommy o meno, soprattutto perché
aveva cominciato a sentire l’inconfondibile suono di una palla da
baseball lanciata contro il muro, ma alla fine trasse un sospiro e si
decise a bussare, schiarendosi la gola con un colpo di tosse.
«Ehi, campione… posso entrare?» domandò, e i colpi
cessarono del tutto solo una buona trentina di secondi dopo – sì, Jon
li aveva contati, e allora? –, come se il ragazzo si fosse preso un
momento per valutare la cosa.
«Come ti pare».
La voce di Tommy era un borbottio sconnesso, un
basso brusio che lasciava benissimo trasparire quanto ancora gli
bruciasse e, quando Jon aprì lentamente la porta, lo vide seduto sul
materasso con la divisa ancora addosso. Si era poggiato con la schiena
contro la testiera del letto e aveva affondato i tacchetti nelle
lenzuola nonostante lui e Damian gli avessero sempre ripetuto di non
salire con le scarpe sul letto, ma in quel momento Jon non se la
sentiva proprio di fargli una ramanzina per quello.
«Ehi». Jon si avvicinò piano, prendendo posto al
lato del materasso per poterlo guardare dritto in viso, ma fu Tommy a
parlare prima ancora che potesse aprire bocca.
«Non sono tagliato per il baseball», replicò con la
fronte aggrottata. «Sto solo sprecando tempo».
Jon si sentì un po’ male nel sentirlo parlare così.
Tommy aveva dimostrato una grande passione per il baseball e lui e
Damian avevano cercato di supportarla – a volte, quando andava a
trovarli, Dick gli portava persino figurine di giocatori famosi -,
quindi vederlo arrendersi era davvero difficile. «Non è così, campione…
capita di perdere, sul serio. Fa parte del gioco».
«Non abbiamo solo perso, papà. Ho giocato da
schifo», sbottò, lanciando nuovamente la palla contro la parete davanti
a sé; stavolta usò più forza e la pallina si schiantò contro l’armadio,
rotolando rovinosamente sotto il letto. «Ho deluso la squadra… e anche
te e baba. Volevo farvi vedere quanto ero migliorato e volevo… volevo
che vi sentiste fieri di me».
Jon a quelle parole lo abbracciò di slancio, pur
sentendolo irrigidirsi un po’. Ma ormai era abituato ai momenti “no” di
Damian. «Io e baba saremo sempre fieri di te», sussurrò, sollevandogli
un po’ il viso per poterlo guardare in quegli occhi così diversi e
profondi. Poteva vedere in essi la frustrazione, leggere tra le righe
quanto l’aver perso lo facesse stare male e quanto credesse davvero di
dover abbandonare una passione solo per quell’unico fallimento, ma Jon
non voleva che si abbattesse così. «Devi fare ciò che fai prima di
tutto per te stesso, Tommy. Sei bravo, abbiamo visto quanto ti piaccia
questo sport e quanto ti impegni ogni giorno per migliorare… era solo
una giornata no, questo non significa che tu non sia in grado di
giocare. Ho avuto anch’io momenti simili alla tua età, sai?»
Tommy roteò gli occhi e sbuffò nel sentirlo, pur
restando tra le braccia del padre e fissando un punto indefinito. «Sì,
come no. Lo dici solo per farmi sentire meglio».
«Oh, dico davvero. Puoi chiedere a nonna Lois se non
mi credi». Jon gli diede un colpetto sul naso con due dita, vedendolo
arricciare la punta con un piccolo borbottio. «Anch’io ero piuttosto
giù di morale, quel giorno… ma poi ho capito che ci sarebbero state
tante altre partite in cui avrei potuto dimostrare quanto valevo. Basta
perseverare e continuare ad allenarsi, campione», soggiunse nel dargli
un bacio sulla testa, e Tommy mugugnò qualcosa, cercando di sistemare
inutilmente i ciuffi ribelli.
«Ho undici anni, papà. Sono grande per i baci sulla
testa».
Jon ridacchiò, seppur un po’ sconfortato. Crescevano
così in fretta… «Giusto, giusto. E per un altro abbraccio?» provò
nell’allargare esageratamente le braccia, vedendo Tommy soppesare la
cosa prima di lanciarsi lui stesso verso di lui.
«Quelli mai», sussurrò, affondando il viso nel suo
petto, con l’orecchio premuto contro di esso ad ascoltare il battito
del suo cuore.
Non seppero quanto tempo rimasero così né gliene
importò, erano solo un padre e un figlio che si godevano un momento di
cui ne avevano sentito la mancanza – tenendo conto che negli
ultimi tempi Jon partiva spesso per lavoro, Tommy non lo aveva visto
spesso –, l’uno stretto all’altro senza il bisogno di proferire parola,
finché non fu Jon ad allontanare un po’ il viso e, sorridendogli, non
lo guardò negli occhi e gli scompigliò poi i capelli nonostante la
piccola rimostranza che ci guadagnò.
«Ora va’ a cambiarti, aiuto baba a preparare la cena. In cucina tra
dieci minuti», disse, e Tommy annuì con riluttanza prima di sciogliersi
da quell’abbraccio e schizzare in bagno sotto lo sguardo più tranquillo
di Jon.
Quando tornò di sotto, Damian si era già cambiato e
aveva preparato sul bancone tutti gli ingredienti per la cena, Jon lo
colse proprio mentre gli dava le spalle e si stava allacciando il
grembiule; con un sorriso a fior di labbra, lo raggiunse per aiutarlo,
senza stupirsi più di tanto quando Damian, senza nemmeno voltarsi, gli
lanciò il suo.
«Com’è andata?» chiese senza tanti giri di parole, e
Jon si strinse un po’ nelle spalle prima di infilarsi il grembiule e
allacciarlo.
«Direi… abbastanza bene».
Damian stavolta si voltò per fissarlo attentamente,
inclinando il capo di lato. «Ancora arrabbiato?»
«Forse un po’… ma gli passerà, suppongo».
«Certo che gli passerà». Damian ghignò, dandogli un
pugno su una spalla. «Riesci ad essere piuttosto persuasivo, quando ti
intestardisci», affermò, e Jon abbozzò un sorriso prima di cingergli i
fianchi per attirarlo a sé.
«Lo dici come se fosse una brutta cosa».
«Dipende dai punti di vista».
Jon rise genuino e chinò il viso verso di lui,
sorridendo nel sentire le mani di Damian scivolare lungo la sua schiena
e al limitare delle sue natiche, provocandogli un piccolo brivido di
piacere. «Vogliamo vedere quanto posso essere persuasivo in altri
“frangenti”?»
«Puoi provarci», sentenziò ironicamente Damian,
issandosi sulle punte per sfiorargli le labbra con un bacio; si tennero
stretti in quello sfiorarsi di labbra, una leggera carezza bocca contro
bocca, sentendo poco dopo dei passi fermarsi proprio davanti alla porta
e una piccola esclamazione sorpresa, seguita da un “Trovatevi una
stanza!” scherzosamente pronunciato da Tommy e risero entrambi contro
la bocca dell’altro prima di separarsi.
«Ehi, campione, preciso come un orologio!» scherzò
Jon nel voltarsi verso di lui proprio nel momento in cui Tommy, dopo
aver fatto qualche passo, perse l’equilibrio e cadde in avanti; ad
occhi sgranati, si gettò verso di lui come a rallentatore ma Damian fu
più veloce di lui e afferrò il figlio al volo, facendogli poggiare la
testa sulle sue gambe.
«Thomas, ehi, figliolo. Riesci a sentirmi?»
«Io… io… sì, non so cosa… solo… capogiro…» riuscì a
dire con la bocca impastata, trovando un po’ di difficoltà a parlare
mentre strizzava le palpebre come se faticasse a mettere a fuoco i loro
profili. Fino a cinque minuti prima stava bene, anzi, lo stomaco aveva
persino reclamato e provocato un bizzarro senso di fame che lo aveva
spinto a darsi una mossa e a scivolare letteralmente lungo il
corrimano, anche se aveva ignorato il mal di testa martellante e lo
aveva solo imputato al fatto che la giornata fosse stata lunga e che
avesse giocato fino a quel momento; adesso, invece, aveva la vista
annebbiata e qualche brivido, e attraverso la foschia vide suo padre
muovere le labbra e sussurrare qualcosa.
«Come ti senti?»
«Ho… mal di testa», si sforzò di rispondere Tommy,
umettandosi le labbra. «E ho freddo. Mi gira tutto, siete così…
sfocati».
«Ipoglicemia», dissero in coro i suoi genitori, ma
fu il padre a raddrizzarsi in piedi e a dirigersi verso la credenza,
mentre il suo baba gli sistemava meglio la testa sulle cosce.
«No, sto… sto bene», insistette il ragazzo nel
cercare di tirarsi su, ma il suo baba lo costrinse a restare immobile e
lo fissò con intensi occhi verdi.
«Sta’ fermo, eaziz».
«Tieni, campione». Suo padre Jon comparve nel campo
visivo con un bicchiere d’acqua, in cui Tommy vide vagamente che si
stava sciogliendo lo zucchero sul fondo. «Bevi piano».
Tommy annuì lentamente e allungò un po’ a tentoni la
mano per afferrare il bicchiere, sorseggiando il contenuto un piccolo
sorso dopo l’altro sotto lo sguardo di entrambi i genitori, senza
muoversi dalla posizione in cui si erano ritrovati; lo aiutarono a
sedersi sullo sgabello solo quando finì tutto il contenuto del
bicchiere, distraendolo nel chiacchierare del più e del meno finché
Damian non gli porse un pezzo di pane e lo spronò a mangiarlo,
accennandogli di restare seduto e di non preoccuparsi mentre lui e Jon
si occupavano della cena e gli lanciavano di tanto in tanto qualche
occhiata, chiedendogli come si sentisse e soprattutto se i capogiri
erano passati. Solo una trentina di minuti dopo suo padre ricomparve
con il glucometro e lo poggiò sul bancone, gettandogli un’occhiata.
«Che ne dici se controlliamo la glicemia, campione?»
chiese, e Tommy si limitò ad annuire prima di porgergli il dito, senza
smettere di guardare il suo baba che, seppur avesse ormai finito di
cucinare, non lo aveva mai perso di vista. Aveva letto la
preoccupazione sul suo volto, preoccupazione che lasciò ben presto
spazio al sollievo quando i valori si presentarono nella norma sul
display del glucometro. «Dopo cena si riposa, ragazzo».
«Possiamo vedere un film?» tentò, vedendo i genitori
lanciarsi un’occhiata e, allo sguardo che il suo papà lanciò al suo
baba, capì di aver irrimediabilmente vinto; baba Damian roteò difatti
gli occhi e borbottò qualcosa, ma nessuno dei tre, dopo cena, si
meravigliò di essere capitato sul divano tutti insieme e di aver perso
parecchio tempo davanti alla TV.
Con Tommy accoccolato tra loro, addormentato con la
testa contro il suo petto e la mano di Jon che gli sfiorava la spalla,
Damian sorrise e sfiorò con le labbra quella massa scompigliata di
capelli, rilassato. Ci sarebbero sempre stati dei momenti no, ma li
avrebbero superati insieme.
_Note inconcludenti dell'autrice
Esattamente come lo
scorso anno, questa storia è stata scritta per
l'iniziativa #AdventCalendar
indetta dal gruppo
facebook Hurt/comfort
Italia.
Ammetto di averci messo letteralmente una vita ad aggiornare con questa
storia, vuoi per un motivo vuoi per un altro (tra impegni e tanta altra
roba, sto periodo è stato così incasinato che, boh, avevo letteralmente
perso parecchie cose di vista), ma sarò di nuovo più costante!
Qui abbiamo un piccolo scorcio di come Jon e Damian in fin dei conti
siano diventati dei bravi genitori e di come facciano di tutto per
tener su il loro figlioletto, che sta cominciando ad affrontare il
periodo più difficile della sua pre-adolescenza. Per fortuna che ha
loro ad occuparsi di lui!
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
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