8
Umbrella,
Restless and Mayor
L’odore della pioggia scrosciante
aveva lo straordinario potere di invadere le narici non solo dei
passanti, ma persino di chi rimaneva serrato in casa propria o in un
grigio ufficio per l’intera giornata bagnata, evitando
così d’incappare in spiacevoli pozzanghere di
fango e fastidiosi schizzi provenienti dai balconi delle case, dalle
insegne dei negozi o dai porticati più sporgenti affacciati
sui marciapiedi gremiti di pendolari.
Nami era uscita di casa con la consapevolezza che avrebbe piovuto
– non solo aveva assistito all’annuncio delle
previsioni del tempo la sera prima, ma poco prima di riversarsi in
strada aveva dato un’occhiata al cielo, scorgendo un
prepotente nuvolone nero tuonare famelico –, ma mai si
sarebbe aspettata che il suo ombrello la abbandonasse a metà
percorso. Il suo fido compagno di viaggio si era piegato al volere del
vento freddo, e le stecchette che reggevano la tela proprio non avevano
voluto saperne di tornare ai rispettivi posti. Con i denti digrignati e
un fiume di parolacce ben leggibile nei suoi occhi nocciolati, la
ragazza si era vista costretta a correre verso la scuola seguendo un
bizzarro percorso fatto di ripari improvvisati e tentativi di tenere
saldo il cappuccio del giubbino su in testa, a contenere la cascata di
capelli che avrebbe fatto meglio a legare quando ancora si stava
preparando per affrontare quel mercoledì, il punto centrale
di una settimana che pareva infinita.
Continuando a correre e a saltellare per evitare di inzupparsi le
scarpe con l’acqua che s’accumulava ai lati dei
tombini, riuscì finalmente a scorgere l’edificio
scolastico; mai tale visione la rallegrò così
tanto, ‘ché le sue dodici fatiche erano giunte
alla fine. La pioggia aumentò
d’intensità, ma non se ne curò affatto.
Oltrepassò i cancelli dell’istituto e
s’apprestò a compiere l’ultimo sprint
fino alle porte – sessanta metri erano facili da superare
perciò, come a equilibrare i piatti della bilancia, si
preoccupò di non urtare nessuno lungo il tragitto; se sui
marciapiedi della città aveva avuto la
possibilità di darsela a gambe ogni volta che finiva addosso
a un povero passante, sul vialetto della scuola correva il serio
pericolo di essere derisa da quelle decine di volti che, seppur di
sfuggita, conosceva bene. Non puntava affatto a bagnarsi il meno
possibile dato che oramai era diventata ella stessa parte integrante
della pioggia, piuttosto il suo intento era quello di correre in
infermeria ad asciugarsi per non buscarsi un raffreddore coi fiocchi,
se non peggio.
«Nami?»
Lo scatto finale venne bloccato sul nascere da quella voce tanto
familiare quanto indesiderata. Per pura cortesia – e
perché non poteva spiattellare la scusa d’esser in
ritardo, dato che mancavano ancora dieci minuti circa al suono della
campanella di inizio giornata – si voltò alla
propria destra e scoprì un grande ombrello porto nella
propria direzione come un invito ad afferrarlo e a ripararsi dalle
lacrime del cielo.
Guardò l’occhio azzurro che la scrutava
teneramente e si sforzò di non storcere la bocca.
«Non mi serve, grazie. Ormai sono arrivata.»
E lui, come al solito, ebbe la risposta pronta: «Permettimi
di accompagnarti fino all’interno. Questo tratto è
scivoloso da bagnato, non vorrei tu ti facessi male.»
Nami si domandò come diamine facesse Sanji a essere
così gentile anche quando ce l’aveva a morte con
lui o quando semplicemente non le andava di vederlo. Tenne per
sé quel dubbio esistenziale e annuì, dandogli il
consenso di farsi più vicino fino a inglobarla nella sua
area protetta; iniziò a scortarla verso l’interno
dell’edificio, percependo quell’entrata sempre
più vicina, quella salvezza sempre più tangibile.
Nessuno dei due aprì bocca durante la passeggiata lenta e
lei se ne stupì parecchio: perché quel ragazzo,
che sempre trovava un modo per torturarla con i suoi discorsi senza
senso, si era ammutolito? Cosa gli era successo?
Ignorando il motivo per il quale si stesse arrovellando così
tanto, fu lei a proporre un argomento di discussione: «Che
hai fatto ai capelli?», domandò alludendo
all’acconciatura di lui, che s’era spostato la
lunga frangia a coprire l’occhio sinistro,
‘ché solitamente oscurava quello destro.
Sanji la guardò di sbieco senza un’espressione ben
definita – era a metà tra l’onesta
felicità per l’interesse e la cortesia di
circostanza. «Pensavo che di tanto in tanto fa bene
cambiare.»
Una risposta senza esaltazione, ecco come le era sembrata quella frase.
«Ma ti pettinavi così anni fa. Ti mancava quella
piega?»
Lui forzò palesemente una risata. «Diciamo di
sì. Stamattina ero nostalgico.»
Non se n’era uscito con un monosillabo! Che la conversazione
potesse andare avanti come i loro passi sui sanpietrini bagnati?
«Non vorrai mica che mi tagliassi di nuovo i capelli,
vero?», chiese con ironia e sarcasmo la ragazza, come a
volerlo stuzzicare, imponendogli di chiamarla cigno –
appellativo che le aveva affibbiato quando si erano conosciuti qualche
anno prima, ai tempi in cui lei portava ancora il caschetto e
l’onda dei suoi ricci morbidi andava a creare una delicata
curva all’insù sul suo collo niveo.
Sanji sorrise ancora, stavolta con un pizzico di sincerità
in più. «Non potrei mai.»
Fu allora che udirono un pesante tonfo e una voce lamentarsi del dolore
provocato dalla caduta o, per meglio dire, dalla scivolata. Si
voltarono in simultanea per guardarsi alle spalle e scoprirono che era
stato Luffy a cadere e, impedito com’era a trovare il proprio
baricentro quando si trovava a contatto con l’acqua e
addizionando la suola sempre liscia delle scarpe che solitamente
indossava, non riusciva più a rimettersi eretto. Attesero
l’avvicinarsi di Ace o Sabo o entrambi, che di solito
accompagnavano il minore lungo il tragitto verso la scuola per poi
separarsi nei corridoi, ognuno diretto alle proprie aule –
tuttavia non giunse nessuno in suo soccorso.
«Andiamo ad aiutarlo», fece Nami con evidente
preoccupazione nei confronti dell’amico e Sanji
annuì, d’accordo con lei.
Non fecero tuttavia in tempo a fare un passo che una voce femminile
ostacolò loro il percorso. «Vinsmoke!»
Scottati forse allo stesso modo, si bloccarono sul posto e tornarono a
guardare verso le porte d’entrata e scorsero immediatamente
la silhouette di Tashigi avvolta in un candido cappotto rosa confetto
– e mai si sarebbero aspettati, dato il suo carattere spesso
e volentieri rude, di vederla indossare quel colore; era stretta nei
suoi vestiti come a scudarsi dal freddo e le sue sopracciglia
aggrottate lasciavano ben intendere l’animo battagliero che
le teneva compagnia anche quella mattina piovosa.
«Buongiorno», la salutò il ragazzo
chiamato in causa restando tuttavia accanto alla rossa.
«Buongiorno», gli rispose l’occhialuta.
Con voce più bassa gli chiese: «Entri?»
«Di già?»
Annuì da dietro lo sciarpone a quadri e in cima ai gradini
d’ingresso. «Il prima possibile.»
Nami si ritrovò ancora una volta a porsi delle domande;
prima fra tutte vedeva quei due interagire in maniera così
naturale e misteriosa, quasi come se stessero parlando una stramba
lingua coniata sul momento, come quelle che da bambina inventava per
parlare in codice con sua sorella senza farsi comprendere dai genitori
– un idioma fatto di scarabocchi e disegni stilizzati, ognuno
corrispondente a una precisa lettera dell’alfabeto
internazionale.
A malincuore, Sanji dovette togliersi la sigaretta bianca dalle labbra
e spegnerla calpestandola con la scarpa; mormorò un tienilo tu, e Nami
capì che si stava riferendo all’ombrello solo
quando le sue mani si ritrovarono a stringere il manico di legno
liscio. Nel giro di pochi attimi si ritrovò da sola sotto
quel riparo di tela sottile e impermeabile, osservando la figura nera
dell’amico slittare all’interno del plesso
scolastico e sparire una volta girato l’angolo.
«Che gli è preso?», domandò
all’aria e raggiunse a grandi falcate Luffy, che nel
frattempo era riuscito a rimettersi in piedi. Quest’ultimo
chiese a sua volta: «A cosa ti riferisci?»
Lei avvicinò l’ombrello all’amico per
ripararlo. «A Sanji. Mi è sembrato diverso dalle
altre volte.»
Il moro seguì la traiettoria dello sguardo nocciolato di
Nami, ma non riuscì a scorgere il soggetto della loro
repentina conversazione. «E così ti interessi a
Sanji, eh?»,
le disse con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto bagnato.
«Idiota», lo apostrofò la rossa.
«Certo che mi interesso a Sanji, è un mio amico.
Perché devo sempre passare per quella senza
pietà?»
Luffy rise più apertamente. «Rilassati, ti stavo
solo prendendo in giro.»
Nami riuscì finalmente a raggiungere l’interno
della scuola con a seguito il compagno, così poté
chiudere l’ombrello e dare il buongiorno all’aria
condizionata calda che aveva abbracciato i suoi vestiti fradici.
Tuttavia, nonostante fosse giunta al limite della sopportazione, non
corse ad asciugarsi; piuttosto rimase in piedi dinanzi a Tashigi la
quale, seppur infreddolita, non aveva ancora abbandonato la propria
postazione da guardiana della porta – sicuramente era
incollata lì per controllare che nessuno decidesse di
marinare le lezioni, o almeno questo fu quello a cui la rossa
pensò.
«Immagino tu me lo sappia spiegare.»
L’occhialuta la guardò con
un’espressione vagamente confusa. «Di cosa stai
parlando?»
Nami puntellò le mani sulla vita femminile e sottile, da
perfetta modella di una rivista di moda.
«Dov’è andato Sanji?»
L’altra ragazza si diede dell’idiota mentalmente
per non afferrato il riferimento precedente, ma tentò di non
mostrarlo in pubblico. «Non sai cos’è
successo ieri pomeriggio?»
«Ti sembra che lo sappia?», rispose Nami con palese
acidità nella voce.
Si aggiustò le lenti rosse sul ponte del naso.
«Vinsmoke si è messo di nuovo nei guai.»
«Cosa?!», esclamò Luffy incredulo di
aver udito quelle parole. «Che ha fatto?»
Tashigi scosse la testa. «Il professor Borsalino lo ha
denunciato al preside per comportamento violento. Sakazuki lo vuole
vedere subito, non durante la giornata. Dato che prima ci siamo
incontrati, mi ha chiesto di convocarlo immediatamente.» Fece
una brevissima pausa per salutare Koby, il quale aveva appena fatto il
proprio ingresso nell’atrio. «Non so
altro.»
«Bugiarda!», urlò Luffy afferrandola per
il colletto del cappotto pesante e sollevandola da terra.
«Stai mentendo!»
«Lasciami immediatamente!»
Il moro non le diede ascolto. «Sanji non farebbe del male a
una mosca! Non ci credo che ha picchiato qualcuno, non è
possibile!»
Koby, il quale si era allontanato di qualche passo, corse indietro per
prestare soccorso alla compagna di Comitato. «Monkey,
smettila!», disse autoritario e incurante delle gambe
tremanti.
«Luffy!», strillò Nami afferrandolo per
il giaccone. «Non farle del male! Finirai anche tu nei
casini!»
Lui si voltò rabbioso verso l’amica. «E
dovrei lasciar perdere?!», sbraitò. «Non
ti fa incazzare che Sanji sia nella merda per qualcosa che sicuramente
non ha fatto?!»
«Certo che mi fa incazzare!», fece la rossa.
«Ma che motivo avrebbe Tashigi per mentirci? Pensaci, Luffy!
Non sappiamo cosa sia successo a Sanji, per questo prima di prendercela
con qualcuno faremmo meglio a parlare direttamente con lui.»
Il moro spostò più volte lo sguardo
dall’amica, a Koby e a Tashigi, che ancora si stava dimenando
alla sua presa ferrea con in volto un’espressione infastidita
e sofferente. «Hai ragione», decretò
infine con voce roca. Liberò l’occhialuta e le
disse: «Mi dispiace.»
Aiutata da Koby, lei si aggiustò il cappotto, sbottonandosi
il bottone più alto per lasciare libero il collo e favorire
la respirazione. «Non ti preoccupare», gli rispose
con tono fermo.
Nami gli prese la mano e lo tirò appena per incitarlo a
camminare con lei. «Andiamo ad asciugarci. Poi penseremo a
cosa fare con quel beota, okay?»
Luffy accennò un sorriso. «Okay.»
***
L’occhio tumefatto bruciava, nascosto dal lungo ciuffo di
capelli biondi.
Appena ricevuto il permesso per entrare, il ragazzo aprì la
porta e andò a sedersi su una delle due poltroncine presenti
davanti alla scrivania del preside, incurante di essere bagnato
fradicio dalla testa ai piedi.
Sakazuki lo fissava da dietro le mille scartoffie che aveva da firmare;
i muscoli tesi del collo e le sopracciglia aggrottate lo facevano
assomigliare a un vulcano pronto a esplodere e a spazzare via tutto. Se
avesse potuto avrebbe volentieri fumato un sigaro per sciogliere i
nervi, ma avrebbe infervorato i sensori presenti sul soffitto e sarebbe
scattato l’allarme antiincendio; l’unico fumo che
poteva aspirare era l’odore emanato dai vestiti dello
studente, ma sarebbe stato un crimine paragonare quella terribile
nicotina al sapore dei suoi cubani che conservava nel taschino della
giacca per qualsiasi evenienza.
Soffiò, proprio come se stesse fumando: «Mi
è stato riferito che hai aggredito un tuo compagno nel campo
da basket, ieri pomeriggio.»
Il ragazzo alzò il mento, impavido. «Sono stato
provocato.»
I vestiti rossi del preside parvero andare a fuoco, come a coronare il
sentimento di rabbia che gli ribolliva dentro. «È
tutto quello che hai da dire, Vinsmoke?»
Anche Sanji strinse i pugni – un modo per darsi un contegno e
non peggiorare la propria situazione. «Sì,
signore.»
«Non è la prima volta», fece Sakazuki
prendendo una penna e cercando dei fogli in un cassetto della
scrivania, «che vieni mandato da me per questo motivo. Non
sei in una buona posizione.»
Il biondo batté furiosamente un piede a terra in preda a un
tic nervoso.
Il preside lesse velocemente il contenuto del documento che si era
procurato al fine di accertarsi d’aver afferrato quello della
categoria giusta. «Non m’importa di quello che
combini nella tua vita, ma non tollero un comportamento simile
all’interno di queste mura.» Mise una firma rapida
e precisa nell’apposito spazio e gli consegnò il
foglio. «Ti consiglio di farti un esame di coscienza a casa
tua. Hai una settimana di tempo.»
Sanji prese con sé il comunicato e
s’alzò, dirigendosi verso l’uscita della
presidenza.
«Vinsmoke.»
A un passo dalla porta, dovette farsi violenza per non mettersi a
urlare. Si voltò nuovamente verso
l’autorità suprema dell’istituto e
rimase in silenzio, come un invito a continuare la frase.
«Alla prossima sei fuori. Chiaro?»
Si morse gli interni guancia per contenere la furia e si
sforzò di rispondere: «Sì,
signore.»
***
Forse perché non aveva nulla da perdere, forse
perché era convinta di poter dare una mano, o forse
perché non aveva niente di meglio a cui dedicarsi, Bibi
scelse di presentarsi agli allenamenti di pallavolo. La titubanza non
aveva ancora abbandonato completamente le fibre del suo corpo
infreddolito dalla tuta che stava indossando negli spogliatoi, che
avrebbero dovuto esser caldi abbastanza da non rischiare di far
prendere un raffreddore a qualcuno, ma il sistema di riscaldamento era
piuttosto inutile dinanzi agli spifferi che provenivano dal bagno
lì accanto. L’azzurra si domandò se
avesse preso una scelta giusta mentre si legava i lunghi capelli in una
coda di cavallo, lasciando che i ciuffi più corti le
cadessero ai lati del viso.
Ripose gli effetti personali nello zaino, che lasciò su una
delle panche dello spogliatoio, ed entrò in palestra; la
scoprì già in funzione grazie alle figure
femminili che stavano facendo stretching a bordo campo, ognuna per
conto proprio e senza guardare in faccia le altre.
«Sapevo che saresti venuta.»
La ragazza si voltò per guardare alla propria destra e
scoprì l’allenatrice che stava camminando nella
sua direzione. «Buon pomeriggio», salutò.
Viola la accolse con un gran sorriso, come se si sentisse sollevata
dalla sua presenza. «Sei arrivata giusto in tempo.
L’allenamento inizierà tra pochi
minuti.» Non le lasciò neanche qualche attimo per
guardarsi attorno ‘ché suonò il
fischietto, in maniera da richiamare l’attenzione delle altre
giocatrici. «Benvenute a tutte», così
iniziò il discorso. «Vi ringrazio per aver aderito
a quest’importante iniziativa. Siete parte fondamentale della
collaborazione tra il nostro liceo e Punk Hazard.»
Bibi si guardava i lacci delle scarpe, le dita delle mani intrecciate
dietro la schiena.
«Prima di inaugurare la sessione di allenamento, vorrei che a
turno vi presentaste», continuò
l’insegnante. «Provenite da anni diversi,
perciò non so se vi conoscete già. Reputo che il
rapporto umano sia fondamentale per portare a casa il nostro obiettivo.
Tengo a precisare una cosa: il nostro scopo non è vincere la
partita, bensì divertirci. È per questo motivo
che voglio spingere molto sul legame tra ognuna di voi. Forza, comincia
tu», fece guardando una delle giocatrici.
«Presentati alle tue compagne.»
La ragazza in questione fece un timido passo in avanti e
parlò: «Mi chiamo Margaret Kuja. Sono del primo
anno.»
Aveva una voce gentile, così Bibi ebbe il coraggio di alzare
lo guardo e squadrare silenziosamente le persone che le avrebbero fatto
compagnia in campo. Le bastarono pochi secondi per impallidire.
La seconda a presentarsi, difatti, aveva delle fattezze fin troppo
conosciute: il suo corpo, sbocciato in tutta la sua
femminilità, era ricoperto da una cascata di capelli color
pece che facevano a cazzotti con la pelle bianca. «Sono Boa
Hancock, del quarto anno», disse con voce adulta.
«Piacere di conoscervi.»
“Questa non ci
voleva”, pensò l’azzurra
mentre si affrettava a puntare gli occhi in direzione della terza
ragazza; quest’ultima era magra come un chiodo e possedeva
una tonalità di voce opposta a quella profonda di Hancock.
«Ciao, ragazze», starnazzò – o
almeno, Bibi associò il suo modo di parlare a una papera.
«Mi chiamo Perona Horo e sono del terzo anno.»
Accanto a quest’ultima, una giovane dai lunghi capelli verdi
si aggiustò un grosso paio di occhiali rotondi sul ponte del
naso. «Monet Harpie, quarto anno», disse solo.
L’ultima a parlare fu una ragazza che non aveva mai visto
prima d’allora: aveva dei dolci occhi azzurri e un cappello
rosso posato su corti capelli color caramello. «Piacere, sono
Koala Yukino», fece con un sorriso e un breve inchino.
«Sono una nuova studentessa. Mi sono trasferita in questa
scuola da pochi giorni. Ah,
e sono al quarto anno.»
Seguì un momento di silenzio in cui l’azzurra si
sentì sei paia di occhi puntati addosso, che le ricordarono
di doversi presentare poiché era giunto il suo turno. Si
schiarì la gola: «I-Io sono Nefertari Bibi e
frequento il secondo anno.»
La professoressa batté le mani con energia.
«Bene!», esclamò. «Adesso
cominciamo con un po’ di stretching. Distribuitevi lungo il
campo facendo attenzione a non urtarvi tra di voi.»
E mentre correva sul posto a ritmo di un assillante fischietto e sotto
il pressante sguardo di una compagna di gioco in particolare, Bibi
tornò a domandarsi se quella fosse stata realmente una buona
idea.
***
Una persona normale, una volta finito di prendere appunti, avrebbe
poggiato la matita a lato della carta, tenendola pronta a un nuovo
utilizzo – e invece Franky se l’appoggiò
sull’orecchio destro come se fosse stata la stanghetta di un
paio di occhiali da vista.
«Così dovrebbe andare»,
borbottò grattandosi la nuca.
Fece scorrere gli occhi sui fogli da disegno che aveva dinanzi a
sé, e il suo sorriso s’allargava man mano che
osservava i dettagli che aveva tracciato fino a pochi minuti prima con
il suo grafite appuntito. Sparpagliò meglio i fogli sul
tavolo in modo da riuscire a guardarli tutti assieme; il lavoro, nel
complesso, non era niente male. Si fece i complimenti da solo, spinto
dall’alta considerazione che aveva di sé stesso,
mentre con il pollice di una mano scorreva i numeri salvati nella
rubrica del cellulare alla ricerca di un contatto specifico; appena lo
trovò cliccò la cornetta verde apparsa poco sotto
come per magia.
«Dimmi, Franky»,
sentì dire dalla persona che aveva accettato la chiamata.
«Ho finito di disegnare i progetti, fratello.»
«Di
già?! Ci hai messo appena due giorni!»
Lui si pettinò il ciuffo di capelli azzurri con le dita
della mano libera. «Che ci vuoi fare, amico? Sono un fottuto
genio.»
Dall’altro capo si sentì un sospiro. «Sì, sì. E
a cosa hai pensato?»
Franky scattò in piedi, alimentato dalla foga del momento e
dai litri di bevande energetiche che aveva mandato giù per
tutta la giornata. «Prima di tutto, faremo una parete su
misura per lo sfondo del primo atto», disse camminando in
tondo. «Poi, per la seconda scena, aggiungiamo in
più solo qualche oggetto scenografico.»
«Ne sei sicuro?»,
gli venne chiesto. «Il
secondo atto è breve, ma è la parte
più importante della storia.»
«Sta’ tranquillo, nasone», gli rispose.
«Dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione sul terzo
atto.»
Usopp sospirò nuovamente. «Be’, sì,
è la scena che piace a tutti. E per il finale, invece?»
«Mh,
a quel punto si torna alla prima scenografia. Mi rompe non poter
aggiungere niente di nuovo, dato che tutti gli attori si riuniranno sul
palco in quel momento.»
«Effettivamente
è un problema», fece il suo
interlocutore. «Ricorda
che devi avere l’approvazione del professor Paulie.»
«Sono sicuro che l’avrò»,
rispose Franky sedendosi pesantemente sul letto di camera sua.
«Te, invece, a che punto sei?»
Si sentì uno starnuto. «Ehm, sto buttando giù
alcuni schizzi per la prima parte dello spettacolo. Credo di riuscire a
finire per domani.»
«Tanto non supererai mai i miei. Sono moooolto
più super!»
«Guarda che
non è una gara. E poi non siamo gli unici del club di
falegnameria a star lavorando per le scenografie del corso di teatro.»
Franky grugnì sonoramente. «Lo sanno tutti che io
e te siamo i più capaci, Usopp. Li hai visti, come lavorano?
Fanno tenerezza.»
«Sì,
effettivamente non so cosa ci facciano lì.»
Aggiunse: «Ah, e
domani ricordati di portare le viti di cui abbiamo parlato stamattina.
Quelle nella scatola si sono volatilizzate.»
«Ci penso io, ci penso io», fece tornando ai suoi
progetti illuminati da una forte luce gialla proveniente da una lampada
da tavolo. «A domani, fratello.»
Quando Usopp lo salutò a propria volta, Franky
riagganciò e abbandonò il cellulare sulla
superfice legnosa della scrivania per poter ammirare nuovamente il
frutto della sua fervida e matematica immaginazione.
Accarezzò con i polpastrelli le sottili rughe della carta.
Proprio in quel momento udì dei rumori in lontananza, ma il
suo orecchio era abbastanza allenato da intercettare dei passi veloci e
allegri salire su per le scale di casa e poi correre lungo il
corridoio; un paio di ciabatte sbatterono e strusciarono sul pavimento
piastrellato fino alla sua camera da letto – che il ragazzo
aveva precedentemente chiuso per poter disegnare indisturbato
–, poi si sentì bussare e una vocina parlare:
«Fraaanky,
ci sei?»
Lui scosse la testa sorridendo. «Certo che ci sono,
Chimney.»
Una bambina di non più di dieci anni fece capolino nella
stanza, rivelando un viso paffuto e dei lunghi capelli legati a
mo’ di trecce talmente strette da schizzare vero
l’alto; sorrideva mostrando i denti sporchi del rossetto con
cui spesso si divertiva a colorarsi le labbra piene.
«Scendi», gli disse. «È
arrivato il fratellone.» Trotterellò indietro e
produsse il medesimo rumore di quand’era arrivata.
Il ragazzo guardò allora l’orario sul display del
cellulare e, accompagnato dal brontolio del proprio stomaco,
decretò fosse finalmente arrivata l’ora di cena.
Si pettinò il lungo ciuffo azzurro con il pettine sottile e,
un’occhiata allo specchio dopo, abbandonò la
camera per dirigersi nel salotto al piano inferiore da cui provenivano
molteplici voci. Trattenne un sorriso quando i suoi piccoli occhi
incontrarono la figura dell’ospite appena approdato,
nonché suo fratello maggiore; aveva sempre avuto un rapporto
conflittuale con lui, ma crescendo entrambi avevano imparato a
convivere pacificamente – fino a quando, anni prima, il
maggiore aveva abbandonato il nido per poter continuare il proprio
percorso di formazione presso un’università
privata a centinaia di chilometri da casa. Raramente aveva fatto
ritorno, se non per qualche visita di cortesia in occasione delle
più varie festività, eppure il ragazzone avrebbe
potuto riconoscerlo anche a un miglio di lontananza.
«Franky», gli disse con un sorriso di cortesia
sulle labbra. «Da quanto tempo.»
Nessuno dei due si era mai mostrato espansivo nei confronti
dell’altro, perciò Franky si guardò
bene dal dargli delle calorose pacche sulla schiena e sulle spalle,
sulle quali si era invece arrampicata la piccola Chimney senza troppe
cerimonie.
«Ti trovo bene, Iceburg», rispose poggiando un
gomito sul passamano delle scale.
Il maggiore annuì. «Mah, non vi ho
ancora presentato la mia ragazza», disse facendo un cenno
alla bella donna che lo affiancava, alta quasi quanto lui e magra come
un chiodo, avvolta in un elegante completo sobrio. «Lei
è Kalifa. Ci siamo incontrati al college.»
Lei fece un lento inchino, e i suoi lunghi capelli biondo cenere
scivolarono verso il basso. «È un piacere
conoscere voi tutti.»
Una risata sguaiata seguì subito dopo; proveniva dalla larga
bocca di un’anziana comodamente vestita: le numerose rughe
che le caratterizzavano il volto si stropicciavano a ogni suo
singhiozzo e le donavano un’aria calorosamente simpatica.
«Benvenuti, benvenuti!», disse, per poi alzare al
cielo una bottiglia di vino appena stappata. «Bisogna
festeggiare il ritorno del mio caro nipote come si deve»,
aggiunse quasi come se volesse giustificare la presenza
dell’alcolico tra le sue mani callose.
«Nonna», fece Franky, «vacci piano.
Ricordi cosa ti ha detto il dottore?»
La vecchia annuì senza modificare la propria espressione e,
nel farlo, barcollò. «Certo che me lo ricordo. Non
sono mica stupida.»
«Sei malata, nonna?», domandò Iceburg
accostandosi a lei.
«Ma no, ma no», rispose la donna anziana.
«Ho solo qualche valore sballato, niente di
preoccupante.»
Anche Franky si mise al suo fianco al fine di scortarla fino alla
tavola, dove Chimney si era già seduta dondolando
vivacemente le gambe. «È vero, ma devi comunque
smettere di bere così tanto vino.»
Lei poggiò la bottiglia sulla tavola bianca.
«Infatti questo ben di Dio non è solo per me. Lo
condivido con voi, che siete la mia famiglia. Anche con te,
cara», aggiunse rivolgendosi a Kalifa, la quale la
ringraziò pacatamente per la generosa offerta.
Le portate della cena furono a dir poco squisite, tanto da venir
divorate una dopo l’altra; proprio per questo motivo non
volò più di qualche manciata di chiacchiere in
aria, riempita solo dal tintinnio delle posate e dall’unica
bambina presente, che masticava a bocca aperta e si guardava attorno di
continuo, facendo smuovere le sue lunghe trecce disordinate.
«Come sei bello, fratellone», disse
quest’ultima con un sorriso che le andava da un orecchio
all’altro. «Sei andato a una cerimonia,
prima?»
Iceburg diede una rapida occhiata alla propria giacca a righe.
«No, Chimney», rispose. «Mah, ormai sono
abituato a vestirmi in questo modo.»
«Eeh?
Sei sempre così elegante?»
«È la prassi per il mio lavoro.»
Franky alzò un sopracciglio. «E che lavoro
fai?», domandò con sincera curiosità.
L’altro si tamponò gli angoli della bocca con il
proprio tovagliolo, lasciando su di esso piccole tracce della salsa che
aveva da poco mangiato. «Sbrigo delle commissioni presso il
Comune di Venice.»
«Tesoro», intervenne Kalifa poggiando una mano su
quella del fidanzato. «Non esser timido e di’ loro
la verità.»
«Mah,
non vorrei far la figura del vanitoso.»
«E invece meriteresti solo delle lodi. Glielo dica anche lei,
Kokoro.»
L’anziana mandò giù il fondo del
bicchiere sporco di vino rosso e rivolse l’ennesimo gran
sorriso al primo nipote. «Forza, Iceburg», lo
incitò.
Lui si passò una mano tra i capelli viola fissati tra loro
grazie a un’abbondante quantità di gel.
«Lavoro al Comune di Venice perché ne sono il
sindaco.»
La nonna spalancò la bocca mentre Chimney si mise a urlare;
anche Franky non poté credere alle proprie orecchie.
«Mi sono candidato alle scorse elezioni e le ho vinte. Mah, è
il primo passo per entrare nel grande mondo della politica»,
spiegò, per poi riprendere a mangiare.
«Propongo un brindisi per festeggiare questo bellissimo
traguardo.»
«Nonna!»
La bambina bionda rise allegramente. «Sei grande,
fratellone!», esclamò tutta contenta. «E
perché hai cambiato il sogno della tua vita?»
Kalifa si voltò in direzione di Iceburg. «Credevo
che fosse la politica, il sogno della tua vita. Ne avevi un
altro?»
«E lo è», le rispose accennando un
sorriso. «Ma quando ero più giovane trascorrevo
molto tempo all’officina di Tom, in fondo alla
strada.»
«Perché non passi a fargli un saluto?»,
fece Kokoro. «Sono certa che sarebbe molto contento di
rivederti.»
«Senz’altro.»
Franky storse la bocca, i denti digrignati e la mascella contratta.
«Ancora non riesco a capire perché diavolo tu te
ne sia andato», disse sprezzante – quella storia
gli faceva bruciare lo stomaco e non poco anche a distanza di cinque
anni. «Eri portato per la falegnameria. Tom aveva una marea
di progetti da affidarti per mandare avanti la sua attività,
e tu te ne sei fregato. Gli hai voltato le spalle come se non ci fosse
stato nulla in gioco.»
Iceburg distolse lo sguardo, sentendosi scomodo in quella conversazione
con il fratello minore. «Mah,
ho solo seguito la mia strada. Non nascondo di essermi divertito in
falegnameria, ma era solo un passatempo per me.»
«Sei stato un egoista!», esclamò Franky
scattando in piedi. «Un egoista bastardo!»
«Fratellone», starnazzò Chimney
coprendosi le orecchie con le mani, «non si dicono le
parolacce!»
«Franky, cerca di capirmi.»
Una vena pompò furiosamente sul suo largo collo.
«Cosa dovrei capire? Quel vecchio aveva scommesso tutto su di
te! Quando ti sei trasferito, lui…»
Anche Iceburg si alzò e sbatté le mani sulla
tavola imbandita. «Quali colpe avrei?», gli
domandò retoricamente. «Avrei dovuto congelare il
tempo e rimanere fermo allo stesso punto? A respirare la polvere
accumulata sulle mensole e a ferirmi le mani con le seghe
circolari?»
«Tesoro», lo chiamò Kalifa con
preoccupazione.
A sentire la sua voce, l’uomo si calmò e
tornò a sedere. «La vita va avanti,
Franky», disse con compostezza. «Mah. Cerca di
capirlo anche tu.»
Angoletto degli
Easter Egg!!
1. Le
sue dodici fatiche erano giunte alla fine: quelle di
Eracle, uno dei celebri eroi della mitologia greca successivamente
romanizzata in Ercole.
2. Imponendogli
di chiamarla cigno: non ho nulla da dire se non
NAMI-SWAAAAAN—
3. Impedito
com’era […] a contatto con l’acqua:
riferimento all’indebolimento causato dall’acqua
marina nella serie originale.
4. Guardiana
della porta: sottilissima reference alla battaglia contro
Monet, quando la mia amata Copycat è rimasta indietro per
proteggere il corpo del G5.
5. Lo
facevano assomigliare a un vulcano pronto a esplodere:
perché Cane Rosso questo è.
6. Comune
di Venice: se Water 7 prende spunto da Venezia…
Angoletto
dell’Autrice!!
Mentre mi sto occupando dell’editing di questo capitolo, sto
sorseggiando l’Ocean Bomb a tema Sanji - e posso dire che fa
proprio schifo. Desculpame, mi amor.
Come avete trascorso le feste di Natale? Avete recuperato tutti gli
episodi di One Piece? Vi vedo, che siete indietro! Daidaidai che tra
pochi giorni approdiamo a Egghead E IO NON VEDO L’ORAAAAAA--
Zoro:
Nel prologo ti eri raccomandata di non fare spoiler, e ora nomini
Egghead come se nulla fosse?
Maaaaa tantooooo lo sanno tuttƏ
che è la prossima isola...
Zoro:
Cosa mi aspetto? A te piace il cuoco.
Purtroppo i biondi hanno una grandissima influenza sul mio
autocontrollo.
Vi do appuntamento al prossimo capitolo. Piccola anticipazione: ci
sarà una scena ZoRobin per i fan di questa ship!
A presto,
-Channy
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