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Autore: channy_the_loner    04/01/2024    0 recensioni
Si dice che la Costellazione Lira abbia ispirato la leggenda giapponese di Hikoboshi e Orihime, gli amanti costretti a vivere in eterno sulle sponde opposte del Fiume Celeste. È anche un riferimento allo strumento musicale di Orfeo, figlio della musa Calliope, il cui suono ha incantato ogni elemento della Natura.
Ma non è tutto: Lira contiene dei sistemi planetari – e questa storia s’incentra proprio qui. Racconta di un gruppo di ragazzi le cui vicende, a prima vista singole o di poca importanza, riescono a intersecarsi perfettamente tra loro, creando un arcipelago astrale visibile sotto il cielo estivo e facendoli assomigliare alle stelle. La causa scatenante di tutto è una festa che va contro le regole dell’istituto: sembra una scena di ribellione firmata dai soliti studenti conosciuti per finire sempre nei guai, e invece si rivela una galeotta occasione per dare una svolta alle vite di ognuno di loro.
Una paura infondata e un sorriso leggero; un segreto asfissiante e un’indifferenza rissosa; una lontananza imprevedibile e un silenzio incoerente; una bugia bianca e un’ombra nera; una malinconia bruciata e un cuore metallico.
E tanto, tanto altro.
Genere: Comico, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Marco, Portuguese D. Ace, Roronoa Zoro, Sabo, Tashiji, Z | Coppie: Franky/Nico Robin, Rufy/Nami, Sanji/Nami
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Umbrella, Restless and Mayor



L’odore della pioggia scrosciante aveva lo straordinario potere di invadere le narici non solo dei passanti, ma persino di chi rimaneva serrato in casa propria o in un grigio ufficio per l’intera giornata bagnata, evitando così d’incappare in spiacevoli pozzanghere di fango e fastidiosi schizzi provenienti dai balconi delle case, dalle insegne dei negozi o dai porticati più sporgenti affacciati sui marciapiedi gremiti di pendolari.
Nami era uscita di casa con la consapevolezza che avrebbe piovuto – non solo aveva assistito all’annuncio delle previsioni del tempo la sera prima, ma poco prima di riversarsi in strada aveva dato un’occhiata al cielo, scorgendo un prepotente nuvolone nero tuonare famelico –, ma mai si sarebbe aspettata che il suo ombrello la abbandonasse a metà percorso. Il suo fido compagno di viaggio si era piegato al volere del vento freddo, e le stecchette che reggevano la tela proprio non avevano voluto saperne di tornare ai rispettivi posti. Con i denti digrignati e un fiume di parolacce ben leggibile nei suoi occhi nocciolati, la ragazza si era vista costretta a correre verso la scuola seguendo un bizzarro percorso fatto di ripari improvvisati e tentativi di tenere saldo il cappuccio del giubbino su in testa, a contenere la cascata di capelli che avrebbe fatto meglio a legare quando ancora si stava preparando per affrontare quel mercoledì, il punto centrale di una settimana che pareva infinita.
Continuando a correre e a saltellare per evitare di inzupparsi le scarpe con l’acqua che s’accumulava ai lati dei tombini, riuscì finalmente a scorgere l’edificio scolastico; mai tale visione la rallegrò così tanto, ‘ché le sue dodici fatiche erano giunte alla fine. La pioggia aumentò d’intensità, ma non se ne curò affatto. Oltrepassò i cancelli dell’istituto e s’apprestò a compiere l’ultimo sprint fino alle porte – sessanta metri erano facili da superare perciò, come a equilibrare i piatti della bilancia, si preoccupò di non urtare nessuno lungo il tragitto; se sui marciapiedi della città aveva avuto la possibilità di darsela a gambe ogni volta che finiva addosso a un povero passante, sul vialetto della scuola correva il serio pericolo di essere derisa da quelle decine di volti che, seppur di sfuggita, conosceva bene. Non puntava affatto a bagnarsi il meno possibile dato che oramai era diventata ella stessa parte integrante della pioggia, piuttosto il suo intento era quello di correre in infermeria ad asciugarsi per non buscarsi un raffreddore coi fiocchi, se non peggio.
«Nami?»
Lo scatto finale venne bloccato sul nascere da quella voce tanto familiare quanto indesiderata. Per pura cortesia – e perché non poteva spiattellare la scusa d’esser in ritardo, dato che mancavano ancora dieci minuti circa al suono della campanella di inizio giornata – si voltò alla propria destra e scoprì un grande ombrello porto nella propria direzione come un invito ad afferrarlo e a ripararsi dalle lacrime del cielo.
Guardò l’occhio azzurro che la scrutava teneramente e si sforzò di non storcere la bocca.
«Non mi serve, grazie. Ormai sono arrivata.»
E lui, come al solito, ebbe la risposta pronta: «Permettimi di accompagnarti fino all’interno. Questo tratto è scivoloso da bagnato, non vorrei tu ti facessi male.»
Nami si domandò come diamine facesse Sanji a essere così gentile anche quando ce l’aveva a morte con lui o quando semplicemente non le andava di vederlo. Tenne per sé quel dubbio esistenziale e annuì, dandogli il consenso di farsi più vicino fino a inglobarla nella sua area protetta; iniziò a scortarla verso l’interno dell’edificio, percependo quell’entrata sempre più vicina, quella salvezza sempre più tangibile. Nessuno dei due aprì bocca durante la passeggiata lenta e lei se ne stupì parecchio: perché quel ragazzo, che sempre trovava un modo per torturarla con i suoi discorsi senza senso, si era ammutolito? Cosa gli era successo?
Ignorando il motivo per il quale si stesse arrovellando così tanto, fu lei a proporre un argomento di discussione: «Che hai fatto ai capelli?», domandò alludendo all’acconciatura di lui, che s’era spostato la lunga frangia a coprire l’occhio sinistro, ‘ché solitamente oscurava quello destro.
Sanji la guardò di sbieco senza un’espressione ben definita – era a metà tra l’onesta felicità per l’interesse e la cortesia di circostanza. «Pensavo che di tanto in tanto fa bene cambiare.»
Una risposta senza esaltazione, ecco come le era sembrata quella frase. «Ma ti pettinavi così anni fa. Ti mancava quella piega?»
Lui forzò palesemente una risata. «Diciamo di sì. Stamattina ero nostalgico.»
Non se n’era uscito con un monosillabo! Che la conversazione potesse andare avanti come i loro passi sui sanpietrini bagnati?
«Non vorrai mica che mi tagliassi di nuovo i capelli, vero?», chiese con ironia e sarcasmo la ragazza, come a volerlo stuzzicare, imponendogli di chiamarla cigno – appellativo che le aveva affibbiato quando si erano conosciuti qualche anno prima, ai tempi in cui lei portava ancora il caschetto e l’onda dei suoi ricci morbidi andava a creare una delicata curva all’insù sul suo collo niveo.
Sanji sorrise ancora, stavolta con un pizzico di sincerità in più. «Non potrei mai.»
Fu allora che udirono un pesante tonfo e una voce lamentarsi del dolore provocato dalla caduta o, per meglio dire, dalla scivolata. Si voltarono in simultanea per guardarsi alle spalle e scoprirono che era stato Luffy a cadere e, impedito com’era a trovare il proprio baricentro quando si trovava a contatto con l’acqua e addizionando la suola sempre liscia delle scarpe che solitamente indossava, non riusciva più a rimettersi eretto. Attesero l’avvicinarsi di Ace o Sabo o entrambi, che di solito accompagnavano il minore lungo il tragitto verso la scuola per poi separarsi nei corridoi, ognuno diretto alle proprie aule – tuttavia non giunse nessuno in suo soccorso.
«Andiamo ad aiutarlo», fece Nami con evidente preoccupazione nei confronti dell’amico e Sanji annuì, d’accordo con lei.
Non fecero tuttavia in tempo a fare un passo che una voce femminile ostacolò loro il percorso. «Vinsmoke!»
Scottati forse allo stesso modo, si bloccarono sul posto e tornarono a guardare verso le porte d’entrata e scorsero immediatamente la silhouette di Tashigi avvolta in un candido cappotto rosa confetto – e mai si sarebbero aspettati, dato il suo carattere spesso e volentieri rude, di vederla indossare quel colore; era stretta nei suoi vestiti come a scudarsi dal freddo e le sue sopracciglia aggrottate lasciavano ben intendere l’animo battagliero che le teneva compagnia anche quella mattina piovosa.
«Buongiorno», la salutò il ragazzo chiamato in causa restando tuttavia accanto alla rossa.
«Buongiorno», gli rispose l’occhialuta. Con voce più bassa gli chiese: «Entri?»
«Di già?»
Annuì da dietro lo sciarpone a quadri e in cima ai gradini d’ingresso. «Il prima possibile.»
Nami si ritrovò ancora una volta a porsi delle domande; prima fra tutte vedeva quei due interagire in maniera così naturale e misteriosa, quasi come se stessero parlando una stramba lingua coniata sul momento, come quelle che da bambina inventava per parlare in codice con sua sorella senza farsi comprendere dai genitori – un idioma fatto di scarabocchi e disegni stilizzati, ognuno corrispondente a una precisa lettera dell’alfabeto internazionale.
A malincuore, Sanji dovette togliersi la sigaretta bianca dalle labbra e spegnerla calpestandola con la scarpa; mormorò un tienilo tu, e Nami capì che si stava riferendo all’ombrello solo quando le sue mani si ritrovarono a stringere il manico di legno liscio. Nel giro di pochi attimi si ritrovò da sola sotto quel riparo di tela sottile e impermeabile, osservando la figura nera dell’amico slittare all’interno del plesso scolastico e sparire una volta girato l’angolo.
«Che gli è preso?», domandò all’aria e raggiunse a grandi falcate Luffy, che nel frattempo era riuscito a rimettersi in piedi. Quest’ultimo chiese a sua volta: «A cosa ti riferisci?»
Lei avvicinò l’ombrello all’amico per ripararlo. «A Sanji. Mi è sembrato diverso dalle altre volte.»
Il moro seguì la traiettoria dello sguardo nocciolato di Nami, ma non riuscì a scorgere il soggetto della loro repentina conversazione. «E così ti interessi a Sanji, eh?», le disse con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto bagnato.
«Idiota», lo apostrofò la rossa. «Certo che mi interesso a Sanji, è un mio amico. Perché devo sempre passare per quella senza pietà?»
Luffy rise più apertamente. «Rilassati, ti stavo solo prendendo in giro.»
Nami riuscì finalmente a raggiungere l’interno della scuola con a seguito il compagno, così poté chiudere l’ombrello e dare il buongiorno all’aria condizionata calda che aveva abbracciato i suoi vestiti fradici. Tuttavia, nonostante fosse giunta al limite della sopportazione, non corse ad asciugarsi; piuttosto rimase in piedi dinanzi a Tashigi la quale, seppur infreddolita, non aveva ancora abbandonato la propria postazione da guardiana della porta – sicuramente era incollata lì per controllare che nessuno decidesse di marinare le lezioni, o almeno questo fu quello a cui la rossa pensò.
«Immagino tu me lo sappia spiegare.»
L’occhialuta la guardò con un’espressione vagamente confusa. «Di cosa stai parlando?»
Nami puntellò le mani sulla vita femminile e sottile, da perfetta modella di una rivista di moda. «Dov’è andato Sanji?»
L’altra ragazza si diede dell’idiota mentalmente per non afferrato il riferimento precedente, ma tentò di non mostrarlo in pubblico. «Non sai cos’è successo ieri pomeriggio?»
«Ti sembra che lo sappia?», rispose Nami con palese acidità nella voce.
Si aggiustò le lenti rosse sul ponte del naso. «Vinsmoke si è messo di nuovo nei guai.»
«Cosa?!», esclamò Luffy incredulo di aver udito quelle parole. «Che ha fatto?»
Tashigi scosse la testa. «Il professor Borsalino lo ha denunciato al preside per comportamento violento. Sakazuki lo vuole vedere subito, non durante la giornata. Dato che prima ci siamo incontrati, mi ha chiesto di convocarlo immediatamente.» Fece una brevissima pausa per salutare Koby, il quale aveva appena fatto il proprio ingresso nell’atrio. «Non so altro.»
«Bugiarda!», urlò Luffy afferrandola per il colletto del cappotto pesante e sollevandola da terra. «Stai mentendo!»
«Lasciami immediatamente!»
Il moro non le diede ascolto. «Sanji non farebbe del male a una mosca! Non ci credo che ha picchiato qualcuno, non è possibile!»
Koby, il quale si era allontanato di qualche passo, corse indietro per prestare soccorso alla compagna di Comitato. «Monkey, smettila!», disse autoritario e incurante delle gambe tremanti.
«Luffy!», strillò Nami afferrandolo per il giaccone. «Non farle del male! Finirai anche tu nei casini!»
Lui si voltò rabbioso verso l’amica. «E dovrei lasciar perdere?!», sbraitò. «Non ti fa incazzare che Sanji sia nella merda per qualcosa che sicuramente non ha fatto?!»
«Certo che mi fa incazzare!», fece la rossa. «Ma che motivo avrebbe Tashigi per mentirci? Pensaci, Luffy! Non sappiamo cosa sia successo a Sanji, per questo prima di prendercela con qualcuno faremmo meglio a parlare direttamente con lui.»
Il moro spostò più volte lo sguardo dall’amica, a Koby e a Tashigi, che ancora si stava dimenando alla sua presa ferrea con in volto un’espressione infastidita e sofferente. «Hai ragione», decretò infine con voce roca. Liberò l’occhialuta e le disse: «Mi dispiace.»
Aiutata da Koby, lei si aggiustò il cappotto, sbottonandosi il bottone più alto per lasciare libero il collo e favorire la respirazione. «Non ti preoccupare», gli rispose con tono fermo.
Nami gli prese la mano e lo tirò appena per incitarlo a camminare con lei. «Andiamo ad asciugarci. Poi penseremo a cosa fare con quel beota, okay?»
Luffy accennò un sorriso. «Okay.»




***




L’occhio tumefatto bruciava, nascosto dal lungo ciuffo di capelli biondi.
Appena ricevuto il permesso per entrare, il ragazzo aprì la porta e andò a sedersi su una delle due poltroncine presenti davanti alla scrivania del preside, incurante di essere bagnato fradicio dalla testa ai piedi.
Sakazuki lo fissava da dietro le mille scartoffie che aveva da firmare; i muscoli tesi del collo e le sopracciglia aggrottate lo facevano assomigliare a un vulcano pronto a esplodere e a spazzare via tutto. Se avesse potuto avrebbe volentieri fumato un sigaro per sciogliere i nervi, ma avrebbe infervorato i sensori presenti sul soffitto e sarebbe scattato l’allarme antiincendio; l’unico fumo che poteva aspirare era l’odore emanato dai vestiti dello studente, ma sarebbe stato un crimine paragonare quella terribile nicotina al sapore dei suoi cubani che conservava nel taschino della giacca per qualsiasi evenienza.
Soffiò, proprio come se stesse fumando: «Mi è stato riferito che hai aggredito un tuo compagno nel campo da basket, ieri pomeriggio.»
Il ragazzo alzò il mento, impavido. «Sono stato provocato.»
I vestiti rossi del preside parvero andare a fuoco, come a coronare il sentimento di rabbia che gli ribolliva dentro. «È tutto quello che hai da dire, Vinsmoke?»
Anche Sanji strinse i pugni – un modo per darsi un contegno e non peggiorare la propria situazione. «Sì, signore.»
«Non è la prima volta», fece Sakazuki prendendo una penna e cercando dei fogli in un cassetto della scrivania, «che vieni mandato da me per questo motivo. Non sei in una buona posizione.»
Il biondo batté furiosamente un piede a terra in preda a un tic nervoso.
Il preside lesse velocemente il contenuto del documento che si era procurato al fine di accertarsi d’aver afferrato quello della categoria giusta. «Non m’importa di quello che combini nella tua vita, ma non tollero un comportamento simile all’interno di queste mura.» Mise una firma rapida e precisa nell’apposito spazio e gli consegnò il foglio. «Ti consiglio di farti un esame di coscienza a casa tua. Hai una settimana di tempo.»
Sanji prese con sé il comunicato e s’alzò, dirigendosi verso l’uscita della presidenza.
«Vinsmoke.»
A un passo dalla porta, dovette farsi violenza per non mettersi a urlare. Si voltò nuovamente verso l’autorità suprema dell’istituto e rimase in silenzio, come un invito a continuare la frase.
«Alla prossima sei fuori. Chiaro?»
Si morse gli interni guancia per contenere la furia e si sforzò di rispondere: «Sì, signore.»




***




Forse perché non aveva nulla da perdere, forse perché era convinta di poter dare una mano, o forse perché non aveva niente di meglio a cui dedicarsi, Bibi scelse di presentarsi agli allenamenti di pallavolo. La titubanza non aveva ancora abbandonato completamente le fibre del suo corpo infreddolito dalla tuta che stava indossando negli spogliatoi, che avrebbero dovuto esser caldi abbastanza da non rischiare di far prendere un raffreddore a qualcuno, ma il sistema di riscaldamento era piuttosto inutile dinanzi agli spifferi che provenivano dal bagno lì accanto. L’azzurra si domandò se avesse preso una scelta giusta mentre si legava i lunghi capelli in una coda di cavallo, lasciando che i ciuffi più corti le cadessero ai lati del viso. Ripose gli effetti personali nello zaino, che lasciò su una delle panche dello spogliatoio, ed entrò in palestra; la scoprì già in funzione grazie alle figure femminili che stavano facendo stretching a bordo campo, ognuna per conto proprio e senza guardare in faccia le altre.
«Sapevo che saresti venuta.»
La ragazza si voltò per guardare alla propria destra e scoprì l’allenatrice che stava camminando nella sua direzione. «Buon pomeriggio», salutò.
Viola la accolse con un gran sorriso, come se si sentisse sollevata dalla sua presenza. «Sei arrivata giusto in tempo. L’allenamento inizierà tra pochi minuti.» Non le lasciò neanche qualche attimo per guardarsi attorno ‘ché suonò il fischietto, in maniera da richiamare l’attenzione delle altre giocatrici. «Benvenute a tutte», così iniziò il discorso. «Vi ringrazio per aver aderito a quest’importante iniziativa. Siete parte fondamentale della collaborazione tra il nostro liceo e Punk Hazard.»
Bibi si guardava i lacci delle scarpe, le dita delle mani intrecciate dietro la schiena.
«Prima di inaugurare la sessione di allenamento, vorrei che a turno vi presentaste», continuò l’insegnante. «Provenite da anni diversi, perciò non so se vi conoscete già. Reputo che il rapporto umano sia fondamentale per portare a casa il nostro obiettivo. Tengo a precisare una cosa: il nostro scopo non è vincere la partita, bensì divertirci. È per questo motivo che voglio spingere molto sul legame tra ognuna di voi. Forza, comincia tu», fece guardando una delle giocatrici. «Presentati alle tue compagne.»
La ragazza in questione fece un timido passo in avanti e parlò: «Mi chiamo Margaret Kuja. Sono del primo anno.»
Aveva una voce gentile, così Bibi ebbe il coraggio di alzare lo guardo e squadrare silenziosamente le persone che le avrebbero fatto compagnia in campo. Le bastarono pochi secondi per impallidire.
La seconda a presentarsi, difatti, aveva delle fattezze fin troppo conosciute: il suo corpo, sbocciato in tutta la sua femminilità, era ricoperto da una cascata di capelli color pece che facevano a cazzotti con la pelle bianca. «Sono Boa Hancock, del quarto anno», disse con voce adulta. «Piacere di conoscervi.»
“Questa non ci voleva”, pensò l’azzurra mentre si affrettava a puntare gli occhi in direzione della terza ragazza; quest’ultima era magra come un chiodo e possedeva una tonalità di voce opposta a quella profonda di Hancock. «Ciao, ragazze», starnazzò – o almeno, Bibi associò il suo modo di parlare a una papera. «Mi chiamo Perona Horo e sono del terzo anno.»
Accanto a quest’ultima, una giovane dai lunghi capelli verdi si aggiustò un grosso paio di occhiali rotondi sul ponte del naso. «Monet Harpie, quarto anno», disse solo.
L’ultima a parlare fu una ragazza che non aveva mai visto prima d’allora: aveva dei dolci occhi azzurri e un cappello rosso posato su corti capelli color caramello. «Piacere, sono Koala Yukino», fece con un sorriso e un breve inchino. «Sono una nuova studentessa. Mi sono trasferita in questa scuola da pochi giorni. Ah, e sono al quarto anno.»
Seguì un momento di silenzio in cui l’azzurra si sentì sei paia di occhi puntati addosso, che le ricordarono di doversi presentare poiché era giunto il suo turno. Si schiarì la gola: «I-Io sono Nefertari Bibi e frequento il secondo anno.»
La professoressa batté le mani con energia. «Bene!», esclamò. «Adesso cominciamo con un po’ di stretching. Distribuitevi lungo il campo facendo attenzione a non urtarvi tra di voi.»
E mentre correva sul posto a ritmo di un assillante fischietto e sotto il pressante sguardo di una compagna di gioco in particolare, Bibi tornò a domandarsi se quella fosse stata realmente una buona idea.




***




Una persona normale, una volta finito di prendere appunti, avrebbe poggiato la matita a lato della carta, tenendola pronta a un nuovo utilizzo – e invece Franky se l’appoggiò sull’orecchio destro come se fosse stata la stanghetta di un paio di occhiali da vista.
«Così dovrebbe andare», borbottò grattandosi la nuca.
Fece scorrere gli occhi sui fogli da disegno che aveva dinanzi a sé, e il suo sorriso s’allargava man mano che osservava i dettagli che aveva tracciato fino a pochi minuti prima con il suo grafite appuntito. Sparpagliò meglio i fogli sul tavolo in modo da riuscire a guardarli tutti assieme; il lavoro, nel complesso, non era niente male. Si fece i complimenti da solo, spinto dall’alta considerazione che aveva di sé stesso, mentre con il pollice di una mano scorreva i numeri salvati nella rubrica del cellulare alla ricerca di un contatto specifico; appena lo trovò cliccò la cornetta verde apparsa poco sotto come per magia.
«Dimmi, Franky», sentì dire dalla persona che aveva accettato la chiamata.
«Ho finito di disegnare i progetti, fratello.»
«Di già?! Ci hai messo appena due giorni!»
Lui si pettinò il ciuffo di capelli azzurri con le dita della mano libera. «Che ci vuoi fare, amico? Sono un fottuto genio.»
Dall’altro capo si sentì un sospiro. «Sì, sì. E a cosa hai pensato?»
Franky scattò in piedi, alimentato dalla foga del momento e dai litri di bevande energetiche che aveva mandato giù per tutta la giornata. «Prima di tutto, faremo una parete su misura per lo sfondo del primo atto», disse camminando in tondo. «Poi, per la seconda scena, aggiungiamo in più solo qualche oggetto scenografico.»
«Ne sei sicuro?», gli venne chiesto. «Il secondo atto è breve, ma è la parte più importante della storia
«Sta’ tranquillo, nasone», gli rispose. «Dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione sul terzo atto.»
Usopp sospirò nuovamente. «Be’, sì, è la scena che piace a tutti. E per il finale, invece?»
«Mh, a quel punto si torna alla prima scenografia. Mi rompe non poter aggiungere niente di nuovo, dato che tutti gli attori si riuniranno sul palco in quel momento.»
«Effettivamente è un problema», fece il suo interlocutore. «Ricorda che devi avere l’approvazione del professor Paulie.»
«Sono sicuro che l’avrò», rispose Franky sedendosi pesantemente sul letto di camera sua. «Te, invece, a che punto sei?»
Si sentì uno starnuto. «Ehm, sto buttando giù alcuni schizzi per la prima parte dello spettacolo. Credo di riuscire a finire per domani.»
«Tanto non supererai mai i miei. Sono moooolto più super
«Guarda che non è una gara. E poi non siamo gli unici del club di falegnameria a star lavorando per le scenografie del corso di teatro.»
Franky grugnì sonoramente. «Lo sanno tutti che io e te siamo i più capaci, Usopp. Li hai visti, come lavorano? Fanno tenerezza.»
«Sì, effettivamente non so cosa ci facciano lì.» Aggiunse: «Ah, e domani ricordati di portare le viti di cui abbiamo parlato stamattina. Quelle nella scatola si sono volatilizzate.»
«Ci penso io, ci penso io», fece tornando ai suoi progetti illuminati da una forte luce gialla proveniente da una lampada da tavolo. «A domani, fratello.»
Quando Usopp lo salutò a propria volta, Franky riagganciò e abbandonò il cellulare sulla superfice legnosa della scrivania per poter ammirare nuovamente il frutto della sua fervida e matematica immaginazione.
Accarezzò con i polpastrelli le sottili rughe della carta. Proprio in quel momento udì dei rumori in lontananza, ma il suo orecchio era abbastanza allenato da intercettare dei passi veloci e allegri salire su per le scale di casa e poi correre lungo il corridoio; un paio di ciabatte sbatterono e strusciarono sul pavimento piastrellato fino alla sua camera da letto – che il ragazzo aveva precedentemente chiuso per poter disegnare indisturbato –, poi si sentì bussare e una vocina parlare: «Fraaanky, ci sei?»
Lui scosse la testa sorridendo. «Certo che ci sono, Chimney.»
Una bambina di non più di dieci anni fece capolino nella stanza, rivelando un viso paffuto e dei lunghi capelli legati a mo’ di trecce talmente strette da schizzare vero l’alto; sorrideva mostrando i denti sporchi del rossetto con cui spesso si divertiva a colorarsi le labbra piene. «Scendi», gli disse. «È arrivato il fratellone.» Trotterellò indietro e produsse il medesimo rumore di quand’era arrivata.
Il ragazzo guardò allora l’orario sul display del cellulare e, accompagnato dal brontolio del proprio stomaco, decretò fosse finalmente arrivata l’ora di cena. Si pettinò il lungo ciuffo azzurro con il pettine sottile e, un’occhiata allo specchio dopo, abbandonò la camera per dirigersi nel salotto al piano inferiore da cui provenivano molteplici voci. Trattenne un sorriso quando i suoi piccoli occhi incontrarono la figura dell’ospite appena approdato, nonché suo fratello maggiore; aveva sempre avuto un rapporto conflittuale con lui, ma crescendo entrambi avevano imparato a convivere pacificamente – fino a quando, anni prima, il maggiore aveva abbandonato il nido per poter continuare il proprio percorso di formazione presso un’università privata a centinaia di chilometri da casa. Raramente aveva fatto ritorno, se non per qualche visita di cortesia in occasione delle più varie festività, eppure il ragazzone avrebbe potuto riconoscerlo anche a un miglio di lontananza.
«Franky», gli disse con un sorriso di cortesia sulle labbra. «Da quanto tempo.»
Nessuno dei due si era mai mostrato espansivo nei confronti dell’altro, perciò Franky si guardò bene dal dargli delle calorose pacche sulla schiena e sulle spalle, sulle quali si era invece arrampicata la piccola Chimney senza troppe cerimonie.
«Ti trovo bene, Iceburg», rispose poggiando un gomito sul passamano delle scale.
Il maggiore annuì. «Mah, non vi ho ancora presentato la mia ragazza», disse facendo un cenno alla bella donna che lo affiancava, alta quasi quanto lui e magra come un chiodo, avvolta in un elegante completo sobrio. «Lei è Kalifa. Ci siamo incontrati al college.»
Lei fece un lento inchino, e i suoi lunghi capelli biondo cenere scivolarono verso il basso. «È un piacere conoscere voi tutti.»
Una risata sguaiata seguì subito dopo; proveniva dalla larga bocca di un’anziana comodamente vestita: le numerose rughe che le caratterizzavano il volto si stropicciavano a ogni suo singhiozzo e le donavano un’aria calorosamente simpatica. «Benvenuti, benvenuti!», disse, per poi alzare al cielo una bottiglia di vino appena stappata. «Bisogna festeggiare il ritorno del mio caro nipote come si deve», aggiunse quasi come se volesse giustificare la presenza dell’alcolico tra le sue mani callose.
«Nonna», fece Franky, «vacci piano. Ricordi cosa ti ha detto il dottore?»
La vecchia annuì senza modificare la propria espressione e, nel farlo, barcollò. «Certo che me lo ricordo. Non sono mica stupida.»
«Sei malata, nonna?», domandò Iceburg accostandosi a lei.
«Ma no, ma no», rispose la donna anziana. «Ho solo qualche valore sballato, niente di preoccupante.»
Anche Franky si mise al suo fianco al fine di scortarla fino alla tavola, dove Chimney si era già seduta dondolando vivacemente le gambe. «È vero, ma devi comunque smettere di bere così tanto vino.»
Lei poggiò la bottiglia sulla tavola bianca. «Infatti questo ben di Dio non è solo per me. Lo condivido con voi, che siete la mia famiglia. Anche con te, cara», aggiunse rivolgendosi a Kalifa, la quale la ringraziò pacatamente per la generosa offerta.
Le portate della cena furono a dir poco squisite, tanto da venir divorate una dopo l’altra; proprio per questo motivo non volò più di qualche manciata di chiacchiere in aria, riempita solo dal tintinnio delle posate e dall’unica bambina presente, che masticava a bocca aperta e si guardava attorno di continuo, facendo smuovere le sue lunghe trecce disordinate. «Come sei bello, fratellone», disse quest’ultima con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. «Sei andato a una cerimonia, prima?»
Iceburg diede una rapida occhiata alla propria giacca a righe. «No, Chimney», rispose. «Mah, ormai sono abituato a vestirmi in questo modo.»
«Eeh? Sei sempre così elegante?»
«È la prassi per il mio lavoro.»
Franky alzò un sopracciglio. «E che lavoro fai?», domandò con sincera curiosità.
L’altro si tamponò gli angoli della bocca con il proprio tovagliolo, lasciando su di esso piccole tracce della salsa che aveva da poco mangiato. «Sbrigo delle commissioni presso il Comune di Venice.»
«Tesoro», intervenne Kalifa poggiando una mano su quella del fidanzato. «Non esser timido e di’ loro la verità.»
«Mah, non vorrei far la figura del vanitoso.»
«E invece meriteresti solo delle lodi. Glielo dica anche lei, Kokoro.»
L’anziana mandò giù il fondo del bicchiere sporco di vino rosso e rivolse l’ennesimo gran sorriso al primo nipote. «Forza, Iceburg», lo incitò.
Lui si passò una mano tra i capelli viola fissati tra loro grazie a un’abbondante quantità di gel. «Lavoro al Comune di Venice perché ne sono il sindaco.»
La nonna spalancò la bocca mentre Chimney si mise a urlare; anche Franky non poté credere alle proprie orecchie.
«Mi sono candidato alle scorse elezioni e le ho vinte. Mah, è il primo passo per entrare nel grande mondo della politica», spiegò, per poi riprendere a mangiare.
«Propongo un brindisi per festeggiare questo bellissimo traguardo.»
«Nonna!»
La bambina bionda rise allegramente. «Sei grande, fratellone!», esclamò tutta contenta. «E perché hai cambiato il sogno della tua vita?»
Kalifa si voltò in direzione di Iceburg. «Credevo che fosse la politica, il sogno della tua vita. Ne avevi un altro?»
«E lo è», le rispose accennando un sorriso. «Ma quando ero più giovane trascorrevo molto tempo all’officina di Tom, in fondo alla strada.»
«Perché non passi a fargli un saluto?», fece Kokoro. «Sono certa che sarebbe molto contento di rivederti.»
«Senz’altro.»
Franky storse la bocca, i denti digrignati e la mascella contratta. «Ancora non riesco a capire perché diavolo tu te ne sia andato», disse sprezzante – quella storia gli faceva bruciare lo stomaco e non poco anche a distanza di cinque anni. «Eri portato per la falegnameria. Tom aveva una marea di progetti da affidarti per mandare avanti la sua attività, e tu te ne sei fregato. Gli hai voltato le spalle come se non ci fosse stato nulla in gioco.»
Iceburg distolse lo sguardo, sentendosi scomodo in quella conversazione con il fratello minore. «Mah, ho solo seguito la mia strada. Non nascondo di essermi divertito in falegnameria, ma era solo un passatempo per me.»
«Sei stato un egoista!», esclamò Franky scattando in piedi. «Un egoista bastardo!»
«Fratellone», starnazzò Chimney coprendosi le orecchie con le mani, «non si dicono le parolacce!»
«Franky, cerca di capirmi.»
Una vena pompò furiosamente sul suo largo collo. «Cosa dovrei capire? Quel vecchio aveva scommesso tutto su di te! Quando ti sei trasferito, lui…»
Anche Iceburg si alzò e sbatté le mani sulla tavola imbandita. «Quali colpe avrei?», gli domandò retoricamente. «Avrei dovuto congelare il tempo e rimanere fermo allo stesso punto? A respirare la polvere accumulata sulle mensole e a ferirmi le mani con le seghe circolari?»
«Tesoro», lo chiamò Kalifa con preoccupazione.
A sentire la sua voce, l’uomo si calmò e tornò a sedere. «La vita va avanti, Franky», disse con compostezza. «Mah. Cerca di capirlo anche tu.»


















Angoletto degli Easter Egg!!
1.        Le sue dodici fatiche erano giunte alla fine: quelle di Eracle, uno dei celebri eroi della mitologia greca successivamente romanizzata in Ercole.
2.        Imponendogli di chiamarla cigno: non ho nulla da dire se non NAMI-SWAAAAAN—
3.     Impedito com’era […] a contatto con l’acqua: riferimento all’indebolimento causato dall’acqua marina nella serie originale.
4.        Guardiana della porta: sottilissima reference alla battaglia contro Monet, quando la mia amata Copycat è rimasta indietro per proteggere il corpo del G5.
5.        Lo facevano assomigliare a un vulcano pronto a esplodere: perché Cane Rosso questo è.
6.        Comune di Venice: se Water 7 prende spunto da Venezia…










Angoletto dell’Autrice!!
Mentre mi sto occupando dell’editing di questo capitolo, sto sorseggiando l’Ocean Bomb a tema Sanji - e posso dire che fa proprio schifo. Desculpame, mi amor.
Come avete trascorso le feste di Natale? Avete recuperato tutti gli episodi di One Piece? Vi vedo, che siete indietro! Daidaidai che tra pochi giorni approdiamo a Egghead E IO NON VEDO L’ORAAAAAA--
Zoro: Nel prologo ti eri raccomandata di non fare spoiler, e ora nomini Egghead come se nulla fosse?
Maaaaa tantooooo lo sanno tuttƏ che è la prossima isola...
Zoro: Cosa mi aspetto? A te piace il cuoco.
Purtroppo i biondi hanno una grandissima influenza sul mio autocontrollo.
Vi do appuntamento al prossimo capitolo. Piccola anticipazione: ci sarà una scena ZoRobin per i fan di questa ship!

A presto,
-Channy
  
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