Questa
storia si svolge due o forse tre anni dopo ciò che viene
raccontanto nella
flashfic del capitolo precedente. Non ha un prompt specifico
perché avevo iniziato a scriverla ispirata dal momento un
paio
di anni fa e poi non più portata a termine. Quest'anno ce
l'ho
fatta! O quasi...
In realtà, nei miei programmi doveva essere pubblicata per
Natale, ma una brutta influenza (un po' come la protagonista) mi ha
tolto le forze e la lucidità per rispettare la scadenza che
mi
ero data. Speravo passasse presto, ma continua ad andare e venire,
tanto che
non sono riuscita a terminarla neppure per l'ultimo dell'anno. Quindi,
vede la luce direttamente nel 2024.
Naturalmente, essendo ambientata nel 2020, nel mondo reale eravamo in
pieno Covid19. In questa mia storia ho preferito non tenerne conto,
perché non mi sembrava il caso di rivangare quel brutto
periodo in una storia di fantasia.
Anche se con qualche giorno di ritardo, ne approfitto per augurare a
tutti voi lettori un felice anno nuovo!
***
Natale
2020
Quello sarebbe stato di certo un Natale da dimenticare per i tifosi dei
Celtics a causa della pessima partita a cui stavano assistendo: era una
batosta come non se n'era mai visto prima e non sarebbe bastato un
miracolo per raddrizzare il risultato. Cancellata la strepitosa
striscia positiva, i giocatori sembravano essersi ridotti a dilettanti
davanti a una squadra di liceali. All'ennesimo canestro da tre punti
nel pub si alzò un ruggito di dolore dalle gole di alcuni
dei
pochi avventori che quella sera erano appollaiati agli sgabelli al
bancone. Perlopiù erano vecchietti dalla marcata origine
irlandese, con la coppola in lana, maglioni a collo alto, sopracciglia
cespugliose sul viso cadente e una stout
alla spina stretta in mano.
«Jamie, cambia questo schifo!» imprecò
un tipo con
voce roca, che sedeva solitario a un tavolino in disparte.
Ingollò in un unico sorso quasi tutta la guinness nel suo
boccale personalizzato e, dopo un sospiro soddisfatto, passò
il
dito rugoso ad asciugare i baffi dalla schiuma.
Jamie prese il telecomando da sotto il bancone e cambiò su
un
canale che trasmetteva delle vecchie partite di calcio degli Europei
del 2012. Scoppio un'altra ondata di proteste e questa volta volarono
anche delle noccioline in direzione del televisore, colpevole di far
vedere proprio il momento del gol subito dall'Irlanda. Da dietro il
bancone, il giovane alzò gli occhi esasperato, maledicendo
il
padrone del pub per avergli dato il turno quella sera.
«Lascia perdere, amico, e dammene un altro», disse
una voce in fondo al bancone, alzando il bicchiere vuoto.
Era curvò sul bancone, con una mano reggeva il mento e con
l'altra faceva scrolling sullo schermo dell'ipad, intento a leggere le
ultime news sul mondo della finanza. Di tanto in tanto sbadigliava,
segno che forse era arrivato il momento di tornarsene a casa, ma lui
certi segnali li ignorava.
Dall'aspetto sembrava ancora piuttosto giovane, nonostante si
avvicinasse ormai ai quarant'anni. Molti dei suoi
coetanei erano stempiati e già con i capelli ingrigiti, la
schiena curva da impiegato statale, la pancetta da bevitore e rughe
marcate attorno agli occhi, dietro delle montature spesse e dozzinali;
ma lui era diverso. Forse dipendeva dai suoi folti capelli biondi che
nascondevano bene i primi fili d'argento sulle tempie, o forse, il
jogging e la palestra tre volte a settimana avevano su di lui un
effetto miracoloso, nonostante i ritmi stressanti della sua vita. O
forse ancora, era il risultato di una dieta sana ed equilibrata.
L'unico vizio che aveva mantenuto era quello del bere. C'erano volte,
sempre più spesso a dire il vero, che dopo il lavoro entrava
in
un pub – o nel bar di un albergo, se andava fuori
città
– e ci rimaneva fino alla chiusura. Negli anni aveva imparato
a
reggere sempre meglio l'alcol e alla sbronza allegra che lo aveva
caratterizzato da giovane si era sostituito un maturo autocontrollo.
Avvicinò il bicchiere alle labbra e ne prese un sorso: il
ghiaccio tintinnò quando appoggiò di nuovo il
drink al
bancone.
«A quanti siamo arrivati?» attaccò
bottone Jamie,
con una confidenza rodata da anni d'esperienza dall'aver a che fare con
clienti di ogni tipo. Sapeva quindi a chi rivolgere la parola e da chi
rimanere alla larga per non ritrovarsi impantanato in un mare di
lacrime e rimpianti.
Kanon sorrise, raddrizzandosi. Si allentò un poco la
cravatta e
prese a digitare sulla mini tastiera del touchscreen. «Non ti
preoccupare, lo reggo piuttosto bene. E comnque, mi sono già
procurato un passaggio. Vedi?» disse, mostrandogli il
messaggio
ancora visibile.
Jamie sorrise a sua volta, prese la bottiglia di single malt e glielo
fece doppio. Subito alla prima occhiata aveva capito che quell'uomo era
un tipo aperto e cordiale se ci si attaccava bottone, ma che non si
offendeva se lo lasciavano in pace a farsi gli affari suoi. Poteva
anche darsi che lo preferisse.
Kanon si chinò a frugare nello zainetto che teneva a terra
accanto al suo sgabello, come quando andava a scuola, ed estrasse un
laptop nero brillante. Lo aprì e iniziò a
digitare,
incurante dell'occhiata curiosa del barista.
«Si lavora anche la sera della Vigilia, eh? Cosa sei, un
giornalista, uno scrittore, o un blogger?» disse Jamie,
appoggiandosi al bancone e mangiucchiando un'oliva.
«Magari! Nah, niente del genere. Sono un semplice impiegato:
schiavizzato, sottovalutato e sottopagato», rispose Kanon,
senza
staccare lo sguardo dallo schermo; le dita picchiettavano veloci e
sicure sulla tastiera extra fine.
Jamie storse le labbra in un'espressione dubbiosa e si mise a lucidare
il bancone con un canovaccio: non aveva creduto a una sola parola di
quello che gli aveva detto. Lo guardò di sottecchi e
scrollò piano la testa: di norma non credeva a nulla di
quello
che veniva da qualcuno che vestiva abiti da cinquemila dollari e che si
beveva da solo quasi duecento dollari di whisky. E non sembrava essere
intenzionato a smettere.
Quando alla televisione iniziò l'ultima edizione del
notiziario,
il pub aveva già ripreso da un pezzo la sua classica
atmosfera
da bisca clandestina, con volute di fumo grigiastro – in
barba
alla legge – e il solito trambusto di bicchieri e carte.
Da quando si era messo a lavorare, Kanon non aveva staccato gli occhi
dallo schermo, ma più passava il tempo lì dentro,
più la curiosità e la tenzione gli rendevano
difficile
continuare ciò che stava facendo. Sorrise sotto i baffi nel
sentire un vecchio imprecare mentre sbatteva sul tavolo le carte e gli
altri ridere e rincarare la dose. Pensò che attaccato da
qualche
parte a una delle pareti doveva esserci la targa del Circolo Sociale Irlandesi
d'America.
Pescò una manciata di pistacchi dalla ciotolina che aveva
sequestrato e poi bevve un sorso di whisky. Storse la bocca nel
rendersi conto che il bicchiere era di nuovo vuoto, alzò lo
sguardo per attirare l'attenzione del barman, ma questi gli dava le
spalle. Allora, si distrasse a guardare il tavolo del poker e
gli parve di ritrovarsi catapultato nel film La Stangata.
Adorava quel film. Si morse il labbro, rimuginando se chiudere il
laptop e chiedere a quei “bravi” vecchietti se
poteva
unirsi a loro per una partita, oppure lasciar perdere. La vocina dentro
di lui, quella più insistente, gli diceva che dovevano
essere
tutti dei bari che non vedevano l'ora di spennare un pollo. E
lì, l'unico pollo
presente era lui.
All'una meno dieci le sedie erano già state tutte sistemate
sui
tavoli: la chiusura era prossima e dentro era rimasto solo Kanon,
sempre al suo posto, mai un momento di pausa per andare in bagno.
Jamie rientrò dalla cucina con lo scopettone in mano e
quando lo
vide, ancora abbarbicato sullo sgabello, ma senza giacca e con la
cravatta ben lenta come se si fosse messo a suo agio, alzò
gli
occhi al cielo. Se per tutta la serata lo aveva guardato con interesse,
ora sperava solo che si decidesse a sloggiare in fretta,
così da
finire di pulire e chiudere: anche per lui era la notte della Vigilia e
non vedeva l'ora di tornarsene a casa.
«Ah, ecco dove ti eri cacciato! Dammene un altro»,
disse Kanon, agitando il bicchiere in aria.
«Mi dispiace, ma sto chiudendo. Se vuoi continuare a bere,
devi trovarti un altro posto.»
Non era certo la risposta che sperava di avere, ma Kanon dovette
ammettere che ormai si era fatto piuttosto tardi. A generare
però il suo malcontento non era tanto essersi visto negare
l'ultimo bicchiere, quando che il suo passaggio ancora non era
arrivato. Con il broncio sulle labbra, prese il portafoglio dalla tasca
interna della giacca che aveva steso sullo sgabello vicino e
tirò fuori la carta platino, che allungò a Jamie
per
pagare il conto.
Il giovane la guardò come si guarda una reliquia sacra o un
tesoro di immenso valore. Quasi gli tremavano le mani mentre la
strisciava nel lettore. Non gli era mai capitato di vederne una,
neanche credeva che esistessero carte di credito come quelle.
Quando la restituì, la porta del locale si aprì
con un breve scampanellio.
«Stiamo chiudendo», disse subito Jamie, sperando
che il nuovo arrivato non fosse un altro a cui piaceva accamparsi.
«Ehi, dai amico, dagli una birra», disse Kanon,
rompendo la quiete del pub.
«Lascia perdere», intervenne subito Aiolos. Si
sfilò
i guanti di montone e si appoggiò con il gomito al bancone,
l'espressione corrucciata di chi non aveva alcuna voglia di stare
lì. «Hai cambiato ufficio?»
Kanon sorrise alla battuta, ma non replicò come suo solito;
gli
bastò lo sguardo scocciato dell'altro per capire che non era
il
caso. «Ne ho approfittato per portarmi avanti,
così quello
scorbutico del gran capo non avrà nulla da ridire.»
«Quello
avrà lo
stesso qualcosa da ridire», ribeccò Aiolos,
sedendosi
sullo sgabello. Al solo pensare a lui, l'espressione sul suo viso era
mutata con una rapidità impressionante. Ora sì
che aveva
bisogno di qualcosa di molto forte da bere. Dopo tanti anni ancora gli
bruciava; soprattutto perché da quando era riapparso nella
vita
di Caroline, aveva la sensazione di essere un abusivo in quella specie
di famiglia che avevano formato lui e la donna e suo figlio.
A Jamie quasi caddero le braccia. I suoi timori si stavano rivelando
esatti e se non faceva subito qualcosa, non li avrebbe più
schiodati da lì. Allora, mise un bicchierino di vodka
davanti al
nuovo arrivato. «Offre la casa, ma poi sloggiate
entrambi.»
*****
Caroline si mosse inquieta sotto il piumone. Se lo sentiva pesante
addosso. Per quanto il dottore le avesse detto di stare al caldo, per
lei era troppo. Da un mese ormai dormiva in quella casa e ancora non ci
si era abituata. Rimpiangeva il suo loft, la sua coperta elettrica, il
riscaldamento automatizzato sempre a 68 gradi fahrenheit* e il comfort
tecnologico che aveva fatto mettere per rendere la sua abitazione quasi
del tutto autonoma. La casa sul lago invece, per quanto avesse le
pareti spesse, era fredda, soprattutto di notte.
Tossì, rannicchiandosi sul fianco. Era sudata e il pigiama
le si
era appiccicato addosso. Aprì gli occhi e fissò
il
bicchiere d'acqua sul comodino. Lì accanto c'era la scatola
dei
kleenex e poco più indistro la bottiglietta dello sciroppo.
Aveva un disperato bisogno di un sorso di sciroppo per dare sollievo
alla gola, ma il solo pensiero di mettere fuori la testa dal piumone e
di allungare il braccio per prendere la bottiglietta la faceva
rabbrividire.
Come aveva potuto ammalarsi proprio qualche giorno prima di Natale?
Tossì ancora, tanto, in modo violento, così forte
che le
sembrò di sputare fuori i polmoni. Si rigirò
sull'altro
fianco e provò a respirare. Il fiato che le uscì
dalla
bocca screpolata in un rantolo era bollente.
Affondò la testa in quella nuvola di piume che era il
cuscino.
Stava male, eppure voleva alzarsi da quel letto. Aveva freddo, eppure
sotto quella trappola si sentiva soffocare. Aveva sonno, eppure non
riusciva a dormire.
«Ma come ho fatto a ridurmi così?»
mormorò
con una voce che arrivava dall'oltretomba. Tossì. Le girava
la
testa. «Non ne posso più.»
E pensare che quando erano arrivati a villa, per festeggiare il
Thanksgiving Day
con il capofamiglia Hayes, stavano tutti bene! Poi,
alla fine della serata, Shion aveva accusato i primi sintomi
dell'influenza, che il mattino dopo erano virati in febbre alta e una
gran tosse.
Era stata proprio lei a insistere con Saga per rimanere lì
tutti
e tre almeno fino alla domenica sera, per prendersi cura dell'uomo. Per
Anthony non sarebbe stato un problema saltare qualche giorno di scuola,
tanto più che nella sua classe c'erano stati un paio di casi
di
varicella; ma forse avrebbe dovuto immaginare che già covava
qualcosa. E infatti, quella domenica mattina Anthony si era svegliato
con il viso e le braccia piene di pustole. E poi erano arrivati la
febbre e i sudori.
Così, quella che doveva essere una permanenza di qualche
giorno
per seguire la salute nonno Shion, era diventata la degenza anche di
Anthony e poi aveva seguito la sua lunga convalescenza, che era
terminata con l'inizio dell'influenza per lei. A quel punto era stato
necessario chiamare dei rinforzi. E così, sua madre, suo
fratello Micheal che era tornato solo un paio di giorni prima
dall'Italia e la sua sorellina Sofia – un piccolo miracolo
vivente, arrivata in modo inaspettato quando Teresa aveva
già
quarantotto anni – l'avevano raggiunta a villa Hayes con una
settimana di anticipo.
Di certo, a raccontarlo in giro c'era da farne una barzelletta. Un po'
meno divertente era stato vivere quello strazio per un lungo mese.
La maniglia della porta si abbassò con un lieve cigolio e
una
lama di luce tenue che arrivava dal corridoio tagliò
l'oscurità della camera. La testa biondo scuro tinta di
fresco
della donna fece capolino nella stanza. Rimase lì qualche
secondo, prima di entrare. Era passato tanto, tanto tempo dall'ultima
volta che si era presa cura in quel modo della sua bambina.
Teresa entrò facendo attenzione a dove metteva i piedi e si
sedette sul bordo del letto. Osservava Caroline muoversi sotto il
piumone, girarsi verso di lei e aprire gli occhi. «Come ti
senti?»
Caroline tossì ancora. «Mi sembra un po'
esagerata, per una semplice influenza.»
«A meno che tu non voglia dare il via a un'epidemia nella
famiglia, resisti ancora qualche giorno», rispose la donna
con
voce dolce, accarezzandole la fronte sudata.
«Non volevo rovinarti il Natale... e pensare che è
il primo che passiamo tutti insieme.»
«Non ci pensare. Non è colpa tua se ti sei
ammalata... per ultima», concluse Teresa trattenendo una
risatina.
Per diversi giorni, quella casa si era trasformata in una specie di
lazzaretto, anche se ora la situazione era migliorata parecchio. Ma la
donna non era certo entrata nella camera da letto della figlia per
farla sentire in colpa. La sentì sbuffare e poi tossire in
modo
insistente, fino a trattenere un conato di vomito. Quella non le
sembrava una semplice tosse, ma qualcosa di più serio. Per
fortuna di Caroline, almeno di febbre non ne aveva avuta in quei
giorni. Si allungò verso il comodino, prese lo sciroppo e
gliene
diede un cucchiaio colmo.
«Ora prova a dormire», le disse, salutandola con un
bacio sulla fronte.
Si fermò nel corridoio e si concesse un lungo sospiro. In
quel
momento di pausa, e di silenzio, iniziava a comprendere un po' meglio
quella famiglia e la freddezza quella enorme casa. Voltò la
testa alla sua destra, lì c'era la camera di Shion Hayes, la
porta contro la quale era appoggiata era stata di Saga – che
ora
condivideva con Caroline – a sinistra c'era quella che era di
Kanon. Più avanti c'era un'altra camera, mentre proprio
difronte
c'era quella che in passato era stata di Aiolos e che ora era occupata
dal piccolo Anthony. A lei e alla sua famiglia era stata offerta una
suite al country club, ma Teresa aveva preferito rimanere nella
proprietà per stare vicino alla figlia e allora Shura le
aveva
ceduto la dependance, che aveva tre camere da letto e assicurava una
maggiore privacy.
Scrollò la testa nel ripensare a come si era comportato
quell'uomo. Shura mostrava sempre un certo disagio davanti a lei e si
prodigava più del dovuto arrivando quasi a mettersi in
ridicolo.
Le prime volte ne era stata lusingata da quel modo di fare, ma con il
passare dei giorni era diventato fastidioso, perché
così
facendo metteva a disagio anche lei. Era ben conscia di cosa lo
spingeva a comportarsi così, ma non poteva alleviare la sua
pena: per quanto lui non avesse avuto un ruolo diretto nella morte del
padre di Caroline, aveva avuto dei legami con i responsabili e non
aveva mai detto niente. Per questo non lo avrebbe mai perdonato, per
quanto comunque riusciva a tollerarne la presenza.
Aprì la porta della camera di Anthony e vi si
affacciò:
il bambino dormiva pacifico, con il respiro lieve. Gli
accarezzò
la guancia e poi la fronte fresca; ormai da quasi dieci giorni non
aveva più alcun sintomo e ora era libero di tornare a
giocare e
a scatenarsi, giusto in tempo per Natale.
Scese le scale di servizio ed entrò in cucina. Come ogni
sera,
nonostante le proteste della domestica, aveva dato una mano a lasciarla
in perfetto ordine, ma quella sera in particolare si sentiva un poco
inquieta e quando accadeva, non poteva fare a meno di tenersi occupata
pulendo. Allora, prese dal sottolavello il pacchetto di salviette
igienizzanti e una dopo l'altra le usò sul piano di lavoro,
sullo sportello del microonde, su quello del forno, sulle ante del
grande frigorifero, sui pensili alti e sui mobiletti bassi.
Pulì
a uno a uno i barattoli delle spezie e poi passò alle due
biscottiere, che proprio quella mattina aveva riempito di omini di pan
di zenzero e di stelle di frolla al limone, i preferiti di Caroline.
Ci impiegò una buona mezz'ora a calmare l'inquietudine, ma
era
cosciente che ciò non bastava, perché era un
stato che
veniva da lontano e si ripeteva a ogni Natale, a volte era
più
forte, a volte più lieve. Appallottolò la
salvietta
sporca e la gettò nella pattumiera. Poi, ne prese una nuova
dal
pacchetto.
«Signora Miller, cosa sta facendo?»
Teresa sussultò nel sentire una voce alle sue spalle rompere
la
tranquillità della casa. «Saga! Mi hai fatto
prendere un
colpo», disse portandosi una mano al cuore e prendendo un bel
respiro.
Saga diede una lunga occhiata alla cucina, lustra e pulita e che
emanava un lieve aroma di citronella. «È molto
tardi per
fare le pulizie e poi, lei è un'ospite.»
«Credevo di far parte della famiglia, ma vedo che tuttora non
riesci a chiamarmi mamma e mi dai sempre del
“lei”»,
rispose la donna con un sospiro.
L'uomo avrebbe voluto risponderle che per quanto lei insistesse e per
quanto lui ne sarebbe stato onorato, non aveva il diritto di
considerarla una madre; non quando il rapporto con Caroline era ancora
da formalizzare, sebbene i documenti del divorzio che le diede diversi
anni prima non erano mai stati completati e registrati. Ma forse il
vero problema era lui e come si sentiva da quando si era affacciata
quella nuova personalità, più dura e cinica.
Teresa intuì il disagio del genero e cambiò
argomento.
«Come mai ancora in piedi? Sono quasi le due di
notte»
disse, spostandosi verso il bollitore elettrico. Lo riempì e
abbassò l'interruttore per scaldare l'acqua. «Ti
va
qualcosa di caldo?» Prese due tazze e due bustine di tisana
al
cacao e le appoggiò sul piano dell'isola. In
verità non
era stupita di vederlo ancora vestito di tutto punto; del resto, dopo
cena si era barricato nello studio e non ne era più uscito,
almeno fino a ora.
Si soffermò a guardare Saga e dopo tanto tempo
tornò a
pensare a Gregory e alle serate passate a parlare del caso dei gemelli
scomparsi. Ora, davanti a lei c'era proprio uno di quei bambini. Quanti
anni erano passati... una vita intera.
Lo stava ancora fissando quando lui se ne accorse. «Qualcosa
non va?»
«Scusami, non volevo essere indiscreta. È solo
che...» Teresa scrollò la testa e gli sorrise.
«Non
è nulla.» Non era certo il momento più
opportuno
per rivangare certe cose e caricare un innocente di colpe non sue.
Il suono familiare delle fusa di Kitty anticipò il suo salto
atletico sul piano dell'isola. La gatta, che ormai andava verso gli
undici anni, si accostò al braccio di Saga e
iniziò a
strusciarglisi addosso. Poi, si sdraiò sul fianco e con la
testa
andò a cercare la mano dell'uomo.
Teresa vide qualcosa di inaspettato: invece di scansare la gatta, Saga
le sorrise e si lasciò leccare il dorso della mano. Per un
istante credette addirittura che le stesse parlando.
«Si fa festa senza invitarmi?» intervenì
Caroline,
tirando su col naso. Il viso era arrossato e sudato, ma per tutto il
tragitto dalla camera da letto alla cucina non aveva tossito neanche
una volta. Era un buon segno.
«Tesoro, non avresti dovuto alzarti, così
prenderai
freddo», disse Teresa, precipitandosi da lei. Per quanto
ormai
adulta, Caroline rimaneva la sua bambina e non poteva esimersi dal
preoccuparsi per lei.
«Sto bene, mamma, sto bene. Non trattarmi come una
moribonda», disse lei, tra un colpo di tosse e l'altro. Una
volta
calmata, si portò di nuovo una mano alla bocca per
nascondere un
lieve attacco di nausea.
Saga si alzò e l'aiutò a sedersi al suo posto.
«Come va?» le chiese in un sussurro. Caroline
annuì,
ma si accasciò contro il suo petto, ancora con la mano alla
bocca. «Vuoi una tisana allo zenzero, o preferisci il
tè
verde?»
«Il tè, per favore.»
«Ci penso io», intevenì Teresa.
Quando tutti infine avevano davanti a sé una tazza fumante,
l'atmosfera si era fatta più distesa, ma qualcosa ancora
aleggiava tra loro, come un segreto che voleva essere svelato. Teresa
osservò sua figlia mentre stuzzicava Kitty, sembrava stare
molto
meglio rispetto a quando l'aveva vista di sopra eppure, il pallore
dietro alla gote arrossate e la necessità di calmare i
problemi
di stomaco non la facevano stare tranquilla.
«C'è qualcosa che dovrei sapere?»
Saga sussurrò qualcosa a Caroline e lei annuì.
Poi, si
rivolse alla donna: «Volevamo aspettare ancora un po', prima
di
dirlo a tutti.»
«Quello che vuole dire», intervenne Caroline,
pensando che
fosse suo compito dirlo «è che dopo le ultime
delusioni,
non vogliamo illuderci, ma...»
Teresa rimase a bocca aperta. Ci mise alcuni secondi a capire come
dovevano essere le cose e perché non se ne fosse accorta
subito:
i sintomi influenzali avevano mascherato le classiche nausee della
gravidanza. Comprendeva la riluttanza di lei a parlarne troppo presto e
a illudersi, perché aveva visto quanto avesse sofferto in
seguito agli aborti spontanei. Adesso che tutto era chiaro, non erano
necessarie altre parole. Fece il giro dell'isola della cucina e con le
lacrime agli occhi abbracciò la figlia.
«Di quanto sei?»
«Di quasi sette settimane», rispose Caroline, con
ancora un
poco di riluttanza, ma la vicinanza di Saga, la mano di lui che
stringeva la sua, le davano la forza per credere che questa volta
sarebbe andato tutto bene.
*****
Quando Caroline aprì gli occhi la stanza era già
invasa
da un chiarore lattiginoso. Rabbrividì, rituffando la testa
sotto il piumone. Si girò, cercando il corpo di Saga, ma il
suo
lato era vuoto e il cuscino al tatto era fresco, segno che doveva
essersi alzato da diverso tempo.
Sbuffò. Sperava di poltrire un poco con lui, dopo quanto era
successo la notte prima e la lunga chiacchierata che poi avevano fatto
una volta tornati in camera.
Si fece forza e scostò il piumone. Avvertì
un'improvvisa
ondata di freddo e rabbrividì di nuovo. Quella sferzata
contribuì a svegliarla del tutto. Si stiracchiò
per bene
e si infilò i calzettoni di lana con motivi natalizi che le
aveva regalato Micheal il Natale passato. Si coprì con la
vestaglia di lana grossa lavorata a maglia e si avvicinò
alla
finestra. Fuori era tutto bianco. La neve caduta in quei giorni aveva
superato i cinquanta centimetri nel parco della villa. Con il bordo
della manica pulì una porzione di vetro dalla condensa e
poté ammirare meglio il paesaggio imbiancato e il riverbero
che
lo rendeva persino fiabesco.
Aprì un poco la finestra per respirarne l'aria frizzante e
in
quel momento sentì delle voci provenire dal parco. Riconobbe
le
voci squillanti di Anthony e di Sofia, lui che cercava di riacchiappare
Kitty immersa nella neve e l'altra che inseguiva il suo bastardino che
a sua volta voleva giocare col gatto, e poi c'era quella pacata e
profonda di Shion che raccomandava loro di non farsi male.
Sorrise e respirò a pieni polmoni l'aria pungente di quel
tardo
mattino. Lo fece una, due volte e si sentì libera e
rinfrancata
come non accadeva da giorni. Solo dopo si rese conto che riusciva a
respirare bene, il raffreddore e la tosse che l'avevano tormentata fino
a poche ore prima, sembravano svaniti per magia.
«Un miracolo di Natale», sospirò.
«Il vero miracolo è vedere mio padre divertirsi
assieme ai bambini.»
Caroline sussultò e si voltò verso la porta,
colta di
sorpresa dalla voce di Saga. Lo vide appoggiare il vassoio della
colazione sul letto, ma ciò che la sorprese di
più era
che ancora indossava ancora la vestaglia. Ed erano quasi le undici!
«Ma è bello constatare che stai molto
meglio»,
aggiunse, accarezzandole la guancia e poi stringendola in un caldo
abbraccio.
Assieme si affacciarono alla finestra per guardare lo strambo
spettacolo dei due bambini che affondavano nella neve alta provando a
prendere i due animali, mentre Shion partecipava al gioco indicando con
il bastone la direzione dove stavano correndo i piccoli fuggitivi.
«Quando si diventa nonni ci si trasforma, non
trovi?» disse
Caroline, alzando lo sguardo su di lui. Vide però che Saga
sembrava triste tutto d'un colpo. «Cosa c'è che
non
va?»
«Stavo pensando a Nanny. Tutta questa neve, il baccano dei
bambini, tanta gente per casa... ne sarebbe stata
entusiasta.»
Sospirò e per un momento rimase in silenzio. Da quando era
venuta a mancare Nanny, la casa era diventata meno accogliente e lui,
che ormai ci veniva di rado, ci stava ancora meno volentieri.
«Questo è il primo Natale senza di lei.»
Caroline sospirò. Non aveva avuto modo di conoscere bene la
donna, ma sapeva che aveva svolto un ruolo molto importante per tutti
loro e per questo non voleva guastare l'umore di Saga dicendo qualche
ovvietà tipo “lei è sempre con
voi”, oppure
“voi tutti, mantenendo la tradizione, avete raccolto la sua
eredità e il suo spirito”. Allora,
preferì rimanere
in silenzio e godersi quel prezioso momento intimo nell'abbraccio
dell'uomo che amava.
«Oh! Oh! Oh! Buon Natale! Oh! Oh! Oh!»
La voce camuffata di Kanon risuonò nell'atrio vestito a
festa
della villa. Attese qualche secondo, carico di pacchetti e buste di
carta, ma non sentì rumori, né voci che animavano
la casa.
«Nessuno viene ad accogliere Babbo Natale?»
Aspettò
ancora, ma non successe nulla. «Ehi! Ma non c'è
nessuno in
casa?»
Dalla porta d'ingresso che aveva lasciato aperta arrivarono il rumore
della portiera sbattuta da Aiolos e gli schiamazzi dei bambini. Kanon
sorrise. Appoggiò il suo carico di regali ai piedi del
grande
albero addobbato e tornò fuori. Si incamminò
lungo il
sentiero che costeggiava la casa, che era stato risparmiato dai cumuli
di neve e si fermò nel porticato. Rimase a guardare i
bambini
che si tiravano le palle di neve, mentre Kitty saltava sul parapetto
tra i vasetti di erica e di ciclamini e, con incredibile equilibrio
iniziava a grattarsi un orecchio, mentre un buffo cagnolino
scodinzolava in adorazione sotto di lei.
Kanon non era mai andato d'accordo con gli animali, soprattutto i
gatti, e il sentimento era reciproco; infatti, non appena Kitty si
accorse di lui, gli soffiò e corse dentro casa attraverso la
portafinestra lasciata un poco aperta.
«Zio Kanon! Sei arrivato!» urlò Anthony,
distraendosi e beccandosi una palla di neve dietro la schiena da Sofia.
«Ehi, campione! Avevi forse dubbi!» rispose Kanon.
Lo vide
correre verso di lui e lanciaglisi addosso. «Ma quanto sei
diventato grande in pochi mesi», disse, rimettendolo
giù.
«Anthony! Giochiamo ancora un po'!» lo
richiamò Sofia, mettendo il broncio.
«Chi è la tua amichetta?»
Anthony rise imbarazzato. «Non è un'amichetta.
È
Sofia!» Si girò e fece cenno alla bambina di
avvicinarsi.
Poi, la presentò come si conveniva. «Lei
è Sofia
Burton, mia zia!» disse, con un sorriso a tutta bocca nel
vedere
lo sguardo stralunato dell'uomo.
«Oh, ma dai! Non prendermi per il naso!»
protestò Kanon.
«Ma è vero!» confermò la
bambina. «La mia mamma è anche la nonna di
Anthony!»
Dietro le spalle di Kanon arrivò uno sbuffo inconfondibile.
«Zio Aiolos!» gridarono a una sola voce i due
bambini;
trotterellarono verso il nuovo arrivato che li accompagnò
dentro
casa, brontolando per come si erano conciati.
Kanon si sentì scaraventato in un universo parallelo.
«Mi sembri un po' spaesato», disse Shion,
arrivandogli alle
spalle. Spazzò via la neve dalle spalle del cappotto e si
pulì le suole degli scarponi sullo zerbino di gomma. Si
tolse i
guanti in montone e gli diede una pacca sulla spalla, incoraggiandolo a
entrare in casa dalla portafinestra della cucina.
«Cos'è questa storia della “zia
Sofia”?»
«Splendida bambina, non trovi? È la figlia di
Teresa.
È nata un paio di mesi prima di Anthony»,
spiegò
Shion.
«Burton... Burton», mormorò Kanon. Quel
nome gli
sembrava di averlo già sentito, ma non ricordava in quale
occasione.
«Il padre è il Capitano Burton, poliziotto in
pensione», svelò l'arcano Shion.
«Ma chi, il patrigno di Caroline?» Di fronte a
quella
verità, l'espressione di Kanon si fece ancora più
incredula. Incrociò le braccia al petto e
aggrottò la
fronte, in profonda riflessione. Poi, dopo qualche momento,
scrollò la testa, segno che nonostante tutto non riusciva a
crederci.
«Non sapevo avesse un'altra figlia. Beh, in realtà
non
conosco neanche Micheal, a parte una stretta mano... mmh, quando
è stato?» rifletté a voce alta.
«Evidentemente non c'è mai stata l'occasione
giusta. So
che il ragazzo sta frequentando l'università in Italia ed
è tornato da poco per le vacanze di Natale. È
simpatico e
con Aiolos va molto d'accordo. Comunque, oggi siamo tutti riuniti e
avrai modo di conoscerli come si deve.» Shion gli mise una
mano
sulla spalla e insieme entrarono in casa.
La cucina era invasa dai profumi più deliziosi: arrosto con
patate, lasagne al ragù e lasagne ai carciofi,
patè al
tonno, al salmone e al prosciutto, arance e mandarini nel portafrutta
mandavano in estasi e poi, a riposare in disparte sotto lo sguardo
vigile di tre paia d'occhi, c'era una ciambella red velvet glassata al
cioccolato bianco e decorata con fiori e foglie di marzapane e perline
d'oro di zucchero. Il lieve sospirare che arrivava dai piccoli
guardiani e da Aiolos era uno spasso.
«Bambini, Aiolos, per favore, potete iniziare ad
apparecchiare la
tavola?» disse Teresa, entrando in cucina dalla sala da
pranzo
con in mano il centrotavola di fiori che aveva appena tolto dal tavolo.
Per il pranzo di Natale lo avrebbe sostituito con una composizione di
agrumi, frutta secca e spezie.
«Sì, Aiolos, vai a preparare la tavola»,
ripeté Kanon in un sogghigno, poiché quello era
sempre
stato il compito che Nanny affidava sempre loro fin da quando erano
ragazzi. E di solito voleva dire: smammate dalla cucina, bambini.
«Kanon! Mi era parso di sentire la tua voce, quasi non ci
speravo più di vederti», lo salutò
Teresa.
«Mamma Miller, potevo forse mancare al tuo pranzo di
Natale?» disse lui, accettando l'abbraccio della donna e il
bacio
sulla guancia. Gli piacevano da impazzire quei modi espansivi,
soprattutto se venivano da belle donne.
«Non ti preoccupare, ho un compito anche per te!
Vieni» Lo
fece sedere su uno degli sgabelli dell'isola e gli mise davanti un
tagliere con dei gambi di broccoli e un pelapatate in mano.
«Bravo, Kanon, pela i broccoli», mormorò
Aiolos,
riempiendosi poi la bocca con un pezzeto di focaccia all'aglio e
rosmarino per nascondere un sorrisetto maligno.
Mancava ancora un'ora al grande pranzo di Natale e tutto era
già
pronto e organizzato alla perfezione. Non si sentiva la mancanza della
cuoca che veniva tre volte a settimane e della domestica fissa che per
quei giorni erano state congedate e lasciate libere di passare le feste
con le proprie famiglie, con una generosa gratifica. Teresa,
benché non conoscesse le abitudini della casa, era riuscita
a
portare i suoi ritmi e le sue tradizioni senza stravolgere troppo gli
occupanti della casa.
La donna era intenta a risciacquare i flute per lo spumante che aveva
portato, quando con la coda dell'occhio notò una strana
tensione
arrivare da Kanon. Lì per lì non gli diede peso,
ma
l'insistenza dei modi furtivi dell'uomo iniziarono a distrarla, con il
rischio di combinare qualche guaio.
«C'è qualcosa che non va?»
Lo vide affrettarsi a deviare lo sguardo. Sembrava in imbarazzo, come
se morisse dalla voglia di chiederle qualcosa ma non ne avesse il
coraggio. Poi, lo vide sporgersi e guardare i bambini che si
divertivano a fare il giro del grande tavolo ovale mettendo a turno le
posate, il tovagliolo, il sottopiatto rosso fatto a mano all'uncinetto,
il segnaposto di agrifoglio e cristalli; e infine, dietro, con
movimenti accurati, passava Aiolos a sistemare i piatti bordati d'oro e
i bicchieri.
Lo vide scrollare la testa e tornare a guardarla, ma subito abbassare
gli occhi sui gambi di broccolo. Adesso sì che iniziava a
preoccuparsi. Fece il giro dell'isola e posò la mano sulla
sua
che stringeva il pelapatate. «Ti senti bene? Puoi confidarti
con
me, se vuoi.»
Kanon alzò la testa e arrossì.
«Cos'hai combinato questa volta?»
La voce di Saga spezzò quello stato di disagio che per Kanon
era
una tortura. «Ehi, fratellino, ti credevo in
ufficio!»
«Hai smaltito la sbornia di ieri sera o sei ancora
ubriaco?» ribatté Saga, scoccandogli un'occhiata
gelida.
Entrò in cucina e appoggiò il vassoio della
colazione
vicino al lavello.
Teresa notò come Kanon ci fosse rimasto male alle parole e
all'atteggiamento del fratello, voleva provare a mediare quello che
sembrava un rapporto difficile tra i due, ma l'uomo
l'anticipò.
Si alzò pulendosi le mani in un canovaccio e
seguì
l'altro fuori dalla cucina.
Mentre si allontanava lo sentì dire che aveva portato un
regalo
speciale e la voce di Saga ribattere qualcosa per tagliare il discorso.
Si intristì: ai suoi occhi, era come se Kanon stesse
rincorrendo
il gemello per avere un poco della sua attenzione, ma Saga gliela
negava; o se gliela concedeva, lo trattava con sufficienza.
Scrollò la testa e pulì i gambi dei broccoli per
la
vellutata per la cena: dopo i bagordi del pranzo, di certo sarebbe
stato necessario qualcosa di più leggero.
La cucina era tornata tranquilla, forse troppo. Anche in sala da pranzo
c'era troppa calma. I bambini dovevano aver finito di sistemare la
tavola, ma Teresa si aspettava che sarebbero tornati a girare intorno
ai piatti di portata pieni di stuzzichini e antipasti. Con la
preoccupazione che agiva come un tarlo nella sua mente, si
affacciò nella sala da pranzo, ma era deserta, allora
provò ad affacciarsi alla scala di servizio e
sospirò di
sollievo nel sentire i due birbanti correre su e giù per il
corridoio del piano superiore. Il loro scalpiccio era rinfrancante.
Diede una bella occhiata alla cucina per vedere se avesse dimenticato
qualcosa. Poi, guardò l'orologio e calcolò che
era il
momento di accendere il secondo forno e mettere a scaldare le teglie
delle lasagne.
*****
«Perché non ti rilassi un po'? Da quanto non ti
prendi
qualche giorno di vacanza?» disse Kanon, chiudendosi la
doppia
porta della biblioteca alle spalle. Difronte a lui, Saga se ne stava
appoggiato alla scrivania antica che un tempo usava Shion quando
lavorava a casa, in mano teneva l'iPad e con l'altra mano sfogliava i
report che lui aveva scritto la sera prima nel pub.
«Da chi te li sei fatti scrivere?»
«Perché, sono buoni?» ribatté
con il suo
solito modo sfrontato. Vedendo che il fratello non raccoglieva la
provocazione, decise per una risposta più seria e sincera.
«Ho imparato studiando quelli che mi scrivevi tu in
passato.»
Lo osservava leggere, l'espressione concentrata sul volto. Ormai da
tempo rimpiangeva il fratello debole e un po' frignone che era stato in
passato, ma che sapeva ridere e si accontentava delle piccole cose;
quello stesso fratello che lui si sentiva in dovere di aver cura.
Ora, cos'era diventato?
La copia sputata del padre, che pensava solo al lavoro.
Sperava ci fosse ancora speranza per lui, perché Shion,
nonostante avesse dei figli, non aveva mai avuto tempo per loro; ma
Saga aveva accanto a sé una donna che lo amava e un figlio
intelligente ed educato che non doveva crescere con un padre che
pensava sempre e solo al lavoro.
A grandi passi raggiunse il fratello e gli strappò dalle
mani
l'iPad. «Accidenti, è Natale! Non ce la fai
proprio a
lasciar perdere il lavoro almeno per oggi?»
Al contrario di quel che si aspettava, Saga sospirò. Era una
piccola vittoria che lo faceva ben sperare, ma poi, la reazione dimessa
del fratello gli fece scattare un campanello d'allarme: proprio come
quando erano più giovani.
«C'è qualcosa che ti preoccupa, vero? Sai che con
me puoi parlare di tutto.»
«Credevo di avere tutto sotto controllo», disse
Saga,
abbassando lo sguardo sul tappeto antico. «Lo sai come sono
fatto, non mi piacciono i cambiamenti troppo radicali.»
«Hai intenzione di cambiare lavoro?» rise Kanon,
per spezzare l'atmosfera tetra che si era creata.
Saga mise una mano nella tasca del cardigan di lana pesate ed estrasse
una scatolina quadrata di velluto blu. «La mia situazione con
Caroline si è complicata. Tu sai che viviamo separati, no?
Però, al tempo stesso stiamo assieme. Lei ha detto che non
vuole far vivere Anthony nell'attico e io non posso vivere nel suo loft
vicino al porto.» Fece una pausa, massaggiandosi la fronte
con la punta delle dita.
«Cosa stai cercando di dire?» lo
anticipò il fratello.
Saga strinse la scatolina nella mano, non era certo di voler
condividere con lui ciò che voleva fare, o forse era solo il
timore che Kanon lo avrebbe messo in imbarazzo davanti a tutti. Ma non
dimenticava tutti gli anni che suo fratello aveva passato a
preoccuparsi per lui, che lo aveva tenuto al sicuro dal mondo esterno,
che lo aveva sostenuto e difeso davanti a suo padre...
«Saga, non avrai mica intenzione di lasciarla...»
«Non fare l'idiota!» sbottò Saga. Prese
un bel respiro e riprese a parlare con tono pacato e un poco
impersonale. «Nei primi anni di vita di Anthony io non sono
stato presente. Lei non mi aveva detto nulla. Ti confesso che non
sapevo come comportarmi.»
«Credo sia normale, eravate estranei l'uno
all'altro», concordò Kanon, che si era fatto molto
attento al discorso.
«Con il tempo le cose sono migliorate, ma vivere separati ha
reso tutto più difficile. E ora si sta ripresentando la
stessa situazione.»
«Che vuoi dire?»
«Caroline aspetta un bambino.»
Sulle labbra di Kanon si formò un sorrisone e a stento
riuscì a contenere la gioia per quella notizia. Lo
abbracciò di slancio e in quel gesto vi infuse tutto
l'affetto che non aveva potuto dimostrargli in quegli ultimi anni,
perché Saga lo aveva tenuto a distanza.
Saga lo lasciò fare, perché a lui era mancata la
vicinanza con il fratello. Quando Kanon lo liberò da quella
morsa, gli mostrò la scatolina e lasciò che
traesse le sue conclusioni.
«Hai sempre avuto dei gusti decisamente più
semplici rispetto a me, ma indubbiamente di gran classe»,
disse, restituendogliela. «Quindi, questa volta farai le cose
come da tradizione?»
Un cortese bussare risparmiò a Saga l'imbarazzo di una
risposta. La porta si aprì e fece capolino la testa
Caroline. «Il pranzo è pronto, stiamo aspettando
solo voi due.»
note:
68° fahrenheit corrisponde ai nostri 20°C.
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