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Autore: titania76    05/01/2024    0 recensioni
Questa raccolta è un insieme di frammenti tratti dalla long "Legacy" o ispirati a essa, di cui è necessaria la previa lettura per comprenderne al meglio situazioni e personaggi.
I primi 15 capitoli della raccolta hanno partecipato alla Challenge "Sette giorni e tanti prompt!" indetta dal forum Torre di Carta.
All'epoca della pubblicazione – e della partecipazione alla prima challenge – la serializzazione di Legacy non era ancora completata. Oggi, la long principale è conclusa da tempo, quindi potrà capitare di trovare qualche piccola incongruenza.
I successivi capitoli/prompt fanno parte della challenge “Le mani” indetta dal gruppo fb Il giardino di EFP
Il capitolo 20 partecipa alla challenge "Bacio" indetta dal gruppo fb Il giardino di EFP
Altri capitoli invece saranno solo frutto dell'ispirazione.
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aries Shion, Gemini Kanon, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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Questa storia si svolge due o forse tre anni dopo ciò che viene raccontanto nella flashfic del capitolo precedente. Non ha un prompt specifico perché avevo iniziato a scriverla ispirata dal momento un paio di anni fa e poi non più portata a termine. Quest'anno ce l'ho fatta! O quasi...
In realtà, nei miei programmi doveva essere pubblicata per Natale, ma una brutta influenza (un po' come la protagonista) mi ha tolto le forze e la lucidità per rispettare la scadenza che mi ero data. Speravo passasse presto, ma continua ad andare e venire, tanto che non sono riuscita a terminarla neppure per l'ultimo dell'anno. Quindi, vede la luce direttamente nel 2024.
Naturalmente, essendo ambientata nel 2020, nel mondo reale eravamo in pieno Covid19. In questa mia storia ho preferito non tenerne conto, perché non mi sembrava il caso di rivangare quel brutto periodo in una storia di fantasia.

Anche se con qualche giorno di ritardo, ne approfitto per augurare a tutti voi lettori un felice anno nuovo!


***




Natale 2020
Quello sarebbe stato di certo un Natale da dimenticare per i tifosi dei Celtics a causa della pessima partita a cui stavano assistendo: era una batosta come non se n'era mai visto prima e non sarebbe bastato un miracolo per raddrizzare il risultato. Cancellata la strepitosa striscia positiva, i giocatori sembravano essersi ridotti a dilettanti davanti a una squadra di liceali. All'ennesimo canestro da tre punti nel pub si alzò un ruggito di dolore dalle gole di alcuni dei pochi avventori che quella sera erano appollaiati agli sgabelli al bancone. Perlopiù erano vecchietti dalla marcata origine irlandese, con la coppola in lana, maglioni a collo alto, sopracciglia cespugliose sul viso cadente e una stout alla spina stretta in mano.
«Jamie, cambia questo schifo!» imprecò un tipo con voce roca, che sedeva solitario a un tavolino in disparte. Ingollò in un unico sorso quasi tutta la guinness nel suo boccale personalizzato e, dopo un sospiro soddisfatto, passò il dito rugoso ad asciugare i baffi dalla schiuma.
Jamie prese il telecomando da sotto il bancone e cambiò su un canale che trasmetteva delle vecchie partite di calcio degli Europei del 2012. Scoppio un'altra ondata di proteste e questa volta volarono anche delle noccioline in direzione del televisore, colpevole di far vedere proprio il momento del gol subito dall'Irlanda. Da dietro il bancone, il giovane alzò gli occhi esasperato, maledicendo il padrone del pub per avergli dato il turno quella sera.
«Lascia perdere, amico, e dammene un altro», disse una voce in fondo al bancone, alzando il bicchiere vuoto.
Era curvò sul bancone, con una mano reggeva il mento e con l'altra faceva scrolling sullo schermo dell'ipad, intento a leggere le ultime news sul mondo della finanza. Di tanto in tanto sbadigliava, segno che forse era arrivato il momento di tornarsene a casa, ma lui certi segnali li ignorava.
Dall'aspetto sembrava ancora piuttosto giovane, nonostante si avvicinasse ormai ai quarant'anni. Molti dei suoi coetanei erano stempiati e già con i capelli ingrigiti, la schiena curva da impiegato statale, la pancetta da bevitore e rughe marcate attorno agli occhi, dietro delle montature spesse e dozzinali; ma lui era diverso. Forse dipendeva dai suoi folti capelli biondi che nascondevano bene i primi fili d'argento sulle tempie, o forse, il jogging e la palestra tre volte a settimana avevano su di lui un effetto miracoloso, nonostante i ritmi stressanti della sua vita. O forse ancora, era il risultato di una dieta sana ed equilibrata. L'unico vizio che aveva mantenuto era quello del bere. C'erano volte, sempre più spesso a dire il vero, che dopo il lavoro entrava in un pub – o nel bar di un albergo, se andava fuori città – e ci rimaneva fino alla chiusura. Negli anni aveva imparato a reggere sempre meglio l'alcol e alla sbronza allegra che lo aveva caratterizzato da giovane si era sostituito un maturo autocontrollo.
Avvicinò il bicchiere alle labbra e ne prese un sorso: il ghiaccio tintinnò quando appoggiò di nuovo il drink al bancone.
«A quanti siamo arrivati?» attaccò bottone Jamie, con una confidenza rodata da anni d'esperienza dall'aver a che fare con clienti di ogni tipo. Sapeva quindi a chi rivolgere la parola e da chi rimanere alla larga per non ritrovarsi impantanato in un mare di lacrime e rimpianti.
Kanon sorrise, raddrizzandosi. Si allentò un poco la cravatta e prese a digitare sulla mini tastiera del touchscreen. «Non ti preoccupare, lo reggo piuttosto bene. E comnque, mi sono già procurato un passaggio. Vedi?» disse, mostrandogli il messaggio ancora visibile.
Jamie sorrise a sua volta, prese la bottiglia di single malt e glielo fece doppio. Subito alla prima occhiata aveva capito che quell'uomo era un tipo aperto e cordiale se ci si attaccava bottone, ma che non si offendeva se lo lasciavano in pace a farsi gli affari suoi. Poteva anche darsi che lo preferisse.
Kanon si chinò a frugare nello zainetto che teneva a terra accanto al suo sgabello, come quando andava a scuola, ed estrasse un laptop nero brillante. Lo aprì e iniziò a digitare, incurante dell'occhiata curiosa del barista.
«Si lavora anche la sera della Vigilia, eh? Cosa sei, un giornalista, uno scrittore, o un blogger?» disse Jamie, appoggiandosi al bancone e mangiucchiando un'oliva.
«Magari! Nah, niente del genere. Sono un semplice impiegato: schiavizzato, sottovalutato e sottopagato», rispose Kanon, senza staccare lo sguardo dallo schermo; le dita picchiettavano veloci e sicure sulla tastiera extra fine.
Jamie storse le labbra in un'espressione dubbiosa e si mise a lucidare il bancone con un canovaccio: non aveva creduto a una sola parola di quello che gli aveva detto. Lo guardò di sottecchi e scrollò piano la testa: di norma non credeva a nulla di quello che veniva da qualcuno che vestiva abiti da cinquemila dollari e che si beveva da solo quasi duecento dollari di whisky. E non sembrava essere intenzionato a smettere.
Quando alla televisione iniziò l'ultima edizione del notiziario, il pub aveva già ripreso da un pezzo la sua classica atmosfera da bisca clandestina, con volute di fumo grigiastro – in barba alla legge – e il solito trambusto di bicchieri e carte.
Da quando si era messo a lavorare, Kanon non aveva staccato gli occhi dallo schermo, ma più passava il tempo lì dentro, più la curiosità e la tenzione gli rendevano difficile continuare ciò che stava facendo. Sorrise sotto i baffi nel sentire un vecchio imprecare mentre sbatteva sul tavolo le carte e gli altri ridere e rincarare la dose. Pensò che attaccato da qualche parte a una delle pareti doveva esserci la targa del Circolo Sociale Irlandesi d'America.
Pescò una manciata di pistacchi dalla ciotolina che aveva sequestrato e poi bevve un sorso di whisky. Storse la bocca nel rendersi conto che il bicchiere era di nuovo vuoto, alzò lo sguardo per attirare l'attenzione del barman, ma questi gli dava le spalle. Allora, si distrasse a guardare il tavolo del poker e gli parve di ritrovarsi catapultato nel film La Stangata. Adorava quel film. Si morse il labbro, rimuginando se chiudere il laptop e chiedere a quei “bravi” vecchietti se poteva unirsi a loro per una partita, oppure lasciar perdere. La vocina dentro di lui, quella più insistente, gli diceva che dovevano essere tutti dei bari che non vedevano l'ora di spennare un pollo. E lì, l'unico pollo presente era lui.
All'una meno dieci le sedie erano già state tutte sistemate sui tavoli: la chiusura era prossima e dentro era rimasto solo Kanon, sempre al suo posto, mai un momento di pausa per andare in bagno.
Jamie rientrò dalla cucina con lo scopettone in mano e quando lo vide, ancora abbarbicato sullo sgabello, ma senza giacca e con la cravatta ben lenta come se si fosse messo a suo agio, alzò gli occhi al cielo. Se per tutta la serata lo aveva guardato con interesse, ora sperava solo che si decidesse a sloggiare in fretta, così da finire di pulire e chiudere: anche per lui era la notte della Vigilia e non vedeva l'ora di tornarsene a casa.
«Ah, ecco dove ti eri cacciato! Dammene un altro», disse Kanon, agitando il bicchiere in aria.
«Mi dispiace, ma sto chiudendo. Se vuoi continuare a bere, devi trovarti un altro posto.»
Non era certo la risposta che sperava di avere, ma Kanon dovette ammettere che ormai si era fatto piuttosto tardi. A generare però il suo malcontento non era tanto essersi visto negare l'ultimo bicchiere, quando che il suo passaggio ancora non era arrivato. Con il broncio sulle labbra, prese il portafoglio dalla tasca interna della giacca che aveva steso sullo sgabello vicino e tirò fuori la carta platino, che allungò a Jamie per pagare il conto.
Il giovane la guardò come si guarda una reliquia sacra o un tesoro di immenso valore. Quasi gli tremavano le mani mentre la strisciava nel lettore. Non gli era mai capitato di vederne una, neanche credeva che esistessero carte di credito come quelle.
Quando la restituì, la porta del locale si aprì con un breve scampanellio.
«Stiamo chiudendo», disse subito Jamie, sperando che il nuovo arrivato non fosse un altro a cui piaceva accamparsi.
«Ehi, dai amico, dagli una birra», disse Kanon, rompendo la quiete del pub.
«Lascia perdere», intervenne subito Aiolos. Si sfilò i guanti di montone e si appoggiò con il gomito al bancone, l'espressione corrucciata di chi non aveva alcuna voglia di stare lì. «Hai cambiato ufficio?»
Kanon sorrise alla battuta, ma non replicò come suo solito; gli bastò lo sguardo scocciato dell'altro per capire che non era il caso. «Ne ho approfittato per portarmi avanti, così quello scorbutico del gran capo non avrà nulla da ridire.»
«Quello avrà lo stesso qualcosa da ridire», ribeccò Aiolos, sedendosi sullo sgabello. Al solo pensare a lui, l'espressione sul suo viso era mutata con una rapidità impressionante. Ora sì che aveva bisogno di qualcosa di molto forte da bere. Dopo tanti anni ancora gli bruciava; soprattutto perché da quando era riapparso nella vita di Caroline, aveva la sensazione di essere un abusivo in quella specie di famiglia che avevano formato lui e la donna e suo figlio.
A Jamie quasi caddero le braccia. I suoi timori si stavano rivelando esatti e se non faceva subito qualcosa, non li avrebbe più schiodati da lì. Allora, mise un bicchierino di vodka davanti al nuovo arrivato. «Offre la casa, ma poi sloggiate entrambi.»

*****

Caroline si mosse inquieta sotto il piumone. Se lo sentiva pesante addosso. Per quanto il dottore le avesse detto di stare al caldo, per lei era troppo. Da un mese ormai dormiva in quella casa e ancora non ci si era abituata. Rimpiangeva il suo loft, la sua coperta elettrica, il riscaldamento automatizzato sempre a 68 gradi fahrenheit* e il comfort tecnologico che aveva fatto mettere per rendere la sua abitazione quasi del tutto autonoma. La casa sul lago invece, per quanto avesse le pareti spesse, era fredda, soprattutto di notte.
Tossì, rannicchiandosi sul fianco. Era sudata e il pigiama le si era appiccicato addosso. Aprì gli occhi e fissò il bicchiere d'acqua sul comodino. Lì accanto c'era la scatola dei kleenex e poco più indistro la bottiglietta dello sciroppo. Aveva un disperato bisogno di un sorso di sciroppo per dare sollievo alla gola, ma il solo pensiero di mettere fuori la testa dal piumone e di allungare il braccio per prendere la bottiglietta la faceva rabbrividire.
Come aveva potuto ammalarsi proprio qualche giorno prima di Natale?
Tossì ancora, tanto, in modo violento, così forte che le sembrò di sputare fuori i polmoni. Si rigirò sull'altro fianco e provò a respirare. Il fiato che le uscì dalla bocca screpolata in un rantolo era bollente.

Affondò la testa in quella nuvola di piume che era il cuscino. Stava male, eppure voleva alzarsi da quel letto. Aveva freddo, eppure sotto quella trappola si sentiva soffocare. Aveva sonno, eppure non riusciva a dormire.
«Ma come ho fatto a ridurmi così?» mormorò con una voce che arrivava dall'oltretomba. Tossì. Le girava la testa. «Non ne posso più.»
E pensare che quando erano arrivati a villa, per festeggiare il Thanksgiving Day con il capofamiglia Hayes, stavano tutti bene! Poi, alla fine della serata, Shion aveva accusato i primi sintomi dell'influenza, che il mattino dopo erano virati in febbre alta e una gran tosse.
Era stata proprio lei a insistere con Saga per rimanere lì tutti e tre almeno fino alla domenica sera, per prendersi cura dell'uomo. Per Anthony non sarebbe stato un problema saltare qualche giorno di scuola, tanto più che nella sua classe c'erano stati un paio di casi di varicella; ma forse avrebbe dovuto immaginare che già covava qualcosa. E infatti, quella domenica mattina Anthony si era svegliato con il viso e le braccia piene di pustole. E poi erano arrivati la febbre e i sudori.
Così, quella che doveva essere una permanenza di qualche giorno per seguire la salute nonno Shion, era diventata la degenza anche di Anthony e poi aveva seguito la sua lunga convalescenza, che era terminata con l'inizio dell'influenza per lei. A quel punto era stato necessario chiamare dei rinforzi. E così, sua madre, suo fratello Micheal che era tornato solo un paio di giorni prima dall'Italia e la sua sorellina Sofia – un piccolo miracolo vivente, arrivata in modo inaspettato quando Teresa aveva già quarantotto anni – l'avevano raggiunta a villa Hayes con una settimana di anticipo.
Di certo, a raccontarlo in giro c'era da farne una barzelletta. Un po' meno divertente era stato vivere quello strazio per un lungo mese.
La maniglia della porta si abbassò con un lieve cigolio e una lama di luce tenue che arrivava dal corridoio tagliò l'oscurità della camera. La testa biondo scuro tinta di fresco della donna fece capolino nella stanza. Rimase lì qualche secondo, prima di entrare. Era passato tanto, tanto tempo dall'ultima volta che si era presa cura in quel modo della sua bambina.
Teresa entrò facendo attenzione a dove metteva i piedi e si sedette sul bordo del letto. Osservava Caroline muoversi sotto il piumone, girarsi verso di lei e aprire gli occhi. «Come ti senti?»
Caroline tossì ancora. «Mi sembra un po' esagerata, per una semplice influenza.»
«A meno che tu non voglia dare il via a un'epidemia nella famiglia, resisti ancora qualche giorno», rispose la donna con voce dolce, accarezzandole la fronte sudata.
«Non volevo rovinarti il Natale... e pensare che è il primo che passiamo tutti insieme.»
«Non ci pensare. Non è colpa tua se ti sei ammalata... per ultima», concluse Teresa trattenendo una risatina.
Per diversi giorni, quella casa si era trasformata in una specie di lazzaretto, anche se ora la situazione era migliorata parecchio. Ma la donna non era certo entrata nella camera da letto della figlia per farla sentire in colpa. La sentì sbuffare e poi tossire in modo insistente, fino a trattenere un conato di vomito. Quella non le sembrava una semplice tosse, ma qualcosa di più serio. Per fortuna di Caroline, almeno di febbre non ne aveva avuta in quei giorni. Si allungò verso il comodino, prese lo sciroppo e gliene diede un cucchiaio colmo.
«Ora prova a dormire», le disse, salutandola con un bacio sulla fronte.
Si fermò nel corridoio e si concesse un lungo sospiro. In quel momento di pausa, e di silenzio, iniziava a comprendere un po' meglio quella famiglia e la freddezza quella enorme casa. Voltò la testa alla sua destra, lì c'era la camera di Shion Hayes, la porta contro la quale era appoggiata era stata di Saga – che ora condivideva con Caroline – a sinistra c'era quella che era di Kanon. Più avanti c'era un'altra camera, mentre proprio difronte c'era quella che in passato era stata di Aiolos e che ora era occupata dal piccolo Anthony. A lei e alla sua famiglia era stata offerta una suite al country club, ma Teresa aveva preferito rimanere nella proprietà per stare vicino alla figlia e allora Shura le aveva ceduto la dependance, che aveva tre camere da letto e assicurava una maggiore privacy.
Scrollò la testa nel ripensare a come si era comportato quell'uomo. Shura mostrava sempre un certo disagio davanti a lei e si prodigava più del dovuto arrivando quasi a mettersi in ridicolo. Le prime volte ne era stata lusingata da quel modo di fare, ma con il passare dei giorni era diventato fastidioso, perché così facendo metteva a disagio anche lei. Era ben conscia di cosa lo spingeva a comportarsi così, ma non poteva alleviare la sua pena: per quanto lui non avesse avuto un ruolo diretto nella morte del padre di Caroline, aveva avuto dei legami con i responsabili e non aveva mai detto niente. Per questo non lo avrebbe mai perdonato, per quanto comunque riusciva a tollerarne la presenza.
Aprì la porta della camera di Anthony e vi si affacciò: il bambino dormiva pacifico, con il respiro lieve. Gli accarezzò la guancia e poi la fronte fresca; ormai da quasi dieci giorni non aveva più alcun sintomo e ora era libero di tornare a giocare e a scatenarsi, giusto in tempo per Natale.

Scese le scale di servizio ed entrò in cucina. Come ogni sera, nonostante le proteste della domestica, aveva dato una mano a lasciarla in perfetto ordine, ma quella sera in particolare si sentiva un poco inquieta e quando accadeva, non poteva fare a meno di tenersi occupata pulendo. Allora, prese dal sottolavello il pacchetto di salviette igienizzanti e una dopo l'altra le usò sul piano di lavoro, sullo sportello del microonde, su quello del forno, sulle ante del grande frigorifero, sui pensili alti e sui mobiletti bassi. Pulì a uno a uno i barattoli delle spezie e poi passò alle due biscottiere, che proprio quella mattina aveva riempito di omini di pan di zenzero e di stelle di frolla al limone, i preferiti di Caroline.
Ci impiegò una buona mezz'ora a calmare l'inquietudine, ma era cosciente che ciò non bastava, perché era un stato che veniva da lontano e si ripeteva a ogni Natale, a volte era più forte, a volte più lieve. Appallottolò la salvietta sporca e la gettò nella pattumiera. Poi, ne prese una nuova dal pacchetto.
«Signora Miller, cosa sta facendo?»
Teresa sussultò nel sentire una voce alle sue spalle rompere la tranquillità della casa. «Saga! Mi hai fatto prendere un colpo», disse portandosi una mano al cuore e prendendo un bel respiro.
Saga diede una lunga occhiata alla cucina, lustra e pulita e che emanava un lieve aroma di citronella. «È molto tardi per fare le pulizie e poi, lei è un'ospite.»
«Credevo di far parte della famiglia, ma vedo che tuttora non riesci a chiamarmi mamma e mi dai sempre del “lei”», rispose la donna con un sospiro.
L'uomo avrebbe voluto risponderle che per quanto lei insistesse e per quanto lui ne sarebbe stato onorato, non aveva il diritto di considerarla una madre; non quando il rapporto con Caroline era ancora da formalizzare, sebbene i documenti del divorzio che le diede diversi anni prima non erano mai stati completati e registrati. Ma forse il vero problema era lui e come si sentiva da quando si era affacciata quella nuova personalità, più dura e cinica.
Teresa intuì il disagio del genero e cambiò argomento. «Come mai ancora in piedi? Sono quasi le due di notte» disse, spostandosi verso il bollitore elettrico. Lo riempì e abbassò l'interruttore per scaldare l'acqua. «Ti va qualcosa di caldo?» Prese due tazze e due bustine di tisana al cacao e le appoggiò sul piano dell'isola. In verità non era stupita di vederlo ancora vestito di tutto punto; del resto, dopo cena si era barricato nello studio e non ne era più uscito, almeno fino a ora.
Si soffermò a guardare Saga e dopo tanto tempo tornò a pensare a Gregory e alle serate passate a parlare del caso dei gemelli scomparsi. Ora, davanti a lei c'era proprio uno di quei bambini. Quanti anni erano passati... una vita intera.
Lo stava ancora fissando quando lui se ne accorse. «Qualcosa non va?»
«Scusami, non volevo essere indiscreta. È solo che...» Teresa scrollò la testa e gli sorrise. «Non è nulla.» Non era certo il momento più opportuno per rivangare certe cose e caricare un innocente di colpe non sue.
Il suono familiare delle fusa di Kitty anticipò il suo salto atletico sul piano dell'isola. La gatta, che ormai andava verso gli undici anni, si accostò al braccio di Saga e iniziò a strusciarglisi addosso. Poi, si sdraiò sul fianco e con la testa andò a cercare la mano dell'uomo.
Teresa vide qualcosa di inaspettato: invece di scansare la gatta, Saga le sorrise e si lasciò leccare il dorso della mano. Per un istante credette addirittura che le stesse parlando.
«Si fa festa senza invitarmi?» intervenì Caroline, tirando su col naso. Il viso era arrossato e sudato, ma per tutto il tragitto dalla camera da letto alla cucina non aveva tossito neanche una volta. Era un buon segno.
«Tesoro, non avresti dovuto alzarti, così prenderai freddo», disse Teresa, precipitandosi da lei. Per quanto ormai adulta, Caroline rimaneva la sua bambina e non poteva esimersi dal preoccuparsi per lei.
«Sto bene, mamma, sto bene. Non trattarmi come una moribonda», disse lei, tra un colpo di tosse e l'altro. Una volta calmata, si portò di nuovo una mano alla bocca per nascondere un lieve attacco di nausea.
Saga si alzò e l'aiutò a sedersi al suo posto. «Come va?» le chiese in un sussurro. Caroline annuì, ma si accasciò contro il suo petto, ancora con la mano alla bocca. «Vuoi una tisana allo zenzero, o preferisci il tè verde?»
«Il tè, per favore.»
«Ci penso io», intevenì Teresa.
Quando tutti infine avevano davanti a sé una tazza fumante, l'atmosfera si era fatta più distesa, ma qualcosa ancora aleggiava tra loro, come un segreto che voleva essere svelato. Teresa osservò sua figlia mentre stuzzicava Kitty, sembrava stare molto meglio rispetto a quando l'aveva vista di sopra eppure, il pallore dietro alla gote arrossate e la necessità di calmare i problemi di stomaco non la facevano stare tranquilla.
«C'è qualcosa che dovrei sapere?»
Saga sussurrò qualcosa a Caroline e lei annuì. Poi, si rivolse alla donna: «Volevamo aspettare ancora un po', prima di dirlo a tutti.»
«Quello che vuole dire», intervenne Caroline, pensando che fosse suo compito dirlo «è che dopo le ultime delusioni, non vogliamo illuderci, ma...»
Teresa rimase a bocca aperta. Ci mise alcuni secondi a capire come dovevano essere le cose e perché non se ne fosse accorta subito: i sintomi influenzali avevano mascherato le classiche nausee della gravidanza. Comprendeva la riluttanza di lei a parlarne troppo presto e a illudersi, perché aveva visto quanto avesse sofferto in seguito agli aborti spontanei. Adesso che tutto era chiaro, non erano necessarie altre parole. Fece il giro dell'isola della cucina e con le lacrime agli occhi abbracciò la figlia.
«Di quanto sei?»
«Di quasi sette settimane», rispose Caroline, con ancora un poco di riluttanza, ma la vicinanza di Saga, la mano di lui che stringeva la sua, le davano la forza per credere che questa volta sarebbe andato tutto bene.

*****

Quando Caroline aprì gli occhi la stanza era già invasa da un chiarore lattiginoso. Rabbrividì, rituffando la testa sotto il piumone. Si girò, cercando il corpo di Saga, ma il suo lato era vuoto e il cuscino al tatto era fresco, segno che doveva essersi alzato da diverso tempo.
Sbuffò. Sperava di poltrire un poco con lui, dopo quanto era successo la notte prima e la lunga chiacchierata che poi avevano fatto una volta tornati in camera.
Si fece forza e scostò il piumone. Avvertì un'improvvisa ondata di freddo e rabbrividì di nuovo. Quella sferzata contribuì a svegliarla del tutto. Si stiracchiò per bene e si infilò i calzettoni di lana con motivi natalizi che le aveva regalato Micheal il Natale passato. Si coprì con la vestaglia di lana grossa lavorata a maglia e si avvicinò alla finestra. Fuori era tutto bianco. La neve caduta in quei giorni aveva superato i cinquanta centimetri nel parco della villa. Con il bordo della manica pulì una porzione di vetro dalla condensa e poté ammirare meglio il paesaggio imbiancato e il riverbero che lo rendeva persino fiabesco.
Aprì un poco la finestra per respirarne l'aria frizzante e in quel momento sentì delle voci provenire dal parco. Riconobbe le voci squillanti di Anthony e di Sofia, lui che cercava di riacchiappare Kitty immersa nella neve e l'altra che inseguiva il suo bastardino che a sua volta voleva giocare col gatto, e poi c'era quella pacata e profonda di Shion che raccomandava loro di non farsi male.
Sorrise e respirò a pieni polmoni l'aria pungente di quel tardo mattino. Lo fece una, due volte e si sentì libera e rinfrancata come non accadeva da giorni. Solo dopo si rese conto che riusciva a respirare bene, il raffreddore e la tosse che l'avevano tormentata fino a poche ore prima, sembravano svaniti per magia.
«Un miracolo di Natale», sospirò.
«Il vero miracolo è vedere mio padre divertirsi assieme ai bambini.»
Caroline sussultò e si voltò verso la porta, colta di sorpresa dalla voce di Saga. Lo vide appoggiare il vassoio della colazione sul letto, ma ciò che la sorprese di più era che ancora indossava ancora la vestaglia. Ed erano quasi le undici!
«Ma è bello constatare che stai molto meglio», aggiunse, accarezzandole la guancia e poi stringendola in un caldo abbraccio.
Assieme si affacciarono alla finestra per guardare lo strambo spettacolo dei due bambini che affondavano nella neve alta provando a prendere i due animali, mentre Shion partecipava al gioco indicando con il bastone la direzione dove stavano correndo i piccoli fuggitivi.
«Quando si diventa nonni ci si trasforma, non trovi?» disse Caroline, alzando lo sguardo su di lui. Vide però che Saga sembrava triste tutto d'un colpo. «Cosa c'è che non va?»
«Stavo pensando a Nanny. Tutta questa neve, il baccano dei bambini, tanta gente per casa... ne sarebbe stata entusiasta.» Sospirò e per un momento rimase in silenzio. Da quando era venuta a mancare Nanny, la casa era diventata meno accogliente e lui, che ormai ci veniva di rado, ci stava ancora meno volentieri. «Questo è il primo Natale senza di lei.»
Caroline sospirò. Non aveva avuto modo di conoscere bene la donna, ma sapeva che aveva svolto un ruolo molto importante per tutti loro e per questo non voleva guastare l'umore di Saga dicendo qualche ovvietà tipo “lei è sempre con voi”, oppure “voi tutti, mantenendo la tradizione, avete raccolto la sua eredità e il suo spirito”. Allora, preferì rimanere in silenzio e godersi quel prezioso momento intimo nell'abbraccio dell'uomo che amava.

«Oh! Oh! Oh! Buon Natale! Oh! Oh! Oh!»
La voce camuffata di Kanon risuonò nell'atrio vestito a festa della villa. Attese qualche secondo, carico di pacchetti e buste di carta, ma non sentì rumori, né voci che animavano la casa.
«Nessuno viene ad accogliere Babbo Natale?» Aspettò ancora, ma non successe nulla. «Ehi! Ma non c'è nessuno in casa?»
Dalla porta d'ingresso che aveva lasciato aperta arrivarono il rumore della portiera sbattuta da Aiolos e gli schiamazzi dei bambini. Kanon sorrise. Appoggiò il suo carico di regali ai piedi del grande albero addobbato e tornò fuori. Si incamminò lungo il sentiero che costeggiava la casa, che era stato risparmiato dai cumuli di neve e si fermò nel porticato. Rimase a guardare i bambini che si tiravano le palle di neve, mentre Kitty saltava sul parapetto tra i vasetti di erica e di ciclamini e, con incredibile equilibrio iniziava a grattarsi un orecchio, mentre un buffo cagnolino scodinzolava in adorazione sotto di lei.
Kanon non era mai andato d'accordo con gli animali, soprattutto i gatti, e il sentimento era reciproco; infatti, non appena Kitty si accorse di lui, gli soffiò e corse dentro casa attraverso la portafinestra lasciata un poco aperta.
«Zio Kanon! Sei arrivato!» urlò Anthony, distraendosi e beccandosi una palla di neve dietro la schiena da Sofia.
«Ehi, campione! Avevi forse dubbi!» rispose Kanon. Lo vide correre verso di lui e lanciaglisi addosso. «Ma quanto sei diventato grande in pochi mesi», disse, rimettendolo giù.
«Anthony! Giochiamo ancora un po'!» lo richiamò Sofia, mettendo il broncio.
«Chi è la tua amichetta?»
Anthony rise imbarazzato. «Non è un'amichetta. È Sofia!» Si girò e fece cenno alla bambina di avvicinarsi. Poi, la presentò come si conveniva. «Lei è Sofia Burton, mia zia!» disse, con un sorriso a tutta bocca nel vedere lo sguardo stralunato dell'uomo.
«Oh, ma dai! Non prendermi per il naso!» protestò Kanon.
«Ma è vero!» confermò la bambina. «La mia mamma è anche la nonna di Anthony!»
Dietro le spalle di Kanon arrivò uno sbuffo inconfondibile.
«Zio Aiolos!» gridarono a una sola voce i due bambini; trotterellarono verso il nuovo arrivato che li accompagnò dentro casa, brontolando per come si erano conciati.
Kanon si sentì scaraventato in un universo parallelo.
«Mi sembri un po' spaesato», disse Shion, arrivandogli alle spalle. Spazzò via la neve dalle spalle del cappotto e si pulì le suole degli scarponi sullo zerbino di gomma. Si tolse i guanti in montone e gli diede una pacca sulla spalla, incoraggiandolo a entrare in casa dalla portafinestra della cucina.
«Cos'è questa storia della “zia Sofia”?»
«Splendida bambina, non trovi? È la figlia di Teresa. È nata un paio di mesi prima di Anthony», spiegò Shion.
«Burton... Burton», mormorò Kanon. Quel nome gli sembrava di averlo già sentito, ma non ricordava in quale occasione.
«Il padre è il Capitano Burton, poliziotto in pensione», svelò l'arcano Shion.
«Ma chi, il patrigno di Caroline?» Di fronte a quella verità, l'espressione di Kanon si fece ancora più incredula. Incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte, in profonda riflessione. Poi, dopo qualche momento, scrollò la testa, segno che nonostante tutto non riusciva a crederci.
«Non sapevo avesse un'altra figlia. Beh, in realtà non conosco neanche Micheal, a parte una stretta mano... mmh, quando è stato?» rifletté a voce alta.
«Evidentemente non c'è mai stata l'occasione giusta. So che il ragazzo sta frequentando l'università in Italia ed è tornato da poco per le vacanze di Natale. È simpatico e con Aiolos va molto d'accordo. Comunque, oggi siamo tutti riuniti e avrai modo di conoscerli come si deve.» Shion gli mise una mano sulla spalla e insieme entrarono in casa.
La cucina era invasa dai profumi più deliziosi: arrosto con patate, lasagne al ragù e lasagne ai carciofi, patè al tonno, al salmone e al prosciutto, arance e mandarini nel portafrutta mandavano in estasi e poi, a riposare in disparte sotto lo sguardo vigile di tre paia d'occhi, c'era una ciambella red velvet glassata al cioccolato bianco e decorata con fiori e foglie di marzapane e perline d'oro di zucchero. Il lieve sospirare che arrivava dai piccoli guardiani e da Aiolos era uno spasso.
«Bambini, Aiolos, per favore, potete iniziare ad apparecchiare la tavola?» disse Teresa, entrando in cucina dalla sala da pranzo con in mano il centrotavola di fiori che aveva appena tolto dal tavolo. Per il pranzo di Natale lo avrebbe sostituito con una composizione di agrumi, frutta secca e spezie.
«Sì, Aiolos, vai a preparare la tavola», ripeté Kanon in un sogghigno, poiché quello era sempre stato il compito che Nanny affidava sempre loro fin da quando erano ragazzi. E di solito voleva dire: smammate dalla cucina, bambini.
«Kanon! Mi era parso di sentire la tua voce, quasi non ci speravo più di vederti», lo salutò Teresa.
«Mamma Miller, potevo forse mancare al tuo pranzo di Natale?» disse lui, accettando l'abbraccio della donna e il bacio sulla guancia. Gli piacevano da impazzire quei modi espansivi, soprattutto se venivano da belle donne.
«Non ti preoccupare, ho un compito anche per te! Vieni» Lo fece sedere su uno degli sgabelli dell'isola e gli mise davanti un tagliere con dei gambi di broccoli e un pelapatate in mano.
«Bravo, Kanon, pela i broccoli», mormorò Aiolos, riempiendosi poi la bocca con un pezzeto di focaccia all'aglio e rosmarino per nascondere un sorrisetto maligno.

Mancava ancora un'ora al grande pranzo di Natale e tutto era già pronto e organizzato alla perfezione. Non si sentiva la mancanza della cuoca che veniva tre volte a settimane e della domestica fissa che per quei giorni erano state congedate e lasciate libere di passare le feste con le proprie famiglie, con una generosa gratifica. Teresa, benché non conoscesse le abitudini della casa, era riuscita a portare i suoi ritmi e le sue tradizioni senza stravolgere troppo gli occupanti della casa.
La donna era intenta a risciacquare i flute per lo spumante che aveva portato, quando con la coda dell'occhio notò una strana tensione arrivare da Kanon. Lì per lì non gli diede peso, ma l'insistenza dei modi furtivi dell'uomo iniziarono a distrarla, con il rischio di combinare qualche guaio.
«C'è qualcosa che non va?»
Lo vide affrettarsi a deviare lo sguardo. Sembrava in imbarazzo, come se morisse dalla voglia di chiederle qualcosa ma non ne avesse il coraggio. Poi, lo vide sporgersi e guardare i bambini che si divertivano a fare il giro del grande tavolo ovale mettendo a turno le posate, il tovagliolo, il sottopiatto rosso fatto a mano all'uncinetto, il segnaposto di agrifoglio e cristalli; e infine, dietro, con movimenti accurati, passava Aiolos a sistemare i piatti bordati d'oro e i bicchieri.
Lo vide scrollare la testa e tornare a guardarla, ma subito abbassare gli occhi sui gambi di broccolo. Adesso sì che iniziava a preoccuparsi. Fece il giro dell'isola e posò la mano sulla sua che stringeva il pelapatate. «Ti senti bene? Puoi confidarti con me, se vuoi.»
Kanon alzò la testa e arrossì.
«Cos'hai combinato questa volta?»
La voce di Saga spezzò quello stato di disagio che per Kanon era una tortura. «Ehi, fratellino, ti credevo in ufficio!»
«Hai smaltito la sbornia di ieri sera o sei ancora ubriaco?» ribatté Saga, scoccandogli un'occhiata gelida. Entrò in cucina e appoggiò il vassoio della colazione vicino al lavello.
Teresa notò come Kanon ci fosse rimasto male alle parole e all'atteggiamento del fratello, voleva provare a mediare quello che sembrava un rapporto difficile tra i due, ma l'uomo l'anticipò. Si alzò pulendosi le mani in un canovaccio e seguì l'altro fuori dalla cucina.
Mentre si allontanava lo sentì dire che aveva portato un regalo speciale e la voce di Saga ribattere qualcosa per tagliare il discorso. Si intristì: ai suoi occhi, era come se Kanon stesse rincorrendo il gemello per avere un poco della sua attenzione, ma Saga gliela negava; o se gliela concedeva, lo trattava con sufficienza.
Scrollò la testa e pulì i gambi dei broccoli per la vellutata per la cena: dopo i bagordi del pranzo, di certo sarebbe stato necessario qualcosa di più leggero.
La cucina era tornata tranquilla, forse troppo. Anche in sala da pranzo c'era troppa calma. I bambini dovevano aver finito di sistemare la tavola, ma Teresa si aspettava che sarebbero tornati a girare intorno ai piatti di portata pieni di stuzzichini e antipasti. Con la preoccupazione che agiva come un tarlo nella sua mente, si affacciò nella sala da pranzo, ma era deserta, allora provò ad affacciarsi alla scala di servizio e sospirò di sollievo nel sentire i due birbanti correre su e giù per il corridoio del piano superiore. Il loro scalpiccio era rinfrancante.
Diede una bella occhiata alla cucina per vedere se avesse dimenticato qualcosa. Poi, guardò l'orologio e calcolò che era il momento di accendere il secondo forno e mettere a scaldare le teglie delle lasagne.

*****

«Perché non ti rilassi un po'? Da quanto non ti prendi qualche giorno di vacanza?» disse Kanon, chiudendosi la doppia porta della biblioteca alle spalle. Difronte a lui, Saga se ne stava appoggiato alla scrivania antica che un tempo usava Shion quando lavorava a casa, in mano teneva l'iPad e con l'altra mano sfogliava i report che lui aveva scritto la sera prima nel pub.
«Da chi te li sei fatti scrivere?»
«Perché, sono buoni?» ribatté con il suo solito modo sfrontato. Vedendo che il fratello non raccoglieva la provocazione, decise per una risposta più seria e sincera. «Ho imparato studiando quelli che mi scrivevi tu in passato.»
Lo osservava leggere, l'espressione concentrata sul volto. Ormai da tempo rimpiangeva il fratello debole e un po' frignone che era stato in passato, ma che sapeva ridere e si accontentava delle piccole cose; quello stesso fratello che lui si sentiva in dovere di aver cura.
Ora, cos'era diventato?
La copia sputata del padre, che pensava solo al lavoro.
Sperava ci fosse ancora speranza per lui, perché Shion, nonostante avesse dei figli, non aveva mai avuto tempo per loro; ma Saga aveva accanto a sé una donna che lo amava e un figlio intelligente ed educato che non doveva crescere con un padre che pensava sempre e solo al lavoro.
A grandi passi raggiunse il fratello e gli strappò dalle mani l'iPad. «Accidenti, è Natale! Non ce la fai proprio a lasciar perdere il lavoro almeno per oggi?»
Al contrario di quel che si aspettava, Saga sospirò. Era una piccola vittoria che lo faceva ben sperare, ma poi, la reazione dimessa del fratello gli fece scattare un campanello d'allarme: proprio come quando erano più giovani.
«C'è qualcosa che ti preoccupa, vero? Sai che con me puoi parlare di tutto.»
«Credevo di avere tutto sotto controllo», disse Saga, abbassando lo sguardo sul tappeto antico. «Lo sai come sono fatto, non mi piacciono i cambiamenti troppo radicali.»
«Hai intenzione di cambiare lavoro?» rise Kanon, per spezzare l'atmosfera tetra che si era creata.
Saga mise una mano nella tasca del cardigan di lana pesate ed estrasse una scatolina quadrata di velluto blu. «La mia situazione con Caroline si è complicata. Tu sai che viviamo separati, no? Però, al tempo stesso stiamo assieme. Lei ha detto che non vuole far vivere Anthony nell'attico e io non posso vivere nel suo loft vicino al porto.» Fece una pausa, massaggiandosi la fronte con la punta delle dita.
«Cosa stai cercando di dire?» lo anticipò il fratello.
Saga strinse la scatolina nella mano, non era certo di voler condividere con lui ciò che voleva fare, o forse era solo il timore che Kanon lo avrebbe messo in imbarazzo davanti a tutti. Ma non dimenticava tutti gli anni che suo fratello aveva passato a preoccuparsi per lui, che lo aveva tenuto al sicuro dal mondo esterno, che lo aveva sostenuto e difeso davanti a suo padre...
«Saga, non avrai mica intenzione di lasciarla...»
«Non fare l'idiota!» sbottò Saga. Prese un bel respiro e riprese a parlare con tono pacato e un poco impersonale. «Nei primi anni di vita di Anthony io non sono stato presente. Lei non mi aveva detto nulla. Ti confesso che non sapevo come comportarmi.»
«Credo sia normale, eravate estranei l'uno all'altro», concordò Kanon, che si era fatto molto attento al discorso.
«Con il tempo le cose sono migliorate, ma vivere separati ha reso tutto più difficile. E ora si sta ripresentando la stessa situazione.»
«Che vuoi dire?»
«Caroline aspetta un bambino.»
Sulle labbra di Kanon si formò un sorrisone e a stento riuscì a contenere la gioia per quella notizia. Lo abbracciò di slancio e in quel gesto vi infuse tutto l'affetto che non aveva potuto dimostrargli in quegli ultimi anni, perché Saga lo aveva tenuto a distanza.
Saga lo lasciò fare, perché a lui era mancata la vicinanza con il fratello. Quando Kanon lo liberò da quella morsa, gli mostrò la scatolina e lasciò che traesse le sue conclusioni.
«Hai sempre avuto dei gusti decisamente più semplici rispetto a me, ma indubbiamente di gran classe», disse, restituendogliela. «Quindi, questa volta farai le cose come da tradizione?»
Un cortese bussare risparmiò a Saga l'imbarazzo di una risposta. La porta si aprì e fece capolino la testa Caroline. «Il pranzo è pronto, stiamo aspettando solo voi due.»





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