PARTE TERZA
ISOLA DI
SANTO STEFANO
Agosto-ottobre
1999
CAPITOLO 10
LO SPECCHIO
Isola di
Santo Stefano
Agosto 1999
Quando il
traghetto
entrò nel porto, Stefano gettò
un’occhiata all’orologio che gli zii gli aveva
regalato per il diploma, due anni prima: erano quasi le quattro del
pomeriggio
e lui era in ritardo di tre ore. Sul suo viso si disegnò un
sorriso di cupa
soddisfazione, mentre inforcava di nuovo gli occhiali da sole che aveva
sollevato sopra la testa.
Guardò
l’isola che si
avvicinava sempre di più. Ormai gli sembrava di poter
toccare terra allungando
il braccio. Era una calda giornata di inizio agosto e il sole, alto e
scintillante nel cielo terso, picchiava forte sul ponte del traghetto,
che
stava completando la manovra per entrare nel porto con la prua rivolta
verso il
mare. Stefano si era posizionato fuori fin dall’inizio del
viaggio, su uno
degli scomodi sedili di legno mezzo marcio, lo sguardo ostinatamente,
sfacciatamente fisso verso il punto dove sapeva che l’isola
sarebbe apparsa. Se
n’era andato proprio così, undici anni prima,
fermo sul ponte a guardare la sua
casa svanire lentamente nell’azzurro polveroso e sfumato
dell’orizzonte, ed era
così che voleva tornare, così che voleva vederla
ricomparire da quello stesso
azzurro.
Eccola
lì, bella come
una principessa del mare, con le casette colorate aggrappate alla
roccia, i
pendii aspri e scoscesi, la sonnolenta Portosalvo, le insenature
rocciose che
Stefano ricordava ancora alla perfezione, perché le aveva
tracciate in sogno tutte
le notti. Poi l’ultima, brusca virata del traghetto, lo
strattone allo stomaco
che annunciava il ritorno a casa. L’isola della sua infanzia,
dei ricordi più
dolci e degli incubi più tremendi. Ci tornava per la prima
volta da quel giorno
lontano in cui era stato costretto ad andare via di nascosto, quasi
scappando
per una colpa che non gli apparteneva. Ci tornava con la nonchalance
di
chi non ha nulla da perdere, perché tutto quello che un
tempo era stato suo lo
aveva già perso.
Il ponte per
l’attracco
iniziava ad abbassarsi. Stefano si alzò, si
caricò in spalla la piccola borsa
che aveva con sé e si avviò giù per le
ripide scalette di ferro con passo
svelto e sicuro. Quando mise piede a terra cercò dentro di
sé la traccia, anche
vaghissima, di una qualche emozione, ma scoprì con
soddisfazione che non ce
n’era nessuna. Il muro dietro cui le aveva intrappolate per
tutti quegli anni
era ormai troppo alto da scalare. D’altronde, tornava
sull’isola con una
missione da compiere, un unico scopo nella mente, e tutto il resto non
aveva
importanza. Non doveva averne. Crogiolarsi nei ricordi o nei rimpianti
non
faceva parte dei suoi piani.
Mentre usciva
dall’area
pedonale destinata allo sbarco, lo seguirono con lo sguardo,
nell’ordine, una
signora con un cagnolino al guinzaglio, una ragazza in coda per
imbarcarsi sul
prossimo traghetto con una sacca da campeggio in spalla e una donna
sulla
trentina al lavoro nel bar del porto. Lui se ne accorse, ma fece finta
di
nulla. Era abituato agli sguardi femminili e non gli facevano
né caldo né
freddo. Erano come acqua che scivola via sulla pelle già
bagnata. Si guardò
intorno, cercando la macchina che, secondo i patti, doveva essere
lì ad
aspettarlo. Non fu difficile identificarla: nel parcheggio adiacente
alla zona
di sbarco, a pochi metri da lui, c’era una vecchia Ford di un
rosso sbiadito e
polveroso, come se per anni e anni fosse stata lasciata esposta al sole
e alle
intemperie senza ricevere nessuna cura. Sul parabrezza,
all’interno, era stato
sistemato un foglio di carta con su scritto “Stefano
Ruggero” in uno
stampatello sgraziato.
Stefano si
avvicinò:
una figura giaceva distesa sul sedile reclinato del conducente, un
berretto a coprirne
il volto. Sbuffò e picchiò forte con la mano sul
vetro della macchina. La
figura sobbalzò come se avesse preso una scossa elettrica e
il berretto scivolò
via, rivelando il viso magro, spigoloso e lentigginoso di un ragazzo
che doveva
avere all’incirca la stessa età di Stefano. Si
guardò intorno con aria confusa
e quando notò Stefano sgranò gli occhi.
Cercò prima di abbassare il finestrino,
poi di aprire la portiera, agitato e imbrogliandosi con le sue stesse
mani,
mentre Stefano lo osservava con le sopracciglia inarcate. Finalmente il
ragazzo
riuscì a smontare dalla Ford.
«Stefano
Ruggero?»
domandò precipitosamente, la voce e lo sguardo ancora velati
dal sonno.
L’interpellato annuì brevemente e il ragazzo per
poco non scoppiò a ridere per
il sollievo. «Finalmente sei arrivato!» Si
passò una mano sul viso, forse
cercando di svegliarsi del tutto. «Pensavo che mi avevano
mandato qua pamparissi.»
«Per
scherzo?»
«E
certo! Dovevi arrivari
tre ore fa: all’una precisa, così mi era
stato detto» rispose il ragazzo e
all’improvviso assunse un’aria seria, come per
sottolineare che non era venuto
meno al compito affidatogli.
«Quindi
tu sei qui
dall’una?» si informò Stefano,
più per prendere tempo che per vera curiosità,
perché aveva già intuito la risposta. Il ragazzo
doveva essersi addormentato a
forza di aspettare qualcuno che non arrivava mai. «Mi
dispiace per il ritardo.
Volevo… mandare un messaggio.»
Il ragazzo lo
fissò
senza capire. «Un messaggio? E allora facevi prima a
telefonare, no?» disse,
sorridendo.
Stefano rimase
serio.
«Va be’, adesso sono arrivato. Andiamo.»
«Hai
solo questa?»
chiese il ragazzo, fissando la piccola borsa che Stefano stava
lanciando sul
sedile posteriore dell’auto.
«Solo
questa. Non ho intenzione
di fermarmi.»
Salirono in
macchina e
partirono. Stefano si accorse che il ragazzo gli lanciava occhiate
curiose di
continuo, credendo di non farsi notare, forse domandandosi
perché avesse
quell’espressione così distante e annoiata, come
se fosse venuto fin lì da Milano
tirato per un guinzaglio. Fece finta di nulla anche questa volta, come
con gli
sguardi femminili al porto.
«Lavori
per i
Falconeri?» indagò.
Voltò
la testa verso il
finestrino. La Ford era vecchia, ma proseguiva veloce lungo le stradine
in
salita e in discesa di Portosalvo, tra la casette con archi, scalette e
terrazze, le vecchie botteghe scure e profonde come grotte affiancate
da
pizzerie, ristorantini e nuovi negozi ampi e luminosi. Serrò
le labbra, facendo
forza contro il muro perché restasse su a contenere quello
che minacciava di
riversarsi fuori da un momento all’altro, riempirgli la mente
e farlo
impazzire. Era così assurdo essere di nuovo lì
che per un attimo si chiese se
non fosse solo un altro dei suoi sogni e affondò le unghie
nel palmo della
mano, per controllare. Faceva male.
«Giardiniere
e
tutto-fare. Nino Mancuso» si presentò il ragazzo
con un sorriso aperto.
Quel nome
evocò
qualcosa nella mente di Stefano, che si girò a osservarlo,
sorpreso. «Mancuso?
Ma allora sei parente di Michele?»
«Mio
nonno era. Se n’è
andato da cinque anni» rispose Nino, tornando serio di colpo.
Stefano ebbe un
piccolo
sussulto. Non ricordava che il vecchio Michele, il giardiniere sempre
sorridente e gentile che se lo metteva sulle ginocchia e gli offriva
caramelle
appiccicose tirate fuori dalle tasche, avesse un nipote. Quando era
bambino,
sull’isola, passava quasi tutto il suo tempo con Enrico e
Claudia e gli altri
bambini erano una nebulosa indistinta nei suoi ricordi.
Serrò le labbra ancora
di più, per non pensare troppo, mentre Nino continuava a
parlare.
«Mio
padre si era
aperto una bottega in paese e così il signor Falconeri ha
preso me. Non è per
sempre, eh… Prima o poi mi trovo qualcosa da fare. Ma per
adesso mi piace.
Famìa
proprio, oggi!» concluse,
sbuffando. Prese ad armeggiare per abbassare al massimo il finestrino,
senza
distogliere gli occhi dalla strada.
«Mi
dispiace per tuo
nonno. Era una brava persona» mormorò Stefano,
dopo qualche istante.
Nino
sembrò stupito.
«Ti ricordi di lui? E come fai?»
esclamò, scherzoso. «Mi hanno detto che te ne
sei andato da picciriddo.»
Stefano
tornò in fretta
a guardare fuori dal finestrino, sebbene avesse l’aria
distratta, come se
seguisse con gli occhi fantasmi invisibili a chiunque altro. Erano
usciti dal
paese e ora stavano attraversando la campagna martellata dal sole:
campi di
grano, boschetti di ulivi, agavi, mandorli, aranceti, limoneti. Poi, di
colpo,
iniziarono i vigneti senza fine dei Falconeri. Stefano
deglutì. «Ricordo
benissimo. Ricordo più di quanto vorrei.»
Finalmente apparve il profilo severo
e imponente del baglio. Stefano si irrigidì. Sembrava uscito
dritto dritto dai
suoi sogni o dai suoi peggiori incubi. Era davvero lì, era
sempre lì. Affondò
di nuovo le unghie nelle carne e il dolore, in qualche strano modo, gli
diede
sollievo. «Senti… come vanno le cose al baglio?
Stanno tutti bene?» indagò, lo
sguardo fisso sulla casa che si avvicinava.
Nino gli
scoccò
un’occhiata, poi alzò appena le spalle.
«Vanno bene… Stanno tutti bene. A parte
il signor Falconeri, ma questo già lo sai»
rispose. Era chiaro che non sapeva
bene che cosa dire. «Enrico fa
l’università. E sta sempre attaccato alla sua zita»
aggiunse, con un sorrisino che gli spuntava sulle labbra.
Stefano non
commentò e
continuò a guardare fuori, disinteressato. Le risposte non
gli sembravano
soddisfacenti. Ogni tanto, mentre si avvicinavano alla meta, era sul
punto di
dire qualcosa, fare altre domande, ma non sapeva neanche lui cosa
volesse sapere
davvero e se voleva saperlo davvero. Rimase in
silenzio, in preda alla
confusione, mentre varcavano il cancello di ferro del baglio, immobile
e quasi
senza respirare. Quando Nino spense il motore sul viale principale,
Stefano
scese lentamente dalla macchina, guardandosi intorno con gli occhi
stretti e il
viso contratto.
«Vuoi
che ti accompagno
di sopra?» gli chiese Nino, mentre richiudeva la portiera del
guidatore.
Stefano non si girò a guardarlo e si limitò a
scuotere la testa. «Non c’è
bisogno, grazie» rispose a denti stretti. Non c’era
la minima possibilità che
si perdesse in quella casa.
Il ragazzo
tentennò un
momento, ancora in piedi accanto alla Ford, come se non volesse
defilarsi
troppo presto. «Allora… io vado a mangiare, se non
ti serve niente. Ho una rica
che non ce la faccio più.»
Stefano
accennò un
mezzo sorriso. Probabilmente Nino era stato costretto a saltare il
pranzo,
vittima innocente del suo piano di farsi aspettare il più a
lungo possibile.
Annuì. «Vai, vai. Io sono a posto, grazie del
passaggio.»
Nino gli
lanciò ancora
un’occhiata dubbiosa, come se temesse di essere rimproverato
per aver
abbandonato un ospite in quel modo. Poi la fame sembrò avere
la meglio, così si
avviò a passo rapido in direzione della porta che conduceva
alla cucina.
Stefano lo notò a malapena, con la coda
dell’occhio. Era troppo preso a
osservare il cortile e la casa. Era tutto così uguale a come
lo aveva lasciato
da fargli pensare di essere appena andato via. Forse sua madre sarebbe
apparsa
da un momento all’altro sulla soglia della cucina, i lunghi
capelli neri
ondeggianti sulle spalle e uno dei suoi vestiti a fiori, una mano sugli
occhi
per schermarli dal sole, intenta a cercarla con lo sguardo nel timore
che fosse
finito chissà dove a combinare chissà cosa.
L’aveva vista così decine di volte
da bambino. Quando infine lo trovava, la sua fronte si distendeva,
l’espressione si rasserenava e sollevava l’altro
braccio per attirare la sua
attenzione mentre lo chiamava.
«Stefano!
Stefano!»
Sbatté
le palpebre,
lottando contro il dolore e la nostalgia che premevano contro il muro e
che lo
avrebbero soffocato se fossero stati liberati. No, non poteva essere
vero.
Nessuno lo stava chiamando, era solo uno scherzo della sua
immaginazione. Si
volse lentamente, lo stomaco annodato dall’ansia, chiedendosi
per un folle
attimo chi avrebbe visto. Forse il tempo si era davvero fermato, in
quel posto?
Non era sua madre, ma il tuffo al cuore fu quasi altrettanto violento
che se
avesse visto lei. In piedi, davanti a lui, c’era un ragazzo.
Poteva avere la
sua età o al massimo un paio d’anni di
più. I capelli castano chiaro erano
mossi da un venticello caldo e placido e gli occhi azzurri, che lo
fissavano
colmi di gravità, erano lo specchio dei suoi. Erano sempre
stati l’uno lo
specchio dell’altro, due metà di un intero che era
stato spezzato. Stefano
rimase lì a fissarlo per qualche istante, poi
abbassò piano gli occhiali da
sole.
«Enrico»
disse con un
filo di voce che quasi gli morì in gola. L’altro
ragazzo lo osservava con una
consapevolezza tale che di colpo capì, quasi senza ombra di
dubbio, che sapeva del
vero legame che li univa: sapeva che condividevano lo stesso padre. In
quegli
anni di esilio si era sempre domandato con angoscia se Enrico avesse
mai
scoperto la verità, quando e come potesse essere successo,
se Edoardo avesse
mai trovato il coraggio di ammetterla a voce alta. Non poteva avere la
certezza
che fosse stato lui a parlarne a Enrico, ma ora lui sapeva. Di questo
Stefano
fu assolutamente, totalmente, tremendamente certo. Sapeva e forse lo
odiava.
Deglutì, mentre quel pensiero atroce gli gelava il sangue
nelle vene.
Enrico
restò in
silenzio per un po’, pensieroso, forse cercando le parole
giuste per salutarlo
dopo undici anni. Poi parve arrendersi. «Sei in ritardo. Ti
aspettavamo ore fa»
disse semplicemente. Doveva essere arrivato alla conclusione che le
parole
giuste per una simile circostanza non esistevano.
Stefano
tirò fuori un
mezzo sorriso storto. «Lo so. Mi piace farmi
desiderare.»
Enrico
esitò, poi
abbassò la testa, come se annuisse tra sé, e un
accenno di sorriso apparve
anche sulle sue labbra. «Non sei cambiato.» Non era
una domanda. Stefano non fu
sorpreso di scoprire che si capivano ancora con uno sguardo, come
quando erano
bambini, come se gli undici anni che li separavano fossero svaniti in
un
soffio. Lo stupì, invece, rendersi conto che ne era felice.
«Neanche
tu sembri
cambiato. Mi fa piacere rivederti.»
«Anche
a me» rispose
Enrico a bassa voce, il suo solito sorriso timido che gli illuminava
lentamente
il volto.
Non sembrava che
ce
l’avesse con lui. Stefano provava l’impulso di
colmare con pochi passi la
distanza che li separava e abbracciarlo, ma si trattenne. Il ricordo
del loro
ultimo incontro, nella cantina del baglio, e delle parole affilate che
il
fratello gli aveva lanciato contro come coltelli, con precisione, per
ferire,
era ancora vivo dentro di lui. Non gli portava rancore, dopotutto erano
passati
tanti anni e nel frattempo lui aveva imparato a comprendere le ragioni
che lo avevano
spinto a comportarsi in quel modo. Non poteva neppure far finta di
nulla, però.
E l’ombra che scorgeva nello sguardo limpido di Enrico gli
faceva pensare che
anche lui avesse la stessa incertezza. E poi non aveva idea di come
Enrico
avrebbe potuto reagire a un gesto così forte e improvviso.
Non sapeva se fosse
felice o meno del loro legame di sangue. Così Stefano rimase
dov’era,
limitandosi a studiare con attenzione, curiosità e affetto
il viso dell’altro.
«Come
te la passi?»
domandò Enrico dopo una pausa. Sembrava vagamente
imbarazzato, come se non
sapesse bene cosa dire per riempire il silenzio. Era ancora timido come
quando
era bambino.
Stefano si
schiarì la
gola. «Bene… Sto bene, a Milano.»
«So
che fai Economia»
continuò l’altro ragazzo, poi esitò un
istante e aggiunse con tono leggermente
diverso. «Si parla spesso di te, in paese.»
Stefano si
irrigidì
appena. Se lo aspettava. Sapeva che zia Luisa aveva mantenuto i
contatti con
alcune vecchie conoscenze di Portosalvo e in un posto così
piccolo, dove non
succedeva quasi mai niente di interessante, le voci giravano in fretta
e si
stava sempre a spettegolare di qualcuno. Non riusciva a decidere se gli
facesse
piacere o meno. Gli dava un’amara soddisfazione il fatto che
Edoardo sapesse
quanto era brillante il figlio che lui aveva sempre respinto, che non
aveva mai
voluto riconoscere apertamente come suo, dandogli l’affetto e
le cure che gli
spettavano, ma quando incrociò lo sguardo di Enrico
notò che l’ombra sullo
sfondo azzurro si era incupita. Provò uno strano disagio.
«Parlano
sempre troppo,
qui» commentò e si rilassò un
po’ quando vide il fratello accennare un sorriso
di comprensione. Sicuramente anche lui era spesso al centro delle
chiacchiere
in paese. I Falconeri erano la famiglia più importante
dell’isola e uno dei
maggiori imprenditori di tutta la Sicilia. «Sì,
faccio Economia. A ottobre
inizio uno stage, in banca. Voglio lavorare nella finanza.»
Lo disse con tono
asciutto e sicuro, privo di ansia o incertezza, come se il suo futuro
fosse
scritto nella pietra e in effetti aveva davvero questa sensazione, a
volte.
Enrico contrasse
la
fronte. «Finanza? Sì…»
mormorò, pensieroso, lo sguardo lontano, come se
osservasse il futuro radioso del fratello che si stendeva davanti ai
suoi
occhi. «Riesco a immaginarti. Eri il migliore di tutta la
scuola in matematica.
E poi hai la faccia giusta.»
«La
faccia da stronzo,
vuoi dire?»
Enrico fece un
sorriso
sghembo. «Intendevo “faccia tosta”, ma se
te lo dici da solo…»
Stefano
ricambiò il
sorriso. Sentiva che entrambi si stavano rilassando, come se avessero
recuperato in fretta la familiarità che li univa in passato.
E sentiva un senso
di apertura da parte di Enrico. Per la prima volta da quando era
tornato
sull’isola, per la prima volta da quando aveva deciso che
sarebbe tornato, fu
sfiorato dall’idea che lì potesse esserci qualcosa
per lui. Che forse qualcosa
si poteva salvare. L’euforia lo riempì come acqua
versata in un vaso, ma cercò
di tenerla a bada.
«E tu
che cosa fai?»
«Giurisprudenza.
A
Palermo. Dovrei finire l’anno prossimo.»
«E
poi? Manderai avanti
la baracca?» chiese Stefano, percorrendo velocemente con lo
sguardo la casa e
il cortile.
Suo fratello non
se la
prese per quel modo irriverente di definire
l’attività che la sua famiglia
portava avanti da cento anni. Si era già riabituato al
sarcasmo lacerante di
Stefano. Alzò le spalle. «Qualcuno deve pur
farlo.» Attese per qualche secondo,
poi, dato che Stefano restava in silenzio e sembrava non avere nulla da
aggiungere, parlò di nuovo. «Ti sta aspettando
dentro. In salotto» disse, la
voce di colpo dura e fredda come i sassolini delle calette rocciose,
dove
andavano sempre a giocare da bambini, sotto le loro piccole mani,
quando il
sole non ci batteva sopra.
Stefano
espirò e annuì.
«Meglio che vada, allora. Non vorrei farlo aspettare
troppo» rispose, ironico.
«Quando
riparti?»
«Stasera.
Prendo
l’ultimo traghetto, quelle delle otto.»
«Scappi
via, insomma.»
Enrico lo aveva
detto
senza nessuna inflessione particolare, ma alle orecchie di Stefano
suonò come
un’accusa. Gli parve che in realtà volesse dire
“Mi lasci, insomma. Di nuovo.”
Si mosse sui piedi, a disagio. «Non ho motivo di
restare» rispose. Poi ebbe un
attimo di incertezza. C’era qualcosa che premeva con forza
dietro il muro
costruito con tanta cura e pazienza per imprigionare il passato e
consentirgli
di andare avanti, di sopravvivere senza la metà di se
stesso, e gli sembrava di
non riuscire a trattenerla. Era un fiume in piena che investiva una
diga con la
violenza di un uragano. Era il suo cuore che urlava per essere
ascoltato. Era
il vuoto nel suo petto che implorava di essere colmato. Prese aria,
cercando
disperatamente le parole giuste per farla uscire, qualunque cosa fosse.
«A meno
che… se ti va… Prima che me ne vada
potremmo… parlare un po’.»
Enrico lo
fissava con
aria grave e Stefano pensò che forse intuiva il suo tumulto
interiore.
Dopotutto, era la persona che lo conosceva di più al mondo.
Anche se non si
vedevano e non si parlavano da tanti anni, non pensava che questa
distanza
potesse effettivamente cambiare qualcosa tra loro: ciascuno dei due
aveva
incontrato l’anima dell’altro senza alcuna
barriera. Stefano parlava con i suoi
amici dell’università ogni giorno, eppure non
poteva dire lo stesso di nessuno
di loro. Niente, nemmeno un milione di anni, avrebbe mai potuto rompere
questo
legame.
Enrico
rifletté per un
po’, poi assentì piano. «Okay»
rispose e la sua voce aveva già perso la punta
di durezza di poco prima.
Stefano gli
rivolse un
sorriso cauto, ma speranzoso, e un cenno con la testa. Poi si
avviò,
oltrepassando il fratello, ed era già a metà
della scala di pietra che
conduceva sul terrazzo, quando si sentì chiamare di nuovo.
«Stefano?»
Si
voltò, dondolando in
equilibrio tra due scalini. «Sì?»
Enrico era fermo
dove
lo aveva lasciato e lo guardava con la fronte aggrottata.
«Sembra che sia
passata un’eternità» disse di getto, a
bassa voce, come se parlasse a se
stesso.
Stefano
allargò le
braccia, un sorriso malinconico sul viso. «O forse neanche un
giorno… Chi lo
sa. Ci vediamo dopo.» Salì le scale di corsa.
****
Era come se quel
piccolo mondo fosse intrappolato in una bolla al di fuori del tempo che
scorreva, pensò Stefano. Desiderò con forza che
fosse lo stesso anche per lui
ed Enrico, per quello che erano stati da bambini. Entrò in
casa dalla terrazza
come in un sogno, seguendo una musica bassa che riempiva
l’aria: era la voce
della Callas che cantava Oh mio babbino caro dalla Tosca
di
Puccini, una delle arie preferite di Edoardo. Erano infiniti i
pomeriggi della
sua infanzia in cui quelle parole si diffondevano nelle stanze
silenziose della
casa. Sulla soglia del salotto si fermò a osservare i mobili
scuri e pesanti
che sua madre lucidava ogni tre giorni, l’immenso lampadario
di ferro battuto
che veniva spolverato una volta a settimana, le maioliche dai colori
vivaci su
cui non si poteva camminare quando erano state appena
lavate… Deglutì per
mandare giù il nodo che gli serrava la gola e
guardò Edoardo.
Era di fronte a
lui, in
piedi accanto all’alto mobile bar di noce, un sigaro quasi
terminato tra le
dita e impeccabilmente vestito come al solito. Sul tavolino tra il
divano e le
poltrone era posizionato il vecchio giradischi che era appartenuto al
padre di
Edoardo e che lui aveva sempre amato usare, nonostante la casa avesse
un
impianto stereo moderno di ultima generazione. Sebbene Stefano non
avesse fatto
alcun rumore, Edoardo si girò appena mise piede nella stanza
e i loro sguardi
identici si incontrarono, mentre le ultime note della musica si
spegnevano
lentamente. Il giradischi emise un lieve ronzio, poi cadde il silenzio.
Stefano
osservò suo
padre per un lungo momento. Non era cambiato neppure lui. Non gli occhi
di un
azzurro intenso, non i lineamenti marcati e affascinanti appena segnati
dalle
rughe o il fisico alto e slanciato, non appesantito
dall’età, e neppure
l’atteggiamento da signorotto locale ottocentesco che aveva
ereditato dai suoi
antenati, dei quali erano appesi i ritratti in una galleria del primo
piano. Era
quasi identico a quando lo aveva visto l’ultima volta in quel
pomeriggio
lontano, nel cortile del baglio, il giorno in cui sua madre gli aveva
detto che
sarebbe partito. Anche se Stefano era cresciuto e ormai erano alla
stessa
altezza, aveva ancora l’impressione che Edoardo torreggiasse
su di lui, come
quando lo aveva scorto nel sole intenso di quel pomeriggio, mentre
lanciava
sassolini, e all’improvviso aveva visto la sua ombra
incombergli addosso come
una nuvola temporalesca.
«Finalmente»
disse
Edoardo.
Un sorriso
storto gli
si disegnò sul volto e Stefano fu convinto che avesse
percepito ogni suo
pensiero. Si odiò per essere ancora così
trasparente per lui, nonostante il
muro che avrebbe dovuto proteggerlo. Strinse i pugni per un attimo e si
accorse
che tutto il suo corpo era in tensione, pronto a saltare in avanti da
un
momento all’altro per uno scontro. Si impose di rilassarsi e
aprì lentamente le
dita contratte.
«Sì,
sì, lo so. Sono in
ritardo. Aspettare è una novità per te,
giusto?» iniziò con tono rilassato,
quasi casuale. «Però sei tu quello più
in ritardo tra noi due. Un ritardo di
vent’anni.»
Edoardo prese
una
boccata dal sigaro, poi chinò la testa come se annuisse,
senza smettere di
sorridere. «Non hai torto. Ma saresti venuto, se ti avessi
chiamato prima?»
domandò, puntandogli in faccia lo sguardo affilato che
Stefano aveva rivisto
moltissime volte, in quegli anni, nei suoi sogni. Si sentì
trapassare da parte
a parte e si irrigidì per contrastarlo.
«Vuoi
dire… se mi
avessi chiamato prima di scoprire che sei malato di cuore?
Probabilmente no»
ammise. Alzò le spalle. «Non volevo venire neanche
adesso, ma non mi piace
lasciare i conti in sospeso. Ho solo colto l’occasione per
chiuderli.» Quando
aveva ricevuto quell’assurda telefonata, circa quindici
giorni prima, aveva
deciso quasi subito che sarebbe tornato. Poi aveva passato il tempo che
lo
separava dalla partenza a tormentarsi giorno e notte, chiedendosi se
non avesse
commesso un enorme sbaglio. Sua madre non aveva forse fatto di tutto
per
tenerlo lontano dall’isola e da Edoardo? E adesso lui ci
tornava, e per cosa?
Per accontentare un uomo che non gli aveva mai fatto da padre? Non
aveva nessun
senso, eppure, in qualche modo, Stefano aveva sentito che una forza
misteriosa
lo tirava indietro e che forse Edoardo c’entrava solo in una
minima parte. Così
era tornato.
«Un’occasione
come
questa è difficile che si ripresenti»
concordò Edoardo. Sedette su una delle
poltrone, accavallò una gamba con eleganza e
passò il sigaro da una mano
all’altra. Fece cenno al figlio con la testa di sedersi, ma
Stefano rimase
dov’era. «Hai fatto bene ad
approfittarne» continuò, senza dar mostra di aver
notato la cosa. «Finalmente possiamo parlare. Sei
cresciuto» constatò, dopo un
attimo di silenzio, studiando il suo viso. «Come
stai?»
A Stefano
sfuggì quasi
una risata. Scosse il capo. «Non fingere un interesse che non
hai mai avuto»
rispose, gelido. Fece un passo avanti verso suo padre, che lo osservava
con
aria di leggera curiosità, come se leggesse un libro che non
lo convinceva fino
in fondo. «Vuoi parlare? Benissimo, parliamo. Tanto per
cominciare, risparmiati
le rivelazioni drammatiche: so tutto.»
Edoardo non
mostrò
alcuna emozione. Fumò in silenzio per qualche istante,
continuando a studiare
suo figlio senza cambiare espressione. «Te lo ha detto tua
madre, immagino»
mormorò con tono incolore.
Stefano
annuì
bruscamente. Non si fidava di lui. Era certo che Edoardo già
sapesse che lui sapeva,
ma non scopriva mai del tutto le sue carte e lasciava gli altri a
giocare al
buio. Era fatto così. Edoardo emise un sospiro lieve, mentre
si posava un dito
sulle labbra.
«Quando
mi ha mandato
via» confermò Stefano a bassa voce. «Tu
nemmeno questo mi avresti dato, vero?
Neanche la verità. Mi hai tenuto in questa casa come un
ospite. Divertirsi con
mia madre andava bene, prendersi le proprie responsabilità
un po’ meno. Il nome
dei Falconeri non si può sporcare, non ufficialmente,
almeno. La macchia deve
restare sotto il tappeto. Non importa che tutti lo sappiano, non
importa che la
gente ne parli. Quello che conta è che solo Enrico fosse tuo
figlio.» Stefano
espirò, buttando fuori l’aria e trattenendo a
stento una smorfia. «So tutto,
come vedi. E non ho bisogno di sapere altro.»
Edoardo aveva
ascoltato
in silenzio, senza battere ciglio né muovere un muscolo, gli
occhi fermi su
Stefano. Il sigaro tra le sue dita emetteva un filo di fumo sottile.
Quando lui
tacque, si allungò per scuotere leggermente il sigaro su un
elegante posacenere
di porcellana dipinta sul tavolino accanto alla poltrona. Si
raddrizzò, si
schiarì la gola e posò di nuovo il suo sguardo
freddo sul figlio.
«Hai
finito? Sei venuto
fino a qui solo per dire che non sei interessato ad
ascoltarmi?»
«Forse.
Che te ne
importa?»
Non era una
risposta
molto sensata, ma Stefano sentiva che il rancore lo avvolgeva,
strisciando
inarrestabile sopra, sotto, intorno al muro che avrebbe dovuto essere
la sua
difesa, che gli era sembrato così alto e solido e invece gli
si sgretolava tra
le dita, come le costruzioni di sabbia che faceva da bambino sulle
spiagge
dell’isola. Era inerme davanti a Edoardo. Era ancora un
bambino che riusciva a
sfidarlo, a tenergli testa, ma non a sconfiggerlo, e questo pensiero lo
faceva
tremare dalla rabbia. Quanto avrebbe desiderato afferrarlo, tirarlo su
da
quella poltrona e scrollarlo fino a far scivolare via quella odiosa
maschera di
indifferenza, ma era paralizzato.
«Ho
sempre pensato che
tua madre ti avesse raccontato tutto o che prima o poi ci saresti
arrivato da
solo. Sei un ragazzo sveglio, lo so. Lo sei sempre stato»
disse Edoardo,
tranquillo, come se parlasse del più e del meno.
«Non
la nominare.
Lasciala stare» rispose Stefano a denti stretti.
Edoardo
continuò come
se lui non avesse detto nulla. «Neanche a me piace lasciare i
conti in sospeso,
comunque. Mi opero tra quattro giorni. Potrei morire.» Gli
scoccò un’occhiata
rapidissima, poi abbassò lo sguardo. « Pare che ci
siano buone probabilità di
sopravvivenza, se supero l’operazione. Potrei vivere ancora
per diversi anni,
ma volevo rivederti comunque.» Guardò di nuovo
Stefano. Lui si costrinse a
restare impassibile, a non lasciar trapelare nulla, come faceva
Edoardo.
«Non
dovresti fumare»
commentò, rigido.
Edoardo
accennò un
sorriso divertito. «Lo so, ma non sono mai stato bravo a fare
quello che mi
viene detto… quello che è giusto fare. E nemmeno
tu.» Il suo sorriso si fece
più ampio, quasi soddisfatto. «Sei uguale a
me.»
Stefano
sentì un
brivido, mentre i pugni si contraevano per il nervosismo e una smorfia
gli
deformava il viso. «Ah, no… Io non sono per niente
uguale a te» ribatté con
decisione, sebbene nello stesso momento si sforzasse di non mettersi a
urlare.
Era sicuro di non avere niente in comune con l’uomo beffardo
che gli sedeva di
fronte a eccezione degli occhi e dei lineamenti eleganti e squadrati. Doveva
esserne sicuro. Era l’unico modo per non impazzire, ma
avrebbe preferito che
l’ansia non gli si insinuasse con tanta facilità
sotto la pelle, nella carne,
fin dentro le ossa. «E comunque, che importanza ha?
È Enrico tuo figlio,
giusto?» Dovette ingoiare il disagio di pronunciare quel nome
davanti a
Edoardo. Si domandò cosa stesse facendo, se lo stesse
aspettando davvero come
aveva promesso, diviso tra il desiderio di parlargli e il timore di
affrontare
la verità insieme, se si stesse tormentando per sapere di
cosa parlavano Edoardo
e Stefano in quel momento.
Edoardo
inclinò la
testa da un lato, un gesto che faceva spesso quando qualcosa lo
contrariava.
«Enrico…» mormorò e insieme
al nome di suo figlio emise un sospiro pesante. «È
un bravo ragazzo. Ma quando sento parlare di te… di quello
che fai… di quanto vai
bene all’università, delle ragazze che ti corrono
dietro… Mi fa piacere.»
Aveva ancora
quel
ghigno di soddisfazione che a Stefano faceva rivoltare lo stomaco.
Sapeva che
era sincero. Lui non diceva mai bugie, si limitava a tacere la
verità. Stefano
aveva sempre pensato che trovasse poco dignitoso inventare storie.
Quelle parole,
però, non lo rendevano affatto orgoglioso o felice, anzi.
Erano un coltello che
scavava un solco nel suo petto.
«Tu
non sai niente di
me» sbottò in tono di sfida, quasi derisorio.
«Non crederai che queste
stronzate significhino qualcosa. Non mi conosci, non ti sei mai
preoccupato di
farlo.»
Edoardo lo
fissò senza
parlare per qualche istante, poi inspirò piano e diede
un’altra boccata al suo
sigaro. «Non hai torto» ammise, la voce priva di
inflessioni, come se fosse una
constatazione priva di importanza. «Mi dispiace di questo,
credimi.» Stefano
rispose con una smorfia che Edoardo finse di ignorare. «So
che ormai è tardi,
però voglio almeno chiarire una cosa»
proseguì il vecchio. Adesso aveva un tono
leggermente più alto e fermo. Guardò Stefano
dritto negli occhi con espressione
determinata. «Io avrei voluto darti il mio cognome. Qualche
volta ci ho pensato
seriamente. Ma tua madre non avrebbe voluto… Sapevo che non
avrebbe voluto. E
poi… non potevo.»
Stefano contenne
a
stento una risata di scherno. «Certo, altrimenti avresti
dovuto ammettere
apertamente che cosa avevi fatto, davanti a tutti.»
«No»
rispose Edoardo,
tranquillo, senza staccare lo sguardo da quello del ragazzo.
«Quello che dice
la gente non ha nessuna importanza per me e tu mi conosci, lo sai. Non
potevo
farlo» ripeté, più lentamente,
scandendo le parole. Stefano fece per intervenire
di nuovo, ma lui continuò a parlare e glielo
impedì. «Se ci tenevi così tanto,
però, perché non ti sei rivolto alla legge? Il
tuo sangue è il mio sangue. Puoi
farlo ancora» aggiunse e a Stefano parve che lo sfidasse a
farlo sul serio.
Studiava suo figlio come se fosse in corso una partita a scacchi e lui
avesse
appena spostato una pedina in una posizione pericolosa per
l’altro con un
sorriso lieve sulle labbra.
«Perché
non me ne frega
niente di queste stronzate. Non lo volevo quando ero un ragazzino, il
tuo
dannato cognome, e non lo voglio adesso. Non voglio essere un
Falconeri» sbottò
Stefano. Non aveva mai detto quelle parole a voce alta, ma nel momento
in cui
le pronunciò fu certo che fosse la verità. No,
non voleva un simile cappio al
collo ed essere strangolato come era successo a suo fratello.
«E che
cosa vuoi,
allora?» chiese Edoardo a bruciapelo, quasi prima che Stefano
finisse di
parlare. Sembrava curioso.
Stefano fece un
passo
avanti e si ritrovò ancora più vicino a lui. Lo
osservò in silenzio, il respiro
appena affannoso. «Guardarti in faccia e dirti che non ho
bisogno di te.»
Sul viso di
Edoardo
comparve un’espressione leggermente divertita mentre si
allungava per spegnere
nel posacenere quello che restava del sigaro. Agitò piano la
mano per
disperdere il velo di fumo che lo avvolgeva, tornò ad
appoggiarsi contro lo
schienale della poltrona e sorrise.
«Sei
venuto fino a qui
solo per questo?» disse, il tono denso di ironia. Scosse la
testa con un
movimento quasi impercettibile. «Non ti credo, Stefano. Penso
che tu stia
cercando qualcosa, anche se forse non sai nemmeno tu che cosa
sia.»
Il ragazzo
sussultò e
sebbene si sforzasse di nasconderlo muovendosi sul posto, fu certo dal
lampo
nel suo sguardo che Edoardo se ne fosse accorto. Non gli sfuggiva mai
nulla. Il
suo stomaco era talmente serrato nella morsa della nausea che quasi non
riusciva a respirare. All’improvviso sentì la
necessità impellente di uscire da
lì, di allontanarsi da Edoardo e dalla sua espressione
sardonica che tagliava
in due. Si costrinse a prendere fiato.
«Quando
mia madre mi ha
mandato via, mi ha detto che qui non c’era niente per
me» disse lentamente, ma
senza esitare. Suo padre lo studiava immobile, con aria di vaga
curiosità, come
se avesse davanti un problema di scarso interesse. «E aveva
ragione, almeno per
quanto riguarda te. Il tuo egoismo uccide le persone che ti stanno
vicino. E
non è solo una metafora, giusto?» Suo padre non
ebbe alcuna reazione visibile,
ma Stefano era sicuro che se fosse stato una persona che si abbandonava
agli
eccessi si sarebbe alzato in piedi di scatto e avrebbe rovesciato la
poltrona
su cui era seduto e poi forse gli avrebbe dato un pugno. Stefano lo
avrebbe
preferito, ma Edoardo non si mosse e non emise un fiato mentre lui si
godeva
quel piccolo momento di meschino trionfo. Era l’unica cosa
che avrebbe mai
potuto ottenere, lì, da suo padre. «Questa farsa
è durata abbastanza» concluse
in tono secco e si girò per uscire.
La voce di
Edoardo lo
bloccò. «Se vuoi andartene, lascia almeno che ti
dica una cosa. Una soltanto.»
Stefano si fermò, senza voltarsi di nuovo a guardarlo.
Sarebbe dovuto uscire e
basta, lo sapeva, ma una parte di lui restava inchiodata lì
ad aspettare. «So
che tu sarai convinto del contrario, ma quando tua madre si
è ammalata… mi è
dispiaciuto. Molto. Ho fatto tutto quello che era possibile: medici,
cure. Non
è servito a niente.» Stefano ascoltava, immobile.
Chiuse gli occhi, cercando di
vedere con la mente l’ultimo periodo di vita di sua madre,
come aveva fatto
centinaia di volte in quegli anni, ma non ci riusciva molto bene. Maria
Ruggero
era stata una persona così forte e piena di vita che
immaginarla malata,
debole, morente, gli era quasi impossibile. Avrebbe voluto urlare con
tutto se
stesso a Edoardo che era tutto falso, che era un bugiardo, ma dentro di
sé
sentiva che era sincero. Questo gli faceva più male di
tutto, senza che ne
comprendesse il motivo. Ci fu una pausa lunghissima, poi Edoardo
mormorò
qualcosa con voce appena udibile. «Mi importava di
lei.»
Anche Stefano si
prese
una pausa. Inspirò ed espirò molte volte,
lentamente, cercando di mantenere il
controllo, perché non poteva sopportare che Edoardo vedesse
la sua fragilità.
L’avrebbe afferrata e l’avrebbe ritorta contro di
lui, come un’arma. Lottò con
il male che gli stringeva il petto e con il ricordo di sua madre,
andata via
così, senza che potesse rivederla un’ultima volta.
Poi, quando gli parve di
essere riuscito a ricacciare tutto dietro il muro di difesa, si
voltò di nuovo
verso Edoardo, perché potesse vedere il disprezzo sul suo
viso.
«Sì,
lo so» disse a
bassa voce. «Lo so che ti importava. E sai come lo so?
Perché tutti quelli a
cui tieni… va a finire che si rovinano la vita, in un modo o
in un altro.» Alzò
gli occhi sul padre e rimasero a fissarsi per chissà quanto
tempo. Poi Stefano
si mosse, voltandosi verso la porta. Ormai non aveva senso restare.
Aveva
finito, lì. «Spero che ce la farai.
Davvero» sussurrò appena prima di uscire
dal salotto.
Rifece
il percorso a
ritroso, senza fretta, ma senza esitazioni, pensando che molto
probabilmente
era l’ultima volta che attraversava quelle stanze, eppure
incapace di guardarle
bene per dirgli addio. Voleva solo uscire da quella casa e non tornarci
mai più.
Faceva troppo male. Quando uscì sul ballatoio,
all’aria aperta e alla luce
forte del sole d’estate, gli sembrò di respirare
meglio, di avere le idee più
chiare. Scese di slancio la scala di pietra e atterrò nel
cortile, chiedendosi
dove potesse essere Enrico. Non voleva tornare dentro, così
si disse che forse
avrebbe potuto chiedere a Nino di cercarlo e poi proporgli di fare un
giro da
qualche parte. Ovunque, purché non fosse tra quelle stanze.
Aveva la sensazione
che non sarebbero mai riusciti a parlare sotto il tetto di Edoardo. Poi
alzò
gli occhi e il suo cuore si fermò.
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