Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Cathy Holland    26/03/2024    1 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

PARTE TERZA

ISOLA DI SANTO STEFANO

Agosto-ottobre 1999

 

 

CAPITOLO 10

LO SPECCHIO

 

 

Isola di Santo Stefano

Agosto 1999

 

 

Quando il traghetto entrò nel porto, Stefano gettò un’occhiata all’orologio che gli zii gli aveva regalato per il diploma, due anni prima: erano quasi le quattro del pomeriggio e lui era in ritardo di tre ore. Sul suo viso si disegnò un sorriso di cupa soddisfazione, mentre inforcava di nuovo gli occhiali da sole che aveva sollevato sopra la testa.

Guardò l’isola che si avvicinava sempre di più. Ormai gli sembrava di poter toccare terra allungando il braccio. Era una calda giornata di inizio agosto e il sole, alto e scintillante nel cielo terso, picchiava forte sul ponte del traghetto, che stava completando la manovra per entrare nel porto con la prua rivolta verso il mare. Stefano si era posizionato fuori fin dall’inizio del viaggio, su uno degli scomodi sedili di legno mezzo marcio, lo sguardo ostinatamente, sfacciatamente fisso verso il punto dove sapeva che l’isola sarebbe apparsa. Se n’era andato proprio così, undici anni prima, fermo sul ponte a guardare la sua casa svanire lentamente nell’azzurro polveroso e sfumato dell’orizzonte, ed era così che voleva tornare, così che voleva vederla ricomparire da quello stesso azzurro.

Eccola lì, bella come una principessa del mare, con le casette colorate aggrappate alla roccia, i pendii aspri e scoscesi, la sonnolenta Portosalvo, le insenature rocciose che Stefano ricordava ancora alla perfezione, perché le aveva tracciate in sogno tutte le notti. Poi l’ultima, brusca virata del traghetto, lo strattone allo stomaco che annunciava il ritorno a casa. L’isola della sua infanzia, dei ricordi più dolci e degli incubi più tremendi. Ci tornava per la prima volta da quel giorno lontano in cui era stato costretto ad andare via di nascosto, quasi scappando per una colpa che non gli apparteneva. Ci tornava con la nonchalance di chi non ha nulla da perdere, perché tutto quello che un tempo era stato suo lo aveva già perso.

Il ponte per l’attracco iniziava ad abbassarsi. Stefano si alzò, si caricò in spalla la piccola borsa che aveva con sé e si avviò giù per le ripide scalette di ferro con passo svelto e sicuro. Quando mise piede a terra cercò dentro di sé la traccia, anche vaghissima, di una qualche emozione, ma scoprì con soddisfazione che non ce n’era nessuna. Il muro dietro cui le aveva intrappolate per tutti quegli anni era ormai troppo alto da scalare. D’altronde, tornava sull’isola con una missione da compiere, un unico scopo nella mente, e tutto il resto non aveva importanza. Non doveva averne. Crogiolarsi nei ricordi o nei rimpianti non faceva parte dei suoi piani.

Mentre usciva dall’area pedonale destinata allo sbarco, lo seguirono con lo sguardo, nell’ordine, una signora con un cagnolino al guinzaglio, una ragazza in coda per imbarcarsi sul prossimo traghetto con una sacca da campeggio in spalla e una donna sulla trentina al lavoro nel bar del porto. Lui se ne accorse, ma fece finta di nulla. Era abituato agli sguardi femminili e non gli facevano né caldo né freddo. Erano come acqua che scivola via sulla pelle già bagnata. Si guardò intorno, cercando la macchina che, secondo i patti, doveva essere lì ad aspettarlo. Non fu difficile identificarla: nel parcheggio adiacente alla zona di sbarco, a pochi metri da lui, c’era una vecchia Ford di un rosso sbiadito e polveroso, come se per anni e anni fosse stata lasciata esposta al sole e alle intemperie senza ricevere nessuna cura. Sul parabrezza, all’interno, era stato sistemato un foglio di carta con su scritto “Stefano Ruggero” in uno stampatello sgraziato.

Stefano si avvicinò: una figura giaceva distesa sul sedile reclinato del conducente, un berretto a coprirne il volto. Sbuffò e picchiò forte con la mano sul vetro della macchina. La figura sobbalzò come se avesse preso una scossa elettrica e il berretto scivolò via, rivelando il viso magro, spigoloso e lentigginoso di un ragazzo che doveva avere all’incirca la stessa età di Stefano. Si guardò intorno con aria confusa e quando notò Stefano sgranò gli occhi. Cercò prima di abbassare il finestrino, poi di aprire la portiera, agitato e imbrogliandosi con le sue stesse mani, mentre Stefano lo osservava con le sopracciglia inarcate. Finalmente il ragazzo riuscì a smontare dalla Ford.

«Stefano Ruggero?» domandò precipitosamente, la voce e lo sguardo ancora velati dal sonno. L’interpellato annuì brevemente e il ragazzo per poco non scoppiò a ridere per il sollievo. «Finalmente sei arrivato!» Si passò una mano sul viso, forse cercando di svegliarsi del tutto. «Pensavo che mi avevano mandato qua pamparissi.[1]»

«Per scherzo?»

«E certo! Dovevi arrivari tre ore fa: all’una precisa, così mi era stato detto» rispose il ragazzo e all’improvviso assunse un’aria seria, come per sottolineare che non era venuto meno al compito affidatogli.

«Quindi tu sei qui dall’una?» si informò Stefano, più per prendere tempo che per vera curiosità, perché aveva già intuito la risposta. Il ragazzo doveva essersi addormentato a forza di aspettare qualcuno che non arrivava mai. «Mi dispiace per il ritardo. Volevo… mandare un messaggio.»

Il ragazzo lo fissò senza capire. «Un messaggio? E allora facevi prima a telefonare, no?» disse, sorridendo.

Stefano rimase serio. «Va be’, adesso sono arrivato. Andiamo.»

«Hai solo questa?» chiese il ragazzo, fissando la piccola borsa che Stefano stava lanciando sul sedile posteriore dell’auto.

«Solo questa. Non ho intenzione di fermarmi.»

Salirono in macchina e partirono. Stefano si accorse che il ragazzo gli lanciava occhiate curiose di continuo, credendo di non farsi notare, forse domandandosi perché avesse quell’espressione così distante e annoiata, come se fosse venuto fin lì da Milano tirato per un guinzaglio. Fece finta di nulla anche questa volta, come con gli sguardi femminili al porto.

«Lavori per i Falconeri?» indagò.

Voltò la testa verso il finestrino. La Ford era vecchia, ma proseguiva veloce lungo le stradine in salita e in discesa di Portosalvo, tra la casette con archi, scalette e terrazze, le vecchie botteghe scure e profonde come grotte affiancate da pizzerie, ristorantini e nuovi negozi ampi e luminosi. Serrò le labbra, facendo forza contro il muro perché restasse su a contenere quello che minacciava di riversarsi fuori da un momento all’altro, riempirgli la mente e farlo impazzire. Era così assurdo essere di nuovo lì che per un attimo si chiese se non fosse solo un altro dei suoi sogni e affondò le unghie nel palmo della mano, per controllare. Faceva male.

«Giardiniere e tutto-fare. Nino Mancuso» si presentò il ragazzo con un sorriso aperto.

Quel nome evocò qualcosa nella mente di Stefano, che si girò a osservarlo, sorpreso. «Mancuso? Ma allora sei parente di Michele?»

«Mio nonno era. Se n’è andato da cinque anni» rispose Nino, tornando serio di colpo.

Stefano ebbe un piccolo sussulto. Non ricordava che il vecchio Michele, il giardiniere sempre sorridente e gentile che se lo metteva sulle ginocchia e gli offriva caramelle appiccicose tirate fuori dalle tasche, avesse un nipote. Quando era bambino, sull’isola, passava quasi tutto il suo tempo con Enrico e Claudia e gli altri bambini erano una nebulosa indistinta nei suoi ricordi. Serrò le labbra ancora di più, per non pensare troppo, mentre Nino continuava a parlare.

«Mio padre si era aperto una bottega in paese e così il signor Falconeri ha preso me. Non è per sempre, eh… Prima o poi mi trovo qualcosa da fare. Ma per adesso mi piace. Famìa[2] proprio, oggi!» concluse, sbuffando. Prese ad armeggiare per abbassare al massimo il finestrino, senza distogliere gli occhi dalla strada.

«Mi dispiace per tuo nonno. Era una brava persona» mormorò Stefano, dopo qualche istante.

Nino sembrò stupito. «Ti ricordi di lui? E come fai?» esclamò, scherzoso. «Mi hanno detto che te ne sei andato da picciriddo.[3]»

Stefano tornò in fretta a guardare fuori dal finestrino, sebbene avesse l’aria distratta, come se seguisse con gli occhi fantasmi invisibili a chiunque altro. Erano usciti dal paese e ora stavano attraversando la campagna martellata dal sole: campi di grano, boschetti di ulivi, agavi, mandorli, aranceti, limoneti. Poi, di colpo, iniziarono i vigneti senza fine dei Falconeri. Stefano deglutì. «Ricordo benissimo. Ricordo più di quanto vorrei.» Finalmente apparve il profilo severo e imponente del baglio. Stefano si irrigidì. Sembrava uscito dritto dritto dai suoi sogni o dai suoi peggiori incubi. Era davvero lì, era sempre lì. Affondò di nuovo le unghie nelle carne e il dolore, in qualche strano modo, gli diede sollievo. «Senti… come vanno le cose al baglio? Stanno tutti bene?» indagò, lo sguardo fisso sulla casa che si avvicinava.

Nino gli scoccò un’occhiata, poi alzò appena le spalle. «Vanno bene… Stanno tutti bene. A parte il signor Falconeri, ma questo già lo sai» rispose. Era chiaro che non sapeva bene che cosa dire. «Enrico fa l’università. E sta sempre attaccato alla sua zita[4]» aggiunse, con un sorrisino che gli spuntava sulle labbra.

Stefano non commentò e continuò a guardare fuori, disinteressato. Le risposte non gli sembravano soddisfacenti. Ogni tanto, mentre si avvicinavano alla meta, era sul punto di dire qualcosa, fare altre domande, ma non sapeva neanche lui cosa volesse sapere davvero e se voleva saperlo davvero. Rimase in silenzio, in preda alla confusione, mentre varcavano il cancello di ferro del baglio, immobile e quasi senza respirare. Quando Nino spense il motore sul viale principale, Stefano scese lentamente dalla macchina, guardandosi intorno con gli occhi stretti e il viso contratto.

«Vuoi che ti accompagno di sopra?» gli chiese Nino, mentre richiudeva la portiera del guidatore. Stefano non si girò a guardarlo e si limitò a scuotere la testa. «Non c’è bisogno, grazie» rispose a denti stretti. Non c’era la minima possibilità che si perdesse in quella casa.

Il ragazzo tentennò un momento, ancora in piedi accanto alla Ford, come se non volesse defilarsi troppo presto. «Allora… io vado a mangiare, se non ti serve niente. Ho una rica[5] che non ce la faccio più.»

Stefano accennò un mezzo sorriso. Probabilmente Nino era stato costretto a saltare il pranzo, vittima innocente del suo piano di farsi aspettare il più a lungo possibile. Annuì. «Vai, vai. Io sono a posto, grazie del passaggio.»

Nino gli lanciò ancora un’occhiata dubbiosa, come se temesse di essere rimproverato per aver abbandonato un ospite in quel modo. Poi la fame sembrò avere la meglio, così si avviò a passo rapido in direzione della porta che conduceva alla cucina. Stefano lo notò a malapena, con la coda dell’occhio. Era troppo preso a osservare il cortile e la casa. Era tutto così uguale a come lo aveva lasciato da fargli pensare di essere appena andato via. Forse sua madre sarebbe apparsa da un momento all’altro sulla soglia della cucina, i lunghi capelli neri ondeggianti sulle spalle e uno dei suoi vestiti a fiori, una mano sugli occhi per schermarli dal sole, intenta a cercarla con lo sguardo nel timore che fosse finito chissà dove a combinare chissà cosa. L’aveva vista così decine di volte da bambino. Quando infine lo trovava, la sua fronte si distendeva, l’espressione si rasserenava e sollevava l’altro braccio per attirare la sua attenzione mentre lo chiamava.

«Stefano! Stefano!»

Sbatté le palpebre, lottando contro il dolore e la nostalgia che premevano contro il muro e che lo avrebbero soffocato se fossero stati liberati. No, non poteva essere vero. Nessuno lo stava chiamando, era solo uno scherzo della sua immaginazione. Si volse lentamente, lo stomaco annodato dall’ansia, chiedendosi per un folle attimo chi avrebbe visto. Forse il tempo si era davvero fermato, in quel posto? Non era sua madre, ma il tuffo al cuore fu quasi altrettanto violento che se avesse visto lei. In piedi, davanti a lui, c’era un ragazzo. Poteva avere la sua età o al massimo un paio d’anni di più. I capelli castano chiaro erano mossi da un venticello caldo e placido e gli occhi azzurri, che lo fissavano colmi di gravità, erano lo specchio dei suoi. Erano sempre stati l’uno lo specchio dell’altro, due metà di un intero che era stato spezzato. Stefano rimase lì a fissarlo per qualche istante, poi abbassò piano gli occhiali da sole.

«Enrico» disse con un filo di voce che quasi gli morì in gola. L’altro ragazzo lo osservava con una consapevolezza tale che di colpo capì, quasi senza ombra di dubbio, che sapeva del vero legame che li univa: sapeva che condividevano lo stesso padre. In quegli anni di esilio si era sempre domandato con angoscia se Enrico avesse mai scoperto la verità, quando e come potesse essere successo, se Edoardo avesse mai trovato il coraggio di ammetterla a voce alta. Non poteva avere la certezza che fosse stato lui a parlarne a Enrico, ma ora lui sapeva. Di questo Stefano fu assolutamente, totalmente, tremendamente certo. Sapeva e forse lo odiava. Deglutì, mentre quel pensiero atroce gli gelava il sangue nelle vene.

Enrico restò in silenzio per un po’, pensieroso, forse cercando le parole giuste per salutarlo dopo undici anni. Poi parve arrendersi. «Sei in ritardo. Ti aspettavamo ore fa» disse semplicemente. Doveva essere arrivato alla conclusione che le parole giuste per una simile circostanza non esistevano.

Stefano tirò fuori un mezzo sorriso storto. «Lo so. Mi piace farmi desiderare.»

Enrico esitò, poi abbassò la testa, come se annuisse tra sé, e un accenno di sorriso apparve anche sulle sue labbra. «Non sei cambiato.» Non era una domanda. Stefano non fu sorpreso di scoprire che si capivano ancora con uno sguardo, come quando erano bambini, come se gli undici anni che li separavano fossero svaniti in un soffio. Lo stupì, invece, rendersi conto che ne era felice.

«Neanche tu sembri cambiato. Mi fa piacere rivederti.»

«Anche a me» rispose Enrico a bassa voce, il suo solito sorriso timido che gli illuminava lentamente il volto.

Non sembrava che ce l’avesse con lui. Stefano provava l’impulso di colmare con pochi passi la distanza che li separava e abbracciarlo, ma si trattenne. Il ricordo del loro ultimo incontro, nella cantina del baglio, e delle parole affilate che il fratello gli aveva lanciato contro come coltelli, con precisione, per ferire, era ancora vivo dentro di lui. Non gli portava rancore, dopotutto erano passati tanti anni e nel frattempo lui aveva imparato a comprendere le ragioni che lo avevano spinto a comportarsi in quel modo. Non poteva neppure far finta di nulla, però. E l’ombra che scorgeva nello sguardo limpido di Enrico gli faceva pensare che anche lui avesse la stessa incertezza. E poi non aveva idea di come Enrico avrebbe potuto reagire a un gesto così forte e improvviso. Non sapeva se fosse felice o meno del loro legame di sangue. Così Stefano rimase dov’era, limitandosi a studiare con attenzione, curiosità e affetto il viso dell’altro.

«Come te la passi?» domandò Enrico dopo una pausa. Sembrava vagamente imbarazzato, come se non sapesse bene cosa dire per riempire il silenzio. Era ancora timido come quando era bambino.

Stefano si schiarì la gola. «Bene… Sto bene, a Milano.»

«So che fai Economia» continuò l’altro ragazzo, poi esitò un istante e aggiunse con tono leggermente diverso. «Si parla spesso di te, in paese.»

Stefano si irrigidì appena. Se lo aspettava. Sapeva che zia Luisa aveva mantenuto i contatti con alcune vecchie conoscenze di Portosalvo e in un posto così piccolo, dove non succedeva quasi mai niente di interessante, le voci giravano in fretta e si stava sempre a spettegolare di qualcuno. Non riusciva a decidere se gli facesse piacere o meno. Gli dava un’amara soddisfazione il fatto che Edoardo sapesse quanto era brillante il figlio che lui aveva sempre respinto, che non aveva mai voluto riconoscere apertamente come suo, dandogli l’affetto e le cure che gli spettavano, ma quando incrociò lo sguardo di Enrico notò che l’ombra sullo sfondo azzurro si era incupita. Provò uno strano disagio.

«Parlano sempre troppo, qui» commentò e si rilassò un po’ quando vide il fratello accennare un sorriso di comprensione. Sicuramente anche lui era spesso al centro delle chiacchiere in paese. I Falconeri erano la famiglia più importante dell’isola e uno dei maggiori imprenditori di tutta la Sicilia. «Sì, faccio Economia. A ottobre inizio uno stage, in banca. Voglio lavorare nella finanza.» Lo disse con tono asciutto e sicuro, privo di ansia o incertezza, come se il suo futuro fosse scritto nella pietra e in effetti aveva davvero questa sensazione, a volte.

Enrico contrasse la fronte. «Finanza? Sì…» mormorò, pensieroso, lo sguardo lontano, come se osservasse il futuro radioso del fratello che si stendeva davanti ai suoi occhi. «Riesco a immaginarti. Eri il migliore di tutta la scuola in matematica. E poi hai la faccia giusta.»

«La faccia da stronzo, vuoi dire?»

Enrico fece un sorriso sghembo. «Intendevo “faccia tosta”, ma se te lo dici da solo…»

Stefano ricambiò il sorriso. Sentiva che entrambi si stavano rilassando, come se avessero recuperato in fretta la familiarità che li univa in passato. E sentiva un senso di apertura da parte di Enrico. Per la prima volta da quando era tornato sull’isola, per la prima volta da quando aveva deciso che sarebbe tornato, fu sfiorato dall’idea che lì potesse esserci qualcosa per lui. Che forse qualcosa si poteva salvare. L’euforia lo riempì come acqua versata in un vaso, ma cercò di tenerla a bada.

«E tu che cosa fai?»

«Giurisprudenza. A Palermo. Dovrei finire l’anno prossimo.»

«E poi? Manderai avanti la baracca?» chiese Stefano, percorrendo velocemente con lo sguardo la casa e il cortile.

Suo fratello non se la prese per quel modo irriverente di definire l’attività che la sua famiglia portava avanti da cento anni. Si era già riabituato al sarcasmo lacerante di Stefano. Alzò le spalle. «Qualcuno deve pur farlo.» Attese per qualche secondo, poi, dato che Stefano restava in silenzio e sembrava non avere nulla da aggiungere, parlò di nuovo. «Ti sta aspettando dentro. In salotto» disse, la voce di colpo dura e fredda come i sassolini delle calette rocciose, dove andavano sempre a giocare da bambini, sotto le loro piccole mani, quando il sole non ci batteva sopra.

Stefano espirò e annuì. «Meglio che vada, allora. Non vorrei farlo aspettare troppo» rispose, ironico.

«Quando riparti?»

«Stasera. Prendo l’ultimo traghetto, quelle delle otto.»

«Scappi via, insomma.»

Enrico lo aveva detto senza nessuna inflessione particolare, ma alle orecchie di Stefano suonò come un’accusa. Gli parve che in realtà volesse dire “Mi lasci, insomma. Di nuovo.” Si mosse sui piedi, a disagio. «Non ho motivo di restare» rispose. Poi ebbe un attimo di incertezza. C’era qualcosa che premeva con forza dietro il muro costruito con tanta cura e pazienza per imprigionare il passato e consentirgli di andare avanti, di sopravvivere senza la metà di se stesso, e gli sembrava di non riuscire a trattenerla. Era un fiume in piena che investiva una diga con la violenza di un uragano. Era il suo cuore che urlava per essere ascoltato. Era il vuoto nel suo petto che implorava di essere colmato. Prese aria, cercando disperatamente le parole giuste per farla uscire, qualunque cosa fosse. «A meno che… se ti va… Prima che me ne vada potremmo… parlare un po’.»

Enrico lo fissava con aria grave e Stefano pensò che forse intuiva il suo tumulto interiore. Dopotutto, era la persona che lo conosceva di più al mondo. Anche se non si vedevano e non si parlavano da tanti anni, non pensava che questa distanza potesse effettivamente cambiare qualcosa tra loro: ciascuno dei due aveva incontrato l’anima dell’altro senza alcuna barriera. Stefano parlava con i suoi amici dell’università ogni giorno, eppure non poteva dire lo stesso di nessuno di loro. Niente, nemmeno un milione di anni, avrebbe mai potuto rompere questo legame.

Enrico rifletté per un po’, poi assentì piano. «Okay» rispose e la sua voce aveva già perso la punta di durezza di poco prima. 

Stefano gli rivolse un sorriso cauto, ma speranzoso, e un cenno con la testa. Poi si avviò, oltrepassando il fratello, ed era già a metà della scala di pietra che conduceva sul terrazzo, quando si sentì chiamare di nuovo.

«Stefano?»

Si voltò, dondolando in equilibrio tra due scalini. «Sì?»

Enrico era fermo dove lo aveva lasciato e lo guardava con la fronte aggrottata. «Sembra che sia passata un’eternità» disse di getto, a bassa voce, come se parlasse a se stesso.

Stefano allargò le braccia, un sorriso malinconico sul viso. «O forse neanche un giorno… Chi lo sa. Ci vediamo dopo.» Salì le scale di corsa.

 

 

****

 

 

Era come se quel piccolo mondo fosse intrappolato in una bolla al di fuori del tempo che scorreva, pensò Stefano. Desiderò con forza che fosse lo stesso anche per lui ed Enrico, per quello che erano stati da bambini. Entrò in casa dalla terrazza come in un sogno, seguendo una musica bassa che riempiva l’aria: era la voce della Callas che cantava Oh mio babbino caro dalla Tosca di Puccini, una delle arie preferite di Edoardo. Erano infiniti i pomeriggi della sua infanzia in cui quelle parole si diffondevano nelle stanze silenziose della casa. Sulla soglia del salotto si fermò a osservare i mobili scuri e pesanti che sua madre lucidava ogni tre giorni, l’immenso lampadario di ferro battuto che veniva spolverato una volta a settimana, le maioliche dai colori vivaci su cui non si poteva camminare quando erano state appena lavate… Deglutì per mandare giù il nodo che gli serrava la gola e guardò Edoardo.

Era di fronte a lui, in piedi accanto all’alto mobile bar di noce, un sigaro quasi terminato tra le dita e impeccabilmente vestito come al solito. Sul tavolino tra il divano e le poltrone era posizionato il vecchio giradischi che era appartenuto al padre di Edoardo e che lui aveva sempre amato usare, nonostante la casa avesse un impianto stereo moderno di ultima generazione. Sebbene Stefano non avesse fatto alcun rumore, Edoardo si girò appena mise piede nella stanza e i loro sguardi identici si incontrarono, mentre le ultime note della musica si spegnevano lentamente. Il giradischi emise un lieve ronzio, poi cadde il silenzio.

Stefano osservò suo padre per un lungo momento. Non era cambiato neppure lui. Non gli occhi di un azzurro intenso, non i lineamenti marcati e affascinanti appena segnati dalle rughe o il fisico alto e slanciato, non appesantito dall’età, e neppure l’atteggiamento da signorotto locale ottocentesco che aveva ereditato dai suoi antenati, dei quali erano appesi i ritratti in una galleria del primo piano. Era quasi identico a quando lo aveva visto l’ultima volta in quel pomeriggio lontano, nel cortile del baglio, il giorno in cui sua madre gli aveva detto che sarebbe partito. Anche se Stefano era cresciuto e ormai erano alla stessa altezza, aveva ancora l’impressione che Edoardo torreggiasse su di lui, come quando lo aveva scorto nel sole intenso di quel pomeriggio, mentre lanciava sassolini, e all’improvviso aveva visto la sua ombra incombergli addosso come una nuvola temporalesca.

«Finalmente» disse Edoardo.

Un sorriso storto gli si disegnò sul volto e Stefano fu convinto che avesse percepito ogni suo pensiero. Si odiò per essere ancora così trasparente per lui, nonostante il muro che avrebbe dovuto proteggerlo. Strinse i pugni per un attimo e si accorse che tutto il suo corpo era in tensione, pronto a saltare in avanti da un momento all’altro per uno scontro. Si impose di rilassarsi e aprì lentamente le dita contratte.

«Sì, sì, lo so. Sono in ritardo. Aspettare è una novità per te, giusto?» iniziò con tono rilassato, quasi casuale. «Però sei tu quello più in ritardo tra noi due. Un ritardo di vent’anni.»

Edoardo prese una boccata dal sigaro, poi chinò la testa come se annuisse, senza smettere di sorridere. «Non hai torto. Ma saresti venuto, se ti avessi chiamato prima?» domandò, puntandogli in faccia lo sguardo affilato che Stefano aveva rivisto moltissime volte, in quegli anni, nei suoi sogni. Si sentì trapassare da parte a parte e si irrigidì per contrastarlo.

«Vuoi dire… se mi avessi chiamato prima di scoprire che sei malato di cuore? Probabilmente no» ammise. Alzò le spalle. «Non volevo venire neanche adesso, ma non mi piace lasciare i conti in sospeso. Ho solo colto l’occasione per chiuderli.» Quando aveva ricevuto quell’assurda telefonata, circa quindici giorni prima, aveva deciso quasi subito che sarebbe tornato. Poi aveva passato il tempo che lo separava dalla partenza a tormentarsi giorno e notte, chiedendosi se non avesse commesso un enorme sbaglio. Sua madre non aveva forse fatto di tutto per tenerlo lontano dall’isola e da Edoardo? E adesso lui ci tornava, e per cosa? Per accontentare un uomo che non gli aveva mai fatto da padre? Non aveva nessun senso, eppure, in qualche modo, Stefano aveva sentito che una forza misteriosa lo tirava indietro e che forse Edoardo c’entrava solo in una minima parte. Così era tornato.

«Un’occasione come questa è difficile che si ripresenti» concordò Edoardo. Sedette su una delle poltrone, accavallò una gamba con eleganza e passò il sigaro da una mano all’altra. Fece cenno al figlio con la testa di sedersi, ma Stefano rimase dov’era. «Hai fatto bene ad approfittarne» continuò, senza dar mostra di aver notato la cosa. «Finalmente possiamo parlare. Sei cresciuto» constatò, dopo un attimo di silenzio, studiando il suo viso. «Come stai?»

A Stefano sfuggì quasi una risata. Scosse il capo. «Non fingere un interesse che non hai mai avuto» rispose, gelido. Fece un passo avanti verso suo padre, che lo osservava con aria di leggera curiosità, come se leggesse un libro che non lo convinceva fino in fondo. «Vuoi parlare? Benissimo, parliamo. Tanto per cominciare, risparmiati le rivelazioni drammatiche: so tutto.»

Edoardo non mostrò alcuna emozione. Fumò in silenzio per qualche istante, continuando a studiare suo figlio senza cambiare espressione. «Te lo ha detto tua madre, immagino» mormorò con tono incolore.

Stefano annuì bruscamente. Non si fidava di lui. Era certo che Edoardo già sapesse che lui sapeva, ma non scopriva mai del tutto le sue carte e lasciava gli altri a giocare al buio. Era fatto così. Edoardo emise un sospiro lieve, mentre si posava un dito sulle labbra.

«Quando mi ha mandato via» confermò Stefano a bassa voce. «Tu nemmeno questo mi avresti dato, vero? Neanche la verità. Mi hai tenuto in questa casa come un ospite. Divertirsi con mia madre andava bene, prendersi le proprie responsabilità un po’ meno. Il nome dei Falconeri non si può sporcare, non ufficialmente, almeno. La macchia deve restare sotto il tappeto. Non importa che tutti lo sappiano, non importa che la gente ne parli. Quello che conta è che solo Enrico fosse tuo figlio.» Stefano espirò, buttando fuori l’aria e trattenendo a stento una smorfia. «So tutto, come vedi. E non ho bisogno di sapere altro.»

Edoardo aveva ascoltato in silenzio, senza battere ciglio né muovere un muscolo, gli occhi fermi su Stefano. Il sigaro tra le sue dita emetteva un filo di fumo sottile. Quando lui tacque, si allungò per scuotere leggermente il sigaro su un elegante posacenere di porcellana dipinta sul tavolino accanto alla poltrona. Si raddrizzò, si schiarì la gola e posò di nuovo il suo sguardo freddo sul figlio.

«Hai finito? Sei venuto fino a qui solo per dire che non sei interessato ad ascoltarmi?»

«Forse. Che te ne importa?»

Non era una risposta molto sensata, ma Stefano sentiva che il rancore lo avvolgeva, strisciando inarrestabile sopra, sotto, intorno al muro che avrebbe dovuto essere la sua difesa, che gli era sembrato così alto e solido e invece gli si sgretolava tra le dita, come le costruzioni di sabbia che faceva da bambino sulle spiagge dell’isola. Era inerme davanti a Edoardo. Era ancora un bambino che riusciva a sfidarlo, a tenergli testa, ma non a sconfiggerlo, e questo pensiero lo faceva tremare dalla rabbia. Quanto avrebbe desiderato afferrarlo, tirarlo su da quella poltrona e scrollarlo fino a far scivolare via quella odiosa maschera di indifferenza, ma era paralizzato.

«Ho sempre pensato che tua madre ti avesse raccontato tutto o che prima o poi ci saresti arrivato da solo. Sei un ragazzo sveglio, lo so. Lo sei sempre stato» disse Edoardo, tranquillo, come se parlasse del più e del meno.

«Non la nominare. Lasciala stare» rispose Stefano a denti stretti.

Edoardo continuò come se lui non avesse detto nulla. «Neanche a me piace lasciare i conti in sospeso, comunque. Mi opero tra quattro giorni. Potrei morire.» Gli scoccò un’occhiata rapidissima, poi abbassò lo sguardo. « Pare che ci siano buone probabilità di sopravvivenza, se supero l’operazione. Potrei vivere ancora per diversi anni, ma volevo rivederti comunque.» Guardò di nuovo Stefano. Lui si costrinse a restare impassibile, a non lasciar trapelare nulla, come faceva Edoardo.

«Non dovresti fumare» commentò, rigido.

Edoardo accennò un sorriso divertito. «Lo so, ma non sono mai stato bravo a fare quello che mi viene detto… quello che è giusto fare. E nemmeno tu.» Il suo sorriso si fece più ampio, quasi soddisfatto. «Sei uguale a me.»

Stefano sentì un brivido, mentre i pugni si contraevano per il nervosismo e una smorfia gli deformava il viso. «Ah, no… Io non sono per niente uguale a te» ribatté con decisione, sebbene nello stesso momento si sforzasse di non mettersi a urlare. Era sicuro di non avere niente in comune con l’uomo beffardo che gli sedeva di fronte a eccezione degli occhi e dei lineamenti eleganti e squadrati. Doveva esserne sicuro. Era l’unico modo per non impazzire, ma avrebbe preferito che l’ansia non gli si insinuasse con tanta facilità sotto la pelle, nella carne, fin dentro le ossa. «E comunque, che importanza ha? È Enrico tuo figlio, giusto?» Dovette ingoiare il disagio di pronunciare quel nome davanti a Edoardo. Si domandò cosa stesse facendo, se lo stesse aspettando davvero come aveva promesso, diviso tra il desiderio di parlargli e il timore di affrontare la verità insieme, se si stesse tormentando per sapere di cosa parlavano Edoardo e Stefano in quel momento.

Edoardo inclinò la testa da un lato, un gesto che faceva spesso quando qualcosa lo contrariava. «Enrico…» mormorò e insieme al nome di suo figlio emise un sospiro pesante. «È un bravo ragazzo. Ma quando sento parlare di te… di quello che fai… di quanto vai bene all’università, delle ragazze che ti corrono dietro… Mi fa piacere.»

Aveva ancora quel ghigno di soddisfazione che a Stefano faceva rivoltare lo stomaco. Sapeva che era sincero. Lui non diceva mai bugie, si limitava a tacere la verità. Stefano aveva sempre pensato che trovasse poco dignitoso inventare storie. Quelle parole, però, non lo rendevano affatto orgoglioso o felice, anzi. Erano un coltello che scavava un solco nel suo petto.

«Tu non sai niente di me» sbottò in tono di sfida, quasi derisorio. «Non crederai che queste stronzate significhino qualcosa. Non mi conosci, non ti sei mai preoccupato di farlo.» 

Edoardo lo fissò senza parlare per qualche istante, poi inspirò piano e diede un’altra boccata al suo sigaro. «Non hai torto» ammise, la voce priva di inflessioni, come se fosse una constatazione priva di importanza. «Mi dispiace di questo, credimi.» Stefano rispose con una smorfia che Edoardo finse di ignorare. «So che ormai è tardi, però voglio almeno chiarire una cosa» proseguì il vecchio. Adesso aveva un tono leggermente più alto e fermo. Guardò Stefano dritto negli occhi con espressione determinata. «Io avrei voluto darti il mio cognome. Qualche volta ci ho pensato seriamente. Ma tua madre non avrebbe voluto… Sapevo che non avrebbe voluto. E poi… non potevo.»

Stefano contenne a stento una risata di scherno. «Certo, altrimenti avresti dovuto ammettere apertamente che cosa avevi fatto, davanti a tutti.»

«No» rispose Edoardo, tranquillo, senza staccare lo sguardo da quello del ragazzo. «Quello che dice la gente non ha nessuna importanza per me e tu mi conosci, lo sai. Non potevo farlo» ripeté, più lentamente, scandendo le parole. Stefano fece per intervenire di nuovo, ma lui continuò a parlare e glielo impedì. «Se ci tenevi così tanto, però, perché non ti sei rivolto alla legge? Il tuo sangue è il mio sangue. Puoi farlo ancora» aggiunse e a Stefano parve che lo sfidasse a farlo sul serio. Studiava suo figlio come se fosse in corso una partita a scacchi e lui avesse appena spostato una pedina in una posizione pericolosa per l’altro con un sorriso lieve sulle labbra.

«Perché non me ne frega niente di queste stronzate. Non lo volevo quando ero un ragazzino, il tuo dannato cognome, e non lo voglio adesso. Non voglio essere un Falconeri» sbottò Stefano. Non aveva mai detto quelle parole a voce alta, ma nel momento in cui le pronunciò fu certo che fosse la verità. No, non voleva un simile cappio al collo ed essere strangolato come era successo a suo fratello.

«E che cosa vuoi, allora?» chiese Edoardo a bruciapelo, quasi prima che Stefano finisse di parlare. Sembrava curioso.

Stefano fece un passo avanti e si ritrovò ancora più vicino a lui. Lo osservò in silenzio, il respiro appena affannoso. «Guardarti in faccia e dirti che non ho bisogno di te.»

Sul viso di Edoardo comparve un’espressione leggermente divertita mentre si allungava per spegnere nel posacenere quello che restava del sigaro. Agitò piano la mano per disperdere il velo di fumo che lo avvolgeva, tornò ad appoggiarsi contro lo schienale della poltrona e sorrise.

«Sei venuto fino a qui solo per questo?» disse, il tono denso di ironia. Scosse la testa con un movimento quasi impercettibile. «Non ti credo, Stefano. Penso che tu stia cercando qualcosa, anche se forse non sai nemmeno tu che cosa sia.»

Il ragazzo sussultò e sebbene si sforzasse di nasconderlo muovendosi sul posto, fu certo dal lampo nel suo sguardo che Edoardo se ne fosse accorto. Non gli sfuggiva mai nulla. Il suo stomaco era talmente serrato nella morsa della nausea che quasi non riusciva a respirare. All’improvviso sentì la necessità impellente di uscire da lì, di allontanarsi da Edoardo e dalla sua espressione sardonica che tagliava in due. Si costrinse a prendere fiato.

«Quando mia madre mi ha mandato via, mi ha detto che qui non c’era niente per me» disse lentamente, ma senza esitare. Suo padre lo studiava immobile, con aria di vaga curiosità, come se avesse davanti un problema di scarso interesse. «E aveva ragione, almeno per quanto riguarda te. Il tuo egoismo uccide le persone che ti stanno vicino. E non è solo una metafora, giusto?» Suo padre non ebbe alcuna reazione visibile, ma Stefano era sicuro che se fosse stato una persona che si abbandonava agli eccessi si sarebbe alzato in piedi di scatto e avrebbe rovesciato la poltrona su cui era seduto e poi forse gli avrebbe dato un pugno. Stefano lo avrebbe preferito, ma Edoardo non si mosse e non emise un fiato mentre lui si godeva quel piccolo momento di meschino trionfo. Era l’unica cosa che avrebbe mai potuto ottenere, lì, da suo padre. «Questa farsa è durata abbastanza» concluse in tono secco e si girò per uscire.

La voce di Edoardo lo bloccò. «Se vuoi andartene, lascia almeno che ti dica una cosa. Una soltanto.» Stefano si fermò, senza voltarsi di nuovo a guardarlo. Sarebbe dovuto uscire e basta, lo sapeva, ma una parte di lui restava inchiodata lì ad aspettare. «So che tu sarai convinto del contrario, ma quando tua madre si è ammalata… mi è dispiaciuto. Molto. Ho fatto tutto quello che era possibile: medici, cure. Non è servito a niente.» Stefano ascoltava, immobile. Chiuse gli occhi, cercando di vedere con la mente l’ultimo periodo di vita di sua madre, come aveva fatto centinaia di volte in quegli anni, ma non ci riusciva molto bene. Maria Ruggero era stata una persona così forte e piena di vita che immaginarla malata, debole, morente, gli era quasi impossibile. Avrebbe voluto urlare con tutto se stesso a Edoardo che era tutto falso, che era un bugiardo, ma dentro di sé sentiva che era sincero. Questo gli faceva più male di tutto, senza che ne comprendesse il motivo. Ci fu una pausa lunghissima, poi Edoardo mormorò qualcosa con voce appena udibile. «Mi importava di lei.»

Anche Stefano si prese una pausa. Inspirò ed espirò molte volte, lentamente, cercando di mantenere il controllo, perché non poteva sopportare che Edoardo vedesse la sua fragilità. L’avrebbe afferrata e l’avrebbe ritorta contro di lui, come un’arma. Lottò con il male che gli stringeva il petto e con il ricordo di sua madre, andata via così, senza che potesse rivederla un’ultima volta. Poi, quando gli parve di essere riuscito a ricacciare tutto dietro il muro di difesa, si voltò di nuovo verso Edoardo, perché potesse vedere il disprezzo sul suo viso.

«Sì, lo so» disse a bassa voce. «Lo so che ti importava. E sai come lo so? Perché tutti quelli a cui tieni… va a finire che si rovinano la vita, in un modo o in un altro.» Alzò gli occhi sul padre e rimasero a fissarsi per chissà quanto tempo. Poi Stefano si mosse, voltandosi verso la porta. Ormai non aveva senso restare. Aveva finito, lì. «Spero che ce la farai. Davvero» sussurrò appena prima di uscire dal salotto.

Rifece il percorso a ritroso, senza fretta, ma senza esitazioni, pensando che molto probabilmente era l’ultima volta che attraversava quelle stanze, eppure incapace di guardarle bene per dirgli addio. Voleva solo uscire da quella casa e non tornarci mai più. Faceva troppo male. Quando uscì sul ballatoio, all’aria aperta e alla luce forte del sole d’estate, gli sembrò di respirare meglio, di avere le idee più chiare. Scese di slancio la scala di pietra e atterrò nel cortile, chiedendosi dove potesse essere Enrico. Non voleva tornare dentro, così si disse che forse avrebbe potuto chiedere a Nino di cercarlo e poi proporgli di fare un giro da qualche parte. Ovunque, purché non fosse tra quelle stanze. Aveva la sensazione che non sarebbero mai riusciti a parlare sotto il tetto di Edoardo. Poi alzò gli occhi e il suo cuore si fermò.



[1] Per scherzo.

[2] Fiammeggia (fa molto caldo).

[3] Bambino.

[4] Fidanzata.

[5] Senso di debolezza causato dalla fame.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Cathy Holland