CAPITOLO 9
UN’ANIMA IN
DUE CORPI
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Il viaggio di
ritorno
si svolse nel silenzio più assoluto. Stefano guidava con una
tensione appena
trattenuta sotto la superficie. Quando premette sul piccolo telecomando
che gli
aveva dato Alberto per aprire il cancello di casa, il beep
prolungato
fece sobbalzare Vittoria. Era completamente immersa nei suoi pensieri.
Riviveva
la scena a cui aveva appena assistito, cercando di comprenderla, ma si
rendeva
conto che le mancavano troppi pezzi. E avvertiva una sensazione di
vago,
indefinito fastidio a cui avrebbe voluto dare una voce, farla uscire,
darle un
nome e un significato, ma era bloccata da qualche parte dentro di lei.
Stava
diventando come i suoi, incapace di affrontare le cose?
Suo padre parcheggiò la
Mercedes accanto al portone d’ingresso e lei si aspettava che
saltasse subito
giù, per evitare un confronto. Invece rimase fermo a
guardare fuori dal
parabrezza per qualche istante, poi si sfilò gli occhiali da
sole e si passò le
mani sul viso, coprendo la sua espressione. Lasciò ricadere
le mani lentamente
e quando la guardò le parve che fosse molto stanco, anche se
calmo.
«Tutto bene?»
Fu colta di sorpresa.
Era lui quello turbato, doveva essere Vittoria a preoccuparsi per lui.
«Sì»
mormorò. «Tu?»
Ci fu un silenzio
talmente lungo che Vittoria pensò che non volesse
rispondere. Continuava a
guardare fuori con aria assente. «Deve sembrarti tutto
assurdo. E lo è» disse
infine, la voce che sembrava pronta a sfociare in una risata amara che
non
arrivò mai.
Vittoria si mosse sul
sedile di pelle color crema, morbida e profumata, che aveva sempre
paura di
sporcare. Voleva chiedere, indagare, capire, pretendere risposte, ma il
blocco
che percepiva dall’altra parte, in qualche modo, lo faceva
apparire sbagliato.
«No, è che… Mi dispiace
che non riusciate nemmeno a parlarvi.»
Quella breve scena tra
il padre e lo zio le era sembrata molto peggio della fredda, sottile
ostilità
che oscillava tra Stefano e Edoardo, quando il vecchio si rivolgeva al
figlio
con quel suo tono sardonico e Stefano rispondeva a monosillabi, come se
ogni
mezza frase gli costasse un enorme sforzo. Dopotutto, Edoardo si era
comportato
piuttosto male con lui e la rabbia di Stefano era giustificata. E poi
stava
morendo: c’era troppo poco tempo, risolvere il passato
sembrava molto più
difficile, oltre che inutile. Enrico e Stefano, invece, erano fratelli.
Vittoria
non poteva credere che quel legame fosse svanito del tutto, lasciandosi
dietro
loro due che si fronteggiavano quasi come nemici.
«Molto tempo fa, prima
che me ne andassi da qui, io e lui stavamo sempre insieme. Siamo
cresciuti
insieme» disse Stefano lentamente, l’aria
pensierosa. «Anche se eravamo molto
diversi, eravamo una cosa sola. Un’anima in due corpi. Ma poi
sono successe
delle cose. Ci siamo feriti a vicenda, tante, troppe volte.»
Vittoria trattenne il
fiato. «Ne vuoi parlare?» tentò, cauta.
Lui le lanciò
un’occhiata e per un attimo parve che cercasse di prendere
una decisione. Poi
distolse lo sguardo, rimise gli occhiali da sole e fu come se
quell’esile
spiraglio si richiudesse di colpo. «È una storia
lunga e noiosa. Un’altra
volta, magari.» Aprì lo sportello per scendere.
Vittoria lasciò uscire
l’aria e si slacciò la cintura di sicurezza. Aveva
capito perfettamente: la
discussione era chiusa, di nuovo. «Ok» disse in un
soffio, più a se stessa che
a suo padre.
Nella dépendance trovarono
Claudia seduta al tavolo della cucina, con il kindle in mano e
l’aria
distratta. Quando li vide entrare, sollevò la testa e
inarcò le sopracciglia.
«Già tornati? Com’è
andata?»
Vittoria fece per
rispondere, ma si accorse che non avrebbe saputo come spiegare quello
che era
successo, così richiuse la bocca e guardò suo
padre. Sedette pesantemente sul
piccolo divano del salotto.
Stefano posò le chiavi
della macchina sul tavolino con una lentezza studiata, come se volesse
prendere
tempo per stabilire come affrontare la cosa. «Bene»
fu la sua risposta, calma e
neutra. «Oggi abbiamo avuto compagnia.»
«Chi?»
Lui fissò Claudia per
un attimo. «Enrico.»
Lei non rispose subito,
ma la sua espressione cambiò impercettibilmente, come se si
sforzasse di non
lasciar trapelare tutta la sua sorpresa. Si guardarono senza parlare
per
qualche istante. Claudia emise un respiro e si raddrizzò
sulla sedia.
«Ma avevamo… non era
partito per lavoro?» chiese, cambiando bruscamente la frase
che aveva quasi
pronunciato.
«Era. È tornato
prima» spiegò Stefano, sempre con quel tono
incolore. «Non si aspettava che
fossimo ancora qui, comunque. Forse non ha avvisato Rosalia prima di
tornare,
altrimenti lei glielo avrebbe detto.» Mentre parlava,
tirò fuori il portatile
dalla borsa, probabilmente per rimettersi al lavoro. Claudia lo
osservava, le
braccia incrociate posate sul tavolo, il kindle dimenticato accanto a
una
bottiglia di acqua minerale mezza vuota.
«Avete parlato?»
Lui scosse la testa.
«Ha detto solo che riparte domani.»
A Vittoria suonò strano
come quando lo aveva detto Enrico, al baglio, poco prima.
Più ci pensava, più
era convinta che il suo piano originario non fosse quello: voleva
scappare
anche lui, come suo fratello. Prese il telecomando, imbronciata, accese
la tv e
fissò lo schermo senza interesse.
«Vado fuori a lavorare
un po’» disse suo padre, dopo qualche istante di
silenzio. Si chinò per baciare
Claudia sulle labbra.
Lei annuì. «Ok. Rosa e
Alberto sono andati a fare la spesa, più tardi li aiutiamo
con il pranzo.»
«Perfetto» commentò
Stefano automaticamente, ma Vittoria era sicura che non ascoltasse sul
serio.
Uscì sul patio e sedette al tavolo dove facevano colazione,
aprì il computer e
poco dopo il suo telefono squillò. Vittoria fece un sospiro,
lasciandosi andare
contro gli spessi cuscini blu che coprivano il divanetto di vimini
bianco. Sua
madre aveva ripreso il kindle in mano, ma non leggeva e fissava un
punto
indefinito, pensierosa.
«Sai che possiamo fare
domani?» disse all’improvviso. Vittoria si contorse
per guardarla con aria
dubbiosa. Aveva le gambe piegate di lato, sul divano, ed era seduta
tutta storta.
«Un giro in paese. Non l’hai ancora visto. Rosa mi
ha detto che hanno aperto un
sacco di negozi e ristoranti carini, per i turisti. Che ne
pensi?» Sua madre
incrociò il suo sguardo e davanti alla sua espressione
perplessa tirò fuori un
sorriso poco convinto. «E meglio non andare al baglio,
domani. Sai che per papà
è dura.»
Vittoria rifletté, in
sottofondo il vociare indistinto della televisione a basso volume e la
voce di
suo padre che parlava al telefono, sul patio.
«Tu non pensi che…»
azzardò, indecisa su come proseguire. Eravamo una
cosa sola. Un’anima in due
corpi. Fece una pausa e riprovò. «Non ti
sembra che dovrebbero parlarsi?
Non si guardavano neanche in faccia… È suo
fratello, mamma. Non è assurdo?»
Sua madre si mordeva il
labbro e sembrava incerta. Abbassò lo sguardo sul kindle,
passando un dito sul
display per accenderlo. «Tesoro, è una scelta di
papà. Se lui non se la sente…
Ma è meglio così. Credimi.»
Meglio così? Vittoria
aprì la bocca per ribattere, ma in quel momento Stefano
rientrò in casa, il
cellulare in mano e l’aria stanca. Le dispiacque vedere
l’espressione tirata
sul suo viso. Era stata una giornata pesante per lui e sembrava che non
fosse ancora
finita.
«Devo tornare a Milano»
annunciò con voce cupa. «Domani
c’è una riunione e Alessandra mi ha chiesto di
essere presente. Era lei, al telefono.»
Le spalle di Vittoria
si afflosciarono di colpo. Ecco, adesso anche suo padre aveva una scusa
perfetta per scappare.
«Devi andare per
forza?» chiese Claudia. «Non potreste farla online,
la riunione?»
Lui sospirò e scosse la
testa, mentre posava il cellulare sul ripiano della cucina.
«È per la Durings.
È importante. Alessandra me lo ha chiesto come favore
personale, vuole il mio
parere.»
Claudia assentì, l’aria
rassegnata. Non era certo la prima volta che il lavoro di Stefano si
infilava
nelle loro vacanze e non sarebbe stata neppure l’ultima. Lei
e Vittoria c’erano
abituate.
«Ok, allora… prenoto il
traghetto. Potremmo anche partire stasera… dubito che
troveremo dei posti,
però, in pieno luglio» disse, a bassa voce, come
riflettendo tra sé. Si alzò
per andare a prendere il suo telefono dalla borsa, su una sedia della
cucina, sulla
fronte una ruga sottile che le spuntava sempre tra le sopracciglia
quando era
concentrata su qualcosa.
Vittoria si raddrizzò
di scatto sul divano. «Potremmo? Partiamo
tutti e tre?»
Se fossero partiti
allora non sarebbero più tornati a Santo Stefano. Non
avrebbe avuto senso fare
su e giù in quel modo. I genitori si voltarono a guardarla
nello stesso
momento, come due nuotatori sincronizzati, poi si scambiarono
un’occhiata.
«Be’, noi… siamo
rimasti per qualche giorno, come avevamo deciso» rispose sua
madre, con calma.
Vittoria sollevò le
sopracciglia. «Non state usando il pretesto della riunione
per scappare, vero?»
domandò, ironica.
Claudia sbuffò una
mezza risata, anche se non sembrava affatto divertita. «Ma
no! Il piano era
questo, restare qualche giorno»
ripeté.
Vittoria rifletté in
silenzio per un istante. «Sì, ma… non
abbiamo mai deciso quanti giorni fossero
esattamente qualche giorno»
ribatté Vittoria con ostinazione. Un lieve
panico stava iniziando a crescerle nello stomaco. Andare via adesso
significava
abbandonare i suoi progetti senza aver ottenuto assolutamente nulla:
non poteva
succedere, sarebbe stata una beffa troppo grande arrivare
così vicino al
traguardo per essere costretta a fermarsi e tornare al punto di
partenza a mani
vuote. Doveva trovare il modo di impedirlo.
Sua madre sembrava
interdetta. «Ok, allora… quanti giorni sono
esattamente qualche giorno?»
«Io vorrei restare
ancora.»
Claudia alzò gli occhi
al cielo, poi li abbassò sul telefono che aveva tirato fuori
dalla borsa,
evitando di sostenere lo sguardo di sua figlia. «Non ti annoi
a stare in quella
casa? È una specie di tomba.»
Vittoria trasalì. Sua
madre non era stata affatto entusiasta di scoprire
dell’accordo che lei aveva
preso con Edoardo. Quando Vittoria le aveva detto che sarebbe tornata
al baglio
a suonare per il nonno e conoscerlo un po’, l’aveva
fissata come se avesse
appena annunciato di volersi tuffare in mare direttamente dalla
terrazza nel
giardino di Alberto e Rosa, poi aveva rivolto uno sguardo sconvolto a
Stefano.
Sembrava che non potesse credere che lui avesse accettato una simile
proposta. Si
erano allontanati per parlarne da soli, in giardino, mentre Vittoria
aspettava
nella dépendance camminando su e
giù nervosamente e spiandoli ogni tanto
attraverso le vetrate. Le era sembrato che la discussione fosse
piuttosto
accesa, ma poi erano rientrati e avevano tutti e due una faccia
abbastanza
normale. Claudia aveva detto che capiva e che era d’accordo,
purché papà la
accompagnasse.
Nonostante i sorrisi e
le parole rassicuranti, però, Vittoria aveva intuito
benissimo che i suoi
detestavano quella decisione e che se avessero fatto di testa loro
l’avrebbero presa,
infilata nel trolley e riportata a Milano. Adesso le parole di sua
madre
confermavano le sue impressioni. Per loro non c’era niente di
peggio che
tornare al passato e lei li stava obbligando a farlo. Si sentiva in
colpa, ma
non poteva andarsene: era a stento riuscita a parlare con il nonno,
aveva a
malapena intravisto lo zio e non sapeva assolutamente niente di
più di quando
era arrivata, tre giorni prima. Era ancora tutto un enorme mistero e se
avesse
perso quell’occasione forse non ce ne sarebbe mai stata
un’altra. Dopotutto,
Edoardo stava per morire. Annaspò, cercando in fretta una
soluzione, ma le
sembrava di avere la testa svuotata.
«Suono, mamma. Lo sai
che non mi annoio» riuscì a tirare fuori, ma
sembrava una scusa debolissima
perfino alle sue orecchie.
Lei stava per
replicare, sul viso un’aria esasperata, quando Stefano
intervenne. «No,
Claudia, aspetta. Va bene. Ha ragione» disse con tono stanco
e pesante. Alzò le
mani. Anche se Vittoria non poteva scorgere la sua espressione,
perché le dava
le spalle, sentì un soffio di speranza che le si accendeva
nel petto.
Claudia lo fissò, le
braccia rigidamente incrociate, lo sguardo duro. «Sei sicuro,
Stefano?»
Lui esitò, prese aria,
poi annuì una volta sola. Si passò una mano sulla
fronte, come per chiarirsi le
idee. «Facciamo così: voi restate. Io parto domani
mattina presto. Se tutto va
bene, torno mercoledì. E giovedì saremo di nuovo
al baglio» annunciò con voce
scura.
Vittoria sbuffò
silenziosamente: non avrebbero lasciato che ci andasse da sola e sua
madre
sembrava non avere intenzione di accompagnarla, ma non importava.
Almeno non
sarebbe stata costretta a ripartire così presto. Dopo una
pausa carica di
tensione, Claudia annuì a sua volta, gli occhi fissi in
quelli di Stefano, e a
Vittoria venne voglia di urlare per l’entusiasmo. Si morse il
labbro per
trattenersi. Sapeva che per i suoi accontentarla era un sacrificio, non
poteva
buttargli in faccia la sua soddisfazione.
Claudia aveva l’aria cupa e la stava fissando.
Quando Vittoria incrociò i suoi occhi, subito li
staccò da lei e guardò
altrove, l’espressione che diventava distante. Stefano,
invece, era occupato
con il suo telefono e aveva il viso abbassato. Vittoria emise un
sospiro lieve.
Aveva vinto, non sarebbe stata trascinata via come una bambina
capricciosa. Fece
un piccolo sorriso e afferrò il telecomando per alzare il
volume della
televisione.
«Ok, aspetterò il bodyguard,
così il mostro a tre teste che vive in cantina non
potrà mangiarmi.»
Suo padre accennò una
risata, ma gli uscì un suono strano, come se ridesse
controvoglia. «Più o meno»
rispose a bassa voce, mentre usciva di nuovo sul patio.
****
Il giorno
seguente
Stefano partì prestissimo. Vittoria percepì
vagamente che entrava piano nella
sua stanza, cercando di non svegliarla, si chinava su di lei e le
baciava la
guancia. Si era trattenuto un istante, mentre il profumo di cedro del
dopobarba
mescolato all’odore fresco e morbido della sua camicia le
riempiva il naso e la
barba cortissima le graffiava la pelle, come se volesse mandarle un
messaggio
muto. Poi si era ritratto ed era uscito silenziosamente.
Lei era scivolata di
nuovo nel sonno e si era svegliata molto più tardi, con il
sole già bollente
che inondava la stanza di luce, le lenzuola aggrovigliate e calciate
via come
sempre e un fiume di sudore che le scorreva lungo la schiena. La sua
camera alla
dépendance era deliziosa, con
un’intera parete dipinta di azzurro
polvere, i mobili aggraziati bianchi e blu, la testiera di ferro del
letto
decorata da motivi che imitavano le onde del mare e la portafinestra
che
affacciava sul giardino, ma sembrava un forno per le pizze. Alla dépendance
non
c’era l’aria condizionata e la sua stanza era la
più calda. Quella
matrimoniale, accanto alla sua, era molto più fresca e
ventilata.
Quando si alzò, scoprì
che sua madre non c’era: doveva essere andata a fare
colazione nella casa
principale con Rosa e Alberto. Fece una doccia veloce e mentre si
vestiva fece
partire un lungo e mesto messaggio vocale di Daniela in cui lei le
raccontava
di aver saputo che Marco stava uscendo con Maddalena,
un’arpista del loro anno
al conservatorio.
Vittoria si bloccò a
metà mentre si infilava le scarpe e rimase per un
po’ seduta sul letto,
immobile, osservando una mosca che ronzava nella stanza e cercando di
capire
cosa sentisse. La sconcertava il fatto di provare così poco
dispiacere, quando
invece avrebbe dovuto detestare Marco e quella snob presuntuosa di
Maddalena,
che non le era mai stata simpatica neanche prima. Ormai non sentiva
Marco da
tempo e aveva capito che tra loro non c’era più
niente, qualunque cosa ci fosse
prima. Non era neppure sicura che fossero mai stati davvero una coppia,
dato
che erano usciti insieme solo un paio di volte. Non le importava, non
come
avrebbe dovuto. Nei giorni in cui non si erano parlati si era resa
conto di
poter stare benissimo senza di lui e che tutta l’attrazione
che le era sembrato
di provare era gonfiata dalla curiosità e
dall’entusiasmo, perché non si era
mai vista con un ragazzo prima di allora. Eppure… lui
l’aveva baciata, le aveva
preso la mano al cinema ed era stata la prima volta che aveva pensato a
qualcuno in termini diversi dalla semplice amicizia. E lui
l’aveva sostituita
così in fretta.
Accigliata, finì di
vestirsi e raggiunse la casa principale. Entrò dalla
portafinestra della
cucina, dove Rosa e sua madre sedevano all’enorme tavolo
rettangolare di legno
bianco coperto di graffi e scanalature come quasi ogni altro mobile
della casa.
Parlavano fitto tra loro, ma appena Vittoria mise piede dentro tacquero
e
raddrizzarono di colpo le teste chine e vicine.
«Buongiorno!» esclamò
Rosa, la voce carica di energia, come se avesse mandato giù
almeno quattro
caffè. Solo Rosa poteva essere così al mattino,
mugugnò Vittoria tra sé e sé.
Lei, invece, era di umore intrattabile almeno fino a mezzogiorno, anche
quando
non riceveva messaggi deprimenti dalle amiche. «Stavo per
dire a tua madre di
mettere un po’ di musica a tutto volume per tirarti fuori dal
letto.»
«Sono in vacanza, hai
presente?» borbottò Vittoria. Andò alla
macchina del caffè per farsi un
cappuccino. Era così in confidenza con Alberto e Rosa che si
muoveva a casa loro come se fosse stata la propria, senza avvertire
nessun imbarazzo.
«Ehi, che succede?
Tutto ok?» chiese Claudia. Vittoria alzò la testa
e notò che la stava
osservando con aria perplessa. Cercò di distendere
l’espressione contratta del
viso, ma senza grande successo.
«Tutto ok» disse,
ignorando di proposito la prima domanda. Non le andava ancora di
raccontare in
giro il modo in cui era stata piantata. «È solo
che… il mare non mi fa dormire.
Non mi sono ancora abituata. Papà è andato,
vero?» chiese, cambiando bruscamente
argomento.
«Sì, Alberto lo ha
accompagnato al porto con la macchina prima di iniziare il solito giro
in bici»
rispose Claudia lentamente. Da come la fissava, Vittoria
capì che si era resa
conto che qualcosa non andava, ma fece finta di nulla. Per fortuna i
suoi
genitori non erano mai invadenti con lei e le lasciavano sempre lo
spazio di
cui aveva bisogno, forse perché erano molto più
vicini alla figlia per età
rispetto alla maggior parte dei genitori e la capivano meglio.
«Non ti ho detto che si
è rotta la sveglia? E Alberto non sa programmare la sua su
quel cellulare
preistorico che ha» intervenne Rosa di getto, rivolta a
Claudia, con tono
divertito. «Si è svegliato in tempo solo
perché mi ero alzata a bere un
bicchiere d’acqua…»
Mentre il latte e il
caffè scendevano insieme, gorgogliando, mescolati in una
schiuma morbida e
spessa, Vittoria sentì sua madre ridere e rispondere
qualcosa, ma smise ben
presto di ascoltare. Non riusciva a concentrarsi sulle loro parole. Era
distratta, come se un pensiero pressante, ma indefinito, richiamasse la
sua
attenzione. Come se avesse dimenticato di fare qualcosa di importante,
solo che
era abbastanza sicura di non avere nulla da fare e di non aver
dimenticato
niente. Non riusciva a capire cosa fosse. Di sicuro non era quello
scemo di
Marco. Quando la tazza fu piena, la prese e sedette a tavola, ancora
pensierosa.
«Che vuoi fare oggi?»
Si accorse a stento che
sua madre stava parlando con lei. Si sforzò di concentrarsi,
mentre dava un
morso a un biscotto. «Uhm… non lo so. Non volevate
fare un giro a Portosalvo?»
mormorò, ripescando distrattamente un ricordo del giorno
prima.
«Sì, però abbiamo
pensato di sistemare quella camera degli ospiti, di sopra. Ti ricordi?
Quella
da dipingere.» Vittoria annuì senza molto
interesse. Quando erano arrivati, i
padroni di casa gli avevano fatto fare un giro di tutte le stanze,
compresa una
vuota e abbandonata al secondo piano che doveva essere ritinteggiata.
Rosa
aveva detto di voler dipingere qualche disegno su una parete. Vittoria
non si
stupì che sua madre volesse partecipare: amava quel genere
di cose ed era molto
brava in tutte le attività artistiche e manuali. Non lo
faceva per ringraziare
Rosa dell’ospitalità, tra loro due non esistevano
certe formalità.
«Approfittiamo che
Alberto è libero stamattina, così ci porta i
secchi di vernice su dalla
cantina» aggiunse Rosa, impegnata a stendere un generoso
strato di marmellata
all’arancia su una fetta biscottata. «Devono pur
servire a qualcosa, questi
uomini.» Claudia fu scossa da un mezza risata, mentre mandava
giù un sorso di
caffè. Posò la tazza vuota e si
schiarì la voce. «In paese possiamo andarci
oggi pomeriggio. Che dite?» proseguì Rosa. Lei e
Alberto non nominavano mai
Portosalvo, ma usavano sempre quell’espressione:
“in paese”, come se fosse
l’unico e il solo, ed effettivamente era l’unico
centro abitato di una certa
grandezza sull’isola.
Claudia si rivolse alla
figlia. «Per me va bene. Tu che vuoi fare?»
Vittoria aveva appena preso
il secondo biscotto. Masticò pensierosa per qualche istante.
«Non lo so… Magari
mi unisco a voi.» E poi, all’improvviso, quel
pensiero misterioso che la
distraeva prese forma e la colpì come uno schiaffo. Fu una
sensazione molto
simile a quando, da bambina, suo padre la portava sulle macchinine
dell’autoscontro e un altro bambino le piombava addosso da
dietro, senza che
potesse vederlo, cogliendola di sorpresa e facendole saltare in gola il
cuore e
lo stomaco. Nella sua mente iniziò a delinearsi un piano, in
modo quasi
spontaneo. «Oppure… avevo pensato di andare al
mare. Da sola» si corresse,
lentamente.
«Ti sei già stufata di
stare con i vecchi, eh?» fu il commento allegro di Rosa.
Aveva finito la sua
fetta biscottata e ne aveva presa un’altra con espressione
vagamente colpevole.
Vittoria guardò sua
madre, indagando sulla sua reazione: la stava osservando un
po’ sorpresa, ma
non sembrava contraria. «Sei sicura?»
Lei annuì con energia.
«Ma sì… Vado alla Cala Saracena, qui
accanto. Mi porto il kindle, così leggo un
po’.»
«Stai rileggendo tutta
la saga di Harry Potter, vero?» intervenne Rosa, continuando
a spalmare
marmellata sulla fetta biscottata. Poi diede un bel morso che ne
portò via più
di metà. «Piace un sacco anche ad
Alberto.»
«Sì, lo so. Ne parliamo
sempre» rispose Vittoria con un sorriso debole. Era come
divisa in due: una
parte della sua mente lavorava sul piano, l’altra
metà cercava di concentrarsi
sul presente, seguire la conversazione e dare risposte sensate.
«E poi devo
leggere I Malavoglia per la scuola.»
«Ma sei in vacanza.»
«Dillo alla mia prof.
di Lettere.» Rosa rispose con una smorfia. Vittoria
guardò di nuovo Claudia.
«Allora, posso andare?»
Lei ci rifletté per un
momento, poi le sorrise. «Va bene. Basta che mi chiami, ogni
tanto, o mi mandi
un messaggio. Se poi cambi idea e vuoi compagnia, me lo dici e ti
raggiungo.»
Vittoria trattenne a
stento un enorme sorriso. Sarebbe stato bizzarro sembrare
così soddisfatta per
una semplice mattinata al mare. «Certo» disse
subito.
Mentre finiva di
sorseggiare il cappuccino e Rosa e Claudia parlavano di cosa dipingere
sulle
pareti della stanza per gli ospiti, i passi successivi del piano si
sviluppavano nella sua testa con una chiarezza sorprendente. Era come
se si
fosse svegliata con quell’idea sepolta da qualche parte, ma
già elaborata fin
nei minimi dettagli, e adesso si svelava tutta insieme e a lei non
restava che
metterla in pratica. Come se qualcuno gliel’avesse
bisbigliata all’orecchio
mentre dormiva. Finito il cappuccino, mise la tazza nella
lavastoviglie, poi
lanciò un’occhiata discreta dietro di
sé: Rosa e sua madre stavano parlando di
rulli, pennelli e gabbiani bianchi da dipingere su uno sfondo azzurro
polvere e
quando uscì dalla cucina non se ne accorsero nemmeno.
Attraversò il corridoio
lungo e stretto. Dopo tre giorni trascorsi lì conosceva la
casa. Sembrava
deserta e silenziosa, forse perché Alberto non era ancora
rientrato dal giro in
bici che faceva tutte le mattine. Ignorò diverse porte,
chiuse o spalancate, e
si diresse con sicurezza verso una porta a vetri scorrevole. La spinse,
cercando di non fare rumore, ed entrò nello studio di
Alberto. Di fronte c’era
una finestra aperta che lasciava entrare un alito di vento fresco e il
cinguettio degli uccellini sugli alberi del giardino. Sotto la finestra
stazionava un’ampia scrivania di mogano. Una libreria alta,
chiusa da pannelli
di vetro, occupava quasi tutta la parete di destra e proseguiva lungo
la parete
dietro la scrivania. Una seconda libreria identica, anch’essa
ad angolo, si
trovava sulla sinistra e a un certo punto si interrompeva per fare
spazio a una
pianta in vaso e a un divanetto di pelle a due posti.
Vittoria accostò la
porta alle sue spalle, poi avanzò piano, ringraziando
mentalmente il soffice
tappeto che copriva i suoi passi, aggirò le due alte sedie
di legno scuro
destinate ai visitatori ed esaminò la superficie della
scrivania. Era piuttosto
disordinata, ingombra di carte, faldoni, cartelline, pile di documenti,
penne
USB, mucchi di penne e un portatile chiuso. Alberto era un avvocato e
Rosa si
lamentava sempre del caos, chiedendosi come facesse a lavorare
lì dentro. Non
aveva tutti i torti, pensò Vittoria stringendo le labbra, ma
quello che cercava
doveva pur essere lì, da qualche parte. Doveva solo
trovarlo.
Spostò con cautela i
mucchi di documenti e le pile di cartelline e sbirciò al di
sotto, poi li
rimise giù, avendo cura di lasciarli esattamente come li
aveva trovati, sebbene
dubitasse che in quella confusione Alberto potesse accorgersi di
qualche cambiamento.
Aprì il primo cassetto della scrivania: solo penne e fogli
bianchi in attesa di
appunti. Lo richiuse in fretta, mentre scoccava un’occhiata
ansiosa alla porta,
e aprì il secondo: una serie di cartelline di plastica
rossa, su ciascuna di
esse un’etichetta bianca con un cognome, che probabilmente
riguardavano i
clienti di Alberto. Aprì il terzo cassetto.
Eccola lì: un’agenda telefonica
dalla copertina in pelle rossa, sbiadita e segnata dall’uso.
Vittoria aveva
ascoltato tante volte Rosa prendere in giro il suo compagno per quella
sua
abitudine “antica” di segnare i numeri di telefono
su un’agenda cartacea
nonostante la rubrica che aveva sul telefono (non uno smartphone, ma un
cellulare vecchio stile con i tasti fisici).
«Non riesco a farne a
meno», rispondeva lui, alzando le spalle, con il suo serafico
e invariabile
buon umore. «Se poi mi si rompe il cellulare, come faccio
senza i miei numeri?»
Vittoria sfogliò in
fretta l’agenda e quando trovò il numero che
voleva ebbe un sussulto di
trionfo. Era impossibile che Alberto non lo avesse. Prese il telefono
dalla
tasca e memorizzò il numero con pochi gesti rapidi, poi
richiuse l’agenda, la
ficcò di nuovo nel cassetto, lo richiuse e si
fiondò alla porta. Aveva appena
iniziato ad aprirla che si trovò davanti Alberto, apparso di
colpo dal nulla.
Sobbalzò, ma ebbe la prontezza di tirare fuori un sorriso.
«Ehilà!» esclamò lui,
gioviale.
Era in pantaloncini e t-shirt, aveva il viso arrossato e
l’aria
accaldata ed era talmente zuppo di sudore da dare
l’impressione di essersi
tuffato in mare. Vittoria inarcò un sopracciglio. Ammirava
la tenacia con cui
le persone come Alberto e suo padre praticavano sport tutto
l’anno, anche nei
mesi più caldi. Lei amava il tennis, ma da giugno in poi non
toccava più una
racchetta fino a settembre. Suo padre, invece, andava a correre ogni
giorno
alle sei, in inverno e in estate, perfino quando erano in vacanza.
Anche il
soggiorno sull’isola non faceva eccezione.
«Ciao! Stavo… Cercavo
una penna» disse Vittoria, con una voce che le parve troppo
squillante, ma
ormai era tardi. Forse era una scusa stupida, ma non le era venuto in
mente
altro.
Alberto, però, non
sembrò trovarci nulla di strano. Forse era troppo stremato
dalla pedalata sotto
il sole per ragionare lucidamente. La superò ed
entrò nello studio. «Fai pure,
ce ne sono fin troppe di penne, qui dentro. Ogni tanto ne perdo una e
poi ricompare
all’improvviso, nei posti più strani.»
Scrutò la superficie ingombra della
scrivania, cercando qualcosa. Poi fece un verso soddisfatto e si sporse
per
afferrare il caricabatterie del telefono, mezzo nascosto sotto un
faldone giallo.
«In realtà mi è venuto
in mente di averne vista una in un cassetto alla dépendance»
inventò
Vittoria con un’alzata di spalle.
«Ecco, vedi? Spuntano
fuori quando meno te lo aspetti» commentò Alberto.
Le passò di nuovo accanto
per andare alla porta e le diede un buffetto sui capelli.
«Vado a farmi una
doccia… Oggi sembrava di pedalare dentro una pentola di
acqua bollente.»
Vittoria fece una
smorfia. «Che orrore» mormorò e lui rise
mentre si allontanava lungo il
corridoio. Lei si lasciò sfuggire un respiro di sollievo.
Era fatta.
****
Tirò fuori il telefono dalla tasca
mentre si allontanava dal vetro già tiepido sotto il sole,
aprì il numero che
aveva memorizzato in rubrica poco prima. Lo fissò per un
po’, chiedendosi che
diamine stesse facendo. Voleva andare fino in fondo, sul serio? E se
fosse
scoppiato un casino? I suoi si sarebbero incazzati a morte, stavolta.
Strinse
le labbra con forza, poi premette il tasto di chiamata. Si sentiva
strana, come
se non fosse lei a prendere quelle decisioni, a compiere quei gesti, ma
un’altra persona, e lei osservasse dall’esterno,
senza poter intervenire,
percorrendo una strada già tracciata. Qualcuno rispose al
terzo squillo.
«Baglio Falconeri»
disse una voce sottile dall’accento pesante che Vittoria
riconobbe
immediatamente. Era Rosalia. Sentì un tuffo al cuore.
«Ehm… Buongiorno, ehm…
Sto cercando il signor Falconeri. Enrico Falconeri» aggiunse
precipitosamente,
nel dubbio che Rosalia pensasse a Edoardo. «So che dovrebbe
partire stamattina,
ma forse… è ancora lì»
aggiunse. Aveva la voce un po’ affannosa, le parole che
quasi si accavallavano l’una sull’altra.
«Chi lo cerca?»
Non si era nemmeno
presentata. Sospirò e strinse il telefono tra le dita.
«Vittoria Ruggero.»
«Ah, tu sei, Vittoria.
Non ti avevo riconosciuta. Vado a controllare, un momento, per
favore.»
Vittoria restò in
attesa, impalata. Aveva telefonato quasi senza speranze, convinta che
ormai lo
zio avesse già preso il traghetto per Palermo. Non aveva
pensato che la sua
idea potesse concretizzarsi sul serio. Il panico le riempì
lo stomaco, un
fiotto caldo e bruciante, e per un attimo si chiese se non fosse
completamente
impazzita. Cosa voleva fare? Cosa pensava di ottenere?
Dall’altra parte il
silenzio si protraeva e faceva crescere la sua ansia ogni secondo di
più.
Immaginò Rosalia che faceva il giro della casa senza
riuscire a trovare Enrico.
Forse era già partito e lei non lo sapeva. Poteva essere
caduta la linea? E se
lui non avesse voluto rispondere? Che idea schifosa aveva era stata. Ma
come
diavolo le era venuta in mente? Fece per abbassare il telefono e
chiudere la
chiamata.
«Sì?»
Enrico rispose
all’improvviso, cogliendola alla sprovvista. Aveva un tono
freddo, controllato,
privo di emozioni, e lei non riuscì a capire se fosse felice
o seccato di
sentirla o se invece gli fosse del tutto indifferente. Prese un respiro
profondo.
«Ciao» esclamò
automaticamente, poi tacque. In realtà non sapeva bene che
cosa dire. Mosse
qualche passo tra il salottino e la cucina, controllando la
portafinestra con
la coda dell’occhio. Quando sua madre e Rosa iniziavano a
chiacchierare era
molto difficile che smettessero presto, quindi, almeno in teoria,
poteva stare
abbastanza tranquilla. «Non ero sicura di trovarti. Non
dovevi partire?»
Lui rimase in silenzio
per qualche istante. «Vado al porto tra
un’ora.» Ci fu un’altra pausa, ma
Vittoria ebbe la sensazione che fosse sul punto di aggiungere qualcosa
e
aspettò. «Cosa posso fare per te?»
Vittoria fece un altro
respiro profondo. «Ehm, allora. Mi chiedevo… se
prima di andare al porto potresti
passare a prendermi o… o magari mandare qualcuno. Mio padre
non c’è, è tornato
a Milano per una riunione di lavoro imprevista e… non
può accompagnarmi, ma io
vorrei venire lo stesso.»
Un altro silenzio.
Vittoria suppose che Enrico fosse impegnato a mettere ordine in quella
spiegazione un po’ disordinata. «Vuoi venire qui?
Da sola?» indagò, sempre con quella
voce indecifrabile.
«Io… Sì. Papà torna tra
un paio di giorni. Posso aspettare, certo, però…
vorrei venire anche oggi, se è
possibile.»
Silenzio. «Nessuno sa
che hai chiamato qui, vero?»
Vittoria esalò un
respiro lieve. «No, ma ho promesso a Edoardo che sarei venuta
tutti i giorni.
Non voglio che resti deluso.» Non aggiunse che probabilmente
il tempo che gli
rimaneva era così poco che anche un paio di giorni potevano
fare la differenza,
ma in qualche modo percepì che lo zio, dall’altra
parte, aveva avuto lo stesso
pensiero.
«Vittoria, io… Non so
se è il caso. A Stefano non farebbe piacere.»
Lei trattenne il fiato.
«In realtà pensavo di non dirglielo. Di non dirlo
a nessuno.»
«E cosa racconti a tua
madre?»
«Le ho detto che vado
al mare. Lei e Rosa saranno impegnate almeno per mezza giornata. Hai
presente
Cala Saracena, qui vicino? Ci arrivo in due minuti. Se vieni a
prendermi
possiamo vederci sulla strada principale… dove
c’è quel passaggio nel muro. Non
se ne accorgerà nessuno. Ma se non vuoi… non fa
niente. Vado al mare. Cioè, ci
vado davvero» aggiunse un attimo dopo e le parve di sentirlo
accennare un
sorriso. «Non voglio scombinare i tuoi programmi.»
«In realtà…» Enrico
esitò e lei rimase come sospesa, aspettando. «Non
c’è molto da scombinare.
Posso partire più tardi o domani.»
Per poco il telefono
non le cadde di mano. «Davvero?»
«Non ho ancora preso il
biglietto.»
«Non era un viaggio di
lavoro?» Vittoria si girò e fissò senza
vederlo l’orologio blu appeso alla
parete della cucina: era un’immagine stilizzata di un pesce
che le ricordava
Flounder del film La sirenetta. «Non
voglio crearti problemi.»
«Non è niente di
importante. Dovrei incontrare alcuni amici dell’Associazione
Vini Siciliani, ma
posso rimandare. È una cosa informale.» Fece una
pausa. «Hai ragione» continuò
lentamente, «da un momento all’altro
Edoardo…» Tacque di nuovo e lasciò la
frase in sospeso, ma Vittoria aveva intuito cosa stava per dire.
«Rosalia mi ha
detto che sta meglio quando ascolta il pianoforte. E poi è
felice di averti
conosciuta.»
Vittoria ascoltava
sconcertata. Aveva vinto davvero? Le sembrava troppo strano per
crederci. Aveva
temuto che Enrico rispondesse di no per evitare di creare tensioni con
Stefano.
Forse, le balenò all’improvviso come un lampo,
accettava per sfidarlo, per
dimostrare di non tenere in grande considerazione le preoccupazioni e i
divieti
del fratellastro. In fondo, lei non lo conosceva per niente, non aveva
idea di
cosa aspettarsi. Quel pensiero la bloccò per un attimo. Non
era così ansiosa di
trovare risposte alle sue domande da causare ulteriori scontri in
famiglia, ma
tentò di allontanare quel pensiero. Forse si stava
sbagliando e lo zio voleva
semplicemente accontentarla, non provocare una discussione con Stefano.
O forse
una bella litigata era proprio quello che ci voleva. E comunque, se
tutto fosse
andato secondo i piani, Stefano non l’avrebbe mai saputo. Era
abbastanza certa
che il personale del baglio avrebbe taciuto, se Enrico lo avesse
chiesto. E poi
aveva avuto l’impressione che Rosalia fosse abituata a
tollerare qualche
stranezza, in quella famiglia, e tutti gli altri facevano quello che
diceva
lei. Nessuno avrebbe mai rischiato di scatenare un casino.
«Sicuro che non è un
problema?» insisté, titubante.
«Sicuro. Stai
tranquilla» rispose lui con tono definitivo, ma leggermente
addolcito. «Tra
quanto ci vediamo?»
«Facciamo un quarto
d’ora?»
«Va bene. Ti do il mio
numero, nel caso avessi bisogno di contattarmi.»
«Ah, sì, giusto»
esclamò lei e corse a prendere un post-it e una penna da uno
dei cassetti della
cucina. Enrico dettò il numero, poi fece una breve pausa.
«Ci vediamo più tardi»
concluse. All’improvviso sembrò esitante e
Vittoria temette per un momento che
fosse pentito di aver accettato la sua richiesta. Pensò di
chiederglielo
esplicitamente, ma le mancò il coraggio. Il momento
passò.
«A dopo» si limitò a
rispondere, dubbiosa, poi chiuse la telefonata.
Memorizzò in fretta il
numero di Enrico sul cellulare e mentre correva a cambiarsi
sentì l’incertezza
gonfiarsi come un palloncino che aveva preso il posto dello stomaco.
Non aveva
idea di come sarebbe andata e l’aspettativa si mescolava al
timore di aver
fatto uno sbaglio. Durante la telefonata lo zio le era sembrato prima
perplesso, poi quasi convinto, poi di nuovo perplesso, come se appena
prima di
chiudere fosse stato sul punto di ripensarci, al punto che Vittoria si
domandò
se sarebbe venuto davvero o se alla fine si sarebbe tirato indietro.
Indossò un bikini e un
vestitino di jeans con una camicia di Sangallo bianca e
infilò nella borsa il
suo telo da spiaggia, la crema solare, il kindle e le infradito: se
Enrico non
si fosse presentato all’appuntamento sarebbe andata al mare,
come aveva detto a
sua madre. E poi, se Claudia fosse venuta a dare un’occhiata
nella sua stanza,
quella mattina, non doveva sospettare che lei non fosse davvero andata
in
spiaggia. Legò i capelli in una coda bassa con un foulard
colorato, afferrò gli
occhiali da sole e corse alla casa principale. Non entrò,
limitandosi ad
affacciarsi alla portafinestra della cucina: la stanza adesso era
vuota, ma
sentiva Rosa e Claudia ridere e parlare da qualche parte al piano di
sopra.
«Mamma, io vado!»
gridò, augurandosi che la sentissero. Non voleva essere
costretta a salire e
magari trattenuta per qualche motivo.
Ci fu un rumore di
passi sulle scale. «Ok, amore» disse Claudia.
«Tieni d’occhio il telefono, ti
mando un messaggio ogni tanto. Divertiti!»
«Ok, ok, ciao!»
Vittoria si era già
lanciata in giardino prima ancora di finire di rispondere. La
proprietà era
recintata da un muro di pietra antico in cui si apriva un cancelletto
laterale.
Da lì partiva un viale che attraversava un boschetto di
ulivi e si trasformava
in una stradina sterrata che scendeva alla spiaggia. La terra iniziava
a
confondersi con la sabbia e gli alberi si facevano più radi,
lasciando il posto
alle rocce che racchiudevano la piccola baia come una perla in una
conchiglia.
Vittoria c’era andata una volta, con Rosa e Claudia, per
mezza giornata. Si
erano sistemate all’ombra delle rocce e si erano godute il
silenzio e la
quiete, lontano dalla confusione dei bagnanti che affollavano
soprattutto i
lidi poco lontani da Portosalvo, dall’altro lato
dell’isola. Santo Stefano era
piccola e priva di attrattive a parte la bellezza naturale del luogo e
non
aveva mai attirato molti turisti, ma Alberto e Rosa avevano raccontato
che
negli ultimi anni erano aumentati. Cala Saracena, però, era
una baia minuscola
e scomoda da raggiungere, frequentata quasi solo dagli abitanti
dell’isola, ed
era sempre molto tranquilla.
Vittoria fece tutta la
strada quasi di corsa, temendo di arrivare in ritardo. Non voleva
dargli una buona
scusa per tornare indietro e rimangiarsi la parola. Quando
uscì dal boschetto
di ulivi, invece di andare a sinistra, verso la spiaggia,
svoltò a destra,
seguendo il muretto di vecchie pietre scalcinate fino a raggiungere la
strada
asfaltata. Il caldo era già quasi insopportabile. Sedette
sul muretto e
aspettò. Dopo un po’, quando ebbe ripreso fiato,
tirò fuori il telefono e gettò
un’occhiata al display: erano trascorsi esattamente
diciassette minuti dalla
fine della telefonata con lo zio. Una giovane coppia le
passò accanto tenendosi
per mano e parlando a bassa voce, diretta alla spiaggia.
Vittoria scacciò una
vespa che le ronzava intorno, strinse i lacci di una delle All Star
bianche che
aveva annodato male nella fretta di precipitarsi fuori,
sollevò gli occhiali da
sole sulla testa, ma il sole era troppo forte e dovette riabbassarli.
Venti
minuti. Enrico non le era sembrato il tipo di persona che fa tardi,
anzi. Il
cuore le sprofondò lentamente sotto le scarpe mentre
giocherellava con il
telefono, la testa bassa, l’aria triste.
Lo
sapevo,
pensò. Sì, una parte di lei
sospettava che sarebbe andata così, eppure quella punta di
delusione era più
amara di quanto si aspettasse. Si alzò svogliatamente,
spazzolandosi il retro
del miniabito di jeans per togliere la polvere del muro. Era sul punto
di
girare a sinistra, lungo il sentiero che scendeva verso il mare, quando
si
accorse di una macchina che si avvicinava: una BMW grigio scuro
metallizzato
dal profilo slanciato ed elegante. Non capiva niente di macchine, ma
riconosceva quel marchio, perché suo padre qualche anno
prima aveva avuto una
BMW prima di prendere l’attuale Mercedes. La macchina
accostò dolcemente e
silenziosamente vicino all’imbocco della stradina, come se
scivolasse sul
ghiaccio. Il guidatore abbassò il finestrino: era Enrico,
che la fissava da
dietro gli occhiali da sole. La sua espressione era nascosta, ma le
labbra
erano tirate in una sottile linea di tensione. Vittoria lo
guardò a bocca
aperta per qualche secondo, poi lui le fece un sorriso lieve, appena
accennato.
Vittoria ricambiò istintivamente. In due passi raggiunse la
BMW.
«Ce l’hai fatta»
esclamò e si accorse di esserne sinceramente felice.
«Sì, scusami, è
che…»
Enrico esitò e lasciò che la frase si spegnesse
senza concluderla. Guardò
davanti a sé e si sistemò gli occhiali sul viso,
come per accertarsi che
fossero ancora lì. «Salta su.»
Vittoria
montò in
macchina di slancio, il sorriso che si allargava sempre di
più.