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Autore: Cathy Holland    19/03/2024    1 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
A causa di un problema tecnico, l'aggiornamento della storia è sospeso fino a martedì 21 maggio, poi riprenderà regolarmente.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 9
UN’ANIMA IN DUE CORPI

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

Il viaggio di ritorno si svolse nel silenzio più assoluto. Stefano guidava con una tensione appena trattenuta sotto la superficie. Quando premette sul piccolo telecomando che gli aveva dato Alberto per aprire il cancello di casa, il beep prolungato fece sobbalzare Vittoria. Era completamente immersa nei suoi pensieri. Riviveva la scena a cui aveva appena assistito, cercando di comprenderla, ma si rendeva conto che le mancavano troppi pezzi. E avvertiva una sensazione di vago, indefinito fastidio a cui avrebbe voluto dare una voce, farla uscire, darle un nome e un significato, ma era bloccata da qualche parte dentro di lei. Stava diventando come i suoi, incapace di affrontare le cose? 
Suo padre parcheggiò la Mercedes accanto al portone d’ingresso e lei si aspettava che saltasse subito giù, per evitare un confronto. Invece rimase fermo a guardare fuori dal parabrezza per qualche istante, poi si sfilò gli occhiali da sole e si passò le mani sul viso, coprendo la sua espressione. Lasciò ricadere le mani lentamente e quando la guardò le parve che fosse molto stanco, anche se calmo.
«Tutto bene?»
Fu colta di sorpresa. Era lui quello turbato, doveva essere Vittoria a preoccuparsi per lui. «Sì» mormorò. «Tu?»
Ci fu un silenzio talmente lungo che Vittoria pensò che non volesse rispondere. Continuava a guardare fuori con aria assente. «Deve sembrarti tutto assurdo. E lo è» disse infine, la voce che sembrava pronta a sfociare in una risata amara che non arrivò mai.
Vittoria si mosse sul sedile di pelle color crema, morbida e profumata, che aveva sempre paura di sporcare. Voleva chiedere, indagare, capire, pretendere risposte, ma il blocco che percepiva dall’altra parte, in qualche modo, lo faceva apparire sbagliato.
«No, è che… Mi dispiace che non riusciate nemmeno a parlarvi.»
Quella breve scena tra il padre e lo zio le era sembrata molto peggio della fredda, sottile ostilità che oscillava tra Stefano e Edoardo, quando il vecchio si rivolgeva al figlio con quel suo tono sardonico e Stefano rispondeva a monosillabi, come se ogni mezza frase gli costasse un enorme sforzo. Dopotutto, Edoardo si era comportato piuttosto male con lui e la rabbia di Stefano era giustificata. E poi stava morendo: c’era troppo poco tempo, risolvere il passato sembrava molto più difficile, oltre che inutile. Enrico e Stefano, invece, erano fratelli. Vittoria non poteva credere che quel legame fosse svanito del tutto, lasciandosi dietro loro due che si fronteggiavano quasi come nemici.
«Molto tempo fa, prima che me ne andassi da qui, io e lui stavamo sempre insieme. Siamo cresciuti insieme» disse Stefano lentamente, l’aria pensierosa. «Anche se eravamo molto diversi, eravamo una cosa sola. Un’anima in due corpi. Ma poi sono successe delle cose. Ci siamo feriti a vicenda, tante, troppe volte.»
Vittoria trattenne il fiato. «Ne vuoi parlare?» tentò, cauta.
Lui le lanciò un’occhiata e per un attimo parve che cercasse di prendere una decisione. Poi distolse lo sguardo, rimise gli occhiali da sole e fu come se quell’esile spiraglio si richiudesse di colpo. «È una storia lunga e noiosa. Un’altra volta, magari.» Aprì lo sportello per scendere.
Vittoria lasciò uscire l’aria e si slacciò la cintura di sicurezza. Aveva capito perfettamente: la discussione era chiusa, di nuovo. «Ok» disse in un soffio, più a se stessa che a suo padre.
Nella dépendance trovarono Claudia seduta al tavolo della cucina, con il kindle in mano e l’aria distratta. Quando li vide entrare, sollevò la testa e inarcò le sopracciglia.
«Già tornati? Com’è andata?»
Vittoria fece per rispondere, ma si accorse che non avrebbe saputo come spiegare quello che era successo, così richiuse la bocca e guardò suo padre. Sedette pesantemente sul piccolo divano del salotto.
Stefano posò le chiavi della macchina sul tavolino con una lentezza studiata, come se volesse prendere tempo per stabilire come affrontare la cosa. «Bene» fu la sua risposta, calma e neutra. «Oggi abbiamo avuto compagnia.»
«Chi?»
Lui fissò Claudia per un attimo. «Enrico.»
Lei non rispose subito, ma la sua espressione cambiò impercettibilmente, come se si sforzasse di non lasciar trapelare tutta la sua sorpresa. Si guardarono senza parlare per qualche istante. Claudia emise un respiro e si raddrizzò sulla sedia.
«Ma avevamo… non era partito per lavoro?» chiese, cambiando bruscamente la frase che aveva quasi pronunciato.
«Era. È tornato prima» spiegò Stefano, sempre con quel tono incolore. «Non si aspettava che fossimo ancora qui, comunque. Forse non ha avvisato Rosalia prima di tornare, altrimenti lei glielo avrebbe detto.» Mentre parlava, tirò fuori il portatile dalla borsa, probabilmente per rimettersi al lavoro. Claudia lo osservava, le braccia incrociate posate sul tavolo, il kindle dimenticato accanto a una bottiglia di acqua minerale mezza vuota.
«Avete parlato?»
Lui scosse la testa. «Ha detto solo che riparte domani.»
A Vittoria suonò strano come quando lo aveva detto Enrico, al baglio, poco prima. Più ci pensava, più era convinta che il suo piano originario non fosse quello: voleva scappare anche lui, come suo fratello. Prese il telecomando, imbronciata, accese la tv e fissò lo schermo senza interesse.
«Vado fuori a lavorare un po’» disse suo padre, dopo qualche istante di silenzio. Si chinò per baciare Claudia sulle labbra.
Lei annuì. «Ok. Rosa e Alberto sono andati a fare la spesa, più tardi li aiutiamo con il pranzo.»
«Perfetto» commentò Stefano automaticamente, ma Vittoria era sicura che non ascoltasse sul serio. Uscì sul patio e sedette al tavolo dove facevano colazione, aprì il computer e poco dopo il suo telefono squillò. Vittoria fece un sospiro, lasciandosi andare contro gli spessi cuscini blu che coprivano il divanetto di vimini bianco. Sua madre aveva ripreso il kindle in mano, ma non leggeva e fissava un punto indefinito, pensierosa.
«Sai che possiamo fare domani?» disse all’improvviso. Vittoria si contorse per guardarla con aria dubbiosa. Aveva le gambe piegate di lato, sul divano, ed era seduta tutta storta. «Un giro in paese. Non l’hai ancora visto. Rosa mi ha detto che hanno aperto un sacco di negozi e ristoranti carini, per i turisti. Che ne pensi?» Sua madre incrociò il suo sguardo e davanti alla sua espressione perplessa tirò fuori un sorriso poco convinto. «E meglio non andare al baglio, domani. Sai che per papà è dura.»
Vittoria rifletté, in sottofondo il vociare indistinto della televisione a basso volume e la voce di suo padre che parlava al telefono, sul patio.
«Tu non pensi che…» azzardò, indecisa su come proseguire. Eravamo una cosa sola. Un’anima in due corpi. Fece una pausa e riprovò. «Non ti sembra che dovrebbero parlarsi? Non si guardavano neanche in faccia… È suo fratello, mamma. Non è assurdo?»
Sua madre si mordeva il labbro e sembrava incerta. Abbassò lo sguardo sul kindle, passando un dito sul display per accenderlo. «Tesoro, è una scelta di papà. Se lui non se la sente… Ma è meglio così. Credimi.»
Meglio così? Vittoria aprì la bocca per ribattere, ma in quel momento Stefano rientrò in casa, il cellulare in mano e l’aria stanca. Le dispiacque vedere l’espressione tirata sul suo viso. Era stata una giornata pesante per lui e sembrava che non fosse ancora finita.
«Devo tornare a Milano» annunciò con voce cupa. «Domani c’è una riunione e Alessandra mi ha chiesto di essere presente. Era lei, al telefono.»
Le spalle di Vittoria si afflosciarono di colpo. Ecco, adesso anche suo padre aveva una scusa perfetta per scappare.
«Devi andare per forza?» chiese Claudia. «Non potreste farla online, la riunione?»
Lui sospirò e scosse la testa, mentre posava il cellulare sul ripiano della cucina. «È per la Durings. È importante. Alessandra me lo ha chiesto come favore personale, vuole il mio parere.»
Claudia assentì, l’aria rassegnata. Non era certo la prima volta che il lavoro di Stefano si infilava nelle loro vacanze e non sarebbe stata neppure l’ultima. Lei e Vittoria c’erano abituate.
«Ok, allora… prenoto il traghetto. Potremmo anche partire stasera… dubito che troveremo dei posti, però, in pieno luglio» disse, a bassa voce, come riflettendo tra sé. Si alzò per andare a prendere il suo telefono dalla borsa, su una sedia della cucina, sulla fronte una ruga sottile che le spuntava sempre tra le sopracciglia quando era concentrata su qualcosa.
Vittoria si raddrizzò di scatto sul divano. «Potremmo? Partiamo tutti e tre?»
Se fossero partiti allora non sarebbero più tornati a Santo Stefano. Non avrebbe avuto senso fare su e giù in quel modo. I genitori si voltarono a guardarla nello stesso momento, come due nuotatori sincronizzati, poi si scambiarono un’occhiata.
«Be’, noi… siamo rimasti per qualche giorno, come avevamo deciso» rispose sua madre, con calma.
Vittoria sollevò le sopracciglia. «Non state usando il pretesto della riunione per scappare, vero?» domandò, ironica.
Claudia sbuffò una mezza risata, anche se non sembrava affatto divertita. «Ma no! Il piano era questo, restare qualche giorno» ripeté.
Vittoria rifletté in silenzio per un istante. «Sì, ma… non abbiamo mai deciso quanti giorni fossero esattamente qualche giorno» ribatté Vittoria con ostinazione. Un lieve panico stava iniziando a crescerle nello stomaco. Andare via adesso significava abbandonare i suoi progetti senza aver ottenuto assolutamente nulla: non poteva succedere, sarebbe stata una beffa troppo grande arrivare così vicino al traguardo per essere costretta a fermarsi e tornare al punto di partenza a mani vuote. Doveva trovare il modo di impedirlo.
Sua madre sembrava interdetta. «Ok, allora… quanti giorni sono esattamente qualche giorno
«Io vorrei restare ancora.»
Claudia alzò gli occhi al cielo, poi li abbassò sul telefono che aveva tirato fuori dalla borsa, evitando di sostenere lo sguardo di sua figlia. «Non ti annoi a stare in quella casa? È una specie di tomba.»
Vittoria trasalì. Sua madre non era stata affatto entusiasta di scoprire dell’accordo che lei aveva preso con Edoardo. Quando Vittoria le aveva detto che sarebbe tornata al baglio a suonare per il nonno e conoscerlo un po’, l’aveva fissata come se avesse appena annunciato di volersi tuffare in mare direttamente dalla terrazza nel giardino di Alberto e Rosa, poi aveva rivolto uno sguardo sconvolto a Stefano. Sembrava che non potesse credere che lui avesse accettato una simile proposta. Si erano allontanati per parlarne da soli, in giardino, mentre Vittoria aspettava nella dépendance camminando su e giù nervosamente e spiandoli ogni tanto attraverso le vetrate. Le era sembrato che la discussione fosse piuttosto accesa, ma poi erano rientrati e avevano tutti e due una faccia abbastanza normale. Claudia aveva detto che capiva e che era d’accordo, purché papà la accompagnasse.
Nonostante i sorrisi e le parole rassicuranti, però, Vittoria aveva intuito benissimo che i suoi detestavano quella decisione e che se avessero fatto di testa loro l’avrebbero presa, infilata nel trolley e riportata a Milano. Adesso le parole di sua madre confermavano le sue impressioni. Per loro non c’era niente di peggio che tornare al passato e lei li stava obbligando a farlo. Si sentiva in colpa, ma non poteva andarsene: era a stento riuscita a parlare con il nonno, aveva a malapena intravisto lo zio e non sapeva assolutamente niente di più di quando era arrivata, tre giorni prima. Era ancora tutto un enorme mistero e se avesse perso quell’occasione forse non ce ne sarebbe mai stata un’altra. Dopotutto, Edoardo stava per morire. Annaspò, cercando in fretta una soluzione, ma le sembrava di avere la testa svuotata.
«Suono, mamma. Lo sai che non mi annoio» riuscì a tirare fuori, ma sembrava una scusa debolissima perfino alle sue orecchie.
Lei stava per replicare, sul viso un’aria esasperata, quando Stefano intervenne. «No, Claudia, aspetta. Va bene. Ha ragione» disse con tono stanco e pesante. Alzò le mani. Anche se Vittoria non poteva scorgere la sua espressione, perché le dava le spalle, sentì un soffio di speranza che le si accendeva nel petto.
Claudia lo fissò, le braccia rigidamente incrociate, lo sguardo duro. «Sei sicuro, Stefano?»
Lui esitò, prese aria, poi annuì una volta sola. Si passò una mano sulla fronte, come per chiarirsi le idee. «Facciamo così: voi restate. Io parto domani mattina presto. Se tutto va bene, torno mercoledì. E giovedì saremo di nuovo al baglio» annunciò con voce scura.
Vittoria sbuffò silenziosamente: non avrebbero lasciato che ci andasse da sola e sua madre sembrava non avere intenzione di accompagnarla, ma non importava. Almeno non sarebbe stata costretta a ripartire così presto. Dopo una pausa carica di tensione, Claudia annuì a sua volta, gli occhi fissi in quelli di Stefano, e a Vittoria venne voglia di urlare per l’entusiasmo. Si morse il labbro per trattenersi. Sapeva che per i suoi accontentarla era un sacrificio, non poteva buttargli in faccia la sua soddisfazione. 
Claudia aveva l’aria cupa e la stava fissando. Quando Vittoria incrociò i suoi occhi, subito li staccò da lei e guardò altrove, l’espressione che diventava distante. Stefano, invece, era occupato con il suo telefono e aveva il viso abbassato. Vittoria emise un sospiro lieve. Aveva vinto, non sarebbe stata trascinata via come una bambina capricciosa. Fece un piccolo sorriso e afferrò il telecomando per alzare il volume della televisione.
«Ok, aspetterò il bodyguard, così il mostro a tre teste che vive in cantina non potrà mangiarmi.»
Suo padre accennò una risata, ma gli uscì un suono strano, come se ridesse controvoglia. «Più o meno» rispose a bassa voce, mentre usciva di nuovo sul patio.

 

****
 

Il giorno seguente Stefano partì prestissimo. Vittoria percepì vagamente che entrava piano nella sua stanza, cercando di non svegliarla, si chinava su di lei e le baciava la guancia. Si era trattenuto un istante, mentre il profumo di cedro del dopobarba mescolato all’odore fresco e morbido della sua camicia le riempiva il naso e la barba cortissima le graffiava la pelle, come se volesse mandarle un messaggio muto. Poi si era ritratto ed era uscito silenziosamente.
Lei era scivolata di nuovo nel sonno e si era svegliata molto più tardi, con il sole già bollente che inondava la stanza di luce, le lenzuola aggrovigliate e calciate via come sempre e un fiume di sudore che le scorreva lungo la schiena. La sua camera alla dépendance era deliziosa, con un’intera parete dipinta di azzurro polvere, i mobili aggraziati bianchi e blu, la testiera di ferro del letto decorata da motivi che imitavano le onde del mare e la portafinestra che affacciava sul giardino, ma sembrava un forno per le pizze. Alla dépendance non c’era l’aria condizionata e la sua stanza era la più calda. Quella matrimoniale, accanto alla sua, era molto più fresca e ventilata.
Quando si alzò, scoprì che sua madre non c’era: doveva essere andata a fare colazione nella casa principale con Rosa e Alberto. Fece una doccia veloce e mentre si vestiva fece partire un lungo e mesto messaggio vocale di Daniela in cui lei le raccontava di aver saputo che Marco stava uscendo con Maddalena, un’arpista del loro anno al conservatorio.
Vittoria si bloccò a metà mentre si infilava le scarpe e rimase per un po’ seduta sul letto, immobile, osservando una mosca che ronzava nella stanza e cercando di capire cosa sentisse. La sconcertava il fatto di provare così poco dispiacere, quando invece avrebbe dovuto detestare Marco e quella snob presuntuosa di Maddalena, che non le era mai stata simpatica neanche prima. Ormai non sentiva Marco da tempo e aveva capito che tra loro non c’era più niente, qualunque cosa ci fosse prima. Non era neppure sicura che fossero mai stati davvero una coppia, dato che erano usciti insieme solo un paio di volte. Non le importava, non come avrebbe dovuto. Nei giorni in cui non si erano parlati si era resa conto di poter stare benissimo senza di lui e che tutta l’attrazione che le era sembrato di provare era gonfiata dalla curiosità e dall’entusiasmo, perché non si era mai vista con un ragazzo prima di allora. Eppure… lui l’aveva baciata, le aveva preso la mano al cinema ed era stata la prima volta che aveva pensato a qualcuno in termini diversi dalla semplice amicizia. E lui l’aveva sostituita così in fretta.
Accigliata, finì di vestirsi e raggiunse la casa principale. Entrò dalla portafinestra della cucina, dove Rosa e sua madre sedevano all’enorme tavolo rettangolare di legno bianco coperto di graffi e scanalature come quasi ogni altro mobile della casa. Parlavano fitto tra loro, ma appena Vittoria mise piede dentro tacquero e raddrizzarono di colpo le teste chine e vicine.
«Buongiorno!» esclamò Rosa, la voce carica di energia, come se avesse mandato giù almeno quattro caffè. Solo Rosa poteva essere così al mattino, mugugnò Vittoria tra sé e sé. Lei, invece, era di umore intrattabile almeno fino a mezzogiorno, anche quando non riceveva messaggi deprimenti dalle amiche. «Stavo per dire a tua madre di mettere un po’ di musica a tutto volume per tirarti fuori dal letto.»
«Sono in vacanza, hai presente?» borbottò Vittoria. Andò alla macchina del caffè per farsi un cappuccino. Era così in confidenza con Alberto e Rosa che si muoveva a casa loro come se fosse stata la propria, senza avvertire nessun imbarazzo.
«Ehi, che succede? Tutto ok?» chiese Claudia. Vittoria alzò la testa e notò che la stava osservando con aria perplessa. Cercò di distendere l’espressione contratta del viso, ma senza grande successo.
«Tutto ok» disse, ignorando di proposito la prima domanda. Non le andava ancora di raccontare in giro il modo in cui era stata piantata. «È solo che… il mare non mi fa dormire. Non mi sono ancora abituata. Papà è andato, vero?» chiese, cambiando bruscamente argomento.
«Sì, Alberto lo ha accompagnato al porto con la macchina prima di iniziare il solito giro in bici» rispose Claudia lentamente. Da come la fissava, Vittoria capì che si era resa conto che qualcosa non andava, ma fece finta di nulla. Per fortuna i suoi genitori non erano mai invadenti con lei e le lasciavano sempre lo spazio di cui aveva bisogno, forse perché erano molto più vicini alla figlia per età rispetto alla maggior parte dei genitori e la capivano meglio.
«Non ti ho detto che si è rotta la sveglia? E Alberto non sa programmare la sua su quel cellulare preistorico che ha» intervenne Rosa di getto, rivolta a Claudia, con tono divertito. «Si è svegliato in tempo solo perché mi ero alzata a bere un bicchiere d’acqua…»
Mentre il latte e il caffè scendevano insieme, gorgogliando, mescolati in una schiuma morbida e spessa, Vittoria sentì sua madre ridere e rispondere qualcosa, ma smise ben presto di ascoltare. Non riusciva a concentrarsi sulle loro parole. Era distratta, come se un pensiero pressante, ma indefinito, richiamasse la sua attenzione. Come se avesse dimenticato di fare qualcosa di importante, solo che era abbastanza sicura di non avere nulla da fare e di non aver dimenticato niente. Non riusciva a capire cosa fosse. Di sicuro non era quello scemo di Marco. Quando la tazza fu piena, la prese e sedette a tavola, ancora pensierosa.
«Che vuoi fare oggi?»
Si accorse a stento che sua madre stava parlando con lei. Si sforzò di concentrarsi, mentre dava un morso a un biscotto. «Uhm… non lo so. Non volevate fare un giro a Portosalvo?» mormorò, ripescando distrattamente un ricordo del giorno prima.
«Sì, però abbiamo pensato di sistemare quella camera degli ospiti, di sopra. Ti ricordi? Quella da dipingere.» Vittoria annuì senza molto interesse. Quando erano arrivati, i padroni di casa gli avevano fatto fare un giro di tutte le stanze, compresa una vuota e abbandonata al secondo piano che doveva essere ritinteggiata. Rosa aveva detto di voler dipingere qualche disegno su una parete. Vittoria non si stupì che sua madre volesse partecipare: amava quel genere di cose ed era molto brava in tutte le attività artistiche e manuali. Non lo faceva per ringraziare Rosa dell’ospitalità, tra loro due non esistevano certe formalità.
«Approfittiamo che Alberto è libero stamattina, così ci porta i secchi di vernice su dalla cantina» aggiunse Rosa, impegnata a stendere un generoso strato di marmellata all’arancia su una fetta biscottata. «Devono pur servire a qualcosa, questi uomini.» Claudia fu scossa da un mezza risata, mentre mandava giù un sorso di caffè. Posò la tazza vuota e si schiarì la voce. «In paese possiamo andarci oggi pomeriggio. Che dite?» proseguì Rosa. Lei e Alberto non nominavano mai Portosalvo, ma usavano sempre quell’espressione: “in paese”, come se fosse l’unico e il solo, ed effettivamente era l’unico centro abitato di una certa grandezza sull’isola.
Claudia si rivolse alla figlia. «Per me va bene. Tu che vuoi fare?»
Vittoria aveva appena preso il secondo biscotto. Masticò pensierosa per qualche istante. «Non lo so… Magari mi unisco a voi.» E poi, all’improvviso, quel pensiero misterioso che la distraeva prese forma e la colpì come uno schiaffo. Fu una sensazione molto simile a quando, da bambina, suo padre la portava sulle macchinine dell’autoscontro e un altro bambino le piombava addosso da dietro, senza che potesse vederlo, cogliendola di sorpresa e facendole saltare in gola il cuore e lo stomaco. Nella sua mente iniziò a delinearsi un piano, in modo quasi spontaneo. «Oppure… avevo pensato di andare al mare. Da sola» si corresse, lentamente.
«Ti sei già stufata di stare con i vecchi, eh?» fu il commento allegro di Rosa. Aveva finito la sua fetta biscottata e ne aveva presa un’altra con espressione vagamente colpevole.
Vittoria guardò sua madre, indagando sulla sua reazione: la stava osservando un po’ sorpresa, ma non sembrava contraria. «Sei sicura?»
Lei annuì con energia. «Ma sì… Vado alla Cala Saracena, qui accanto. Mi porto il kindle, così leggo un po’.»
«Stai rileggendo tutta la saga di Harry Potter, vero?» intervenne Rosa, continuando a spalmare marmellata sulla fetta biscottata. Poi diede un bel morso che ne portò via più di metà. «Piace un sacco anche ad Alberto.»
«Sì, lo so. Ne parliamo sempre» rispose Vittoria con un sorriso debole. Era come divisa in due: una parte della sua mente lavorava sul piano, l’altra metà cercava di concentrarsi sul presente, seguire la conversazione e dare risposte sensate. «E poi devo leggere I Malavoglia per la scuola.»
«Ma sei in vacanza.»
«Dillo alla mia prof. di Lettere.» Rosa rispose con una smorfia. Vittoria guardò di nuovo Claudia. «Allora, posso andare?»
Lei ci rifletté per un momento, poi le sorrise. «Va bene. Basta che mi chiami, ogni tanto, o mi mandi un messaggio. Se poi cambi idea e vuoi compagnia, me lo dici e ti raggiungo.»
Vittoria trattenne a stento un enorme sorriso. Sarebbe stato bizzarro sembrare così soddisfatta per una semplice mattinata al mare. «Certo» disse subito.
Mentre finiva di sorseggiare il cappuccino e Rosa e Claudia parlavano di cosa dipingere sulle pareti della stanza per gli ospiti, i passi successivi del piano si sviluppavano nella sua testa con una chiarezza sorprendente. Era come se si fosse svegliata con quell’idea sepolta da qualche parte, ma già elaborata fin nei minimi dettagli, e adesso si svelava tutta insieme e a lei non restava che metterla in pratica. Come se qualcuno gliel’avesse bisbigliata all’orecchio mentre dormiva. Finito il cappuccino, mise la tazza nella lavastoviglie, poi lanciò un’occhiata discreta dietro di sé: Rosa e sua madre stavano parlando di rulli, pennelli e gabbiani bianchi da dipingere su uno sfondo azzurro polvere e quando uscì dalla cucina non se ne accorsero nemmeno.
Attraversò il corridoio lungo e stretto. Dopo tre giorni trascorsi lì conosceva la casa. Sembrava deserta e silenziosa, forse perché Alberto non era ancora rientrato dal giro in bici che faceva tutte le mattine. Ignorò diverse porte, chiuse o spalancate, e si diresse con sicurezza verso una porta a vetri scorrevole. La spinse, cercando di non fare rumore, ed entrò nello studio di Alberto. Di fronte c’era una finestra aperta che lasciava entrare un alito di vento fresco e il cinguettio degli uccellini sugli alberi del giardino. Sotto la finestra stazionava un’ampia scrivania di mogano. Una libreria alta, chiusa da pannelli di vetro, occupava quasi tutta la parete di destra e proseguiva lungo la parete dietro la scrivania. Una seconda libreria identica, anch’essa ad angolo, si trovava sulla sinistra e a un certo punto si interrompeva per fare spazio a una pianta in vaso e a un divanetto di pelle a due posti.
Vittoria accostò la porta alle sue spalle, poi avanzò piano, ringraziando mentalmente il soffice tappeto che copriva i suoi passi, aggirò le due alte sedie di legno scuro destinate ai visitatori ed esaminò la superficie della scrivania. Era piuttosto disordinata, ingombra di carte, faldoni, cartelline, pile di documenti, penne USB, mucchi di penne e un portatile chiuso. Alberto era un avvocato e Rosa si lamentava sempre del caos, chiedendosi come facesse a lavorare lì dentro. Non aveva tutti i torti, pensò Vittoria stringendo le labbra, ma quello che cercava doveva pur essere lì, da qualche parte. Doveva solo trovarlo.
Spostò con cautela i mucchi di documenti e le pile di cartelline e sbirciò al di sotto, poi li rimise giù, avendo cura di lasciarli esattamente come li aveva trovati, sebbene dubitasse che in quella confusione Alberto potesse accorgersi di qualche cambiamento. Aprì il primo cassetto della scrivania: solo penne e fogli bianchi in attesa di appunti. Lo richiuse in fretta, mentre scoccava un’occhiata ansiosa alla porta, e aprì il secondo: una serie di cartelline di plastica rossa, su ciascuna di esse un’etichetta bianca con un cognome, che probabilmente riguardavano i clienti di Alberto. Aprì il terzo cassetto. 
Eccola lì: un’agenda telefonica dalla copertina in pelle rossa, sbiadita e segnata dall’uso. Vittoria aveva ascoltato tante volte Rosa prendere in giro il suo compagno per quella sua abitudine “antica” di segnare i numeri di telefono su un’agenda cartacea nonostante la rubrica che aveva sul telefono (non uno smartphone, ma un cellulare vecchio stile con i tasti fisici).
«Non riesco a farne a meno», rispondeva lui, alzando le spalle, con il suo serafico e invariabile buon umore. «Se poi mi si rompe il cellulare, come faccio senza i miei numeri?»
Vittoria sfogliò in fretta l’agenda e quando trovò il numero che voleva ebbe un sussulto di trionfo. Era impossibile che Alberto non lo avesse. Prese il telefono dalla tasca e memorizzò il numero con pochi gesti rapidi, poi richiuse l’agenda, la ficcò di nuovo nel cassetto, lo richiuse e si fiondò alla porta. Aveva appena iniziato ad aprirla che si trovò davanti Alberto, apparso di colpo dal nulla. Sobbalzò, ma ebbe la prontezza di tirare fuori un sorriso.
«Ehilà!» esclamò lui, gioviale. 
Era in pantaloncini e t-shirt, aveva il viso arrossato e l’aria accaldata ed era talmente zuppo di sudore da dare l’impressione di essersi tuffato in mare. Vittoria inarcò un sopracciglio. Ammirava la tenacia con cui le persone come Alberto e suo padre praticavano sport tutto l’anno, anche nei mesi più caldi. Lei amava il tennis, ma da giugno in poi non toccava più una racchetta fino a settembre. Suo padre, invece, andava a correre ogni giorno alle sei, in inverno e in estate, perfino quando erano in vacanza. Anche il soggiorno sull’isola non faceva eccezione.
«Ciao! Stavo… Cercavo una penna» disse Vittoria, con una voce che le parve troppo squillante, ma ormai era tardi. Forse era una scusa stupida, ma non le era venuto in mente altro.
Alberto, però, non sembrò trovarci nulla di strano. Forse era troppo stremato dalla pedalata sotto il sole per ragionare lucidamente. La superò ed entrò nello studio. «Fai pure, ce ne sono fin troppe di penne, qui dentro. Ogni tanto ne perdo una e poi ricompare all’improvviso, nei posti più strani.» Scrutò la superficie ingombra della scrivania, cercando qualcosa. Poi fece un verso soddisfatto e si sporse per afferrare il caricabatterie del telefono, mezzo nascosto sotto un faldone giallo.
«In realtà mi è venuto in mente di averne vista una in un cassetto alla dépendance» inventò Vittoria con un’alzata di spalle.
«Ecco, vedi? Spuntano fuori quando meno te lo aspetti» commentò Alberto. Le passò di nuovo accanto per andare alla porta e le diede un buffetto sui capelli. «Vado a farmi una doccia… Oggi sembrava di pedalare dentro una pentola di acqua bollente.»
Vittoria fece una smorfia. «Che orrore» mormorò e lui rise mentre si allontanava lungo il corridoio. Lei si lasciò sfuggire un respiro di sollievo. Era fatta.

****

 
Claudia e Rosa erano ancora in cucina a chiacchierare. Vittoria uscì passando dal salotto, facendo lo slalom tra i divani rivestiti di tappezzeria a fiori, attraversò di corsa il giardino già immerso nel caldo che saliva sempre di più e tornò alla dépendance. Doveva sbrigarsi. Si chiuse alle spalle la portafinestra del salottino, si appoggiò al vetro e si prese un momento per fare qualche respiro profondo. C’era un silenzio quasi assoluto, a parte il rumore del mare, il cinguettio degli uccellini e il frinire instancabile delle cicale. Le sembrava che il cuore le battesse nel petto con la forza di un tamburo che chiunque avrebbe potuto sentire, anche a un’enorme distanza. 
Tirò fuori il telefono dalla tasca mentre si allontanava dal vetro già tiepido sotto il sole, aprì il numero che aveva memorizzato in rubrica poco prima. Lo fissò per un po’, chiedendosi che diamine stesse facendo. Voleva andare fino in fondo, sul serio? E se fosse scoppiato un casino? I suoi si sarebbero incazzati a morte, stavolta. Strinse le labbra con forza, poi premette il tasto di chiamata. Si sentiva strana, come se non fosse lei a prendere quelle decisioni, a compiere quei gesti, ma un’altra persona, e lei osservasse dall’esterno, senza poter intervenire, percorrendo una strada già tracciata. Qualcuno rispose al terzo squillo.
«Baglio Falconeri» disse una voce sottile dall’accento pesante che Vittoria riconobbe immediatamente. Era Rosalia. Sentì un tuffo al cuore.
«Ehm… Buongiorno, ehm… Sto cercando il signor Falconeri. Enrico Falconeri» aggiunse precipitosamente, nel dubbio che Rosalia pensasse a Edoardo. «So che dovrebbe partire stamattina, ma forse… è ancora lì» aggiunse. Aveva la voce un po’ affannosa, le parole che quasi si accavallavano l’una sull’altra.
«Chi lo cerca?»
Non si era nemmeno presentata. Sospirò e strinse il telefono tra le dita. «Vittoria Ruggero.»
«Ah, tu sei, Vittoria. Non ti avevo riconosciuta. Vado a controllare, un momento, per favore.»
Vittoria restò in attesa, impalata. Aveva telefonato quasi senza speranze, convinta che ormai lo zio avesse già preso il traghetto per Palermo. Non aveva pensato che la sua idea potesse concretizzarsi sul serio. Il panico le riempì lo stomaco, un fiotto caldo e bruciante, e per un attimo si chiese se non fosse completamente impazzita. Cosa voleva fare? Cosa pensava di ottenere? Dall’altra parte il silenzio si protraeva e faceva crescere la sua ansia ogni secondo di più. Immaginò Rosalia che faceva il giro della casa senza riuscire a trovare Enrico. Forse era già partito e lei non lo sapeva. Poteva essere caduta la linea? E se lui non avesse voluto rispondere? Che idea schifosa aveva era stata. Ma come diavolo le era venuta in mente? Fece per abbassare il telefono e chiudere la chiamata.
«Sì?»
Enrico rispose all’improvviso, cogliendola alla sprovvista. Aveva un tono freddo, controllato, privo di emozioni, e lei non riuscì a capire se fosse felice o seccato di sentirla o se invece gli fosse del tutto indifferente. Prese un respiro profondo.
«Ciao» esclamò automaticamente, poi tacque. In realtà non sapeva bene che cosa dire. Mosse qualche passo tra il salottino e la cucina, controllando la portafinestra con la coda dell’occhio. Quando sua madre e Rosa iniziavano a chiacchierare era molto difficile che smettessero presto, quindi, almeno in teoria, poteva stare abbastanza tranquilla. «Non ero sicura di trovarti. Non dovevi partire?»
Lui rimase in silenzio per qualche istante. «Vado al porto tra un’ora.» Ci fu un’altra pausa, ma Vittoria ebbe la sensazione che fosse sul punto di aggiungere qualcosa e aspettò. «Cosa posso fare per te?»
Vittoria fece un altro respiro profondo. «Ehm, allora. Mi chiedevo… se prima di andare al porto potresti passare a prendermi o… o magari mandare qualcuno. Mio padre non c’è, è tornato a Milano per una riunione di lavoro imprevista e… non può accompagnarmi, ma io vorrei venire lo stesso.»
Un altro silenzio. Vittoria suppose che Enrico fosse impegnato a mettere ordine in quella spiegazione un po’ disordinata. «Vuoi venire qui? Da sola?» indagò, sempre con quella voce indecifrabile.
«Io… Sì. Papà torna tra un paio di giorni. Posso aspettare, certo, però… vorrei venire anche oggi, se è possibile.»
Silenzio. «Nessuno sa che hai chiamato qui, vero?»
Vittoria esalò un respiro lieve. «No, ma ho promesso a Edoardo che sarei venuta tutti i giorni. Non voglio che resti deluso.» Non aggiunse che probabilmente il tempo che gli rimaneva era così poco che anche un paio di giorni potevano fare la differenza, ma in qualche modo percepì che lo zio, dall’altra parte, aveva avuto lo stesso pensiero.
«Vittoria, io… Non so se è il caso. A Stefano non farebbe piacere.»
Lei trattenne il fiato. «In realtà pensavo di non dirglielo. Di non dirlo a nessuno.»
«E cosa racconti a tua madre?»
«Le ho detto che vado al mare. Lei e Rosa saranno impegnate almeno per mezza giornata. Hai presente Cala Saracena, qui vicino? Ci arrivo in due minuti. Se vieni a prendermi possiamo vederci sulla strada principale… dove c’è quel passaggio nel muro. Non se ne accorgerà nessuno. Ma se non vuoi… non fa niente. Vado al mare. Cioè, ci vado davvero» aggiunse un attimo dopo e le parve di sentirlo accennare un sorriso. «Non voglio scombinare i tuoi programmi.»
«In realtà…» Enrico esitò e lei rimase come sospesa, aspettando. «Non c’è molto da scombinare. Posso partire più tardi o domani.»
Per poco il telefono non le cadde di mano. «Davvero?»
«Non ho ancora preso il biglietto.»
«Non era un viaggio di lavoro?» Vittoria si girò e fissò senza vederlo l’orologio blu appeso alla parete della cucina: era un’immagine stilizzata di un pesce che le ricordava Flounder del film La sirenetta. «Non voglio crearti problemi.»
«Non è niente di importante. Dovrei incontrare alcuni amici dell’Associazione Vini Siciliani, ma posso rimandare. È una cosa informale.» Fece una pausa. «Hai ragione» continuò lentamente, «da un momento all’altro Edoardo…» Tacque di nuovo e lasciò la frase in sospeso, ma Vittoria aveva intuito cosa stava per dire. «Rosalia mi ha detto che sta meglio quando ascolta il pianoforte. E poi è felice di averti conosciuta.»
Vittoria ascoltava sconcertata. Aveva vinto davvero? Le sembrava troppo strano per crederci. Aveva temuto che Enrico rispondesse di no per evitare di creare tensioni con Stefano. Forse, le balenò all’improvviso come un lampo, accettava per sfidarlo, per dimostrare di non tenere in grande considerazione le preoccupazioni e i divieti del fratellastro. In fondo, lei non lo conosceva per niente, non aveva idea di cosa aspettarsi. Quel pensiero la bloccò per un attimo. Non era così ansiosa di trovare risposte alle sue domande da causare ulteriori scontri in famiglia, ma tentò di allontanare quel pensiero. Forse si stava sbagliando e lo zio voleva semplicemente accontentarla, non provocare una discussione con Stefano. O forse una bella litigata era proprio quello che ci voleva. E comunque, se tutto fosse andato secondo i piani, Stefano non l’avrebbe mai saputo. Era abbastanza certa che il personale del baglio avrebbe taciuto, se Enrico lo avesse chiesto. E poi aveva avuto l’impressione che Rosalia fosse abituata a tollerare qualche stranezza, in quella famiglia, e tutti gli altri facevano quello che diceva lei. Nessuno avrebbe mai rischiato di scatenare un casino.
«Sicuro che non è un problema?» insisté, titubante.
«Sicuro. Stai tranquilla» rispose lui con tono definitivo, ma leggermente addolcito. «Tra quanto ci vediamo?»
«Facciamo un quarto d’ora?»
«Va bene. Ti do il mio numero, nel caso avessi bisogno di contattarmi.»
«Ah, sì, giusto» esclamò lei e corse a prendere un post-it e una penna da uno dei cassetti della cucina. Enrico dettò il numero, poi fece una breve pausa.
«Ci vediamo più tardi» concluse. All’improvviso sembrò esitante e Vittoria temette per un momento che fosse pentito di aver accettato la sua richiesta. Pensò di chiederglielo esplicitamente, ma le mancò il coraggio. Il momento passò.
«A dopo» si limitò a rispondere, dubbiosa, poi chiuse la telefonata.
Memorizzò in fretta il numero di Enrico sul cellulare e mentre correva a cambiarsi sentì l’incertezza gonfiarsi come un palloncino che aveva preso il posto dello stomaco. Non aveva idea di come sarebbe andata e l’aspettativa si mescolava al timore di aver fatto uno sbaglio. Durante la telefonata lo zio le era sembrato prima perplesso, poi quasi convinto, poi di nuovo perplesso, come se appena prima di chiudere fosse stato sul punto di ripensarci, al punto che Vittoria si domandò se sarebbe venuto davvero o se alla fine si sarebbe tirato indietro.
Indossò un bikini e un vestitino di jeans con una camicia di Sangallo bianca e infilò nella borsa il suo telo da spiaggia, la crema solare, il kindle e le infradito: se Enrico non si fosse presentato all’appuntamento sarebbe andata al mare, come aveva detto a sua madre. E poi, se Claudia fosse venuta a dare un’occhiata nella sua stanza, quella mattina, non doveva sospettare che lei non fosse davvero andata in spiaggia. Legò i capelli in una coda bassa con un foulard colorato, afferrò gli occhiali da sole e corse alla casa principale. Non entrò, limitandosi ad affacciarsi alla portafinestra della cucina: la stanza adesso era vuota, ma sentiva Rosa e Claudia ridere e parlare da qualche parte al piano di sopra.
«Mamma, io vado!» gridò, augurandosi che la sentissero. Non voleva essere costretta a salire e magari trattenuta per qualche motivo.
Ci fu un rumore di passi sulle scale. «Ok, amore» disse Claudia. «Tieni d’occhio il telefono, ti mando un messaggio ogni tanto. Divertiti!»
«Ok, ok, ciao!»
Vittoria si era già lanciata in giardino prima ancora di finire di rispondere. La proprietà era recintata da un muro di pietra antico in cui si apriva un cancelletto laterale. Da lì partiva un viale che attraversava un boschetto di ulivi e si trasformava in una stradina sterrata che scendeva alla spiaggia. La terra iniziava a confondersi con la sabbia e gli alberi si facevano più radi, lasciando il posto alle rocce che racchiudevano la piccola baia come una perla in una conchiglia. Vittoria c’era andata una volta, con Rosa e Claudia, per mezza giornata. Si erano sistemate all’ombra delle rocce e si erano godute il silenzio e la quiete, lontano dalla confusione dei bagnanti che affollavano soprattutto i lidi poco lontani da Portosalvo, dall’altro lato dell’isola. Santo Stefano era piccola e priva di attrattive a parte la bellezza naturale del luogo e non aveva mai attirato molti turisti, ma Alberto e Rosa avevano raccontato che negli ultimi anni erano aumentati. Cala Saracena, però, era una baia minuscola e scomoda da raggiungere, frequentata quasi solo dagli abitanti dell’isola, ed era sempre molto tranquilla.
Vittoria fece tutta la strada quasi di corsa, temendo di arrivare in ritardo. Non voleva dargli una buona scusa per tornare indietro e rimangiarsi la parola. Quando uscì dal boschetto di ulivi, invece di andare a sinistra, verso la spiaggia, svoltò a destra, seguendo il muretto di vecchie pietre scalcinate fino a raggiungere la strada asfaltata. Il caldo era già quasi insopportabile. Sedette sul muretto e aspettò. Dopo un po’, quando ebbe ripreso fiato, tirò fuori il telefono e gettò un’occhiata al display: erano trascorsi esattamente diciassette minuti dalla fine della telefonata con lo zio. Una giovane coppia le passò accanto tenendosi per mano e parlando a bassa voce, diretta alla spiaggia. 
Vittoria scacciò una vespa che le ronzava intorno, strinse i lacci di una delle All Star bianche che aveva annodato male nella fretta di precipitarsi fuori, sollevò gli occhiali da sole sulla testa, ma il sole era troppo forte e dovette riabbassarli. Venti minuti. Enrico non le era sembrato il tipo di persona che fa tardi, anzi. Il cuore le sprofondò lentamente sotto le scarpe mentre giocherellava con il telefono, la testa bassa, l’aria triste.

Lo sapevo, pensò. Sì, una parte di lei sospettava che sarebbe andata così, eppure quella punta di delusione era più amara di quanto si aspettasse. Si alzò svogliatamente, spazzolandosi il retro del miniabito di jeans per togliere la polvere del muro. Era sul punto di girare a sinistra, lungo il sentiero che scendeva verso il mare, quando si accorse di una macchina che si avvicinava: una BMW grigio scuro metallizzato dal profilo slanciato ed elegante. Non capiva niente di macchine, ma riconosceva quel marchio, perché suo padre qualche anno prima aveva avuto una BMW prima di prendere l’attuale Mercedes. La macchina accostò dolcemente e silenziosamente vicino all’imbocco della stradina, come se scivolasse sul ghiaccio. Il guidatore abbassò il finestrino: era Enrico, che la fissava da dietro gli occhiali da sole. La sua espressione era nascosta, ma le labbra erano tirate in una sottile linea di tensione. Vittoria lo guardò a bocca aperta per qualche secondo, poi lui le fece un sorriso lieve, appena accennato. Vittoria ricambiò istintivamente. In due passi raggiunse la BMW.
«Ce l’hai fatta» esclamò e si accorse di esserne sinceramente felice.
«Sì, scusami, è che…» Enrico esitò e lasciò che la frase si spegnesse senza concluderla. Guardò davanti a sé e si sistemò gli occhiali sul viso, come per accertarsi che fossero ancora lì. «Salta su.»

Vittoria montò in macchina di slancio, il sorriso che si allargava sempre di più.

   
 
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