A domani
Due mesi che non la vedevo. Eravamo ragazzini. Era la prima volta che
capitava: non vederci per tante settimane. Avevo accompagnato la nonna
al Sud, presso certi parenti; dovevano parlare di un lascito da
dividere, solo un po’ di terra; ci fermammo fino alla
vendemmia, potei dare una mano. Ritornammo alla fine di settembre. In
carrozza, vicino alla nonna che si metteva i guanti, mentre passavamo
il cancello della tenuta, avevo nella testa le stesse domande di ogni
giorno passato lontano da là: dove sei, Oscar? Cosa stai
facendo?
Era strano; conoscevo perfettamente le sue giornate, i doveri
inflessibili che le scandivano, le piccole abitudini confortanti; ma
non ero riuscito a immaginare davvero la vita di Oscar in quei due
mesi, come se, senza la mia presenza in quella casa, anche la sua ne
fosse adombrata. Forse non erano che i pensieri di un bambino. Volevo
soltanto rivederla; avevo contato i giorni, tutti, ogni mattina e ogni
sera.
Naturalmente non era successo nulla di speciale, in quei due mesi. La
vita quotidiana di Oscar aveva probabilmente seguito la normale
alternanza di esercizi, cavalcate, lezioni e letture prevista dalla sua
educazione. Ritrovai palazzo Jarjayes uguale a come lo avevo lasciato:
gli alberi, le scuderie, le alte vetrate in cui ora da ovest si
rifletteva il tramonto. Soltanto una cosa era cambiata; e io non
l’avevo previsto, perché ero solo un ragazzino.
Tante volte in quei due mesi avevo temuto di essermi perso un nuovo
gioco da condividere nel giardino; la nostalgia per la mia amica
inseparabile era diventata l’ansia di essere rimasto escluso
da una nuova scoperta fatta nel giardino o tra le pagine di uno vecchio
libro; mi straziava il pensiero di non avere condiviso con lei un nuovo
progresso alla spada, gli scherzi attorno alla fontana, le prime torte
autunnali che si intiepidivano su un davanzale, addirittura le
traduzioni col nostro istitutore. Ma invece non mi ero perso niente.
Niente. Tutto era come prima.
Tranne una cosa: quella bambina bionda, col nome da ragazzo. Non la
ritrovai più.
Oscar era cresciuta, ecco.
- André! -, mi chiamò da dietro, mentre esitavo
davanti allo scalone e la nonna era scomparsa con una cameriera. Mi
girai e la vidi nel rettangolo luminoso del portone aperto, nella luce
nitida e infievolita del tramonto avanzato. Eravamo vicini, solo un
paio di metri tra me e lei. Rimasi senza fiato e la guardai quasi
stordito.
Era più alta? Era più bionda? Le sue guance erano
abbronzate? I capelli più lunghi? La sua vita era
più snella? Forse, forse. Io, in
realtà, ancora non lo so dire, cosa c’era di nuovo
esattamente. Non riuscivo a non guardarla, ero ipnotizzato; eppure,
allo stesso tempo, il mio cervello registrò che mi stava
sorridendo, che mi stava parlando.
- Finalmente! Vi aspettavamo per il pomeriggio.
Io conoscevo tutto di lei; anche del suo corpo, voglio dire. Per
questo, in quel momento di piena confusione, non dubitai del suo
cambiamento. Non avevo neanche bisogno di ricordare la forma delle sue
spalle, i polsi sottili, i capelli lungo il viso; intuivo tutto il
tempo il suo portamento elastico, il passo armonioso, gli sguardi
precisi ma pieni di misura. Per questo, in quel momento, non potei far
finta che non fosse cambiato qualcosa in lei, anche se non sapevo dirmi
cosa.
Ora io lo so. Sono passati tanto anni: ho capito; perché col
tempo ho imparato a riconoscere tutto, di Oscar.
L’abbandono. C’era dell’abbandono in lei,
che prima non c’era, solo due mesi prima.
Si teneva perfettamente dritta, col volto sorridente appena piegato di
lato, come sempre. Quel volto da cui mi stava lanciando il suo sguardo
impeccabile, il suo sguardo impeccabilmente azzurro, come sempre. Come
prima. Ma diverso.
Un allentamento, ecco. Come se quella compostezza della schiena, dei
gomiti che sfioravano i fianchi, fosse sul punto di sciogliersi
delicatamente. Come se stare sull’attenti tutto il giorno
fosse solo l’attesa di lasciarsi cadere con un piccolo
sospiro la sera. Come se tutti quegli anni di giochi da maschio, quelle
stagioni che avevo passato con lei una dopo l’altra, lo
scatto dei muscoli e il guizzo dei riflessi nel duello simulato su un
tappeto di foglie secche e scricchiolanti, come se tutto quello non
fosse stato che una lunga promessa, che l’età era
venuta a mantenere. Alla forza si era aggiunta una esitazione, al
controllo una trepidazione invisibile; e nello sguardo concentrato ed
elegante, quello della sua classe, del suo nome, ora era come se
brillasse un segreto.
Il mio silenzio la intimidì; forse la deluse.
Se ne andò in fretta a cercare la nonna. A cena rimanemmo
alquanto taciturni, lei forse un po’ sprezzante, io ancora
del tutto rapito dallo stupore; la nonna le raccontò della
vendemmia e le chiese dei libri che aveva letto in quelle settimane. Ma
dopo cena Oscar mi raggiunse vicino alla fontana, dove spesso la sera
in estate ci fermavamo a conversare fino a tardi. Si era annoiata,
senza di me, in quei due mesi, e, nonostante la timidezza o la
delusione, preferiva riprendere al più presto le nostre
consuetudini. Perché, ne sono certo, lei si credeva ancora
la bambina di prima; ed è strano, ma credo che fui il primo
che si accorse che non lo era più.
Non faceva caldo come in luglio, ma tuttavia sedemmo sul bordo della
fontana, con lo scroscio alle spalle e le invisibili gocce
dell’acqua che ci gelavano la schiena. La sogguardai; poi mi
girai verso di lei per guardarla meglio. La luna e le luci lontane
della casa mi rivelavano nuovi particolari, ma indefinibili, di quella
nuova Oscar che conoscevo da poche ore. Ero sicuro del suo cambiamento
e ne cercavo con insistenza le prove. Era la curiosità un
po’ disperata di un bambino. Io naturalmente
l’avevo sempre adorata senza neanche mai pensarci. Ma ora
guardarla mi faceva pensare. Pensai che era bellissima. Anche lei si
volse e sorrise come per rassicurarci. Era disposta a perdonare il
silenzio con cui l’avevo accolta nell’ingresso; non
vedeva l’ora di parlare, di scherzare.
La sera era fresca, immobile. Oscar sembrava perplessa; dovevo
sembrarle bizzarro, così silenzioso in quella sera
silenziosa. Si spazientì.
- Devo dirti un segreto! -. Non vedeva l’ora. In un attimo
era raggiante.
- Sì, dimmi…
Si sporse verso di me con il gesto familiare di tutti i segreti: la
mano destra sul mio collo, la sinistra tra il mio orecchio e la sua
bocca. Seguì il suo movimento contandone i particolari: le
dita calde, una ciocca di capelli sulla tempia, poi la sua guancia
contro la mia; sentii che prendeva fiato, pregustando la mia sorpresa e
il mio divertimento.
Mi sussurrò qualcosa. Aveva rubato una bottiglia di vino
nuovo dalle cantine. Era entusiasta; era una specie di regalo per me,
credo. Ci divertivamo spesso ad andare di nascosto nella riserva di suo
padre; era entusiasta di averlo fatto tutta da sola, e per me.
Ma io quasi non ascoltavo.
Lei era rimasta vicino a me, per controllare, come altre mille volte
aveva fatto, l’effetto della sua prodezza nel mio sguardo
entusiasta. Ma io ero rimasto a guardare le sue labbra appena umide, in
effetti come quelle di una bambina. Il suo collo, bianchissimo in
quella strana luce notturna. L’orlo della sua camicia sulla
pelle del petto. I capelli, lunghi e mossi, nascosti qua e
là, tra le orecchie, la camicia, la pelle. Appoggiati
davanti su forme che forse erano nuove.
Lei seguì il mio sguardo. Era troppo sorpresa dalla mia
reazione per incollerirsi. Avrei voluto dirle qualcosa, spiegare, ma io
stesso non capivo niente. Vederla così bella,
così vicina: perfetta e tenera, intenta come un mistero,
come il buio, come il suono di una viola. Perfettamente pura, ma quasi
pronta. Perfettamente libera, ma già destinata. Mi commosse.
- Oscar… -. Non so se riuscii veramente ad articolare quelle
due sillabe; sentii la mia voce uscire con fatica.
Rimanemmo immobili. Per un attimo mi sembrò che capisse, che
si calmasse, che mi guardasse con serietà.
Allungai le mie mani sulle sue spalle, sul suo collo. La attirai
addosso a me, con forza. La strinsi. La sentivo respirare
più in fretta. Sentivo i suoi capelli sotto il mio mento;
baciai a caso quella testa. Mi veniva da piangere. Disse qualcosa che
non sentii. Restammo così per qualche istante. Poi si
scostò con calma, lentamente. Cercò il mio
sguardo. Non sembrava felice. Non sembrava triste. Era seria,
tranquilla. Il suo segreto, la bottiglia rubata, sembravano lontani,
dimenticati. Mi sentii più tranquillo a vederla
così.
Forse sapeva quello che io non capivo. Forse non sapeva e io non
capivo, e ci intendemmo.
Mi guardò. Si avvicinò di nuovo. Mi diede un
rapido bacio, all’angolo della bocca, forse senza sapere,
senza capire; forse solo perché ci eravamo intesi.
Si alzò.
- A domani -. Lo disse compitamente. Poi si girò e se ne
andò. La guardai scomparire nella casa.
Rimasi da solo, a risentire dentro di me quella voce, quelle due
semplici parole. Quel saluto che, di tanti, in tutti questi anni
insieme, lungo tutta questa vita già così lunga,
mi è sempre sembrato il più giusto.
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