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XIV° CAPITOLO
TRAPPOLA
Tra uomo e
donna vince chi fugge…
Ma anche chi
ingabbia
Camille Rolland interruppe
il suo racconto. Era difficile capire se fosse concluso o, se invece, ci fosse
dell’altro; qualche cosa in più per cui l’anziana signora doveva prendere fiato,
prima di proseguire. Tutto questo, però, non fu colto dal suo uditorio. Jack,
con le braccia incrociate al petto, si guardava le ginocchia, mentre Savannah
giocava distrattamente con le punte dei capelli del ragazzo. Del trio era
impossibile stabilire chi e quanto stava ascoltando realmente; Satine era
estremamente irritata dal trattamento che Camille stava ricevendo dai Predators.
Con il sopraciglio destro alzato fulminò con i suoi occhi cristallini Richard,
attirando la sua attenzione con una veloce ma insistente schiarimento di gola.
Heart le sorrise con la sua solita espressione beffarda ma alla fine cambiò
atteggiamento, annuendole accondiscendente:
“Mi dica signora, cosa fece
quando aprì la porta?” chiese Richard.
La francese si portò una
mano fremente alla fronte, se la accarezzò per un istante, come per togliersi un
pensiero, ma non recuperò la serenità quando tornò ad alzare il volto.
“Quando aprii la porta mi
ritrovai davanti al corpo appeso e senza vita della mia piccola Doriane.”
Savannah ebbe un sussulto
nel sentire quelle parole. Camille si era interrotta nuovamente senza aggiungere
altro; non disse che cosa le passò nel cuore e nella testa quando vide la
sorella minore. Probabilmente solo Savannah poteva raggiungere una piena empatia
con l’anziana signora, ma se anche gli altri avessero potuto comprendere
completamente l’importanza di ciò che stavano ascoltando, sarebbe cambiato
qualche cosa? Presumibilmente no.
Ci fu qualche attimo di
silenzio, in cui i Predators si guardarono, immergendosi in una silenziosa
discussione riguardante il da farsi con la statuetta. Dopo aver raccolto le mute
opinioni di ciascun componente della sua squadra, Richard annuì.
“Che cosa ci chiede,
signora?”
“Vorrei che consegnaste a
me la Sainte Vierge du Pardon.”
“Gratis!” aggiunse Satine,
sottolineando una cosa ovvia, ma che doveva essere precisata.
“E magari vorrebbe anche
che la portassimo indietro nel tempo, per impedire il suicidio di Doriane” la
schernì Asriel accentuando, il più possibile, l’accento tedesco.
“Tieni a bada i tuoi
bastardi” ammonì Satine, rivolgendosi a Richard.
“Hei signorina” la
interruppe Asriel. “Prima di pretendere rispetto, dovrebbe darne. Sono sempre e
comunque più anziano di lei.”
Satine stava per
rispondergli per le rime quando fu bloccata da un gesto della mano di Camille
che le chiedeva silenzio.
“Allora signor Heart” disse
la signora Rolland con una voce nuovamente posata e controllata. “Che cosa mi
risponde?”
“Le dico che mi dispiace
molto per tutto ciò che ha dovuto passare, ma non possiamo farci proprio nulla.
Abbiamo una sola parola; forse è l’unico pregio che hanno i Predators, ma lo
abbiamo: sono legato al mio impegno con il signore che mi ha commissionato il
lavoro.”
Non aveva senso fermarsi
ulteriormente in quella stanza, solo per dare a Satine la possibilità di fare
una scenata e aggravare il dolore di Camille. Detto ciò che doveva dire, quindi,
Richard si alzò dal divano dirigendosi verso l’uscita senza voltarsi, seguito
dai suoi silenziosi sottoposti. Satine Chabrol, però, non fu molto d’accordo;
dopo aver controllato che la sua cliente stesse bene seguì, con passo veloce ed
energico, i Predators, raggiungendoli in strada. Satine non era una donna bassa,
ma Richard la superava di una ventina di centimetri, nonostante questo, però, la
francese era abbastanza infuriata da superare qualsiasi differenza di misura.
“Avevi promesso” lo accusò,
urlandogli in faccia.
“Non credo proprio mia
cara. Io avevo promesso che avrei ascoltato e, per giunta, avevo premesso che
non sarebbe servito a niente.”
“Lei ha voluto far perdere
tempo a tutti. A lei alla sua Camille Rolland e cosa ben peggiore a noi” si
intromise Asriel. “Pensava veramente che fossimo dei pivelli e che sarebbe
bastata una storiellina da quattro soldi strappa lacrime?”
Satine scoppiò, cominciando
a gridare come un’ossessa contro il tedesco, fino a quando Richard non si parò
in mezzo ai due. La donna, infuriata, alzò il pugno ingioiellato, pronta a
picchiarlo contro il petto del Gallese. Si bloccò immediatamente, però, nel
momento in cui vide gli altri quattro Predators circondare Richard, pronti a
proteggere lui e fare del male a lei. Ma chi comanda i Predators non ha certo
bisogno di essere difeso, per lo meno non da un avversario come Satine; veloce
come un fulmine, Richard afferrò il polso rimasto alzato di Satine, facendo poi
roteare il braccio dietro la schiena e intrappolando la donna tra le sue braccia
in una morsa che non aveva nulla di affettuoso.
“Ragazzi, andate a farvi un
giro, ok?” Non era tanto una domanda, anche se ne aveva la forma.
Come spesso accadeva i
Predators trascorsero la serata separati. Richard la trascorse, non si sa dove,
insieme a Satine. Savannah e Jack decisero di rimanere in hotel.
“E voi due che cosa fate?”
chiese Jack, in realtà poco interessato alla risposta.
Asriel si girò verso
Sheril.
“Io vado a bermi un
aperitivo, poi deciderò. Vuoi venire con me?”
“No, grazie comunque
dell’invito” rispose il tedesco. “Dopo oggi pomeriggio ho solo bisogno di una
bella doccia per togliermi la puzza di vittimismo.”
Dopo essersi chiusa nella
sua camera, Sheril ringraziò mentalmente che Asriel avesse rifiutato l’invito.
Era troppo tempo che non stava un po’ da sola; la sua intenzione era quella di
prepararsi per benino, fermarsi in un bar carino e vedere se riusciva a trovare
un po’ di divertimento. Quando erano arrivati a Montpellier, esattamente come
era sua abitudine fare, aveva disfatto la valigia riponendo tutta la sua robe
dentro l’armadio. Con l’asciugamano che le avvolgeva il corpo ancora profumato
dal bagno che aveva appena fatto, aprì le ante e dopo aver guardato un po’ in
giro prese dei pantaloni di velluto nero, stretti in vita e a zampa d’elefante
sulle gambe; al posto della cintura c’era un filo d’oro che dava un po’ di
colore. Il top prescelto era dello stesso tessuto e dello stesso colore del
pantalone, sagomato sul seno le fasciava morbidamente le curve invidiabili.
Tra le tante paia di scarpe
che si era portata dietro, optò per un paio di decolté nere con la punta chiusa
e il tacco a spillo dei soliti sei centimetri in oro. Per ornare il collo si
allacciò un girocollo dal filo trasparente con un ciondolo di vetro nero che
rappresentava lo stesso caduceo di Ermes che aveva tatuato sulla scapola destra.
Alle orecchie lasciò le anelline in oro che aveva portato tutta la giornata, non
aveva voglia di portare niente di più pesante ed elaborato.
Dopo essersi vestita andò
in bagno dove accese le luci abbaglianti dello specchio che le illuminarono il
viso, si guardò per un po’ controllando che nessuna imperfezione si fosse
aggiunta sulla sua pelle, poi cominciò a truccarsi. Con l’eyeliner nero si
tracciò una riga intorno agli occhi, pronunciandola un po’ di più sulla
palpebra, aggiungendovi sopra una linea sottile di eyeliner oro per dare
maggiore luce all’occhio. Per il resto della palpebra scelse la sfumatura del
blu, arrabbiandosi, dopo un po’, perché l’occhio destro non era venuto come
quello sinistro.
“Va bè” si disse tra sé e
sé. “Io lo vedo perché lo so.”
Rossetto rosso e un po’ di
phard sulle guance completarono l’opera.
Sheril si guardò
studiandosi poi, soddisfatta, si fece l’occhiolino maliziosamente per poi ridere
di gusto del suo gesto, mentre con la mano si tirò dietro l’orecchio il ciuffo
dei capelli. Prima di uscire prese la sua pochette di paillettes nere e,
finalmente si avviò verso l’inizio della sua serata. Alla reception si fece
chiamare un taxi e, tanto che c’era, si fece consigliare un bel locale in cui
una donna non accompagnata poteva divertirsi, senza, però, andare incontro a
fastidiose scocciature.
Quando Sheril entrò nel
locale, la prima cosa che fece fu quella di guardarsi intorno, scandagliando
l’ambiente e le persone che lo occupavano. Non percepiva nulla di
particolarmente negativo, ma nemmeno positivo. Questo significava che non c’era
nessuno che si era alzato la mattina con l’intento di piantare grane, ma non
vedeva nessun uomo di qualche significato. Con un sospiro si diresse al bancone;
chissà, magari era solo troppo presto. Forse, dopo un aperitivo, sarebbe entrato
dalla porta un’opportunità di divertimento.
“Cosa le posso servire?” le
chiese una delle tante bariste a disposizione nel locale, una volta che Sheril
si fu seduta su uno sgabello.
“Che cosa mi propone?”
rispose Sheril.
“Vuole affidarsi a me?”
La donna si portò la mano
alla bocca per coprire la risata.
“Non esageriamo” disse poi.
La barista sorrise, si
voltò verso la bottiglia e, dopo un po’ di indecisione prese in mano una
bottiglia.
“Noilly Prat. Ha una storia
carina alle spalle. Potrebbe piacerle solo per questo.”
“Racconti” la incitò.
“All’inizio del XIX secolo
padre e figlio, Joseph e Louis Noilly, cominciarono a produrre e vendere il
primo vermouth dry francese. Louis aveva una figlia molto bella, dagli occhi
scuri molto corteggiata dalla gioventù locale. Noilly, però, sospettava che i
corteggiatori erano più interessati al denaro che alla figlia, così decise di
mettere in giro la voce che chiunque desiderasse sposare la figlia, doveva prima
lavorare nella sua agenzia vinicola. Qual’ era il problema, dirà lei: Louis
Noilly si presentò come un datore di lavoro molto tosto. Ben presto la ragazza
si ritrovò senza spasimanti .
“Un giorno, un viaggiatore
di nome Claudius Prat arrivò a Marseillan, il piccolo paese portuale dove
vivevano i Noilly, incontrò la pupilla della famiglia e se ne innamorò. Accettò
le condizioni del padre di lei, dopo due anni i giovani si sposarono e, alla
fine, suocero e genero fondarono una società.”
“Ritenta, sarai più
fortunata” si limitò a commentare Sheril.
Non furono tanto le parole
della cliente a deprimere la barista quanto la sua faccia inorridita.
“Non le piacciono le storie
d’amore, signora?”
“Signorina. No, da almeno
una quindicina di anni.”
“E’ rimasta scottata?”
“Già” disse sorridendo
Sheril. “Ma tutto ciò che sono è merito di quella delusione. Non credo che mi
sia rimasta tanto male, tutto sommato” affermò vanitosamente l’inglese
indicandosi il busto con una mano.
“Ma non crede più
nell’amore” tentò la barista.
Sheril guardò la ragazza.
Non era arrabbiata con lei, in fondo era giovane e, nonostante la sua esperienza
e il modo in cui vedeva il mondo maschile, non augurava tutto ciò a nessuno. Si
limitò, quindi, a ripetere perentoria:
“Ritenta, sarai più
fortunata!”
La barista prese il Noilly
Prat e lo ripose al suo posto. La sua seconda scelta fu più veloce:
“Guignolet.”
“C’è una storia anche qui?”
chiese beffarda Sheril.
“Non che io sappia” rispose
cupa la barista.
“Così non mi convince a
prenderlo.”
Con mosse stizzite la
giovane donna prese un libro da sotto il bancone; lo sfogliò e si mise a
leggere:
“Il Guignolet Marie Brizard,
dal luminoso colore rosso ciliegia, ha un bouquet fresco e fruttato; il gusto è
deliziosamente dolceamaro, il finale poco dolce è piuttosto persistente”
concluse la barista con un sorrisetto finto dipinto sul volto.
“Aggiudicato” affermò
Sheril, scimmiottando un venditore d’aste.
La ragazza prese un
bicchiere, versò il Guignolet aggiungendovi, poi, del ghiaccio. Servì Sheril
allontanandosi subito dopo, contenta di poter allontanarsi da quella scomoda
cliente. Sorridente, Sheril cominciò ad assaporare l’aperitivo. Un paio di
uomini le si avvicinarono ma, un po’ non era in vena, un po’ nessuno si dimostrò
veramente interessante.
Stava per alzarsi e
andarsene scoraggiata, quando un ragazza si appoggiò al bancone. Era giovane e
bello; guardandolo Sheril aveva la sensazione di averlo già visto, ma non riuscì
a capire fino a quando la barista, che l’aveva servita, non gli si avvicinò.
Erano gemelli, o se non lo erano sicuramente fratello e sorella. Non riusciva a
smettere di guardarlo tanto che lui se ne accorse e, voltandosi verso di lei, le
sorrise.
“Michel, stai attento. E’
una donna senza amore” lo avvertì la sorella, provocando la risata di Sheril,
per nulla infastidita da tanta impudenza.
“Ma cosa mi dici Jeanne?
Non ci sono donne senza amore.”
Michel e Sheril
continuarono a guardarsi, contenti della piega che stava prendendo la serata.
“Questo perché non ne hai
mai vista una.”
“E ora ne ho una davanti?”
“Puoi scommetterci.” Gli
fece l’occhiolino.
“Davvero? Accetto, Jeanne
che cosa hai servito alla signorina?”
“Guignolet.”
“Ne potresti portare altri
due? Grazie sorella.”
Non furono solo due,
nemmeno a testa. I due sconosciuti parlarono, risero, scherzarono. Lui la
stuzzicava, a volte, anche ingenuamente e lei rispondeva senza farsi troppi
problemi.
“Credo di aver bevuto
abbastanza” disse ad un certo punto Sheril.
“Dici? Credo proprio che
questo valga anche per me.”
“Scusa Jeanne, non è che mi
chiameresti un taxi?”
All’inizio della serata
Sheril non avrebbe mai potuto chiedere un favore alla barista, ma mentre le ore
passavano la ragazza sembrava avesse recuperato un po’ di simpatia per
l’inglese.
“Un taxi? Che brutta cosa”
disse Michel. “Ti accompagno io.”
“Anche tu hai bevuto
troppo” rispose Sheril con un sorriso, accarezzandogli con i polpastrelli la
pelle del petto lasciata scoperta dalla camicia sbottonata.
“Ma Jeanne no, e fra un
pochino finisce il turno.”
Sheril e Michel si girarono
verso la francese, intenta a lucidare i calici.
“Va bene” disse
semplicemente, alzando le mani.
“Andiamo fuori ad
aspettarla, l’aria non potrà che farci bene” propose Michel alzandosi dallo
sgabello e porgendo la mano alla compagnia della serata.
L’aria era piacevolmente
fresca; Sheril sentiva le guance pizzicarle e, per proteggersi, si alzò il
bavero del giubbino. Nonostante il venticello, la donna continuò a sentirsi
strana: le girava la testa e anche le gambe minacciavano di cedere. Preoccupata
che Michel se ne accorgesse e la trovasse sciocca e imbarazzante, lo guardò.
Altro che accorgersi del suo stato, non la guardava nemmeno; era come se, tutto
d’un tratto, lui non fosse più interessato. Non faceva altro che spostare lo
sguardo intorno, improvvisamente serio e…per nulla ubriaco. Eppure avevano
bevuto, più o meno, lo stesso numero di bicchieri, e lei non era Savannah. Lei
l’alcool lo reggeva discretamente bene.
“Strano” affermò Sheril
strizzando gli occhi nel tentativo di schiarirsi la vista.
“Cosa?”
“Pensandoci non ho bevuto
così tanto.”
Michel si voltò verso la
donna; il suo nuovo sorriso era inquietante. Non come quello che Sheril era
abituata a vedere sul volto di Jack, ma molto simile. Una sola parola le balenò
nella mente: assassino. Non era lucida e, ora lo sapeva per certo, non era
dovuto a quanto aveva bevuto. Se fosse stato quello il motivo, avrebbe avuto un
certo senso reagire e tentare di scappare, ma drogata senza sapere quale
sostanza le avessero dato, non era molto furbo.
“Comunque non più di te”
continuò.
Il corpo ciondolò tanto che
Michel dovette prenderla tra le braccia per sostenerla.
“Per avermi non avevi
bisogno di arrivare a tanto.”
“Lo so.”
Bene, almeno ora poteva
togliere uno delle mille motivazioni plausibili.
“Posso almeno sapere come
hai fatto?”
Non ci fu bisogno di una
risposta perché in quel momento comparve Jeanne che la salutò:
“Salve donna senza amore.”
Aveva la stessa espressione di Michel, erano decisamente gemelli.
Fu l’ultima cosa che sentì
e che vide, prima di perdere i sensi.
Sheril sentì le palpebre
pesanti come macigni; si concentrò sui suoi arti, accorgendosi che erano liberi.
“Grosso, grosso errore”
disse fra sé ridendosela fra i baffi per la negligenza commessa dai suoi
rapitori.
Si sfregò gli occhi con le
dita, infastidita al pensiero del trucco sbavato:
“MI pagheranno anche
questa” giurò a sé stessa con un ringhio.
Fu un brutto colpo
accorgersi, una volta aperti gli occhi, che nessuno aveva commesso la stupidata
di sottovalutarla. L’avevano rinchiusa. Guardò in alto infuriandosi maggiormente
nel constatare che era stata imprigionata in una gabbia alta appena un metro; in
questo modo le impedivano la gran parte dei movimenti e tolto una qualsiasi
possibilità di fuga. Non è che poteva escogitare molto gattonando di qua e di là
come una tigre inferocita:
“Suppongo che, ora, daresti
tutta te stessa per un principe azzurro che ti salvi.”
Sheril si voltò e vide
Michel appoggiato al muro, il bel volto estremamente divertito.
La donna lo fulminò. Tese i
muscoli come se volesse balzare addosso all’uomo, cosa che avrebbe fatto molto
volentieri se non ci fossero state le sbarre a proteggerlo.
“Appena esco di qui, ti
strapperò quel tuo cuore ricolmo d’amore.”
Dracontessa:
ecco la mia crucca mancata preferita!!!
J
Sono contenta che ti sia piaciuto il cap. precedente; effettivamente pensavo un
po’ a te mentre lo scrivevo. All’inizio Eber (come lo hai chiamato tu…bello
cinghialone mio) doveva essere molto più simile a Wilhelm, nel senso che avevo
previsto una violenza poi, però, ho pensato alla mia visione dei tedeschi. Io
credo che una parte facevano il loro dovere, non erano tutti dei sadici mostri…
Leuconoe:partendo
dalla piccola sfida che ti ho lanciato ci hai azzeccato in pieno! Come ho
scritto nella risposta precedente avevo programmato una violenza sessuale ad
opera del bel tedesco, poi, mentre scrivevo Eberwolf mi ha parlato (sì, lo
ammetto i miei personaggi mi parlano di tanto in tanto…sono un po’ matta lo so
J
) “ma perché devo essere un animale…io sono un soldato dell’esercito regolare
tedesco, non uno stupratore” Aveva ragione. Almeno così la penso io
Come sempre le tue
recensioni mi fanno un gran piacere e mi danno la carica giusta ogni volta,
quindi spero che la storia continui a piacerti. Ritornando un attimino alla
sfida: l’ho fatto perché mi piace avere un dialogo con chi legge le mie ff,
soprattutto se si dimostrano aperte come te, quindi ANCORA GRAZIE!!!
PER TUTTI I
LETTORI DI “PREDATORS”:
GRAZIE A TUTTI, BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO
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