CAP.35
EDWARD
-Vanessa
Carlton -A Thousand Miles-
«Devo
dire che i sedili di quest’auto sono davvero
comodi» sussurra Bella quasi stupita, facendo
scorrere le dita sulla pelle costosa del sedile del passeggero
dell’Aston Martin, accanto ad me.
Scoppio
a ridere di gusto e mi giro a guardarla: «Ti faccio
ridere?» chiede con una nota di allegria repressa nella sua
stessa voce.
«No,
no … » e scuoto il capo sentendo ancora il sorriso
aleggiarmi sul viso «è che … lo dici
come se … ti dispiacesse» affermo convinto.
Aggrotta
la fronte.
In
effetti, so che quell’auto non le è mai piaciuta,
mentre io ho sempre pensato che le si addicesse in pieno: elegante,
aggraziata, sensuale.
«No»
dice «oggi non mi dispiace nulla» e i suoi occhi
sono luminosi mentre pronuncia queste parole in un sussurro lieve e fa
spaziare lo sguardo lontano, davanti a sé.
Sorride
leggermente e il mio cuore fa una capriola.
Sento
che è emozionata, ma sembra essersi rassegnata a non fare
altri tentativi per conoscere la nostra destinazione.
Quando
Alice mi ha informato di ciò che aveva architettato, per un
attimo sono rimasto interdetto, poco convinto che la sua fosse una
buona idea. D’altro canto è stata ferrea
nell’insistere sulla necessità di tenere Bella
all’oscuro dei suoi progetti fino all’ultimo e
quando le ho chiesto se avesse ripreso ad avere visioni su mia moglie,
lei mi ha sorriso in un modo … inquietante e mi ha risposto
che, per una volta, dovevo solo fidarmi del suo istinto femminile.
Cambio
marcia con rapidità e lascio che il paesaggio scorra veloce
intorno a noi. Pur guardando fisso dinnanzi a me, non perdo di vista
Bella nemmeno per un attimo.
Un
lungo cappotto nero la avvolge completamente e valuto la temperatura
dell’abitacolo, chiedendomi se sia abbastanza alta per lei.
Quell’abito che indossa … scuoto il capo una sola
volta cercando di scacciare l’immagine divina di mia moglie,
dello straccetto di seta che la copriva mentre premeva con delicatezza
il suo ventre pieno sul mio corpo.
«Hai
freddo?» tanto vale chiederglielo direttamente.
«No,
per niente» mi sorride, abbagliandomi come poco prima, quando
è scesa dal piano superiore insieme a Rose … una
visione.
Un
sorriso spontaneo, radioso … come è lei oggi, ma
come lo è stata sempre, inconsapevolmente. E’ solo
che, da qualche tempo, sembra avere una sicurezza, una
serenità che non ho mai ravveduto prima in lei.
Oggi
Bella sembra poter, e voler, sfidare il mondo intero.
Con il
sorriso sulle labbra.
La mia
bocca si piega impercettibilmente in una smorfia di compiacimento.
Se solo
penso a non più di qualche giorno fa … sembra
impossibile che al mio fianco ci sia seduta la stessa persona.
Bella
stava morendo.
Forse
era questione di giorni, forse di ore, ma sarebbe successo certamente.
Pur di
dare la vita al nostro bambino, era disposta a dare la sua in cambio.
Sospiro
brevemente, pensando a quell’eventualità e tremo,
chiedendomi se davvero sarei riuscito a vederla morire tra le mie
braccia senza far nulla per impedirlo.
Avrei
dovuto operare una scelta … lei o mio figlio.
«E’
una festa» mormora d’un tratto, spezzando il
silenzio che si era creato nell’abitacolo «non
disturbarti a negare, tanto l’ho capito» e fa un
gesto buffo, facendosi aria con la mano.
Le mie
labbra si piegano in un accenno di sorriso.
Si
sforza a guardare fisso dinnanzi a sé, ma la vedo con
chiarezza sbirciare verso di me con la coda dell’occhio,
spiando una mia eventuale reazione.
«Se
lo dici tu …» rispondo con finta noncuranza,
incapace di resistere alla tentazione di provocarla.
Le sue
labbra si stringono in una linea sottile:«Partecipa tutta la
famiglia?» chiede ostentando un tono indifferente.
«Ovviamente»,
rispondo tranquillo.
«Anche
Emmett?» continua lei.
«Sì»
«Allora
è una festa» ripete più convinta, con
la voce a metà tra il trionfante ed il seccato.
Non
dico nulla, ma non posso impedirmi di sorridere.
La
curiosità la sta divorando.
Decido
di giocare un po’ con lei, manca ancora qualche minuto alla
nostra destinazione, e Bella è davvero spassosa quando si
comporta in questo modo.
«Verrà
anche Jasper» aggiungo in un lieve sussurro, complice.
Ruota
il capo, girandosi a guardarmi e restringe gli occhi in due
fessure:«Quindi?»
«Lo
sai che non è a suo agio in mezzo a troppe persone. In una
festa, poi … sarebbe ancora peggio» suggerisco,
conscio di aver instillato il seme del dubbio nelle sue convinzioni.
«Mmm
… » mormora sovrappensiero «ma
c’è Alice» sottolinea lei «e
non lo metterebbe mai in una situazione rischiosa».
Inarco
un sopracciglio, lanciandole uno sguardo fugace e lei mi fissa di
rimando: «Beh, non sempre, almeno» rettifica
quindi, e ci ritroviamo a ridere nello stesso momento.
Il
suono della sua risata riempie l’aria intorno a noi e mi
solletica piacevolmente le orecchie. Mi ritrovo a desiderare
ardentemente di risentirlo.
«Lo
sapevi che una volta l’ha costretto a portarla ad un rave?» le
chiedo in tono serio.
C’è
un attimo di silenzio da parte sua, poi i suoi occhi si
dilatano:«Jasper … ad un rave?»
chiede esterrefatta.
Annuisco
con il capo:«Più o meno trent’anni fa
… e uno di quelli duri, eh» ammicco verso di lei e
noto la sua espressione stupita, la bocca lievemente aperta
… più o meno la stessa espressione con cui Jasper
era tornato a casa dopo quell’esperienza.
Per
giorni non aveva detto una parola e si era tenuto alla larga da noi
tutti. Alice, invece, era serena … serafica per meglio dire.
Era
ridotto davvero ad uno straccio e per anni, alla parola rave ha continuato
a dileguarsi, terrorizzato.
Tolgo
lo sguardo dalla strada osservando Bella premere con forza entrambe le
mani sulla sua bocca, nel tentativo di soffocare le risate.
«Non
posso crederci …» mormora con la voce incrinata.
«Parola
di scout» dico solennemente alzando due dita verso
l’alto.
E, di
nuovo, la sua risata cristallina, spontanea, vera mi scalda il cuore.
«Tu
non sei uno scout!» aggiunge, sempre ridendo.
«Ne
sei proprio sicura?» le chiedo di rimando, calmo.
Sembra
rifletterci su per un attimo, fissandomi con la fronte
aggrottata:«Non ti ci vedo in pantaloncini e berretto, mentre
accendi il fuoco sfregando due bastoncini di legno
…», dice scuotendo il capo. Ma poi le sue labbra
si distendono in un sorriso incerto:«Sei uno
scout?» mi chiede esitante.
Questa
volta è il mio turno di ridere:«No, io no
… ma … Emmett sì
…»
Mi
osserva stupita, con gli occhi quasi fuori dalle
orbite:«EMMETT?»
Annuisco
e questa volta, le risate quasi le tolgono il respiro.
«Oddio,
mi sto sentendo male …» dice con la voce spezzata
mentre cerca di asciugarsi le lacrime pizzicando il bordo delle
palpebre con la punta delle dita.
Prende
un bel respiro e mormora un “questa informazione mi
sarà utile” a voce bassissima, per poi sistemarsi
più comodamente nel sedile.
Sorrido
tra me e me, felice per il clima sereno che ci avvolge.
Continuiamo
a discorrere piacevolmente ancora per qualche minuto.
Bella
è perfettamente a suo agio, rilassata contro lo schienale
del sedile con le ginocchia piegate leggermente verso di me, il busto
ruotato quasi completamente nella mia direzione, il capo inclinato sul
poggiatesta.
Batte
le palpebre nel momento in cui si rende conto che ho fermato
l’auto, forse stupita lei stessa di aver dimenticato la sua
curiosità per la nostra uscita a sorpresa.
«Ma
cosa …» comincia, guardandosi attorno.
Senza
risponderle, esco dall’auto e mi avvio dal suo lato per
aiutarla ad uscire. Con una mano le tengo aperta la portiera, mentre
l’altra la tendo verso di lei con il palmo rivolto in su in
un muto invito a seguirmi.
Afferra
la mia mano esitante, perplessa.
Quando
è fuori, dinnanzi a me, i suoi occhi grandi e confusi
spaziano per tutto il parcheggio per poi fermarsi nei
miei:«Edward, perché siamo a Dartmouth?»
BELLA-
Ennio Morricone - "Love Theme" - from "Cinema Paradiso"
Dartmouth.
Questa
era la nostra destinazione.
Il
rumore delle mie scarpe sulla ghiaia del vialetto mi rammenta che
stiamo camminando, che non siamo più in auto, e che Edward
mi sta conducendo verso gli edifici del college.
Mi
lascio trasportare dalla sua presa sicura sulla mia mano.
Non
è molto tempo che manco da questi viali, ma mi sembrano
trascorsi secoli.
Ma
che ci facciamo qui?
«Ehi,
ma che ci facciamo qui?» chiedo ad alta voce, affrettando un
po’ il passo per affiancarlo. Ruoto completamente il capo
verso di lui e punto i miei occhi sul suo viso.
Sta
sorridendo, mi pare.
Continuiamo
a camminare a passo sostenuto. Dopo un minuto, lo tiro un po’
verso di me nel tentativo di farlo procedere con più
lentezza:«Edward … » ansimo
«rallenta, ti prego».
Si
ferma di botto:«Perdonami Bella» e alza una mano
per carezzarmi la guancia «mi sono lasciato …
prendere dall’entusiasmo».
E di
nuovo, sorride.
«Ma
vuoi dirmi che succede?!» chiedo con una punta di
esasperazione.
Con un
gesto elegante, Edward si fa da parte e dietro la sua figura scorgo un
tabellone poggiato in terra dinnanzi all’ingresso principale,
con un manifesto sopra.
“L’Mba
della Business School Tuck di Dartmouth
presenta
Top
Tech Toys 2002”
Oh.
Oh…
Oh,
merda.
Resto
così.
Immobile,
come se mi fosse stato appena rovesciato addosso un secchio
d’acqua gelata.
Il
cervello comincia a lavorare freneticamente.
La
presentazione.
Un vago
ricordo di una telefonata di Helèna, mi suggerisce che
questa cosa l’avrei dovuta sapere, che lei mi aveva avvertito
e anzi mi aveva anche pregato di parteciparvi.
Ovviamente
non poteva sapere che con buone probabilità, non sarei
sopravvissuta nemmeno al Natale.
Oggi
c’è la presentazione dei progetti del nostro
gruppo.
Oh, no.
Mi correggo. C’è la presentazione dei progetti del
gruppo a cui io appartenevo.
Con gli
occhi puntati sul manifesto, mi rendo appena conto delle dita gelide di
Edward sulla mia guancia.
E non
so se mi sta parlando, perché il vuoto sembra essersi fatto
intorno a me e dentro la mia mente.
No.
Comincio
a scuotere piano il capo e istintivamente faccio un passo indietro, gli
occhi ancora fissi davanti a me.
La mano
di Edward scende e cerca di trattenermi per la vita, ma un altro passo
indietro mi permette di sfuggire alla sua presa.
«Bella?»
la sua voce è cauta, appena un sussurro.
Come un
automa i miei occhi si muovono nella sua direzione.
Mi
fissa, intensamente. Nel suo sguardo vi leggo stupore, e sì
… anche preoccupazione:«Cosa
c’è che non va?» mi chiede piano, le
mani leggermente discostate dal corpo, i palmi rivolti verso
l’alto.
Lo
osservo a lungo, in silenzio.
Sposto
lo sguardo un attimo sul manifesto, poi nuovamente su di lui.
«Io
…» chiudo gli occhi per un momento, scuoto il capo
una volta soltanto.
«Mi
dispiace. Non posso».
Mi giro
e comincio ad allontanarmi a grandi passi.
EDWARD
-Vanessa
Carlton - Ordinary Day Lyrics
Sono
più di cento anni.
Cento
anni a questa parte che nessuno, nessuno mai mi ha preso alla
sprovvista.
Fino a
che non ho conosciuto Bella, ed il mio mondo, l’eterno,
immobile, perenne crepuscolo che è stata la mia vita, non si
è improvvisamente acceso di milioni di sfumature di colore,
di luci, di emozioni.
Mi
occorrono dieci lunghissimi secondi per capire che Bella sta andando
via.
«Bella!»
la chiamo, ma lei non si gira. Non rallenta neppure.
Mi
affretto a seguirla. L’affianco.
«Bella.
Si può sapere che ti prende?» cerco di controllare
il tono della voce, sforzandomi di non apparire impaziente o brutale.
Odio
non sapere quello che le passa per la mente.
«Niente»
risponde secca «voglio andare via» e continua a
camminare, lo sguardo fisso davanti a sé.
Stringo
le labbra … odio ancora di più quando
è evidente che qualcosa la turba, ma fa di tutto per
nascondermelo.
Inspiro
profondamente, riporto lo sguardo su di lei.
«Fermati
un attimo, parliamone» le dico, cercando di essere
condiscendente e mantenendo il suo passo, decisamente sostenuto per i
suoi standard.
«Non
c’è niente di cui discutere. Voglio andarmene.
Punto» ribadisce, candidamente.
«Ok.
Va bene. Ma almeno rallenta. Rischi di inciampare» le
suggerisco in tono vagamente allusivo.
E lei
si ferma, lanciandomi uno sguardo di fuoco:«Non
inciamperò, Edward Cullen» e alla determinazione
nella sua voce mi si distende di riflesso un sorriso mentale che evito
di far affiorare alle mie labbra.
Credo
davvero che non lo apprezzerebbe in questo momento.
Ma
almeno adesso ho la sua attenzione, e la mia mente lavora velocemente
per afferrare il motivo del suo comportamento così strano,
così oscuro.
«Pensavo
ci tenessi a questo progetto» continuo sullo stesso tono,
calmo, controllato, perplesso ma molto cauto.
Ho
necessità di capire, di farla parlare, non di irritarla e
farla chiudere ancora di più in se stessa.
«Ci
tenevo … prima» mormora lei, corrugando
leggermente la fronte.
I miei
occhi si restringono e lei abbassa i suoi, imbarazzata.
«Prima?»
le chiedo, perplesso.
Annuisce
brevemente con il capo.
«Prima
di cosa?» incalzo, avanzando in maniera impercettibile verso
di lei.
Resta
in silenzio, ma si muove a disagio sui suoi stessi piedi. Questo
discorso non le piace. E’ nervosa, il suo cuore batte veloce,
il suo respiro è affrettato.
E,
chiara come non mai, del tutto inaspettata, mi arriva una percezione
del bambino.
Trattengo
il respiro, acuisco tutti i sensi. E, d’un tratto, un suono
mi colpisce come uno schiaffo: la mia voce che chiama Bella. Un
sussurro inafferrabile, lontano, basso, il tono attutito, ovattato.
Come se provenisse da sott’acqua.
O come
se fosse arrivato
sott’acqua.
Sono
ricordi di voci.
Sono i
ricordi del bambino.
Quelli
che ha accumulato indirettamente attraverso le esperienze di Bella. I
suoni, i discorsi che lei ha udito e che in qualche modo sono giunti
anche a lui. Come è possibile? La placenta … lo
isola completamente … penso frastornato.
“Bella”
sussulto alla voce flebile che risuona nella mia testa “Odiami. Odiami e sii
felice”…
Corrugo
la fronte.
E’
la mia voce. Distorta, quasi inudibile, ma è la mia. Sono le
parole che ho detto a Bella quel giorno alla Rauner …
anche allora Bella fuggiva via da me.
Un
senso di disagio, di nervosismo, di soffocamento accompagna questa
percezione.
Paura.
Mio
figlio ha paura. Come Bella, quel giorno alla Libreria Rauner.
«Bella»
e mi avvicino cautamente di un altro passo «non agitarti, ti
prego» i suoi occhi si alzano nei miei, ansima senza
rendersene conto «se lo fai, si agita anche lui»
con la mano indico in basso, verso il suo ventre.
Batte
rapida le palpebre, e, con un gesto istintivo, porta la mano destra
sulla sua pancia, mentre il suo sguardo resta fisso nel mio.
Ha
paura. Anche lei.
Ha paura di me? Mi
chiedo con un nodo alla gola.
Senza
perdere il contatto visivo, mi accosto ancora un po’. Il suo
battito rallenta impercettibilmente.
Con
delicatezza avvicino la mia mano fino al suo ventre, scostando il bordo
del cappotto e scivolo lentamente sulla seta sottile
dell’abito. Le mie dita scorrono sul tessuto teso, fino ad
incontrare quelle di Bella, verso cui mi faccio strada, intrecciandole
nelle mie.
E’
quasi istantanea la sensazione di benessere che sento pervadermi e che
sono conscio provenire da più fronti: è il mio
piacere nello sfiorare la pancia di Bella; il suo piacere
nell’essere toccata da me, evidente dai suoi occhi lievemente
socchiusi; il piacere del bambino, puramente istintivo e primordiale.
Tranquillità.
Sorpreso,
mi faccio sommergere ancora da altre voci mentali, basse e lontane,
quasi inafferrabili che i ricordi del bambino formano nella mia mente.
Voci impalpabili, le nostre, di un paio di settimane prima: “… ti sei
addormentata mentre finivo di aggiungere le ultime decorazioni
…” e la sensazione di piacere che
questa eco richiama mi invade con prepotenza.
Anche
allora, accarezzavo il ventre di Bella, mentre lei dormiva sul divano
di fronte all’albero.
E
capisco che è il bambino, di nuovo, che sta rievocando
quella sensazione associandola a questo momento in cui la mia mano
accarezza lui e mia moglie contemporaneamente.
Sta
formulando dei pensieri istintivi sulla base dei suoi unici ricordi.
In
qualche modo, in questo momento, mi sta parlando.
Avverto
chiaramente il respiro di Bella farsi più lieve, meno
ansante.
Lascio
che la mano libera le avvolga la vita e con una leggera pressione le
massaggio la schiena tesa.
«Sta
tranquilla, Bella» inclino il capo, sussurrandole
all’orecchio.
I suoi
occhi si chiudono per un istante e automaticamente il suo viso si
avvicina a me, al mio petto.
Nei
viali di Dartmouth, mentre studenti frettolosi ci passano intorno
lanciandoci sguardi curiosi e saltuariamente, pensieri incuriositi,
aspetto che le persone più importanti della mia vita siano
restituite alla serenità e alla calma.
E mi
sento colpevole.
Senza
che nemmeno sia messo al mondo mio figlio sa già cosa siano
il dolore e la paura. E lo sa grazie a me, a causa di quello che ho
fatto soffrire a sua madre in tutto questo tempo.
E lei,
poi … Bella non ama le sorprese. Non ama essere al centro
dell’attenzione.
Portarla
qui non poteva che inquietarla.
Mentre
epiteti impronunciabili prendono forma nelle mia testa e si accostano
naturalmente al nome di Alice, Bella tira un profondo respiro.
«Stai
bene?» sussurro tra i suoi capelli, mentre il suo viso poggia
ancora sul mio petto.
Annuisce,
strofinando la guancia contro la mia camicia.
La
scosto leggermente e con un dito le alzo il mento in su, in modo che i
suoi occhi non mi siano più preclusi.
E il
suo sguardo … la differenza con quello della Bella che in
auto discorreva argutamente con me è lampante.
E’
lo sguardo che tante volte è passato sul viso di mia moglie
in questi mesi, lo sguardo di chi teme, di chi è incerto, di
chi si sente a disagio e del tutto fuori luogo.
«Bella.
Dì qualcosa, ti prego» mormoro, mentre le sistemo
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Mi
guarda con quegli occhi nocciola, dilatati e timorosi. Deglutisce e
inspira profondamente, scuotendo il capo.
Non
vuole entrare in quella sala. Chiaramente è a disagio.
Ed
è spaventata, così come il bambino.
Eppure,
era così entusiasta quando andava al college e frequentava
quel corso … prima.
Ha
detto che sì, lo era, ma … prima.
Prima
di cosa?
Prima
…
«Vieni,
ti porto a casa» decido, interrompendo il corso dei miei
pensieri e concludendo che nulla vale il turbamento di mia moglie e di
mio figlio.
La
stringo a me e inizio a dirigermi verso il parcheggio.
Quasi
vicino all’auto, Bella si ferma improvvisamente ed io con
lei. Si volta verso di me e mi punta uno sguardo timoroso dritto negli
occhi:«Ti ho … deluso?» chiede con la
voce talmente bassa e roca da essere appena percettibile.
Spalanco
gli occhi e mi porto completamente di fronte a lei in un battito di
ciglia:«Ma cosa stai dicendo?» le chiedo sconvolto.
«Io
… » deglutisce e corruga la fronte. Si schiarisce
la voce e prosegue «volevi che andassimo alla presentazione
… e adesso il mio comportamento ti dispiace»
emette un breve sospiro «non negare. Tanto ti si legge negli
occhi» termina con la voce incrinata.
«Bella,
ascoltami bene» sento la mia voce dura e le porto entrambe le
mani ai lati del viso, incatenando il mio sguardo al suo «io
ti amo» mi fermo un attimo osservando intensamente la
profondità di quei due diamanti nocciola
«Trascorreremo la vita insieme …
l’eternità se lo vorrai. E questo non
cambierà mai, qualunque cosa fosse mai accaduta
lì dentro. Se nel mio sguardo scorgi un velo di inquietudine
è solo perché sono preoccupato per quello che
accade qui, non lì» e con delicatezza le poggio
una mano sul suo petto, all’altezza del cuore, mentre con il
capo indico l’edificio principale del college.
I suoi
occhi diventano lucidi e prende un respiro profondo.
«Sapere
che sei turbata, che siete
turbati … questo è ciò che mi
dispiace. Ogni volta che ho creduto di agire per il tuo bene, senza
tenere in debito conto le tue necessità, ho sbagliato,
Bella» mi fermo solo per riprendere fiato «Troppo
volte non ti ho ascoltata, ma adesso … da adesso faremo
come desideri e non devi giustificarti o preoccuparti per quello che
penso io. Prima che te ne renda conto sarai a casa, nel tuo
letto» appoggio la mia fronte alla sua «Non voglio
altri rimpianti nella mia esistenza. E non voglio che tu soffra
ancora».
Senza
attendere risposta da parte sua, faccio scattare a distanza le
serrature delle portiere ed apro quella dal suo lato.
Attendo
che si avvicini per salire.
Ma lei,
resta ferma.
E mi
guarda.
«E
rimorsi?» mi chiede in un sussurro.
La
fisso di rimando, confuso.
«Hai
detto che non vuoi altri rimpianti nella tua vita, ma rimorsi
… ne hai?» incalza lei ed il suo tono è
leggermente diverso, basso, ma fermo.
Resto a
pensarci un attimo, la fronte corrugata: «Solo uno»
mormoro.
Trattiene
il fiato, mentre mi guarda, in attesa. Raddrizza le spalle, alza il
mento:«Avermi conosciuta?»
Le
labbra mi si incrinano in un sorriso appena accennato. Scuoto il
capo:«Averti lasciata».
Non
appena pronuncio queste parole, il viso di Bella di distende e sulle
sue labbra si dispiega un ampio sorriso:«Anche io penso che
non voglio rimpianti nella mia vita» dice «credo
che sia meglio agire e sbagliare, piuttosto che fuggire via. Io penso
che … preferisco i rimorsi».
«E
ne hai qualcuno?» chiedo a voce bassa.
«Solo
uno» mormora lei dopo una lieve esitazione.
Lancia
uno sguardo verso gli edifici del college. Gli occhi le brillano.
«Avermi
conosciuto?» aggiungo, roco.
Sorride:«Aver
rinunciato, quasi sempre».
Una
nuova determinazione le anima il volto e sussurra
lievemente:«Ok» si volta verso di me e, poi,
aggiunge «le piacerebbe accompagnarmi ad una presentazione,
Mr. Cullen?»
Cento
anni.
E
nessuno era mai riuscito a sorprendermi.
Fino ad
ora.
BELLA
-Trading
Yesterday - Shattered (MTT Version)
La sala
congressi è enorme.
Appena
entriamo sento il tepore dell’ambiente riscaldato sul viso e
un soffuso chiacchiericcio giunge alle mie orecchie.
Ovunque,
persone.
Tante
persone.
Sedute
nelle poltroncine di velluto rosso scuro, in piedi in ogni angolo
libero della sala.
Sono
studenti, ma anche gruppi più maturi che discutono
sommessamente fra loro.
E sono
tutti vestiti elegantemente.
Come se
fosse davvero una cerimonia importante.
Deglutisco
rumorosamente e liscio una ciocca di capelli, sistemandola dietro
l’orecchio.
Ecco … proprio il
genere di situazioni che fanno al caso mio, penso con una
punta di allarmismo.
«Non
essere nervosa» sussurra Edward al mio fianco.
Gli
lancio una breve occhiata e lui mi osserva, tranquillo.
«Non
lo sono» ribatto flebilmente.
«Invece
sì» rettifica aprendosi in un sorriso smagliante
«Ma è più che naturale» e mi
offre il braccio, galantemente, per procedere lungo i corridoi laterali
e portarci in avanti.
Le
prime file sono semivuote, non saranno più di una ventina di
posti.
Davanti
a loro, un palco.
Subito
dietro di esse noto alcune persone sedute, con dei blocchetti tra le
mani, come se stessero preparandosi per prendere appunti e ai loro
lati, in piedi, dei giovani che armeggiano con vari tipi di macchinari,
treppiedi, telecamere.
Oh,
merda … ma quelli sono … fotografi!
Mi
lascio condurre da Edward verso due poltroncine libere e praticamente
sprofondo in una di esse.
Lo
sento al mio fianco, ridere sommessamente e mi volto verso di lui,
perplessa:«Cosa c’è di
divertente?»
Lui
scuote il capo e inclinandosi verso di me, sussurra piano:«Te
lo spiego dopo. Occhio, c’è qualcuno per
te».
E,
infatti, meno di due secondi dopo una voce familiare prorompe in
un’esclamazione estasiata:«Bella!»
Assieme
alla mia testa se ne voltano almeno altre dieci e sento le guance
già ardermi.
Helèna
trotterella verso di noi, trascinando per una mano una donna
incredibilmente somigliante a lei. Inchioda i suoi tacchi a spillo con
tale forza sul pavimento, chiaramente non il suo abituale look, da
farmi temere che da un momento all’altro uno dei perfidi
stiletti possa spezzarsi e farla cascare rovinosamente a terra.
Cerco
di alzarmi maldestramente dalla poltroncina, ma Edward mi posa una mano
sulla spalla, invitandomi con delicatezza a non compiere sforzi. Nello
stesso istante, invece, si alza lui, prendendo la mia mano tra le sue e
sorride cortesemente in direzione delle due ragazze che stanno
sopraggiungendo.
Noto
con chiarezza Helèna lanciare uno sguardo affilato ad
Edward, scendere verso le nostre mani intrecciate e risalire al mio
viso, scrutandomi negli occhi.
Appena
mi è vicina, si ferma.
E’
lievemente ansante.
«Bella,
che gioia rivederti! Ce l’hai fatta a venire!»
esclama raggiante, e si abbassa per darmi un formale bacio sulla
guancia, ma dopo un attimo, trasportata dall’entusiasmo
lascia via ogni esitazione e mi abbraccia calorosamente.
Abbandono
la mano di Edward per ricambiare la stretta della mia amica.
Gli
occhi cominciano a pizzicarmi e mi rendo conto, d’un tratto,
che Helèna mi è mancata terribilmente.
Mi
mordo il labbro inferiore che ha preso a tremare e batto le palpebre un
paio di volte. Quando lei si stacca da me, scorgo nei suoi occhi la
stessa, identica commozione che deve esserci nei miei.
Si
riscuote quando mio marito fa scivolare la mano sulla mia spalla
sfiorandomi la nuca in una leggera carezza e contemporaneamente la
saluta.
«Ciao
Helèna» dice, cortese.
«Edward»
fa un cenno lei, aggrottando leggermente le sopracciglia, prima di
voltarsi verso la donna al suo fianco e dire con
orgoglio:«Lei è Abby, mia sorella. Abby, la mia
amica e suo marito».
La
ragazza allunga la mano prima verso Edward, e poi verso di me, con un
ampio sorriso sulle labbra, indugiando in una stretta ferma e
sicura:«Bella, è un vero piacere fare finalmente
la tua conoscenza».
«Grazie,
anche per me» ricambio con un sorriso sincero.
La
fantomatica sorella di Helèna …
Sento
la mano di Edward sulla mia spalla farsi impercettibilmente
più forte e la sua voce, udibile solo a me, che sussurra,
perplesso:«Gran Canyon?» ed io mi volto
un secondo a guardarlo.
I suoi
occhi sono divertiti e guarda in successione Helèna, sua
sorella per poi fermarsi sul mio viso e strizzarmi l’occhio,
complice.
«Che
pancione!» esclama la mia amica allungando dolcemente una
mano verso il mio ventre «Stai benissimo, Bella. Non ti ho
mai visto così distesa»
Cominciamo
a discorrere, Edward sempre fermo in piedi al mio fianco, la sua mano
che mi massaggia dolcemente la spalla. Dopo l’iniziale
tentennamento, anche Helèna sembra essersi rilassata e non
lancia più occhiate incerte ad Edward.
Prendo
nota mentalmente di chiedergli spiegazioni a riguardo in un momento di
maggiore calma, fino a quando il brusio in sala non inizia a diminuire,
fino ad esaurirsi completamente.
Anche
noi ci zittiamo.
Molte
teste si voltano verso l’entrata in fondo e mi giro giusto in
tempo per assistere all’entrata dei Cullen al completo.
Inutile dire che una metà degli occhi dei presenti
è su tutti loro, che incedono con grazia ultraterrena a
coppie: Carlisle ed Esme, dietro di loro Alice e Jasper, e in ultimo
Rosalie ed Emmett.
L’altra
metà dei presenti, ha la bocca spalancata e fissa adorante
Rosalie Hale come se fosse scesa direttamente dal paradiso.
Sorrido
tra me, pensando che quella è la mia famiglia.
Helèna
si raddrizza d’un tratto e si defila velocemente da noi,
mormorando una scusa.
Il
cuore mi si stringe al ricordo dell’ultimo ed unico incontro
tra lei ed un membro di questa stessa famiglia: Alice. Ovviamente in
questo momento Helèna si sentirà enormemente a
disagio e con un vago senso di colpa mi rendo conto che in parte la
responsabilità di questa situazione è anche la
mia.
Sospiro.
Edward,
sogghignando, riprende il suo posto al mio fianco. Lo fisso e con una
leggera esasperazione gli dico a voce bassissima:«Posso
sapere cosa hai da ridere?!»
Stringe
le labbra sforzandosi di non cedere allo scoppio di ilarità,
ed è rilassato, mentre afferra la mia mano, depone un bacio
fugace sul dorso e mi dice:«Tu avrai anche tempo
… ma io ho molto da fare … la tua
amica, Bella, è molto coraggiosa» fa una piccola
pausa, inclina il capo di lato ed aggiunge «Appena mi ha
visto al tuo fianco ha pensato ad un tipo di tortura che nemmeno io
conoscevo. Ti vuole molto bene», conclude.
“Tu
avrai anche tempo … ma io ho molto da
fare…”
Scavo
nella memoria e ricordo che queste sono state le esatte parole che la
mia amica ha pronunciato quando Alice è venuta a cercarmi al
dormitorio e lei le ha impedito di vedermi.
Mi
volto di scatto sgranando gli occhi e lui mi fissa, divertito.
«Come
fai a sapere queste cose? Le hai lette nella mente di Alice?»
gli chiedo incuriosita.
Lui
scuote il capo lentamente.
«Alla
fine, un modo per leggere una parte dei tuoi pensieri l’ho
trovato» e fissandomi con gli occhi ardenti, posa una mano
sulla mia pancia, accarezzandola e sorridendo.
«Come?»
sussurro sconcertata.
«Il
nostro piccino a quanto pare è … molto in
sintonia con te. E ha dei ricordi molto … vividi. I
tuoi» conclude e la sua voce mi pare essersi incrinata per un
momento.
Lo
osservo ancora inebetita, incerta sulla reale implicazione delle sue
parole.
Ma,
d’altro canto, che il nostro bambino fosse speciale,
l’avevo già capito …
Sto
ancora pensando alle rivelazioni di Edward che qualcosa di ancora
più sconvolgente accade proprio a pochi metri da me: Alice
ed Helèna, perfettamente a loro agio, si abbracciano come
due vecchie amiche.
Oddio
… ma mi sono persa qualche anno di vita?
La mia
bocca è ancora spalancata per la sorpresa, quando Edward si
affretta a spiegare:«Non stupirti, Bella. Helèna
ed Alice hanno scoperto di avere molte cose in comune …
prima fra tutte, l’affetto nei tuoi confronti»
aggrotta leggermente le sopracciglia «e qualcosa riguardo
moda e … bambole?!» e si volta verso di me con
un’espressione interrogativa quasi comica.
Ovviamente.
Solo
una persona sopra le righe come Helèna avrebbe potuto avere
interessi comuni ad una eccentrica come Alice. E poi …
Una
lampadina si accende nella mia mente. Ma è naturale! Il
progetto di Helèna! Alice deve averla aiutata con i suoi
consigli in fatto di moda.
D’un
tratto, sento un nodo stringermi la gola.
Io ho
lasciato il mio progetto ad uno stadio avanzato, sì, ma non
definito completamente. Ognuno dei componenti del gruppo ha avuto modo,
tempo e mezzi per curarne ogni dettaglio, mentre io
… io ho rinunciato.
Oggi
saranno presentati i loro prototipi e all’improvviso mi
chiedo cosa realmente ci faccia io qui, in questa cerimonia.
Assistere
al loro successo?
Anche,
penso con serenità.
Come
non essere felice per Helèna o per Francisco?
Hanno
impegnato tutte le loro energie in questi lavori, lo so bene, e
meritano il giusto riconoscimento.
Forse
Joshua ha portato avanti le nostre idee. Magari non saranno
più come avevamo stabilito insieme, ma è giusto
che sia così. In fondo, ormai, si tratterebbe di un suo lavoro ed il
pensiero che il suo impegno e la sua fatica non siano andati
completamente sprecati nonostante il mio abbandono, mi fa sentire un
po’ meglio.
Sempre
che sia stato possibile realizzare nella pratica quelle che avevamo
solo abbozzato come teorie.
Le
persone cominciano ad accomodarsi.
La mia
famiglia prende posto lateralmente, poco distante da noi, in una fila
quasi vuota, dove possono restare tutti vicini. Noto ancora alcuni
posti liberi al fianco di Jasper e mi volto verso
Edward:«Possiamo sederci vicino agli altri se vuoi
…» gli dico timidamente.
«E’
meglio che restiamo qui» mi risponde e al mio sguardo
perplesso, aggiunge «il piccolo è
sveglio» spiega con un’occhiata carica di affetto
diretta alla mia pancia «e Alice sarebbe costretta ad
allontanarsi se ci avviciniamo».
Annuisco,
pensierosa.
Chissà
se sarà ancora così anche dopo la sua
nascita…
Da dove
sono seduta ho una visuale completa di tutta la sala.
Mentre
lancio un’occhiata fra i presenti, incrocio lo sguardo di
Emmett che mi sorride e con due dita mi fa il segno della vittoria,
ammiccando.
Gli
rispondo con un cenno del capo e arrossisco come se fossi stata colta
in flagranza di reato.
Decisamente
Emmett guarda la vita attraverso un paio di occhiali tutto colorato.
Per lui ogni cosa è un gioco. Ma il gioco in cui prova
più gusto è mettermi in imbarazzo.
Improvvisamente
mi ricordo del discorso in macchina fatto con Edward in merito ai
boy-scout e non resisto alla tentazione di tirare io, per una volta,
una frecciatina ben piazzata al mio fratellone orso.
Con il
più angelico dei sorrisi, quindi, lo fisso.
Alzo la
mano destra all’altezza delle spalle, l’indice, il
medio e l’anulare tesi ed uniti verso l’alto, il
mignolo ripiegato sotto il pollice, il palmo in avanti.
Tre
giovani, una ragazza e due ragazzi seduti poco distanti da me, ma in
linea d’aria con il filo immaginario che unisce i miei occhi
con quelli di Emmett, seguono la direzione del mio sguardo e
sorridendo, rivolti a lui, i tre imitano il mio stesso gesto.
L’universale
saluto con cui si riconoscono gli scout di tutto il mondo.
Vedere
congelarsi il sorriso di Emmett, sentire con chiarezza lo scampanellio
delle risate di Alice e di Rose, nonché di Esme in maniera
più soffocata, e persino di Carlisle e di Jasper, sempre
così seri e compiti, non ha prezzo.
Quando
mi raddrizzo sulla poltrona, sono la soddisfazione fatta persona.
Ma la
sensazione di trionfo è di breve durata, quando mi rendo
conto che la cerimonia sta per avere inizio.
Sul
palco, sono disposti in ordine cinque colonnine, coperte da altrettanti
drappi neri fino a metà della loro lunghezza.
Cinque, non sei.
Penso frastornata, un po’ dispiaciuta, ma forse anche
… sollevata?
Le voci
in sala aumentano in intensità per un breve attimo per poi
scemare fino a spegnersi completamente. Le poltrone al nostro fianco
sono ancora semivuote.
Noto
che i componenti del nostro gruppo di lavoro non ci sono tra i presenti
in sala.
Nemmeno
più Helèna.
Abby,
sua sorella, è seduta sola, qualche poltrona leggermente
più distante da noi.
Improvvisamente
fa il suo ingresso il professor Jensen.
Raddrizzo
il capo come se avessi ricevuto uno schiaffo e dopo un breve secondo
Edward si irrigidisce. Me ne rendo subito conto
dall’impercettibile aumento della sua stretta sulla mia mano.
Forse
trattiene anche il fiato. Io
lo sto facendo, penso, frastornata.
Non
appena il professore comincia a parlare, Edward sembra rilassarsi. Di
riflesso, mi rilasso anche io.
«Signori
buongiorno» esordisce e la sua voce è proprio come
la ricordavo: profonda, calda, diretta. Sussulto, avvertendo un
movimento nel mio ventre e in un battito di ciglia vedo già
il palmo aperto della mano di Edward, scivolare con delicatezza sul
tessuto del mio abito e carezzarmi la pancia in movimenti circolari.
Quando mi volto a guardarlo, noto che è perfettamente a suo
agio, rilassato, e fissa il palco, ascoltando le parole di Jensen con
attenzione, come se niente lo potesse distogliere da questa occupazione
e come se, accarezzarci, fosse la cosa più naturale del
mondo.
«Vorrei
innanzitutto ringraziarvi per essere intervenuti a questo evento a cui
tengo particolarmente» e i suoi occhi si puntano con
insistenza e con una scintilla di sfida nella prima fila, quella dove
sono seduti tutti i pezzi grossi di Dartmouth, a cominciare dal Rettore
per finire ai rappresentanti del consiglio di amministrazione
«disperavamo di riuscire in questa impresa e non vi
negherò che ci sono state molte difficoltà da
affrontare per poter essere qui oggi» abbassa gli occhi su un
foglio e noto chiaramente un sorrisetto sardonico distendergli le
labbra.
Mentre
il professore continua nel suo discorso, mi soffermo a guardarlo.
Mentre tutti i membri importanti del College sono in abiti eleganti,
sorprendentemente lui è in jeans. Scuri, ma pur sempre
jeans. Unico segno d’eleganza è la giacca nera su
una camicia immacolata. E non indossa la cravatta.
Rifletto
tra me e me pensando a quanto deve essere refrattario alle
formalità quest’uomo.
E
quanto deve essere ostinato, anche.
In
alcune delle nostre iniziali riunioni aveva accennato al fatto che
volessero chiudere il Tuck’s
Center for Digital Strategies, ossia il centro di
rilevanza internazionale di cui è responsabile. E, in
seguito, aveva anche parlato di un tentativo di boicottaggio nello
stanziamento dei fondi per il Centro e del coinvolgimento di
industriali di dubbia moralità …
Il mio
sguardo si sposta da lui fino a passare lentamente in rassegna le
schiene dei “grandi” di Dartmouth, nella primissima
fila, tutti composti, attenti, con il capo leggermente alzato verso il
palco e mi chiedo chi tra loro sia l’individuo compiacente
contro cui, se pur per breve tempo, ho lottato inconsapevolmente anche
io.
Presto,
la voce del professore diventa solo un sussurro, mentre con la mente
ritorno al nostro ultimo incontro nel suo studio … a quel
bacio rubato ...
Il solo
ricordo basta per mandarmi le guance in fiamme e farmi sentire
profondamente a disagio.
Certo
che è un uomo ostinato … e a ben guardare, senza
nemmeno troppi scrupoli.
Istintivamente
lancio un’occhiata ad Edward e noto che è sempre
nella stessa identica posizione. Lo sguardo fisso davanti a
sé, concentrato … troppo concentrato.
Le
labbra sono strette tra loro e posso quasi vedere la sua mascella
serrata.
Arrossisco
ancora di più.
Se
è vero che riesce a leggere i miei ricordi attraverso il
filtro della mente del nostro bambino, allora non potrà non
leggere quel ricordo in particolare. Ma leggerà anche il
senso di disagio e di fastidio che ho provato.
Con
più sicurezza mi giro a guardarlo. E quando con un sospiro,
infine, cede e si volta verso di me, ritirando la sua mano dal mio
ventre, non ho paura di sostenere il suo sguardo.
Restiamo
a fissarci per dei lunghissimi, interminabili istanti.
I suoi
occhi, scuri, profondi, seri sembrano volermi scandagliare
l’animo.
E, poi,
sorride.
«…
ma credo che non sia il caso di indugiare oltre e quindi passerei
direttamente al motivo per cui siamo tutti qui riuniti oggi»
la voce di Jensen cattura l’attenzione dei giornalisti alle
nostre spalle che si raddrizzano nelle loro poltrone e dei fotografi
che direzionano gli obiettivi delle loro macchine verso il centro del
palco.
Edward
continua a tenere lo sguardo su di me e quando faccio spallucce il suo
sorriso si accentua ed inclina il capo verso il mio, deponendo un
leggerissimo bacio sulle mie labbra.
Si
raddrizza nuovamente volgendo lo sguardo al palco e riprende ad
accarezzarmi la pancia, in un massaggio rilassante e tranquillizzante.
Edward
sembra davvero vivamente interessato alla presentazione.
«E’
nota a tutti l’importanza del Tuck’s Center for
Digital Strategies, un organo totalmente imparziale ed
obiettivo per ciò che riguarda l’impatto della
tecnologia digitale sull’attuale mercato
internazionale» e non credo che la scelta dei due aggettivi
per descrivere il Centro sia stata casuale.
Edward
mormora qualcosa a volume bassissimo ed io ruoto il capo nella sua
direzione.
Il suo
sguardo saetta per un breve istante in prima fila, mi sembra che si
fissi su un anonimo signore in un completo grigio dall’aria
molto distinta e apparentemente innocua.
«Purtroppo
è noto come l’attuale crisi del mercato
internazionale, ma soprattutto dell’America del Nord,
abbia costretto colossi del settore dei giocattoli a chiudere
i battenti. Quest’anno, miei cari signori, sarà
l’anno dell’innovazione e della
creatività » fa una breve pausa e prosegue
«Il nostro Centro si è proposto di individuare
quei giochi che utilizzino la tecnologia più avanzata per
stimolare la fantasia dei bambini che esplorano sempre di
più il mondo digitale, ma che non traducano la
creatività e l’innovazione in un aumento
significativo dei costi di produzione».
Il
silenzio in sala è totale.
«Dall’analisi
del mercato attuale, è stato evidenziato, infatti, che la
maggior parte dei giocattoli che utilizzano la tecnologia digitale ha
un costo improponibile per la famiglia americana media. L’Mba della Business School Tuck
di Dartmouth, con il prezioso aiuto del Dipartimento di
Ingegneria, è lieta, quindi, di presentarvi Top Tech Toys 2002
…» fa un passo indietro e si volta in direzione di
un lato del palco, da cui, in fila, cominciano ad avanzare i cinque: Francisco,
Mia, Charles, Victor, Helèna.
Rivederli,
tutti insieme, mi fa uno strano effetto.
Ma non
posso negare che non trovarmi lì sopra, al loro fianco, in
realtà non è che mi dispiaccia , poi, tantissimo
…
I cinque avanzano
fino al centro del palco e, intanto, Jensen li presenta alla platea uno
ad uno, spiegando la formazione del gruppo ed il loro ruolo
all’interno del progetto.
Quando
arriva a Vik, impettito in un abito dall’aria costosissima e
con un’espressione spavalda e trionfante, provo una repentina
sensazione di fastidio. Potrà appartenere anche alla
famiglia più facoltosa della Virginia, ma resta ugualmente
l’essere più viscido che ho avuto il dispiacere di
conoscere.
Forse
non proprio il più viscido … diciamo che
è un testa a testa con Mia.
Scivolo
rapidamente anche sulla figura di quest’ultima, la quale mi
regala la stessa, identica sensazione di disagio dell’amico.
Jensen
presenta infine Francisco ed Helèna.
Il
primo non riesce a star fermo un attimo: si sbottona la giacca, poi la
riabbottona; si stringe il nodo della cravatta, poi lo allenta un
pochino. Helèna, invece, ondeggia da ferma sui suoi tacchi
come se lo spostamento d’aria provocato dal parlare di Jensen
rischiasse di farle perdere l’equilibrio da un momento
all’altro.
Dire
che sono emozionati è davvero un eufemismo e mi ritrovo ad
emozionami insieme a loro.
«…
lascio, dunque, a questi signori l’onore di presentarvi i
loro prototipi. Grazie» e fa qualche rapido passo sul lato
destro del palco, lasciando la parola ai miei colleghi, che, uno alla
volta, si dispongono alle spalle di una delle cinque colonnine.
La
prima a parlare è proprio Helèna.
Si
schiarisce la gola, prende un bel respiro e tira via il drappo dal suo
piedistallo.
Sorrido
immediatamente. So già di cosa si tratta e mi appresto ad
ascoltare la spiegazione della mia amica.
«Questo
lavoro prende spunto da una mia segreta passione: la moda»
Prende tra le mani due bamboline di legno.
«Questo
è il Deluxe
Magnetic Dress-Up e loro» alzale bamboline verso
l’alto e le mostra alla platea «sono Abby ed
Emma» dice e contemporaneamente a lei mi ritrovo a lanciare
uno sguardo a sua sorella Abby, poco distante da dove sono seduta io.
Abby
non è stupita. No, di più. A bocca spalancata,
è totalmente incredula.
La mia
amica continua:«Il gioco non è altro che una nuova
versione delle bamboline di carta e dei loro vestiti. Un set di
elementi d’abbigliamento da combinare tra loro, per
inventare nuove camicie e pantaloni, o un abbigliamento sportivo del
tutto innovativo, con parti di vestiti e accessori da accostare sulle
bamboline di legno. I pezzi si incastrano tra loro per forza magnetica.
Non sono necessarie batterie, né corrente. E’ un
gioco pensato per bambini dai 3 ai 6 anni, e la versione più
piccola costa sette dollari».
Helèna
prende fiato tutto in una volta, avendo parlato a raffica e si volta un
attimo verso il professore che le fa un cenno del capo in assenso. Si
riporta con lo sguardo alla platea ed aggiunge:«Permettetemi
di ringraziare la mia famiglia, a cui è dedicato
l’intero progetto e … una cara amica, Alice
Cullen, per i preziosi consigli sugli abbinamenti. Grazie».
L’uditorio
al completo erompe in un applauso e i fotografi scattano varie
istantanee del gioco e della sua ideatrice che sorride imbarazzata.
Man
mano vengono presentati tutti i progetti.
Il
prototipo di Francisco si chiama Mega
Bloks Magnext Deluxe. E’ un sistema di
costruzioni di pezzi magnetici e componenti di materiale plastico. I
magneti e i componenti si collegano tra loro con delle palline. Si
possono realizzare oggetti, riproduzioni di animali, di case, ma anche
oggetti del tutto immaginari.
Seguono
quello di Mia, il Barbie
iDesign Ultimate Stylist, un modo per cambiare look a
questa famosa bambola, dal guardaroba alla vita sociale, tramite un
programma su CD-Room chiamato iDesign; quello di Charlie, l’Hasbro Playskool Honeybee Hop,
ossia un gioco interattivo che crea il movimento di una semplice asta,
intorno alla quale i bambini di tutte le età possono
ballare, saltare, fare ginnastica, giocare in competizione tra loro,
per esempio in una serie di saltelli a tempo di musica; e quello di
Vik, l’Air Hogs
Zero Gravity Micro Car, una macchina telecomandata che
sfida la forza di gravità potendo camminare dappertutto,
sensibile agli oggetti fragili davanti ai quali miracolosamente
indietreggia e cambia strada. Una versione più evoluta delle
infernali macchinette radiocomandate.
Ognuno
di questi giochi non supera il costo di venti dollari.
In
parole povere, una rivoluzione nel campo del gioco tecnologico.
Quando
i giornalisti sono ormai in piedi, i fotografi accecano i miei colleghi
con una serie impressionante di flash, Jensen si fa avanti con un
sorriso trionfante sulle labbra.
«Signori,
vi prego» dice e fa un gesto con la mano per tranquillizzare
l’agitazione generale. Da ogni parte piovono domande,
maggiori delucidazioni, richieste di previsioni dell’impatto
dei Top Tech Toys
sull’economia internazionale.
«Signori,
calmatevi» ma il tono della sua voce tradisce
l’intima soddisfazione derivante dall’entusiastica
reazione dell’intero uditorio.
Gli
unici a non muovere nemmeno un dito sono alcuni componenti delle prime
file.
Paralizzati,
è il termine che li descrive meglio.
«C’è
ancora un altro prototipo da presentare» sobbalzo alle sue
parole «ma lo farò personalmente».
Edward
smette all’istante di respirare.
Dal
lato destro, un ragazzo porge al professore una scatola quadrata di
cartone.
«Sono
pienamente soddisfatto del lavoro svolto da questi studenti. Il loro
impegno e la loro dedizione sono stati encomiabili. Ragazzi»
dice rivolto ai cinque «potete
accomodarvi»e indica le poltrone in seconda e terza fila. Le
uniche file semivuote.
«L’ideatrice
di questo progetto ha avuto dei problemi di salute che
l’hanno costretta ad un periodo di riposo. Ciò
nonostante, il suo lavoro è stato portato a termine per
volontà di un promettente ingegnere, Joshua Kyne, e
… mia»
La
mascella di Edward scatta, e un ringhio basso gli nasce dal petto.
Il mio
respiro diventa un alito.
Oh, merda.
«L’originalità
di questo prototipo deriva dalla genialità della sua
ideatrice. »
Oh, merdissima.
Un
gemito mi esce dalle labbra, mentre cerco di nascondere il tremito
delle mie mani, lisciandomi lentamente un sopracciglio.
Ho
annunciato all’inizio di quest’incontro che questo
sarà l’anno dell’innovazione. Ebbene,
qui» e con una mano batte sul coperchio dello scatolo
«c’è il gioco che la rappresenta meglio
e in maniera più emblematica».
Con
lentezza, Jensen apre il coperchio e ne estrae un cubo.
Sembra
un enorme dado, ma le pareti sono morbide, gli angoli smussati. Ed
è colorato, ogni faccia ha un colore diverso, con impresso
uno strumento diverso.
Le mie
idee sono lì.
Il mio
lavoro è lì.
Tutto
in quel cubo, un cubo magico.
«Il
nome di questo gioco è Munchkin
Magic Cube. E’ destinato a bambini piccolissimi,
dai sei mesi ai due anni. E’ fatto di un materiale solido, ma
morbido e al tocco di una delle facce dove sono riprodotti i vari
strumenti musicali, è possibile ascoltare delle melodie
classiche» con una mano Jensen afferra il microfono e lo
porta vicino al cubo, poi con un dito preme sull’immagine di
un pianoforte e si attiva una melodia.
O, per
meglio dire, si attiva la
melodia.
La
musica di Edward, stilizzata in semplici passaggi, risuona negli
altoparlanti dell’intera sala congressi. Le note sono
semplificate, ma la melodia è chiaramente la sua.
Il
silenzio dell’intera sala, non fa che amplificare ancora di
più l’effetto d’insieme.
«Le
musiche sono state scelte dall’autrice del prototipo e
riadattate per le nostre esigenze, ma sono composizioni
inedite» continua il professore.
Con gli
occhi sulle mie mani, penso che adesso Edward scoppia.
Scoppia
e polverizza Eric Jensen.
Con
l’angolo dell’occhio cerco di catturare un
movimento delle sue dita poggiate sul bracciolo della poltrona.
Immobili.
«Abbiamo
parlato di innovazione. Questo gioco la incarna pienamente,
poiché propone il ritorno degli stessi bambini a giochi
più semplici, nei quali la tecnologia non sia invasiva,
bensì stimolante e costruttiva».
Un
applauso scrosciante sovrasta l’ultima parola del professore,
che lancia uno sguardo alla sala, determinato.
No, no.
Minaccioso.
E dopo
un istante mi trova. Trova i miei occhi e sembra che mi sorrida, pur
senza aver fatto nessun movimento con le labbra.
«Se
me lo permettete» e lancia uno sguardo ad Edward al mio
fianco, impassibile e imperturbabile «vorrei presentarvi la
studentessa a cui i vostri applausi dovrebbero essere realmente
rivolti. Isabella, vorresti avvicinarti, per piacere?»
Oddio no … questo no,
davvero.
Il
respiro mi si mozza in petto quando mi rendo conto che tutti, ma tutti davvero,
hanno puntato gli occhi su di me.
E
allora mi volto verso Edward, in cerca di aiuto.
Scontrarmi
con l’oro liquido dei suoi occhi rende le mie gambe ancora
più deboli di come pensavo. Sono due ramoscelli secchi e non
ce la farò mai nemmeno ad alzarmi, figuriamoci a camminare.
Ma la
sua mano è già tesa verso di me e con grazia, mi
aiuta ad mettermi in piedi.
Un
altro applauso accompagna la nostra salita verso il palco.
Il mio
braccio è intrecciato strettamente al suo, le mie dita sono
incuneate nel suo palmo.
Quando
siamo a pochi passi dal professore, sul palco, vedo meglio il prototipo
fra le sue mani.
E’ proprio come lo
avevo immaginato, penso rapita.
Decido
di alzare lo sguardo, certa di scontrarmi con quello azzurro e deciso
del professore, ma mi accorgo che, invece, è in corso una
muta conversazione tra lui ed Edward.
E,
scioccamente mi ritrovo a pensare che forse, se ci metto una mano in
mezzo, magari quelli me la arrostiscono pure …
Senza
lasciarmi, Edward fa ancora un altro passo verso di lui.
E poi,
sorridendo, mi bacia una mano, indugiando un attimo sul dorso.
Lì.
Su un
palco, sotto gli occhi di centinaia di persone.
«Isabella,
prego» dice Jensen, e mi allunga un microfono.
Un
microfono.
Io, con
un microfono in mano.
Battole
palpebre un paio di volte, il cuore che galoppa furiosamente lo sento
fin nelle orecchie, e poi lascio la mano di Edward e prendo
l’oggetto da quella del professore.
Mi
schiarisco la voce e le parole cominciano a fluire con naturalezza, da
sole:«Buongiorno» inizio serena, rivolta alla
platea «sono onorata delle parole che il professor Jensen ha
voluto riservare a questo lavoro e grata al consiglio
d’amministrazione che ha scelto di finanziare
l’intero progetto, permettendo a tutti noi studenti
dell’Mba di impegnarci in un’esperienza nuova e
gratificante».
Noto
con stupore che la mia voce è calma e che gli occhi di tutti
sono attenti.
Lancio
un’occhiata ad Edward, qualche passo di distanza da me.
Mi
sorride, sicuro.
Continuo,
rivolta all’uditorio.
«Non
ho altro da aggiungere alla dettagliata e lusinghiera presentazione del
professore, ma desidero ringraziare una persona speciale»
prendo un respiro profondo e deglutisco «è
l’autore delle melodie che mi hanno ispirato e che sono state
inserite nel prototipo da persone competenti e professionali come
Joshua» non guardo verso Edward ma sento i suoi occhi
riscaldarmi il viso.
«Sto
parlando di mio marito, Edward Cullen» sussurro e la voce mi
si spezza per un attimo «questo lavoro, lo dedico a lui.
Grazie a tutti» e faccio un passo indietro, solo per sentire
le mani di Edward circondarmi all’altezza della vita.
Tra gli
applausi e i flash scendiamo dal palco. Ad ogni passo sento talmente
tanti occhi su di noi che temo di cadere non per goffaggine, ma per il
peso dei loro sguardi …
Ci
riaccomodiamo sulle nostre poltrone, la mano di Edward sempre
intrecciata alla mia, e la cerimonia prosegue, volgendo alla fine.
Nessuno
di noi due parla.
Non ho
il coraggio di guardare nessun componente della mia famiglia, mentre
noto con la coda dell’occhio Helèna farmi dei
cenni per attirare la mia attenzione. Invano.
«Stai
bene?» mormora improvvisamente Edward al mio orecchio ed io
sussulto.
Annuisco,
ancora con la testa bassa.
Ma poi
mi faccio coraggio e la alzo verso di lui.
Il suo
sguardo è tranquillo, composto … ma compiaciuto.
«Cosa
stai pensando?» gli chiedo, dopo un breve momento.
«A
te. A noi. A tutti questi mesi» il tono della sua voce
è basso, ma intenso. Chi ci osserva da fuori, potrebbe solo
notare un innocuo scambio di frasi tra due amici, ma i suoi occhi
ardono in questo momento, e le sue parole vibrano tra le sue labbra.
Scuoto
il capo lentamente, e la sua stretta sulla mia mano aumenta.
«Qualunque
cosa fosse accaduta qui dentro non avrebbe mai cambiato quello che
provo per te. Anche adesso, come prima ancora di entrare Bella, sono e
sarò sempre orgoglioso di te» sussurra carezzevole
e gli occhi mi pizzicano, mentre lo ascolto.
Le dita
della sua mano scivolano sulla mia guancia, fino a tracciare il bordo
inferiore del mio labbro, quello dove c’è ancora
una piccola cicatrice:«No amore mio, non devi più
essere triste. Mai più. E grazie ... di
tutto» e rapido si porta la mano che mi sta stringendo da
quando siamo scesi dal palco alle sue labbra.
Non
appena la cerimonia finisce, veniamo letteralmente sommersi da
giornalisti, fotografi, semplici studenti. Fanno a spintoni per
raggiungere i miei colleghi, ma i più si accalcano su me ed
Edward.
Domande,
flash, piovono da ogni parte e mi sento spaesata mentre alle mie
orecchie arrivano i quesiti più disparati:
«A
quale azienda ha deciso di vendere i diritti del prototipo?»
«Suo
marito è un compositore?»
«Quando
pensa che sarà commercializzabile il prodotto?»
La
testa prende a girarmi vorticosamente e mi aggrappo al braccio di
Edward, poggiando la fronte sulla sua spalla.
«Signori,
per favore. Come avete potuto notare mia moglie è in
avanzato stato di gravidanza e non è il caso di sottoporla
ad ulteriori stress» la voce di Edward è calma ma
gelida «vi pregherei di lasciarci passare e di non
tartassarla di altre domande. Il responsabile del progetto
sarà certamente in grado di fornirvi tutte le delucidazioni
che vorrete».
Fa
scivolare un braccio attorno alla mia vita e, senza troppe cerimonie
comincia a farsi largo tra la calca.
Forse si sentono così
i personaggi famosi quando vengono perseguitati dai paparazzi
… penso confusamente.
E
mentre ci allontaniamo una voce maschile, alta e quasi esasperata
sovrasta tutte le altre:«Almeno ci dica il suo nome completo!
Isabella …?» e gli altri si zittiscono,
evidentemente anche loro interessati alla risposta della stessa domanda.
Sento
il braccio di Edward farsi rigido sul mio fianco e un ringhio
affiorargli dal profondo del suo petto, mentre fa per girarsi con uno
sguardo omicida negli occhi.
Ma con
una mano lo trattengo dolcemente.
Mi giro
e rivolta ad un punto imprecisato del nugolo di persone che ci sta
seguendo, rispondo:«No. Isabella era prima. Ora sono
semplicemente Bella. Bella Cullen».
NOTA
DELL’AUTRICE: Questo capitolo non ne voleva sapere di trovare
una fine. Odio i capitoli troppo lunghi, ma non sarei riuscita a
condensare tutte queste informazioni nemmeno con altri trenta mesi
davanti a me per farlo. Se siete arrivati fino a qui senza
addormentarvi meritereste un premio … una golden onion, per
esempio ù.ù
Saluto
degli scout
Il
Top Tech Toys
è reale, ma è datato 2008. Lo spunto per tutta
questa macchinazione mi è venuto leggendo questo articolo
.
Naturalmente
ho adattato la cosa alle mie esigenze narrative e ho modificato un
po’ l’ordine universitario rendendo l’Mba un corso e non
un prestigioso master post-universitario quale in realtà
è. Ogni riferimento di questa fanfiction a nomi o fatti
legati alla vera Dartmouth è puramente casuale.
Abby
&Emma Deluxe Magnetic Dress-Up , il prototipo di
Helèna.
Munchkin
Magic Cube, il prototipo di Bella.
I
credits per le canzoni vanno a @LauraSupertramp per Vanessa Carlton -A
Thousand Miles (fortuna che ti svegliasti con questa canzone in
mente*.*) e a @ dazzled_Vale per Trading Yesterday - Shattered
(continuo a sostenere che sei un’artista*.*)
Ringrazio
tutti voi, perdonatemi se non rispondo alle recensioni, ma credetemi,
vi porto nel cuore uno ad uno.
Il
prossimo sarà l’epilogo.
Grazie
M.Luisa
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