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Autore: endif    25/04/2010    29 recensioni
“«Edward…» non mi accorgo neppure di avere sussurrato il suo nome, ma forse l’ho fatto perché lo vedo girarsi verso di me come a rallentatore. Il tempo si cristallizza qui, in questa stanza, in questo momento, restando sospeso a mezz’aria.
Sgrano gli occhi a dismisura quando capisco chi è tra le sue braccia.
No. Non può essere.”
Piccolo spoiler per questa nuova fic, il seguito di My New Moon. Ci saranno tante sorprese, nuove situazioni da affrontare per i nostri protagonisti. Un E/B passionale e coinvolgente.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Change' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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CAP.35

EDWARD -Vanessa Carlton -A Thousand Miles-

«Devo dire che i sedili di quest’auto sono davvero comodi» sussurra Bella  quasi stupita, facendo scorrere le dita sulla pelle costosa del sedile del passeggero dell’Aston Martin, accanto ad me.
Scoppio a ridere di gusto e mi giro a guardarla: «Ti faccio ridere?» chiede con una nota di allegria repressa nella sua stessa voce.
«No, no … » e scuoto il capo sentendo ancora il sorriso aleggiarmi sul viso «è che … lo dici come se … ti dispiacesse» affermo convinto.
Aggrotta la fronte.
In effetti, so che quell’auto non le è mai piaciuta, mentre io ho sempre pensato che le si addicesse in pieno: elegante, aggraziata, sensuale.
«No» dice «oggi non mi dispiace nulla» e i suoi occhi sono luminosi mentre pronuncia queste parole in un sussurro lieve e fa spaziare lo sguardo lontano, davanti a sé.
Sorride leggermente e il mio cuore fa una capriola.
Sento che è emozionata, ma sembra essersi rassegnata a non fare altri tentativi per conoscere la nostra destinazione.
Quando Alice mi ha informato di ciò che aveva architettato, per un attimo sono rimasto interdetto, poco convinto che la sua fosse una buona idea. D’altro canto è stata ferrea nell’insistere sulla necessità di tenere Bella all’oscuro dei suoi progetti fino all’ultimo e quando le ho chiesto se avesse ripreso ad avere visioni su mia moglie, lei mi ha sorriso in un modo … inquietante e mi ha risposto che, per una volta, dovevo solo fidarmi del suo istinto femminile.
Cambio marcia con rapidità e lascio che il paesaggio scorra veloce intorno a noi. Pur guardando fisso dinnanzi a me, non perdo di vista Bella nemmeno per un attimo.
Un lungo cappotto nero la avvolge completamente e valuto la temperatura dell’abitacolo, chiedendomi se sia abbastanza alta per lei. Quell’abito che indossa … scuoto il capo una sola volta cercando di scacciare l’immagine divina di mia moglie, dello straccetto di seta che la copriva mentre premeva con delicatezza il suo ventre pieno sul mio corpo.
«Hai freddo?» tanto vale chiederglielo direttamente.
«No, per niente» mi sorride, abbagliandomi come poco prima, quando è scesa dal piano superiore insieme a Rose … una visione.
 Un sorriso spontaneo, radioso … come è lei oggi, ma come lo è stata sempre, inconsapevolmente. E’ solo che, da qualche tempo, sembra avere una sicurezza, una serenità che non ho mai ravveduto prima in lei.
Oggi Bella sembra poter, e voler, sfidare il mondo intero.
Con il sorriso sulle labbra.
La mia bocca si piega impercettibilmente in una smorfia di compiacimento.
Se solo penso a non più di qualche giorno fa … sembra impossibile che al mio fianco ci sia seduta la stessa persona.
Bella stava morendo.
Forse era questione di giorni, forse di ore, ma sarebbe successo certamente.
Pur di dare la vita al nostro bambino, era disposta a dare la sua in cambio.
Sospiro brevemente, pensando a quell’eventualità e tremo, chiedendomi se davvero sarei riuscito a vederla morire tra le mie braccia senza far nulla per impedirlo.
Avrei dovuto operare una scelta … lei o mio figlio.
«E’ una festa» mormora d’un tratto, spezzando il silenzio che si era creato nell’abitacolo «non disturbarti a negare, tanto l’ho capito» e fa un gesto buffo, facendosi aria con la mano.
Le mie labbra si piegano in un accenno di sorriso.
Si sforza a guardare fisso dinnanzi a sé, ma la vedo con chiarezza sbirciare verso di me con la coda dell’occhio, spiando una mia eventuale reazione.
«Se lo dici tu …» rispondo con finta noncuranza, incapace di resistere alla tentazione di provocarla.
Le sue labbra si stringono in una linea sottile:«Partecipa tutta la famiglia?» chiede ostentando un tono indifferente.
«Ovviamente», rispondo tranquillo.
«Anche Emmett?» continua lei.
«Sì»
«Allora è una festa» ripete più convinta, con la voce a metà tra il trionfante ed il seccato.
Non dico nulla, ma non posso impedirmi di sorridere.
La curiosità la sta divorando.
Decido di giocare un po’ con lei, manca ancora qualche minuto alla nostra destinazione, e Bella è davvero spassosa quando si comporta in questo modo.
«Verrà anche Jasper» aggiungo in un lieve sussurro, complice.
Ruota il capo, girandosi a guardarmi e restringe gli occhi in due fessure:«Quindi?»
«Lo sai che non è a suo agio in mezzo a troppe persone. In una festa, poi … sarebbe ancora peggio» suggerisco, conscio di aver instillato il seme del dubbio nelle sue convinzioni.
«Mmm … » mormora sovrappensiero «ma c’è Alice» sottolinea lei «e non lo metterebbe mai in una situazione rischiosa».
Inarco un sopracciglio, lanciandole uno sguardo fugace e lei mi fissa di rimando: «Beh, non sempre, almeno» rettifica quindi, e ci ritroviamo a ridere nello stesso momento.
Il suono della sua risata riempie l’aria intorno a noi e mi solletica piacevolmente le orecchie. Mi ritrovo a desiderare ardentemente di risentirlo.
«Lo sapevi che una volta l’ha costretto a portarla ad un rave?» le chiedo in tono serio.
C’è un attimo di silenzio da parte sua, poi i suoi occhi si dilatano:«Jasper … ad un rave?» chiede esterrefatta.
Annuisco con il capo:«Più o meno trent’anni fa … e uno di quelli duri, eh» ammicco verso di lei e noto la sua espressione stupita, la bocca lievemente  aperta … più o meno la stessa espressione con cui Jasper era tornato a casa dopo quell’esperienza.
Per giorni non aveva detto una parola e si era tenuto alla larga da noi tutti. Alice, invece, era serena … serafica per meglio dire.
Era ridotto davvero ad uno straccio e per anni, alla parola rave ha continuato a dileguarsi, terrorizzato.
Tolgo lo sguardo dalla strada osservando Bella premere con forza entrambe le mani sulla sua bocca, nel tentativo di soffocare le risate.
«Non posso crederci …» mormora con la voce incrinata.
«Parola di scout» dico solennemente alzando due dita verso l’alto.
E, di nuovo, la sua risata cristallina, spontanea, vera mi scalda il cuore.
«Tu non sei uno scout!» aggiunge, sempre ridendo.
«Ne sei proprio sicura?» le chiedo di rimando, calmo.
Sembra rifletterci su per un attimo, fissandomi con la fronte aggrottata:«Non ti ci vedo in pantaloncini e berretto, mentre accendi il fuoco sfregando due bastoncini di legno …», dice scuotendo il capo. Ma poi le sue labbra si distendono in un sorriso incerto:«Sei uno scout?» mi chiede esitante.
Questa volta è il mio turno di ridere:«No, io no … ma … Emmett sì …»
Mi osserva stupita, con gli occhi quasi fuori dalle orbite:«EMMETT?»
Annuisco e questa volta, le risate quasi le tolgono il respiro.
«Oddio, mi sto sentendo male …» dice con la voce spezzata mentre cerca di asciugarsi le lacrime pizzicando il bordo delle palpebre con la punta delle dita.
Prende un bel respiro e mormora un “questa informazione mi sarà utile” a voce bassissima, per poi sistemarsi più comodamente nel sedile.
Sorrido tra me e me, felice per il clima sereno che ci avvolge.
Continuiamo a discorrere piacevolmente ancora per qualche minuto.
Bella è perfettamente a suo agio, rilassata contro lo schienale del sedile con le ginocchia piegate leggermente verso di me, il busto ruotato quasi completamente nella mia direzione, il capo inclinato sul poggiatesta.
Batte le palpebre nel momento in cui si rende conto che ho fermato l’auto, forse stupita lei stessa di aver dimenticato la sua curiosità per la nostra uscita a sorpresa.
«Ma cosa …» comincia, guardandosi attorno.
Senza risponderle, esco dall’auto e mi avvio dal suo lato per aiutarla ad uscire. Con una mano le tengo aperta la portiera, mentre l’altra la tendo verso di lei con il palmo rivolto in su in un muto invito a seguirmi.
Afferra la mia mano esitante, perplessa.
Quando è fuori, dinnanzi a me, i suoi occhi grandi e confusi spaziano per tutto il parcheggio per poi fermarsi nei miei:«Edward, perché siamo a Dartmouth?»



BELLA- Ennio Morricone - "Love Theme" - from "Cinema Paradiso"



Dartmouth.
Questa era la nostra destinazione.
Il rumore delle mie scarpe sulla ghiaia del vialetto mi rammenta che stiamo camminando, che non siamo più in auto, e che Edward mi sta conducendo verso gli edifici del college.
Mi lascio trasportare dalla sua presa sicura sulla mia mano.
Non è molto tempo che manco da questi viali, ma mi sembrano trascorsi secoli.
Ma che ci facciamo qui?
«Ehi, ma che ci facciamo qui?» chiedo ad alta voce, affrettando un po’ il passo per affiancarlo. Ruoto completamente il capo verso di lui e punto i miei occhi sul suo viso.
Sta sorridendo, mi pare.
Continuiamo a camminare a passo sostenuto. Dopo un minuto, lo tiro un po’ verso di me nel tentativo di farlo procedere con più lentezza:«Edward … » ansimo «rallenta, ti prego».
Si ferma di botto:«Perdonami Bella» e alza una mano per carezzarmi la guancia «mi sono lasciato … prendere dall’entusiasmo».
E di nuovo, sorride.
«Ma vuoi dirmi che succede?!» chiedo con una punta di esasperazione.
Con un gesto elegante, Edward si fa da parte e dietro la sua figura scorgo un tabellone poggiato in terra dinnanzi all’ingresso principale, con un manifesto sopra.

“L’Mba della Business School Tuck di Dartmouth
presenta
Top Tech Toys 2002”
Oh.
Oh…
Oh, merda.
Resto così.
Immobile, come se mi fosse stato appena rovesciato addosso un secchio d’acqua gelata.
Il cervello comincia a lavorare freneticamente.
La presentazione.
Un vago ricordo di una telefonata di Helèna, mi suggerisce che questa cosa l’avrei dovuta sapere, che lei mi aveva avvertito e anzi mi aveva anche pregato di parteciparvi.
Ovviamente non poteva sapere che con buone probabilità, non sarei sopravvissuta nemmeno al Natale.
Oggi c’è la presentazione dei progetti del nostro gruppo.
Oh, no. Mi correggo. C’è la presentazione dei progetti del gruppo a cui io appartenevo.
Con gli occhi puntati sul manifesto, mi rendo appena conto delle dita gelide di Edward sulla mia guancia.
E non so se mi sta parlando, perché il vuoto sembra essersi fatto intorno a me e dentro la mia mente.
No.
Comincio a scuotere piano il capo e istintivamente faccio un passo indietro, gli occhi ancora fissi davanti a me.
La mano di Edward scende e cerca di trattenermi per la vita, ma un altro passo indietro mi permette di sfuggire alla sua presa.
«Bella?» la sua voce è cauta, appena un sussurro.
Come un automa i miei occhi si muovono nella sua direzione.
Mi fissa, intensamente. Nel suo sguardo vi leggo stupore, e sì … anche preoccupazione:«Cosa c’è che non va?» mi chiede piano, le mani leggermente discostate dal corpo, i palmi rivolti verso l’alto.
Lo osservo a lungo, in silenzio.
Sposto lo sguardo un attimo sul manifesto, poi nuovamente su di lui.
«Io …» chiudo gli occhi per un momento, scuoto il capo una volta soltanto.
«Mi dispiace. Non posso».
Mi giro e comincio ad allontanarmi a grandi passi.

EDWARD -Vanessa Carlton - Ordinary Day Lyrics


Sono più di cento anni.
Cento anni a questa parte che nessuno, nessuno mai mi ha preso alla sprovvista.
Fino a che non ho conosciuto Bella, ed il mio mondo, l’eterno, immobile, perenne crepuscolo che è stata la mia vita, non si è improvvisamente acceso di milioni di sfumature di colore, di luci, di emozioni.
Mi occorrono dieci lunghissimi secondi per capire che Bella sta andando via.
«Bella!» la chiamo, ma lei non si gira. Non rallenta neppure.
Mi affretto a seguirla. L’affianco.
«Bella. Si può sapere che ti prende?» cerco di controllare il tono della voce, sforzandomi di non apparire impaziente o brutale.
Odio non sapere quello che le passa per la mente.
«Niente» risponde secca «voglio andare via» e continua a camminare, lo sguardo fisso davanti a sé.
Stringo le labbra … odio ancora di più quando è evidente che qualcosa la turba, ma fa di tutto per nascondermelo.
Inspiro profondamente, riporto lo sguardo su di lei.
«Fermati un attimo, parliamone» le dico, cercando di essere condiscendente e mantenendo il suo passo, decisamente sostenuto per i suoi standard.
«Non c’è niente di cui discutere. Voglio andarmene. Punto» ribadisce, candidamente.
«Ok. Va bene. Ma almeno rallenta. Rischi di inciampare» le suggerisco in tono vagamente allusivo.
E lei si ferma, lanciandomi uno sguardo di fuoco:«Non inciamperò, Edward Cullen» e alla determinazione nella sua voce mi si distende di riflesso un sorriso mentale che evito di far affiorare alle mie labbra.
Credo davvero che non lo apprezzerebbe in questo momento.
Ma almeno adesso ho la sua attenzione, e la mia mente lavora velocemente per afferrare il motivo del suo comportamento così strano, così oscuro.
«Pensavo ci tenessi a questo progetto» continuo sullo stesso tono, calmo, controllato, perplesso ma molto cauto.
Ho necessità di capire, di farla parlare, non di irritarla e farla chiudere ancora di più in se stessa.
«Ci tenevo … prima» mormora lei, corrugando leggermente la fronte.
I miei occhi si restringono e lei abbassa i suoi, imbarazzata.
«Prima?» le chiedo, perplesso.
Annuisce brevemente con il capo.
«Prima di cosa?» incalzo, avanzando in maniera impercettibile verso di lei.
Resta in silenzio, ma si muove a disagio sui suoi stessi piedi. Questo discorso non le piace. E’ nervosa, il suo cuore batte veloce, il suo respiro è affrettato.
E, chiara come non mai, del tutto inaspettata, mi arriva una percezione del bambino.
Trattengo il respiro, acuisco tutti i sensi. E, d’un tratto, un suono mi colpisce come uno schiaffo: la mia voce che chiama Bella. Un sussurro inafferrabile, lontano, basso, il tono attutito, ovattato. Come se provenisse da sott’acqua.
O come se fosse arrivato sott’acqua.
Sono ricordi di voci.
Sono i ricordi del bambino.
Quelli che ha accumulato indirettamente attraverso le esperienze di Bella. I suoni, i discorsi che lei ha udito e che in qualche modo sono giunti anche a lui. Come è possibile? La placenta … lo isola completamente … penso frastornato.
“Bella” sussulto alla voce flebile che risuona nella mia testa “Odiami. Odiami e sii felice”
Corrugo la fronte.
E’ la mia voce. Distorta, quasi inudibile, ma è la mia. Sono le parole che ho detto a Bella quel giorno alla Rauner … anche allora Bella fuggiva via da me.
Un senso di disagio, di nervosismo, di soffocamento accompagna questa percezione.
Paura.
Mio figlio ha paura. Come Bella, quel giorno alla Libreria Rauner.
«Bella» e mi avvicino cautamente di un altro passo «non agitarti, ti prego» i suoi occhi si alzano nei miei, ansima senza rendersene conto «se lo fai, si agita anche lui» con la mano indico in basso, verso il suo ventre.
Batte rapida le palpebre, e, con un gesto istintivo, porta la mano destra sulla sua pancia, mentre il suo sguardo resta fisso nel mio.
Ha paura. Anche lei.
Ha paura di me? Mi chiedo con un nodo alla gola.
Senza perdere il contatto visivo, mi accosto ancora un po’. Il suo battito rallenta impercettibilmente.
Con delicatezza avvicino la mia mano fino al suo ventre, scostando il bordo del cappotto e scivolo lentamente sulla seta sottile dell’abito. Le mie dita scorrono sul tessuto teso, fino ad incontrare quelle di Bella, verso cui mi faccio strada, intrecciandole nelle mie.
E’ quasi istantanea la sensazione di benessere che sento pervadermi e che sono conscio provenire da più fronti: è il mio piacere nello sfiorare la pancia di Bella; il suo piacere nell’essere toccata da me, evidente dai suoi occhi lievemente socchiusi; il piacere del bambino, puramente istintivo e primordiale.
Tranquillità.
Sorpreso, mi faccio sommergere ancora da altre voci mentali, basse e lontane, quasi inafferrabili che i ricordi del bambino formano nella mia mente. Voci impalpabili, le nostre, di un paio di settimane prima: “… ti sei addormentata mentre finivo di aggiungere le ultime decorazioni …” e la sensazione di piacere che questa eco richiama mi invade con prepotenza.
Anche allora, accarezzavo il ventre di Bella, mentre lei dormiva sul divano di fronte all’albero.
E capisco che è il bambino, di nuovo, che sta rievocando quella sensazione associandola a questo momento in cui la mia mano accarezza lui e mia moglie contemporaneamente.
Sta formulando dei pensieri istintivi sulla base dei suoi unici ricordi.
In qualche modo, in questo momento, mi sta parlando.
Avverto chiaramente il respiro di Bella farsi più lieve, meno ansante.
Lascio che la mano libera le avvolga la vita e con una leggera pressione le massaggio la schiena tesa.
«Sta tranquilla, Bella» inclino il capo, sussurrandole all’orecchio.
I suoi occhi si chiudono per un istante e automaticamente il suo viso si avvicina a me, al mio petto.
Nei viali di Dartmouth, mentre studenti frettolosi ci passano intorno lanciandoci sguardi curiosi e saltuariamente, pensieri incuriositi, aspetto che le persone più importanti della mia vita siano restituite alla serenità e alla calma.
E mi sento colpevole.
Senza che nemmeno sia messo al mondo mio figlio sa già cosa siano il dolore e la paura. E lo sa grazie a me, a causa di quello che ho fatto soffrire a sua madre in tutto questo tempo.
E lei, poi … Bella non ama le sorprese. Non ama essere al centro dell’attenzione.
Portarla qui non poteva che inquietarla.
Mentre epiteti impronunciabili prendono forma nelle mia testa e si accostano naturalmente al nome di Alice, Bella tira un profondo respiro.
«Stai bene?» sussurro tra i suoi capelli, mentre il suo viso poggia ancora sul mio petto.
Annuisce, strofinando la guancia contro la mia camicia.
La scosto leggermente e con un dito le alzo il mento in su, in modo che i suoi occhi non mi siano più preclusi.
E il suo sguardo … la differenza con quello della Bella che in auto discorreva argutamente con me è lampante.
E’ lo sguardo che tante volte è passato sul viso di mia moglie in questi mesi, lo sguardo di chi teme, di chi è incerto, di chi si sente a disagio e del tutto fuori luogo.
«Bella. Dì qualcosa, ti prego» mormoro, mentre le sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Mi guarda con quegli occhi nocciola, dilatati e timorosi. Deglutisce e inspira profondamente, scuotendo il capo.
Non vuole entrare in quella sala. Chiaramente è a disagio.
Ed è spaventata, così come il bambino.
Eppure, era così entusiasta quando andava al college e frequentava quel corso … prima.
Ha detto che sì, lo era, ma … prima.
Prima di cosa?
Prima …
«Vieni, ti porto a casa» decido, interrompendo il corso dei miei pensieri e concludendo che nulla vale il turbamento di mia moglie e di mio figlio.
La stringo a me e inizio a dirigermi verso il parcheggio.
Quasi vicino all’auto, Bella si ferma improvvisamente ed io con lei. Si volta verso di me e mi punta uno sguardo timoroso dritto negli occhi:«Ti ho … deluso?» chiede con la voce talmente bassa e roca da essere appena percettibile.
Spalanco gli occhi e mi porto completamente di fronte a lei in un battito di ciglia:«Ma cosa stai dicendo?» le chiedo sconvolto.
«Io … » deglutisce e corruga la fronte. Si schiarisce la voce e prosegue «volevi che andassimo alla presentazione … e adesso il mio comportamento ti dispiace» emette un breve sospiro «non negare. Tanto ti si legge negli occhi» termina con la voce incrinata.
«Bella, ascoltami bene» sento la mia voce dura e le porto entrambe le mani ai lati del viso, incatenando il mio sguardo al suo «io ti amo» mi fermo un attimo osservando intensamente la profondità di quei due diamanti nocciola «Trascorreremo la vita insieme … l’eternità se lo vorrai. E questo non cambierà mai, qualunque cosa fosse mai accaduta lì dentro. Se nel mio sguardo scorgi un velo di inquietudine è solo perché sono preoccupato per quello che accade qui, non lì» e con delicatezza le poggio una mano sul suo petto, all’altezza del cuore, mentre con il capo indico l’edificio principale del college.
I suoi occhi diventano lucidi e prende un respiro profondo.
«Sapere che sei turbata, che siete turbati … questo è ciò che mi dispiace. Ogni volta che ho creduto di agire per il tuo bene, senza tenere in debito conto le tue necessità, ho sbagliato, Bella» mi fermo solo per riprendere fiato «Troppo volte non ti ho ascoltata, ma adesso … da adesso faremo come desideri e non devi giustificarti o preoccuparti per quello che penso io. Prima che te ne renda conto sarai a casa, nel tuo letto» appoggio la mia fronte alla sua «Non voglio altri rimpianti nella mia esistenza. E non voglio che tu soffra ancora».
Senza attendere risposta da parte sua, faccio scattare a distanza le serrature delle portiere ed apro quella dal suo lato.
Attendo che si avvicini per salire.
Ma lei, resta ferma.
E mi guarda.
«E rimorsi?» mi chiede in un sussurro.
La fisso di rimando, confuso.
«Hai detto che non vuoi altri rimpianti nella tua vita, ma rimorsi … ne hai?» incalza lei ed il suo tono è leggermente diverso, basso, ma fermo.
Resto a pensarci un attimo, la fronte corrugata: «Solo uno» mormoro.
Trattiene il fiato, mentre mi guarda, in attesa. Raddrizza le spalle, alza il mento:«Avermi conosciuta?»
Le labbra mi si incrinano in un sorriso appena accennato. Scuoto il capo:«Averti lasciata».
Non appena pronuncio queste parole, il viso di Bella di distende e sulle sue labbra si dispiega un ampio sorriso:«Anche io penso che non voglio rimpianti nella mia vita» dice «credo che sia meglio agire e sbagliare, piuttosto che fuggire via. Io penso che … preferisco i rimorsi».
«E ne hai qualcuno?» chiedo a voce bassa.
«Solo uno» mormora lei dopo una lieve esitazione.
Lancia uno sguardo verso gli edifici del college. Gli occhi le brillano.
«Avermi conosciuto?» aggiungo, roco.
Sorride:«Aver rinunciato, quasi sempre».
Una nuova determinazione le anima il volto e sussurra lievemente:«Ok» si volta verso di me e, poi, aggiunge «le piacerebbe accompagnarmi ad una presentazione, Mr. Cullen?»
Cento anni.
E nessuno era mai riuscito a sorprendermi.
Fino ad ora.



BELLA -Trading Yesterday - Shattered (MTT Version)

La sala congressi è enorme.
Appena entriamo sento il tepore dell’ambiente riscaldato sul viso e un soffuso chiacchiericcio giunge alle mie orecchie.
Ovunque, persone.
Tante persone.
Sedute nelle poltroncine di velluto rosso scuro, in piedi in ogni angolo libero della sala.
Sono studenti, ma anche gruppi più maturi che discutono sommessamente fra loro.
E sono tutti vestiti elegantemente.
Come se fosse davvero una cerimonia importante.
Deglutisco rumorosamente e liscio una ciocca di capelli, sistemandola dietro l’orecchio.
Ecco … proprio il genere di situazioni che fanno al caso mio, penso con una punta di allarmismo.
«Non essere nervosa» sussurra Edward al mio fianco.
Gli lancio una breve occhiata e lui mi osserva, tranquillo.
«Non lo sono» ribatto flebilmente.
«Invece sì» rettifica aprendosi in un sorriso smagliante «Ma è più che naturale» e mi offre il braccio, galantemente, per procedere lungo i corridoi laterali e portarci in avanti.
Le prime file sono semivuote, non saranno più di una ventina di posti.
Davanti a loro, un palco.
Subito dietro di esse noto alcune persone sedute, con dei blocchetti tra le mani, come se stessero preparandosi per prendere appunti e ai loro lati, in piedi, dei giovani che armeggiano con vari tipi di macchinari, treppiedi, telecamere.
Oh, merda … ma quelli sono … fotografi!
Mi lascio condurre da Edward verso due poltroncine libere e praticamente sprofondo in una di esse.
Lo sento al mio fianco, ridere sommessamente e mi volto verso di lui, perplessa:«Cosa c’è di divertente?»
Lui scuote il capo e inclinandosi verso di me, sussurra piano:«Te lo spiego dopo. Occhio, c’è qualcuno per te».
E, infatti, meno di due secondi dopo una voce familiare prorompe in un’esclamazione estasiata:«Bella!»
Assieme alla mia testa se ne voltano almeno altre dieci e sento le guance già ardermi.
Helèna trotterella verso di noi, trascinando per una mano una donna incredibilmente somigliante a lei. Inchioda i suoi tacchi a spillo con tale forza sul pavimento, chiaramente non il suo abituale look, da farmi temere che da un momento all’altro uno dei perfidi stiletti possa spezzarsi e farla cascare rovinosamente a terra.
Cerco di alzarmi maldestramente dalla poltroncina, ma Edward mi posa una mano sulla spalla, invitandomi con delicatezza a non compiere sforzi. Nello stesso istante, invece, si alza lui, prendendo la mia mano tra le sue e sorride cortesemente in direzione delle due ragazze che stanno sopraggiungendo.
Noto con chiarezza Helèna lanciare uno sguardo affilato ad Edward, scendere verso le nostre mani intrecciate e risalire al mio viso, scrutandomi negli occhi.
Appena mi è vicina, si ferma.
E’ lievemente ansante.
«Bella, che gioia rivederti! Ce l’hai fatta a venire!» esclama raggiante, e si abbassa per darmi un formale bacio sulla guancia, ma dopo un attimo, trasportata dall’entusiasmo lascia via ogni esitazione e mi abbraccia calorosamente.
Abbandono la mano di Edward per ricambiare la stretta della mia amica.
Gli occhi cominciano a pizzicarmi e mi rendo conto, d’un tratto, che Helèna mi è mancata terribilmente.
Mi mordo il labbro inferiore che ha preso a tremare e batto le palpebre un paio di volte. Quando lei si stacca da me, scorgo nei suoi occhi la stessa, identica commozione che deve esserci nei miei.
Si riscuote quando mio marito fa scivolare la mano sulla mia spalla sfiorandomi la nuca in una leggera carezza e contemporaneamente la saluta.
«Ciao Helèna» dice, cortese.
«Edward» fa un cenno lei, aggrottando leggermente le sopracciglia, prima di voltarsi verso la donna al suo fianco e dire con orgoglio:«Lei è Abby, mia sorella. Abby, la mia amica e suo marito».
La ragazza allunga la mano prima verso Edward, e poi verso di me, con un ampio sorriso sulle labbra, indugiando in una stretta ferma e sicura:«Bella, è un vero piacere fare finalmente la tua conoscenza».
«Grazie, anche per me» ricambio con un sorriso sincero.
La fantomatica sorella di Helèna …
Sento la mano di Edward sulla mia spalla farsi impercettibilmente più forte e la sua voce, udibile solo a me, che sussurra, perplesso:«Gran Canyon?» ed io  mi volto un secondo a guardarlo.
I suoi occhi sono divertiti e guarda in successione Helèna, sua sorella per poi fermarsi sul mio viso e strizzarmi l’occhio, complice.
«Che pancione!» esclama la mia amica allungando dolcemente una mano verso il mio ventre «Stai benissimo, Bella. Non ti ho mai visto così distesa»
Cominciamo a discorrere, Edward sempre fermo in piedi al mio fianco, la sua mano che mi massaggia dolcemente la spalla. Dopo l’iniziale tentennamento, anche Helèna sembra essersi rilassata e non lancia più occhiate incerte ad Edward.
Prendo nota mentalmente di chiedergli spiegazioni a riguardo in un momento di maggiore calma, fino a quando il brusio in sala non inizia a diminuire, fino ad esaurirsi completamente.
Anche noi ci zittiamo.
Molte teste si voltano verso l’entrata in fondo e mi giro giusto in tempo per assistere all’entrata dei Cullen al completo. Inutile dire che una metà degli occhi dei presenti è su tutti loro, che incedono con grazia ultraterrena a coppie: Carlisle ed Esme, dietro di loro Alice e Jasper, e in ultimo Rosalie ed Emmett.
L’altra metà dei presenti, ha la bocca spalancata e fissa adorante Rosalie Hale come se fosse scesa direttamente dal paradiso.
Sorrido tra me, pensando che quella è la mia famiglia.
Helèna si raddrizza d’un tratto e si defila velocemente da noi, mormorando una scusa.
Il cuore mi si stringe al ricordo dell’ultimo ed unico incontro tra lei ed un membro di questa stessa famiglia: Alice. Ovviamente in questo momento Helèna si sentirà enormemente a disagio e con un vago senso di colpa mi rendo conto che in parte la responsabilità di questa situazione è anche la mia.
Sospiro.
Edward, sogghignando, riprende il suo posto al mio fianco. Lo fisso e con una leggera esasperazione gli dico a voce bassissima:«Posso sapere cosa hai da ridere?!»
Stringe le labbra sforzandosi di non cedere allo scoppio di ilarità, ed è rilassato, mentre afferra la mia mano, depone un bacio fugace sul dorso e mi dice:«Tu avrai anche tempo … ma io ho molto da fare … la tua amica, Bella, è molto coraggiosa» fa una piccola pausa, inclina il capo di lato ed aggiunge «Appena mi ha visto al tuo fianco ha pensato ad un tipo di tortura che nemmeno io conoscevo. Ti vuole molto bene», conclude.
“Tu avrai anche tempo … ma io ho molto da fare…”
Scavo nella memoria e ricordo che queste sono state le esatte parole che la mia amica ha pronunciato quando Alice è venuta a cercarmi al dormitorio e lei le ha impedito di vedermi.
Mi volto di scatto sgranando gli occhi  e lui mi fissa, divertito.
«Come fai a sapere queste cose? Le hai lette nella mente di Alice?» gli chiedo incuriosita.
Lui scuote il capo lentamente.
«Alla fine, un modo per leggere una parte dei tuoi pensieri l’ho trovato» e fissandomi con gli occhi ardenti, posa una mano sulla mia pancia, accarezzandola e sorridendo.
«Come?» sussurro sconcertata.
«Il nostro piccino a quanto pare è … molto in sintonia con te. E ha dei ricordi molto … vividi. I tuoi» conclude e la sua voce mi pare essersi incrinata per un momento.
Lo osservo ancora inebetita, incerta sulla reale implicazione delle sue parole.
Ma, d’altro canto, che il nostro bambino fosse speciale, l’avevo già capito …
Sto ancora pensando alle rivelazioni di Edward che qualcosa di ancora più sconvolgente accade proprio a pochi metri da me: Alice ed Helèna, perfettamente a loro agio, si abbracciano come due vecchie amiche.
Oddio … ma mi sono persa qualche anno di vita?
La mia bocca è ancora spalancata per la sorpresa, quando Edward si affretta a spiegare:«Non stupirti, Bella. Helèna ed Alice hanno scoperto di avere molte cose in comune … prima fra tutte, l’affetto nei tuoi confronti» aggrotta leggermente le sopracciglia «e qualcosa riguardo moda e … bambole?!» e si volta verso di me con un’espressione interrogativa quasi comica.
Ovviamente.
Solo una persona sopra le righe come Helèna avrebbe potuto avere interessi comuni ad una eccentrica come Alice. E poi …
Una lampadina si accende nella mia mente. Ma è naturale! Il progetto di Helèna! Alice deve averla aiutata con i suoi consigli in fatto di moda.
D’un tratto, sento un nodo stringermi la gola.
Io ho lasciato il mio progetto ad uno stadio avanzato, sì, ma non definito completamente. Ognuno dei componenti del gruppo ha avuto modo, tempo e  mezzi per curarne ogni dettaglio, mentre io … io ho rinunciato.
Oggi saranno presentati i loro prototipi e all’improvviso mi chiedo cosa realmente ci faccia io qui, in questa cerimonia.
Assistere al loro successo?
Anche, penso con serenità.
Come non essere felice per Helèna o per Francisco?
Hanno impegnato tutte le loro energie in questi lavori, lo so bene, e meritano il giusto riconoscimento.
Forse Joshua ha portato avanti le nostre idee. Magari non saranno più come avevamo stabilito insieme, ma è giusto che sia così. In fondo, ormai, si tratterebbe di un suo lavoro ed il pensiero che il suo impegno e la sua fatica non siano andati completamente sprecati nonostante il mio abbandono, mi fa sentire un po’ meglio.
Sempre che sia stato possibile realizzare nella pratica quelle che avevamo solo abbozzato come teorie.
Le persone cominciano ad accomodarsi.
La mia famiglia prende posto lateralmente, poco distante da noi, in una fila quasi vuota, dove possono restare tutti vicini. Noto ancora alcuni posti liberi al fianco di Jasper e mi volto verso Edward:«Possiamo sederci vicino agli altri se vuoi …» gli dico timidamente.
«E’ meglio che restiamo qui» mi risponde e al mio sguardo perplesso, aggiunge «il piccolo è sveglio» spiega con un’occhiata carica di affetto diretta alla mia pancia «e Alice sarebbe costretta ad allontanarsi se ci avviciniamo».
Annuisco, pensierosa.
Chissà se sarà ancora così anche dopo la sua nascita…
Da dove sono seduta ho una visuale completa di tutta la sala.
Mentre lancio un’occhiata fra i presenti, incrocio lo sguardo di Emmett che mi sorride e con due dita mi fa il segno della vittoria, ammiccando.
Gli rispondo con un cenno del capo e arrossisco come se fossi stata colta in flagranza di reato.
Decisamente Emmett guarda la vita attraverso un paio di occhiali tutto colorato. Per lui ogni cosa è un gioco. Ma il gioco in cui prova più gusto è mettermi in imbarazzo.
Improvvisamente mi ricordo del discorso in macchina fatto con Edward in merito ai boy-scout e non resisto alla tentazione di tirare io, per una volta, una frecciatina ben piazzata al mio fratellone orso.
Con il più angelico dei sorrisi, quindi, lo fisso.
Alzo la mano destra all’altezza delle spalle, l’indice, il medio e l’anulare tesi ed uniti verso l’alto, il mignolo ripiegato sotto il pollice, il palmo in avanti.
Tre giovani, una ragazza e due ragazzi seduti poco distanti da me, ma in linea d’aria con il filo immaginario che unisce i miei occhi con quelli di Emmett, seguono la direzione del mio sguardo e sorridendo, rivolti a lui, i tre imitano il mio stesso gesto.
L’universale saluto con cui si riconoscono gli scout di tutto il mondo.
Vedere congelarsi il sorriso di Emmett, sentire con chiarezza lo scampanellio delle risate di Alice e di Rose, nonché di Esme in maniera più soffocata, e persino di Carlisle e di Jasper, sempre così seri e compiti, non ha prezzo.
Quando mi raddrizzo sulla poltrona, sono la soddisfazione fatta persona.
Ma la sensazione di trionfo è di breve durata, quando mi rendo conto che la cerimonia sta per avere inizio.
Sul palco, sono disposti in ordine cinque colonnine, coperte da altrettanti drappi neri fino a metà della loro lunghezza.
Cinque, non sei. Penso frastornata, un po’ dispiaciuta, ma forse anche … sollevata?
Le voci in sala aumentano in intensità per un breve attimo per poi scemare fino a spegnersi completamente. Le poltrone al nostro fianco sono ancora semivuote.
Noto che i componenti del nostro gruppo di lavoro non ci sono tra i presenti in sala.
Nemmeno più Helèna.
Abby, sua sorella, è seduta sola, qualche poltrona leggermente più distante da noi.
Improvvisamente fa il suo ingresso il professor Jensen.
Raddrizzo il capo come se avessi ricevuto uno schiaffo e dopo un breve secondo Edward si irrigidisce. Me ne rendo subito conto dall’impercettibile aumento della sua stretta sulla mia mano.
Forse trattiene anche il fiato. Io lo sto facendo, penso, frastornata.
Non appena il professore comincia a parlare, Edward sembra rilassarsi. Di riflesso, mi rilasso anche io.
«Signori buongiorno» esordisce e la sua voce è proprio come la ricordavo: profonda, calda, diretta. Sussulto, avvertendo un movimento nel mio ventre e in un battito di ciglia vedo già il palmo aperto della mano di Edward, scivolare con delicatezza sul tessuto del mio abito e carezzarmi la pancia in movimenti circolari. Quando mi volto a guardarlo, noto che è perfettamente a suo agio, rilassato, e fissa il palco, ascoltando le parole di Jensen con attenzione, come se niente lo potesse distogliere da questa occupazione e come se, accarezzarci, fosse la cosa più naturale del mondo.
«Vorrei innanzitutto ringraziarvi per essere intervenuti a questo evento a cui tengo particolarmente» e i suoi occhi si puntano con insistenza e con una scintilla di sfida nella prima fila, quella dove sono seduti tutti i pezzi grossi di Dartmouth, a cominciare dal Rettore per finire ai rappresentanti del consiglio di amministrazione «disperavamo di riuscire in questa impresa e non vi negherò che ci sono state molte difficoltà da affrontare per poter essere qui oggi» abbassa gli occhi su un foglio e noto chiaramente un sorrisetto sardonico distendergli le labbra.
Mentre il professore continua nel suo discorso, mi soffermo a guardarlo. Mentre tutti i membri importanti del College sono in abiti eleganti, sorprendentemente lui è in jeans. Scuri, ma pur sempre jeans. Unico segno d’eleganza è la giacca nera su una camicia immacolata. E non indossa la cravatta.
Rifletto tra me e me pensando a quanto deve essere refrattario alle formalità quest’uomo.
E quanto deve essere ostinato, anche.
In alcune delle nostre iniziali riunioni aveva accennato al fatto che volessero chiudere il Tuck’s Center for Digital Strategies, ossia il centro di rilevanza internazionale di cui è responsabile. E, in seguito, aveva anche parlato di un tentativo di boicottaggio nello stanziamento dei fondi per il Centro e del coinvolgimento di industriali di dubbia moralità …
Il mio sguardo si sposta da lui fino a passare lentamente in rassegna le schiene dei “grandi” di Dartmouth, nella primissima fila, tutti composti, attenti, con il capo leggermente alzato verso il palco e mi chiedo chi tra loro sia l’individuo compiacente contro cui, se pur per breve tempo, ho lottato inconsapevolmente anche io.  
Presto, la voce del professore diventa solo un sussurro, mentre con la mente ritorno al nostro ultimo incontro nel suo studio … a quel bacio rubato ...
Il solo ricordo basta per mandarmi le guance in fiamme e farmi sentire profondamente a disagio.
Certo che è un uomo ostinato … e a ben guardare, senza nemmeno troppi scrupoli.
Istintivamente lancio un’occhiata ad Edward e noto che è sempre nella stessa identica posizione. Lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato … troppo concentrato.
Le labbra sono strette tra loro e posso quasi vedere la sua mascella serrata.
Arrossisco ancora di più.
Se è vero che riesce a leggere i miei ricordi attraverso il filtro della mente del nostro bambino, allora non potrà non leggere quel ricordo in particolare. Ma leggerà anche il senso di disagio e di fastidio che ho provato.
Con più sicurezza mi giro a guardarlo. E quando con un sospiro, infine, cede e si volta verso di me, ritirando la sua mano dal mio ventre, non ho paura di sostenere il suo sguardo.
Restiamo a fissarci per dei lunghissimi, interminabili istanti.
I suoi occhi, scuri, profondi, seri sembrano volermi scandagliare l’animo.
E, poi, sorride.
«… ma credo che non sia il caso di indugiare oltre e quindi passerei direttamente al motivo per cui siamo tutti qui riuniti oggi» la voce di Jensen cattura l’attenzione dei giornalisti alle nostre spalle che si raddrizzano nelle loro poltrone e dei fotografi che direzionano gli obiettivi delle loro macchine verso il centro del palco.
Edward continua a tenere lo sguardo su di me e quando faccio spallucce il suo sorriso si accentua ed inclina il capo verso il mio, deponendo un leggerissimo bacio sulle mie labbra.
Si raddrizza nuovamente volgendo lo sguardo al palco e riprende ad accarezzarmi la pancia, in un massaggio rilassante e tranquillizzante.
Edward sembra davvero vivamente interessato alla presentazione.
«E’ nota a tutti l’importanza del Tuck’s Center for Digital Strategies, un organo totalmente imparziale ed obiettivo per ciò che riguarda l’impatto della tecnologia digitale sull’attuale mercato internazionale» e non credo che la scelta dei due aggettivi per descrivere il Centro sia stata casuale.
Edward mormora qualcosa a volume bassissimo ed io ruoto il capo nella sua direzione.
Il suo sguardo saetta per un breve istante in prima fila, mi sembra che si fissi su un anonimo signore in un completo grigio dall’aria molto distinta e apparentemente innocua.
«Purtroppo è noto come l’attuale crisi del mercato internazionale, ma soprattutto dell’America del Nord, abbia  costretto colossi del settore dei giocattoli a chiudere i battenti. Quest’anno, miei cari signori, sarà l’anno dell’innovazione e della creatività » fa una breve pausa e prosegue «Il nostro Centro si è proposto di individuare quei giochi che utilizzino la tecnologia più avanzata per stimolare la fantasia dei bambini che esplorano sempre di più il mondo digitale, ma che non traducano la creatività e l’innovazione in un aumento significativo dei costi di produzione».
Il silenzio in sala è totale.
«Dall’analisi del mercato attuale, è stato evidenziato, infatti, che la maggior parte dei giocattoli che utilizzano la tecnologia digitale ha un costo improponibile per la famiglia americana media. L’Mba della Business School Tuck di Dartmouth, con il prezioso aiuto del Dipartimento di Ingegneria, è lieta, quindi, di presentarvi Top Tech Toys 2002 …» fa un passo indietro e si volta in direzione di un lato del palco, da cui, in fila, cominciano ad avanzare i cinque: Francisco, Mia, Charles, Victor, Helèna.
Rivederli, tutti insieme, mi fa uno strano effetto.
Ma non posso negare che non trovarmi lì sopra, al loro fianco, in realtà non è che mi dispiaccia , poi, tantissimo …
I cinque avanzano fino al centro del palco e, intanto, Jensen li presenta alla platea uno ad uno, spiegando la formazione del gruppo ed il loro ruolo all’interno del progetto.
Quando arriva a Vik, impettito in un abito dall’aria costosissima e con un’espressione spavalda e trionfante, provo una repentina sensazione di fastidio. Potrà appartenere anche alla famiglia più facoltosa della Virginia, ma resta ugualmente l’essere più viscido che ho avuto il dispiacere di conoscere.
Forse non proprio il più viscido … diciamo che è un testa a testa con Mia.
Scivolo rapidamente anche sulla figura di quest’ultima, la quale mi regala la stessa, identica sensazione di disagio dell’amico.
Jensen presenta infine Francisco ed Helèna.
Il primo non riesce a star fermo un attimo: si sbottona la giacca, poi la riabbottona; si stringe il nodo della cravatta, poi lo allenta un pochino. Helèna, invece, ondeggia da ferma sui suoi tacchi come se lo spostamento d’aria provocato dal parlare di Jensen rischiasse di farle perdere l’equilibrio da un momento all’altro.
Dire che sono emozionati è davvero un eufemismo e mi ritrovo ad emozionami insieme a loro.
«… lascio, dunque, a questi signori l’onore di presentarvi i loro prototipi. Grazie» e fa qualche rapido passo sul lato destro del palco, lasciando la parola ai miei colleghi, che, uno alla volta, si dispongono alle spalle di una delle cinque colonnine.
La prima a parlare è proprio Helèna.
Si schiarisce la gola, prende un bel respiro e tira via il drappo dal suo piedistallo.
Sorrido immediatamente. So già di cosa si tratta e mi appresto ad ascoltare la spiegazione della mia amica.
«Questo lavoro prende spunto da una mia segreta passione: la moda» Prende tra le mani due bamboline di legno.
«Questo è il Deluxe Magnetic Dress-Up e loro» alzale bamboline verso l’alto e le mostra alla platea «sono Abby ed Emma» dice e contemporaneamente a lei mi ritrovo a lanciare uno sguardo a sua sorella Abby, poco distante da dove sono seduta io.
Abby non è stupita. No, di più. A bocca spalancata, è totalmente incredula.
La mia amica continua:«Il gioco non è altro che una nuova versione delle bamboline di carta e dei loro vestiti. Un set di elementi d’abbigliamento da combinare tra loro,  per inventare nuove camicie e pantaloni, o un abbigliamento sportivo del tutto innovativo, con parti di vestiti e accessori da accostare sulle bamboline di legno. I pezzi si incastrano tra loro per forza magnetica. Non sono necessarie batterie, né corrente. E’ un gioco pensato per bambini dai 3 ai 6 anni, e la versione più piccola costa sette dollari».
Helèna prende fiato tutto in una volta, avendo parlato a raffica e si volta un attimo verso il professore che le fa un cenno del capo in assenso. Si riporta con lo sguardo alla platea ed aggiunge:«Permettetemi di ringraziare la mia famiglia, a cui è dedicato l’intero progetto e … una cara amica, Alice Cullen, per i preziosi consigli sugli abbinamenti. Grazie».
L’uditorio al completo erompe in un applauso e i fotografi scattano varie istantanee del gioco e della sua ideatrice che sorride imbarazzata.
Man mano vengono presentati tutti i progetti.
Il prototipo di Francisco si chiama Mega Bloks Magnext Deluxe. E’ un sistema di costruzioni di pezzi magnetici e componenti di materiale plastico. I magneti e i componenti si collegano tra loro con delle palline. Si possono realizzare oggetti, riproduzioni di animali, di case, ma anche oggetti del tutto immaginari.
Seguono quello di Mia, il Barbie iDesign Ultimate Stylist, un modo per cambiare look a questa famosa bambola, dal guardaroba alla vita sociale, tramite un programma su CD-Room chiamato iDesign; quello di Charlie, l’Hasbro Playskool Honeybee Hop, ossia un gioco interattivo che crea il movimento di una semplice asta, intorno alla quale i bambini di tutte le età possono ballare, saltare, fare ginnastica, giocare in competizione tra loro, per esempio in una serie di saltelli a tempo di musica; e quello di Vik, l’Air Hogs Zero Gravity Micro Car, una macchina telecomandata che sfida la forza di gravità potendo camminare dappertutto, sensibile agli oggetti fragili davanti ai quali miracolosamente indietreggia e cambia strada. Una versione più evoluta delle infernali macchinette radiocomandate.
Ognuno di questi giochi non supera il costo di venti dollari.
In parole povere, una rivoluzione nel campo del gioco tecnologico.
Quando i giornalisti sono ormai in piedi, i fotografi accecano i miei colleghi con una serie impressionante di flash, Jensen si fa avanti con un sorriso trionfante sulle labbra.
«Signori, vi prego» dice e fa un gesto con la mano per tranquillizzare l’agitazione generale. Da ogni parte piovono domande, maggiori delucidazioni, richieste di previsioni dell’impatto dei Top Tech Toys sull’economia internazionale.
«Signori, calmatevi» ma il tono della sua voce tradisce l’intima soddisfazione derivante dall’entusiastica reazione dell’intero uditorio.
Gli unici a non muovere nemmeno un dito sono alcuni componenti delle prime file.
Paralizzati, è il termine che li descrive meglio.
«C’è ancora un altro prototipo da presentare» sobbalzo alle sue parole «ma lo farò personalmente».
Edward smette all’istante di respirare.
Dal lato destro, un ragazzo porge al professore una scatola quadrata di cartone.
«Sono pienamente soddisfatto del lavoro svolto da questi studenti. Il loro impegno e la loro dedizione sono stati encomiabili. Ragazzi» dice rivolto ai cinque «potete accomodarvi»e indica le poltrone in seconda e terza fila. Le uniche file semivuote.
«L’ideatrice di questo progetto ha avuto dei problemi di salute che l’hanno costretta ad un periodo di riposo. Ciò nonostante, il suo lavoro è stato portato a termine per volontà di un promettente ingegnere, Joshua Kyne, e … mia»
La mascella di Edward scatta, e un ringhio basso gli nasce dal petto.
Il mio respiro diventa un alito.
Oh, merda.
«L’originalità di questo prototipo deriva dalla genialità della sua ideatrice. »
Oh, merdissima.
Un gemito mi esce dalle labbra, mentre cerco di nascondere il tremito delle mie mani, lisciandomi lentamente un sopracciglio.
Ho annunciato all’inizio di quest’incontro che questo sarà l’anno dell’innovazione. Ebbene, qui» e con una mano batte sul coperchio dello scatolo «c’è il gioco che la rappresenta meglio e in maniera più emblematica».
Con lentezza, Jensen apre il coperchio e ne estrae un cubo.
Sembra un enorme dado, ma le pareti sono morbide, gli angoli smussati. Ed è colorato, ogni faccia ha un colore diverso, con impresso uno strumento diverso.
Le mie idee sono lì.
Il mio lavoro è lì.
Tutto in quel cubo, un cubo magico.
«Il nome di questo gioco è Munchkin Magic Cube. E’ destinato a bambini piccolissimi, dai sei mesi ai due anni. E’ fatto di un materiale solido, ma morbido e al tocco di una delle facce dove sono riprodotti i vari strumenti musicali, è possibile ascoltare delle melodie classiche» con una mano Jensen afferra il microfono e lo porta vicino al cubo, poi con un dito preme sull’immagine di un pianoforte e si attiva una melodia.
O, per meglio dire, si attiva la melodia.
La musica di Edward, stilizzata in semplici passaggi, risuona negli altoparlanti dell’intera sala congressi. Le note sono semplificate, ma la melodia è chiaramente la sua.
Il silenzio dell’intera sala, non fa che amplificare ancora di più l’effetto d’insieme.
«Le musiche sono state scelte dall’autrice del prototipo e riadattate per le nostre esigenze, ma sono composizioni inedite» continua il professore.
Con gli occhi sulle mie mani, penso che adesso Edward scoppia.
Scoppia e polverizza Eric Jensen.
Con l’angolo dell’occhio cerco di catturare un movimento delle sue dita poggiate sul bracciolo della poltrona.
Immobili.
«Abbiamo parlato di innovazione. Questo gioco la incarna pienamente, poiché propone il ritorno degli stessi bambini a giochi più semplici, nei quali la tecnologia non sia invasiva, bensì stimolante e costruttiva».
Un applauso scrosciante sovrasta l’ultima parola del professore, che lancia uno sguardo alla sala, determinato.
No, no. Minaccioso.
E dopo un istante mi trova. Trova i miei occhi e sembra che mi sorrida, pur senza aver fatto nessun movimento con le labbra.
«Se me lo permettete» e lancia uno sguardo ad Edward al mio fianco, impassibile e imperturbabile «vorrei presentarvi la studentessa a cui i vostri applausi dovrebbero essere realmente rivolti. Isabella, vorresti avvicinarti, per piacere?»
Oddio no … questo no, davvero.
Il respiro mi si mozza in petto quando mi rendo conto che tutti, ma tutti davvero, hanno puntato gli occhi su di me.
E allora mi volto verso Edward, in cerca di aiuto.
Scontrarmi con l’oro liquido dei suoi occhi rende le mie gambe ancora più deboli di come pensavo. Sono due ramoscelli secchi e non ce la farò mai nemmeno ad alzarmi, figuriamoci a camminare.
Ma la sua mano è già tesa verso di me e con grazia, mi aiuta ad mettermi in piedi.
Un altro applauso accompagna la nostra salita verso il palco.
Il mio braccio è intrecciato strettamente al suo, le mie dita sono incuneate nel suo palmo.
Quando siamo a pochi passi dal professore, sul palco, vedo meglio il prototipo fra le sue mani.
E’ proprio come lo avevo immaginato, penso rapita.
Decido di alzare lo sguardo, certa di scontrarmi con quello azzurro e deciso del professore, ma mi accorgo che, invece, è in corso una muta conversazione tra lui ed Edward.
E, scioccamente mi ritrovo a pensare che forse, se ci metto una mano in mezzo, magari quelli me la arrostiscono pure …
Senza lasciarmi, Edward fa ancora un altro passo verso di lui.
E poi, sorridendo, mi bacia una mano, indugiando un attimo sul dorso.
Lì.
Su un palco, sotto gli occhi di centinaia di persone.
«Isabella, prego» dice Jensen, e mi allunga un microfono.
Un microfono.
Io, con un microfono in mano.
Battole palpebre un paio di volte, il cuore che galoppa furiosamente lo sento fin nelle orecchie, e poi lascio la mano di Edward e prendo l’oggetto da quella del professore.
Mi schiarisco la voce e le parole cominciano a fluire con naturalezza, da sole:«Buongiorno» inizio serena, rivolta alla platea «sono onorata delle parole che il professor Jensen ha voluto riservare a questo lavoro e grata al consiglio d’amministrazione che ha scelto di finanziare l’intero progetto, permettendo a tutti noi studenti dell’Mba di impegnarci in un’esperienza nuova e gratificante».
Noto con stupore che la mia voce è calma e che gli occhi di tutti sono attenti.
Lancio un’occhiata ad Edward, qualche passo di distanza da me.
Mi sorride, sicuro.
Continuo, rivolta all’uditorio.
«Non ho altro da aggiungere alla dettagliata e lusinghiera presentazione del professore, ma desidero ringraziare una persona speciale» prendo un respiro profondo e deglutisco «è l’autore delle melodie che mi hanno ispirato e che sono state inserite nel prototipo da persone competenti e professionali come Joshua» non guardo verso Edward ma sento i suoi occhi riscaldarmi il viso.
«Sto parlando di mio marito, Edward Cullen» sussurro e la voce mi si spezza per un attimo «questo lavoro, lo dedico a lui. Grazie a tutti» e faccio un passo indietro, solo per sentire le mani di Edward circondarmi all’altezza della vita.
Tra gli applausi e i flash scendiamo dal palco. Ad ogni passo sento talmente tanti occhi su di noi che temo di cadere non per goffaggine, ma per il peso dei loro sguardi …
Ci riaccomodiamo sulle nostre poltrone, la mano di Edward sempre intrecciata alla mia, e la cerimonia prosegue, volgendo alla fine.
Nessuno di noi due parla.
Non ho il coraggio di guardare nessun componente della mia famiglia, mentre noto con la coda dell’occhio Helèna farmi dei cenni per attirare la mia attenzione. Invano.
«Stai bene?» mormora improvvisamente Edward al mio orecchio ed io sussulto.
Annuisco, ancora con la testa bassa.
Ma poi mi faccio coraggio e la alzo verso di lui.
Il suo sguardo è tranquillo, composto … ma compiaciuto.
«Cosa stai pensando?» gli chiedo, dopo un breve momento.
«A te. A noi. A tutti questi mesi» il tono della sua voce è basso, ma intenso. Chi ci osserva da fuori, potrebbe solo notare un innocuo scambio di frasi tra due amici, ma i suoi occhi ardono in questo momento, e le sue parole vibrano tra le sue labbra.
Scuoto il capo lentamente, e la sua stretta sulla mia mano aumenta.
«Qualunque cosa fosse accaduta qui dentro non avrebbe mai cambiato quello che provo per te. Anche adesso, come prima ancora di entrare Bella, sono e sarò sempre orgoglioso di te» sussurra carezzevole e gli occhi mi pizzicano, mentre lo ascolto.
Le dita della sua mano scivolano sulla mia guancia, fino a tracciare il bordo inferiore del mio labbro, quello dove c’è ancora una piccola cicatrice:«No amore mio, non devi più essere triste. Mai più. E grazie ... di tutto» e rapido si porta la mano che mi sta stringendo da quando siamo scesi dal palco alle sue labbra.
Non appena la cerimonia finisce, veniamo letteralmente sommersi da giornalisti, fotografi, semplici studenti. Fanno a spintoni per raggiungere i miei colleghi, ma i più si accalcano su me ed Edward.
Domande, flash, piovono da ogni parte e mi sento spaesata mentre alle mie orecchie arrivano i quesiti più disparati:
«A quale azienda ha deciso di vendere i diritti del prototipo?»
«Suo marito è un compositore?»
«Quando pensa che sarà commercializzabile il prodotto?»
La testa prende a girarmi vorticosamente e mi aggrappo al braccio di Edward, poggiando la fronte sulla sua spalla.
«Signori, per favore. Come avete potuto notare mia moglie è in avanzato stato di gravidanza e non è il caso di sottoporla ad ulteriori stress» la voce di Edward è calma ma gelida «vi pregherei di lasciarci passare e di non tartassarla di altre domande. Il responsabile del progetto sarà certamente in grado di fornirvi tutte le delucidazioni che vorrete».
Fa scivolare un braccio attorno alla mia vita e, senza troppe cerimonie comincia a farsi largo tra la calca.
Forse si sentono così i personaggi famosi quando vengono perseguitati dai paparazzi … penso confusamente.
E mentre ci allontaniamo una voce maschile, alta e quasi esasperata sovrasta tutte le altre:«Almeno ci dica il suo nome completo! Isabella …?» e gli altri si zittiscono, evidentemente anche loro interessati alla risposta della stessa domanda.
Sento il braccio di Edward farsi rigido sul mio fianco e un ringhio affiorargli dal profondo del suo petto, mentre fa per girarsi con uno sguardo omicida negli occhi.
Ma con una mano lo trattengo dolcemente.
Mi giro e rivolta ad un punto imprecisato del nugolo di persone che ci sta seguendo, rispondo:«No. Isabella era prima. Ora sono semplicemente Bella. Bella Cullen».


NOTA DELL’AUTRICE: Questo capitolo non ne voleva sapere di trovare una fine. Odio i capitoli troppo lunghi, ma non sarei riuscita a condensare tutte queste informazioni nemmeno con altri trenta mesi davanti a me per farlo. Se siete arrivati fino a qui senza addormentarvi meritereste un premio … una golden onion, per esempio ù.ù
Saluto degli scout
Il Top Tech Toys è reale, ma è datato 2008. Lo spunto per tutta questa macchinazione mi è venuto leggendo questo articolo . 
Naturalmente ho adattato la cosa alle mie esigenze narrative e ho modificato un po’ l’ordine universitario rendendo l’Mba un corso e non un prestigioso master post-universitario quale in realtà è. Ogni riferimento di questa fanfiction a nomi o fatti legati alla vera Dartmouth è puramente casuale.
Abby &Emma Deluxe Magnetic Dress-Up , il prototipo di Helèna.
Munchkin Magic Cube, il prototipo di Bella.
I credits per le canzoni vanno a @LauraSupertramp per Vanessa Carlton -A Thousand Miles (fortuna che ti svegliasti con questa canzone in mente*.*) e a @ dazzled_Vale per Trading Yesterday - Shattered (continuo a sostenere che sei un’artista*.*)
Ringrazio tutti voi, perdonatemi se non rispondo alle recensioni, ma credetemi, vi porto nel cuore uno ad uno.
Il prossimo sarà l’epilogo.
Grazie
M.Luisa







   
 
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