Capitolo
34° - Orgoglio e pregiudizio
GIORNO
DELL’INFEZIONE: 501°
POPOLAZIONE
MONDIALE INFETTA: - 44%
Non vedevo la pioggia da molto tempo.
Su Manhattan
non piove da molto tempo.
La foga del temporale si abbatteva sui
grattacieli distrutti e allargava le pozzanghere per le strade.
L’asfalto in polvere si mescolava al fango della terra nei
punti in cui le crepe s’insinuavano sotto il livello
calpestabile. I resti delle macchine arrugginivano, la maggior parte
dei lampioni erano spenti, mal funzionanti o distrutti, ridotti a
brandelli dove le battaglie tra gli Angeli e i portatori malati avevano
fatto danni. Era una rigida notte senza stelle e
l’oscurità inghiottiva ogni cosa. Il rombo dei
tuoni viaggiava per chilometri, preceduto dal bagliore giallastro che
di tanto in tanto illuminava le nuvole, facendole apparire ancor
più minacciose e possenti.
Attraverso la vetrata che ricopre
un’intera parete della mia stanza, assistevo a quello
spettacolo grandioso: madre natura aveva trovato la forza di ribellarsi
e con le armi a sua disposizione stava spegnendo anche gli ultimi
focolari di guerra troppo allungo rimasti accesi.
Se
c’è una cosa che infastidisce parecchio sia gli
infetti sia i cacciatori, è l’acqua piovana.
Be’, per noi che l’abbiamo scoperto quasi per caso
giusto poche settimane fa, non è affatto stupido o scontato
come traguardo. Quelle che dovevano essere normali piogge autunnali,
sono cominciate stranamente in anticipo solo quando il tetto di nuvole
rosse, cariche di virus e infezioni, si è spostato via da
New York sospinto dalla calda Corrente del Golfo del Messico che,
improvvisamente e con grande stupore dei meteorologi, ha cambiato
traiettoria diramandosi in queste zone. Da allora non ha fatto altro
che piovere, giorno e notte.
Sedevo a gambe incrociate sul materasso del
letto, spaziando con lo sguardo oltre il vasto spiraglio che le tende
davanti alla vetrata mi concedevano.
Ero vestita con abiti che riuscivo a stento a
riconoscere per il materiale di cui erano fatti: jeans fino alle
caviglie, un maglioncino con collo a “V” sopra ad
una t-shirt a doppie maniche. Scarpe comode, braccialetti, coda alta.
Sono i vestiti
coi quali ero uscita di casa quella sera che avevo tenuto William per
mano, diretti al nostro appuntamento al People con Susan. La notte che
aveva scritto il mio destino, la notte della mia vita.
Ricordavo ogni particolare, persino il modo in
cui erano vestiti Emmett, Lucy, Margaret, Harry e Phil, ma soprattutto
le parole precise con le quali Lewis Martin ci aveva iniziati alla
nostra missione. Ricordavo le urla, gli spari, e se mi sforzassi un
po’, sarei capace di descrivere i volti di tutte le persone
che, assieme a William e Susan, sono state ammazzate.
Dopo di allora si erano susseguiti giorni
l’uno più agitato del precedente.
C’erano state le cacce agli infetti, le mie fughe segrete
dalla base per accattare qualche bonus, le sfuriate con Emmett, le
missioni notturne nelle fogne per mangiarci a colazione qualche
cacciatore. E così via fino al primo incontro ufficiale con
Zeus. Dai nostri duelli, alle nostre strette di mano. La ricomparsa di
mio padre e la verità scoperta tra lui e Lewis Martin: un
legame di sangue che, pur di giovare ai loro scopi benefattori, mi
avevano tenuto nascosto.
Seduta sul mio letto, con indosso quegli abiti e
nella mente quelle immagini, ripensavo a molte altre cose, tutte quante
finalmente concluse.
Come quella serata al People, ricordavo nei
dettagli solamente un'altra notte della mia vita.
L’attacco alla Base Phoenix si era
concluso con un’unica grande vittoria: annientare Alex Mercer.
Dopo il mio risveglio erano cambiate molte cose.
Lewis e Mark mi avevano parlato a “sei occhi”
spiegandomi la situazione, partendo dal principio. La loro
giustificazione, ovvero l’unica delle altre 30 bugie che mi
inculcarono, era stata di aver agito per il bene comune, di essersi
guadagnati la mia fiducia e la mia alleanza per i loro scopi. Avevano
ammesso di aver perseguito il successo con mezzi spregevoli, negli
occhi di entrambi avevo trovato scritta la sincerità, ma
nonostante fossi sembrata apparentemente convinta delle loro parole, mi
ero alzata e allontanata dallo studio senza aggiungere altro. Avevo
esplicitamente chiesto del tempo per pensare. Del tempo per maturare
delle nuove opportunità, stabilire dei nuovi ideali, dei
nuovi obbiettivi.
Erano trascorse così diverse
settimane, durante le quali avevo preferito starmene per conto mio
nella mia stanza vedendo una persona ogni tanto.
E questa persona era Cole Turner.
-Emily- il Capitano aveva sussurrato il mio nome
entrando nella camera, una notte. Turner era rimasto allungo immobile
nell’oscurità, attendendo un qualsivoglia gesto
che gli desse il permesso di avvicinarsi ancora alla mia figura, che
aveva scelto di stare rannicchiata sul letto, con le spalle al muro e
le ginocchia strette al petto.
In quel momento non avrei voluto vedere nessuno,
nemmeno me stessa, ma sapevo bene che sarebbe stato
pressoché impossibile, a meno che, oltre allo specchio, non
avessi deciso di rompere anche la finestra a vetri, che nei momenti
più inopportuni si burlava di me, riflettendo la mia
immagine.
Mi ero voltata lentamente verso di lui,
pregandolo con lo sguardo di risparmiarsi le parole già
ascoltate da mio padre o il motivo per il quale lui e Andrius Walker
sembravano conoscersi affondo, ben oltre un rapporto generale-cadetto
che ero stata tenuta a credere. Ormai avevo la testa talmente piena di
menzogne, che avevo imparato a fare a meno della verità, ed
ero perciò capace di continuare a vivere senza. Piuttosto
avevo allargato le braccia e gli avevo fatto capire di avere ancora
bisogno di lui, nonostante tutto ciò a cui non volevo
credere, a partire dal fatto che fosse vivo.
Cole mi aveva sorriso in modo terribilmente dolce
e aveva acconsentito ad abbracciarmi, stringendomi con estrema
delicatezza, quasi avesse paura di rompermi come un delicato bicchiere
di vetro. Io, al contrario, mi ero artigliata al suo corpo piantando le
unghie sulla sua schiena e nascondendo una parte del viso
nell’incavo della sua spalla. Il suo cuore, che batteva lento
e regolare, si scontrava col mio che, nonostante le apparenze, mi
correva forsennato nel petto.
Quando l’avevo visto morire davanti ai
miei occhi nell’avamposto a Manhattan, circa un mese prima,
ero stata sicura che non avrei mai più potuto bearmi in quel
modo del suo calore, della sua presenza. Avevo faticato a ricordare il
sapore delle sue labbra, i brividi che mi davano le sue carezze. Ora
tutto questo era di nuovo a mia portata di mano, mi sarebbe bastato
schioccare le dita e come per magia sarei tornata ad essere una persona
capace di amare, e non solo desiderosa di ottenere vendetta.
Ma c’era ancora qualcosa che mi
fermava… qualcosa che insisteva col tenermi lontana da lui.
Anche quando il Capitano mi aveva baciata accompagnandomi distesa sul
materasso, ero rimasta ferma, in attesa, frenata da quel qualcosa che
premeva insistentemente nella mia anima.
Era la consapevolezza di non aver ascoltato,
visto e compreso tutto a dovere prima di giudicare. Avevo dato per
scontato che la situazione nella quale mi trovassi fosse quella
più giusta, più favorevole ad una causa
umanitaria, dimenticando o bandendo tutto il resto come il
più grande sbaglio della mia vita. Ma il più
grande sbaglio della mia vita era proprio quello: giudicare tale
ciò che mi annebbiava la vista, ciò con cui ero
stata battezzata, ciò che mi procurava piacere.
Non stavo semplicemente rivalutando Cole Turner
come l’uomo che non amavo, ma in me si stava arrampicando una
concezione ben differente di una visione più ampia che,
nell’insieme, costituiva il mio prossimo scopo.
Quella, e molte delle notti successive, era
successo ugualmente: io e Cole avevamo fatto l’amore, ma in
modo totalmente diverso da l’unica volta che eravamo riusciti
ad amarci, prima di inseguire assieme la nostra missione a Manhattan,
nella caccia a Zeus.
I giorni erano condensati in settimane, le
settimane in mesi. Dopo la grande vittoria su Alex Mercer, il Settore
Angels aveva fatto baldoria per un lasso di tempo che aveva visto gli
addestramenti sospesi e messo da parte la caccia agli infetti, in
angolo dell’agenda giornaliera.
Non avevo allungo fatto domande su Zeus o su cosa
gli fosse capitato successivamente alla sua cattura. Nonostante il mio
interesse nei riguardi di Alex stesse aumentando di giorno in giorno,
mi limitavo a tenere la mente impegnata o comunque isolata da tutto
ciò che avrebbe potuto darmi informazioni su di lui.
Non vedevo molto spesso né mio padre
né il resto della mia squadriglia. Come ho detto,
l’unico che di tanto in tanto veniva a farmi visita era il
mio Capitano, col quale finivo col trascorrere la notte quasi fosse
diventato un rituale forzato. Non sapevo se Cole facesse parola con
qualcuno di quella nostra relazione silenziosa. Mark Walker sicuramente
sapeva di me e Cole, ma probabilmente aveva faccende più
urgenti di cui occuparsi per potersi permettere di trascurare sua
figlia in quel modo. Dal canto suo, Cole era cosciente del fatto che
avevo bisogno di lui solo in quel modo, ma cominciava a sospettare che
prima o poi avrebbe dovuto riportarmi alla ragione.
Vivevo in una prigione di carta che avrebbe
potuto prendere fuoco da un momento all’altro. Le mie idee
sulla guerra, i miei ricordi, le mie speranze e i miei nuovi ideali si
stavano lentamente amalgamando come accade alla plastilina di vari
colori. Ciascuna sfumatura trova il suo posto accanto
all’altra, intersecandosi nella 3° dimensione come un
puzzle che non ha una forma e che, per tanto, riserva infinite
sorprese.
Una di queste sorprese fu scoprire, rinvenuta
dalla convalescenza dopo il trattamento del gas, di non possedere
più alcuno dei miei poteri da Angelo.
È
successo tutto molto in fretta, ma ricordo ugualmente come sono andate
le cose. Non è difficile immaginare quale e quanto sia stato
il mio sdegno nell’apprendere quella verità. La
mattina del 440° giorno dell’infezione mi ero
svegliata nella mia stanza, la stessa dove mi trovo ora, e dove
c’era mio padre seduto su una sedia accanto al mio letto,
attenendo che mi svegliassi.
Aperti gli occhi, l’avevo guardato
giusto un istante per poi tornare a chiuderli, desiderando ardentemente
che non fosse là.
-Emily, per favore, devo parlarti. È
importante- aveva detto serissimo.
-Come se non l’avessi
capito…- avevo brontolato con voce roca. Mi ero schiarita la
gola ed ero rimasta ad ascoltarlo per una decina di minuti. Mi aveva
parlato in modo un po’ riassuntivo del progetto ricerca di
Lewis, che consisteva nel far tornare “normali”
tutti gli Angeli in servizio, e sostituirne con dei nuovi. La camera a
gas dov’ero stata, nel giro di un trattamento intensivo 24
ore su 24, agiva all’interno del corpo sostituendo
temporaneamente le particelle infette nelle nostre vene con
dell’ossigeno. Questo dava il tempo e la capacità
necessaria per effettuare una trasfusione completa di sangue in pochi
minuti, ma il processo era ugualmente lungo.
Inizialmente ero senza parole, sorpresa di quella
che sembravo aver ricevuto come congeda, della quale non avevo discusso
burocraticamente con nessuno, a parte mio padre che, però,
non aveva aggiunto altro e aveva preferito che ne avessimo continuato a
parlare anche in presenza di Lewis. Fu allora che Mark mi
convocò nello studio di suo fratello, all’ultimo
piano della base, che raggiunsi subito dopo essermi vestita
un’ultima volta con l’uniforme che avrei indossato
solo quel giorno.
Mi ero guardata allungo allo specchio, prima di
uscire, spiando in quanto possibili tutti i dettagli del mio
abbigliamento. Ora che ero senza poteri, non sarei stata degna di
indossare quell’uniforme, avevo pensato, ma tanto valeva
provare a fingere che non fosse così. Avevo rinunciato in
partenza a tentare di sfoderare le ali dalla schiena, o a trattenere il
respiro senza aver bisogno di riprendere aria dopo meno di un minuto.
In più, sul petto avevo scoperto di avere il resto del colpo
fatale infertomi da quel militare la sera che mi ero svegliata nella
camera a gas, aspettandomi delle dichiarazioni che Lewis non mi avrebbe
mai dato.
Uscita dalla mia stanza, avevo camminato lungo i
corridoi a testa bassa, lanciando un’occhiata qua e
là dove la comparsa di vita attirava la mia attenzione.
Avrei voluto sapere dove fossero Lucy, Harry, Emmett e Phil e cosa
stessero facendo in quel momento, o più semplicemente se
anche a loro erano stati tolti i poteri. Non c’erano dubbi
che durante la traversata contavo meno Angeli di quanti ne ricordassi o
di quanti, in media, si spostavano per la base. Dopo lo scontro con
Emmett avuto prima di scoprire che avevano incubato Cole per farlo
tornare in vita, mi chiedevo che fine avesse fatto Matt e se, anche se
non era un Angelo, il settore sarebbe stato capace di riportare in vita
anche lui.
Una volta raggiunto l’ufficio senza
guardare in faccia nessuno, la segretaria mi aveva sorriso e mi aveva
scortato fin dentro il piccolo salotto, facendomi accomodare di fronte
a Lewis, che presiedeva dall’altro capo del tavolo, e al
fianco di mio padre, seduto sulla poltroncina accanto.
Mark mi aveva preso la mano e mi aveva sorriso,
nel frattempo che Lewis terminava un’importante telefonata.
-Sei contenta?- mi aveva chiesto Mark.
Io avevo annuito, mentendo, ovviamente. Ma
cos’altro avrei potuto fare? Negare e gridare ai quattro che
venti che preferivo di gran lunga fare a pezzi la gente e squartare le
persone come animali? Non era il caso…
Dico che è successo tutto velocemente
perché le parole spese da Lewis e Mark per raccontarmi la
“verità” che mi rifiuto di accettare
ancora ora, ma dalla quale sono schiacciata sempre più ad
ogni respiro, mi avevano fatto vorticare la testa portandomi quasi allo
svenimento. Era stato a quel punto che ero uscita dallo studio negando
a me stessa di credere alle cazzate sul superiore bene comune roba
varia da I Libro dell’Apocalisse.
-Il settore Angels è stato fondato per
un solo scopo- aveva detto Lewis. –Tutto il resto
è una copertura, Emily. Il Governo Americano ci finanziava
al fine unico di catturare e annientare Alex Mercer. Definitivamente-.
Avevo sobbalzato sulla poltroncina, senza
però darlo troppo a vedere.
-E a quanto pare, la missione è
conclusa- aveva sorriso Mark, guardandomi.
A quel punto avevo abbassato la testa.
-Una copertura, eh…- avevo riso
istericamente sotto voce. –Ho spacciato per morte persone che
voi davate per scontato sarebbero spuntate come funghi! Quelle persone
hanno sofferto, ma credevano nella loro causa lottando giorno dopo
giorno col virus in tutte le sue forme, anche quelle più
piccole. Hai davvero una bella faccia tosta a sfruttare così
le persone, zio- l’avevo fissato con rabbia, soprattutto dopo
averlo chiamato per la prima volta in tal modo.
Persino Mark al mio fianco era sembrato turbato
dalla mia reazione alle parole di suo fratello, che invece si era
limitato a mantenere un certo distacco.
-È una balla che ti sei inventato
anche quella di dirmi che ero speciale, Lewis? Dirmi che ero come lui?
Hai vomitato anche questa per mantenere la
“copertura”?- lo punzecchiai.
Martin sembrò irrigidirsi sulla
poltrona dietro la scrivania.
-Emily, adesso basta, non siamo qui per parlare
di questo- intervenne mio padre.
-No, papà, ti sbagli! Per quanto ne
so, non c’è altro di cui discutere- sibilai.
Lewis inarcò un sopracciglio.
–Vuol dire che accetti la tua congeda?-.
-Perché, ho forse avuto scelta?!-
eruppi balzando in piedi. –Anche quando mi davi la
possibilità di scegliere, c’era ugualmente la buca
in cui cadere, Martin! Mi hai usata, mi avete usata entrambi come una
marionetta!-.
Mio padre sembrava terribilmente dispiaciuto.
Lewis era un po’ il suo lato oscuro. Ma più notavo
le loro differenze, e più ingoiavo affondo la
realtà che fossero gemelli. Approfittando del silenzio che
si era creato, continuai più pungente.
-Avete mai provato a pensare che le persone
coinvolte nei vostri scopi hanno un cuore, un’anima e un
cervello pensante?! Non solo avete infranto almeno un centinaio di
diritti stabiliti dalla Costituzione dello stesso paese che servite con
tanto onore, ma presto o tardi vi ritroverete alle costole un folto
gruppo di persone con torce e forconi alle quali avete tolto una cosa
molto preziosa, per noi esseri umani- feci una pausa, guardando prima
uno poi l’altro gemello, ma dalle loro facce intuivo che
già sapevano le esatte parole che stavo per dire.
-La dignità-.
-Hanno servito il loro paese, come noi, Emily. La
dignità è ciò che non
mancherà loro, vedrai- intervenne Mark.
-Ne sei così convinto,
papà?-.
In quel momento avevo messo da parte i problemi
secondari alla causa per la quale stavo lottando. Difendere la
giustizia, la dignità, la libertà, i principi per
cui i veri militari americani morivano ogni giorno in mezzo al deserto,
era quello l’obbiettivo che aveva temporaneamente eliso tutti
gli altri maturati durante la conversazione.
Lewis e Mark, dopo quella sentenza da me
espressa, si limitarono ad informarmi che ero tenuta a rimanere alla
base ancora per qualche mese. Il tempo necessario perché
venissero bonificate le zone residenziali attorno all’isola
con un intervento militare. Mi comunicarono, inoltre, che poca della
gente che conoscevo era ancora in servizio.
-Emmet Word è stato trasferito nella
base ad Atlanta- aveva detto Lewis leggendo un fascicolo.
–Lucy Malcom ha accettato la congeda ed è tornata
a vivere con i suoi nonni nell’Oregon. Harry Brown ha scelto
di restare alla base ancora per un po’, finché non
otterrà il permesso di soggiorno per l’Australia.
Nella dichiarazione lascia scritto di aver bisogno di “una
vacanza tranquilla”. Phil McGuire e Margaret Smith
presteranno servizio per altri due anni. Devono recuperare le mancate
prestazioni dei mesi passati. Hanno insistito entrambi di venir
spostati in una nostra gemella in Russia, dove sembra che il Virus stia
prendendo delle brutte pieghe. Altro che Cacciatori Volanti- aveva riso
scambiando con il fratello un’occhiata complice.
Mark aveva sorriso in modo malinconico e mi aveva
stretto più forte la mano, guardandomi.
Io ero una statua. –Quanti di loro
hanno subito il trattamento?-.
-Ancora nessuno- aveva risposo tranquillamente
Martin.
Mi ero voltata verso mio padre, immaginando che
fosse stato lui il primo ad intercedere perché facessi parte
di uno dei gruppi di sperimentazione ai gas, così che
tornassi normale prima di far male a qualcuno.
-Credo sia tutto qua quello che
t’interessa sapere- Lewis aveva richiuso il fascicolo.
-Il Capitano Turner- avevo interceduto,
imbronciata.
Lewis aveva aggrottato la fronte.
–Certamente- aveva detto afferrando un secondo fascicolo.
–Capitano Cole Turner, eccolo qui- aveva viaggiato per una
decina di fogli, ma era tornato a rivolgersi a me con
un’espressione poco interessata. –Non ha lasciato
dichiarazioni, ma ce ne occuperemo al più presto. Adesso
vorrei discutere con tuo padre di un’ultima questione, ma in
privato. Puoi andare- mi aveva sorriso affabile giungendo le mani sul
tavolo.
Avrei voluto staccargli la faccia a morsi, ma
avevo sorriso e ubbidito.
La scorsa notte, mi ero svegliata di soprassalto
a seguito di un incubo. Avevo sognato le ultime ore di preparazione
all’attacco alla base Phoenix. Avevo rivisto le scene dipinte
nella mia mente da una prospettiva che non mi apparteneva, un occhio
che avevo faticato a riconoscere e che mi aveva mostrato dettagli ai
quali non avevo dato importanza. Dialoghi, scontri, atteggiamenti che
qualcuno, al mio posto, sembrava aver assimilato meglio di me.
Mi ero voltata a guardare Cole, al mio fianco,
che riposava nudo disteso tra le lenzuola. Sembrava sereno,
probabilmente soddisfatto come sempre. Il petto si sollevava e si
abbassava in un respiro tranquillo e regolare, impercettibile. Dallo
spiraglio delle tende potevo scorgere la magnifica vista notturna sulle
rovine di Manhattan che c’era da quell’altezza.
Non ero nella mia stanza, ma in quella del
Capitano, situata sul lato che affacciava sulle apatiche acque nere
dell’Hudson. L’Isola era un insieme confuso di
macerie e grattacieli decadenti, bucherellati dai missili militari e
ridotti come una groviera. Il cielo era ancora coperto di nuvole gonfie
di virus, il silenzio era tombale in tutto l’edificio.
Lentamente ero sgattaiolata fuori dalle coperte.
I poteri che mi erano stati tolti non mi permettevano di scorgere oltre
il mio naso, e la prima cosa che mi capitò tra le mani con
cui vestirmi fu parte della mia biancheria, i pantaloncini della mia
uniforme e la camicia di Cole. Ero uscita dalla stanza scalza,
arrotolandomi le maniche sino ai gomiti, e avevo attraversato
metà base arrivando agli ascensori.
La mia destinazione era uno degli ultimi piani e
per arrivarci non avevo la minima intenzione di usare le scale. Inutile
dire che dopo aver perso i poteri, ero diventata una ragazza molto
pigra, nel costante timore, come tutte le donne, di ingrassare.
Mentre ero nella cabina dell’ascensore
che saliva troppo lentamente sui binari per i miei gusti, mi ero presa
del tempo per riflettere su cosa stessi facendo di preciso e se era
giusto farlo. In mente avevo una vaga idea di dove fossi diretta o cosa
vi avrei trovato. Avevo raccolto informazioni qua e là per
la base durante le anomale giornate in cui facevo due passi per il
corridoio fuori dalla mia stanza, ma non oltre.
L’ascensore aveva raggiunto la sua
meta, si era fermato e aveva aperto le porte. Il grosso portellone a
doppia anta che mi si era parato dinnanzi era sorvegliato da un
pannello di sicurezza, accompagnato da un touch-screen.
Mi ero avvicinata all’impianto e avevo
fissato allungo gli spazi vuoti da riempire con un codice di otto
cifre. Ricordando che Lewis aveva chiaramente detto di non aver
cambiato le password, ero perfettamente in grado di aprire il
portellone al primo colpo.
La sala che mi si era spalancata davanti al naso
era il laboratorio dell’ultimo piano avvolto
dall’oscurità, fatta eccezione per le celle
allungate di vetro che andavano dal pavimento al soffitto, riempite di
quel particolare liquido bluastro fosforescente che dava luce propria
al salone.
Mosso un passo nel laboratorio, il portellone si
era richiuso alle mie spalle con uno fruscio. Ero piombata
nell’oscurità, mentre il bagliore azzurrognolo
delle celle m’invadeva il volto e mi faceva luccicare gli
occhi della stessa tonalità.
I 200 tubi erano disposti a piramide, la cui base
toccava la parete molto infondo. Nel centro, come vertice, sorgeva un
contenitore riempito di liquido bianco luminescente, sicuramente
più brillante degli altri. Anche da quella distanza non mi
fu difficile riconoscere solo una trentina di corpi dormienti, incubati
dalla testa ai piedi, nei 199 contenitori retrostanti. Gli Angeli del
futuro erano in quello stato vegetativo da due settimane e presto o
tardi avrebbero visto l’alba sotto una luce del tutto nuova.
Le sensazioni provate quei giorno stavano tornando a mordermi la pelle:
le ossa che si spostano, i tessuti che invigoriscono, i muscoli
contratti senza che il cervello lo ordini. E poi i calci dati al vetro,
i lamenti, le punture di tutti quegl’aghi sulla pelle.
Scuotendo la testa avevo scacciato quei ricordi
e, passandomi una mano tra i capelli, li avevo stirati
all’indietro.
Il mio sguardo si era posato a quel punto sul
contenitore nel vertice della piramide, occupato da un corpo di
carnagione chiara, che sembrava un tutt’uno col liquido
luminescente che lo avvolgeva. Era un uomo sulla ventina, dai muscoli
ben sviluppati, i capelli corti, gli occhi chiusi; braccia e gambe
mollemente abbandonati a galleggiare nelle acque che lo tenevano
prigioniero, mentre una dozzina di sonde lo intrappolavano e
altrettanti aghi lo pungevano in più punti. Dai polsi alle
caviglie, dal petto ai fianchi: era incubato peggio di un vegetale, e
dato il colore dei numerosi tubicini che lo pungevano, donava o
riceveva continuamente del sangue. Alzando lo sguardo, avevo compreso
che il vertice della piramide era collegato attraverso una struttura
reticolata a tutti i contenitori dietro di esso. Avevo provato un
immenso rigetto a quella concezione, ma non riuscivo comunque a credere
ai miei occhi.
Alex Mercer era diventato la pappa reale di un
centinaio di larve.
Avvicinandomi ulteriormente alla cella che lo
imprigionava, avevo provato a sforzarmi di comprendere come fosse
possibile che il possente e minaccioso Alex Mercer era stato ridotto in
catene e sparpagliato come semi alle galline del pollaio. Col sangue
che scorreva in quei tubicini, capii, Alex stava alimentando la
crescita della nuova generazione di Angeli, allo scopo di costruire un
esercito di reclute munite delle sue più temibili
capacità.
Avevo rabbrividito violentemente, sentendo
l’improvviso bisogno di mettermi seduta perché le
gambe non reggevano. Ero lentamente scivolata in ginocchio ai piedi
della cella di Zeus, posando una mano sul vetro e mormorando a fior di
labbra le parole “mi dispiace”, mentre il primo
singhiozzo m’incrinava il respiro e la prima lacrima mi
solcava la guancia.
Avevo preso a piangere come una fontana,
infischiandomene apertamente se nel laboratorio c’erano
telecamere o qualcuno dei soggetti fosse sveglio. Il freddo del
pavimento sui cui mi ero abbandonata mi aveva presto fatto salire i
brividi fino alla spina dorsale, bagnando il vetro delle mie lacrime.
Erano trascorsi diversi minuti, forse
un’ora, durante la quale avevo rivissuto quanto di
quell’avventura mi aveva fatto sentire meglio. La vittoria
che io e Alex avevamo sognato assieme si era definitivamente estinta,
sia per l’uno che per l’altra. Non c’era
più nulla che restasse da fare a nessuno dei due. Ormai le
nostre vite avevano preso quella piega insolubile degli eventi, ormai
prigionieri del destino che ci aveva riservato tante terribili
sorprese.
Ma alla plastilina doveva ancora essere aggiunto
un ultimo colore. Solo allora il quadro sarebbe stato completo. Il
colore mancante era niente popò di meno che il nostro
legame, già avvenuto in passato, quando Alex aveva tentato
di assorbirmi.
Da quel momento, nonostante la trasfusione
avvenuta con successo e i miei poteri scomparsi, le nostre essenze
erano rimaste ugualmente legate l’una a quella
dell’altro con un filo sottile a tal punto da non poter
essere scorto ad occhio nudo. Per tanto, chi aveva provato a tagliarlo,
aveva calato il coltello alla cieca e, presto o tardi, si sarebbe
accettato un dito da solo.
Serrando la mascella, mi ero alzata da terra ed
avevo camminato spedita verso il pannello di controllo che ricordavo di
aver visto usare dagli scienziati la prima volta che anch’io
ero stata in quelle celle liquide. Avevo inserito la password,
selezionato i comandi e avviato il processo di interruzione della prima
cella.
Il vertice della piramide aveva cominciato
a svuotarsi del liquido bianco, e lentamente il corpo di Alex
veniva attratto verso il basso dalla forza di gravità.
Quando tutta l’acqua fu assorbita dai condotti secondari,
Mercer era rimasto sospeso con le punte delle dita dei piedi a pochi
centimetri dal fondo della vasca, poiché alcune delle sonde
più solide avevano resistito e non si erano staccate dal su
corpo. Le braccia sollevate gli conferivano l’aspetto di un
Crocifisso. La testa gli cadeva in avanti, centinaia di gocce argentate
gli correvano lungo il profilo dei muscoli o scivolavano via dai
capelli umidi.
Dal pannello di comando mi ero sbrigata ad
attivare il controllo che aprisse il vetro della vasca. Trovato il
comando, lo avevo attivato inserendo nuovamente la password. Poi i due
strati di vetro sovrapposti che rinchiudevano Mercer avevano girato su
se stessi, aprendo, in fine, un varco.
Mi ero gettata in quella direzione e, salendo sul
fondo della vasca, avevo staccato con violenza le restanti sonde che
tenevano Alex penzolante come Gesù Cristo. Gli aghi venivano
via dalla sua pelle non senza un’abnorme concentrazione di
forza, cosa che io stentavo ad avere dato i miei mancati poteri
d’Angelo. Sfilato l’ago che gli inchiodava il
braccio destro, questo si era riversato lungo il suo fianco nudo ed
Alex aveva penzolato sulla destra. Nel gesto di sfilare anche
l’ultimo ago dal braccio sinistro, il corpo privo di sensi di
Alex mi era caduto addosso con tutto il peso dei suoi muscoli. Ero
crollata sul pavimento, il suo incarnato mi schiacciava ma io, esausta,
non ero in grado si smuoverlo. Alcuni istanti più tardi,
dopo aver riacquistato un minimo delle mie forze, avevo tentato
nuovamente si scansarlo da me, ma Alex aveva aperto gli occhi e mi
fissava in modo confuso, probabilmente dal fatto che fosse (nudo) steso
sopra di me.
Rabbrividendo, l’avevo scansato prima
che potesse farsi chissà quali idee perverse, ma il ragazzo
impiegò una frazione di secondo per tirarsi in piedi,
sgranchirsi muscoli ed ossa e testare uno ad uno i poteri ancora in suo
possesso. Alex aveva scelto bene di rivestirsi della sua armatura.
Terribilmente imbarazzata per come era avvenuto
il suo risveglio, ero indietreggiata aspettando pazientemente che fosse
lui a chiedermi una spiegazione.
Quando Alex si era voltato a guardarmi, i nostri
sguardi erano rimasti incatenati un istante lungo
un’eternità. Poi Zeus era tornato a guardare la
struttura piramidale delle vasche davanti ai suoi occhi.
-Dove siamo?- aveva chiesto.
-Questo è il laboratorio centrale. Qui
Lewis ci crea- gli avevo risposto, intimorita, ma sottolineando
ugualmente il termine usato.
-Cosa ci facevo io… lì?-
aveva domandato poi indicando i tubi e le sonde scollegate che
penzolavano nella vasca vuota.
-Non lo so… questo non lo so, di
preciso. Credo che Lewis voglia usarti per rafforzare i suoi Angeli, ma
non avrebbe senso!-.
-Perché?-.
-Ha confessato che l’unico scopo degli
Angeli è quello di trovarti ed eliminarti, Alex. Se sei
ancora vivo, c’è qualcosa che non torna-.
-E tu cosa ci fai qui?-.
A quella domanda avevo esitato.
Non c’era un vero motivo per il quale
fossi lì e avessi deciso di liberarlo. Avevo scoperto per
caso che era vivo, non avrei mai pensato di trovarlo nei laboratori,
dove invece ero diretta al solo scopo di conoscere la nuova generazione
di Angeli prima di lasciare definitivamente la base.
La mia partenza era già fissata!
-Non lo so- avevo ripetuto.
-Perché mi hai liberato, allora?-
sembrava divertito nel farmi quelle domande.
Avevo scossa la testa.
-Te lo dico io perché, Emily: hai
scoperto che il mondo che ti gravita attorno non è quello in
cui vorresti vivere-.
-Come fai a dirlo?- ero sbalordita, scettica.
-Questa è una domanda molto stupida-
aveva ridacchiato.
Finché volavamo basso, nessuno ci
avrebbe dato fastidio. Potevamo rimanere a parlare anche tutta la notte
nel laboratorio. Per quanto il sistema fosse automatizzato, nessuno
passava mai a controllare i progressi una volta che il processo di
alimentazione partiva. Però cominciavo seriamente a pensare
di aver compromesso la crescita di quegli Angeli… infondo,
avevo interrotto la loro colazione.
Continuavo a non capire.
-Ti avranno pure fatto il lavaggio completo,
Emily, ma non hanno cancellato la tua memoria, e siccome una parte di
essa è ancora dentro di me, la nostra linea privata
è ancora attiva-.
Parlava di linea privata come se fosse un canale
alla televisione oppure una rete telefonica. In realtà, le
nostre menti non potevano funzionare diversamente. Io e Mercer avevamo
ancora della plastilina da modellare insieme.
-Il sogno… sei stato tu a…-
non ero riuscita a concludere, che Alex aveva annuito.
-Elizabeth riusciva a controllare le sue creature
con la forza della mente e il legame attraverso il sangue. Noi non
siamo da meno, seppur in modi meno incisivi-.
Ero strabiliata.
Alex doveva inoltre essersi accorto che
c’era qualcosa di strano in me. Aveva accennato ad un
“lavaggio completo”, pertanto gli era bastato
annusare l’aria che mi circondava per accertarsene.
-Sei tornata umana- aveva commentato con una nota
amara nella voce.
Avevo annuito, appiccicando a quel gesto un
flebile “sì” appena sussurrato. Se da
una parte ero immensamente triste di ciò,
dall’altra sentivo che era giusto così.
-Quindi vai via… lasci la base- aveva
intuito.
-Non c’è più
posto per me-.
-E il tuo Capitano? Cole?-.
-T’interessa davvero?-.
Alex si era stretto nelle spalle. –Un
po’-.
-Lewis mi ha raccontato dei piani futuri di tutti
i miei compagni di squadriglia. Alcuni combatteranno ancora, altri
prenderanno un’altra strada… Cole… lui,
be’… forse mi seguirà, forse no-.
-Non hai l’aria di una che ci ha
scambiato due chiacchiere molto spesso-.
Avevo sorriso. –In compenso ho
scambiato due chiacchiere con te-.
Alex aveva tenuto silenzio per qualche secondo.
Nascosto nella sua armatura, non riuscivo a guardarlo in faccia, a
leggere il suo viso. –Che cosa farai, domani?- aveva chiesto,
a sorpresa.
-Probabilmente quando mi sveglierò
nella mia stanza, mi laverò, vestirò,
farò la valigia, raggiungerò la piattaforma sul
tetto e salirò sull’elicottero che mi
porterà nella casa del mio ex ragazzo (morto) a Brooklin.
Tu, invece… cosa farai?-.
Alex aveva esitato un istante, impassibile,
immobile come una statua. –Non me ne andrò da qui,
se è quello che pensi. Non perché non voglia, non
perché non posso farlo. Dov’altro potrei andare?
Hanno ancora mia sorella e non esisteranno ad assottigliare la posta in
gioco. Mi ricattano, Emily, se sono ancora qui è solo grazie
al loro poco senso umanitario. Credi che non abbia già
tentato di fuggire? In tutti questi mesi, credi che non abbia cercato
di ribellarmi? Ci ho provato, ma tutte le volte tornavo indietro sui
miei passi di mia stessa volontà. Non posso alzare un dito
prima che loro ne stacchino uno a mia sorella. Non so dove la tengono,
non so cosa le fanno, e non voglio nemmeno pensarci-.
-Posso aiutarti a trovarla! Posso portartela qui!
Alex, devi andartene!-.
-È qui che sbagli, Emily. Chi ti dice
che devo andarmene? Sono stanco di combattere. Come lo ero due anni fa,
loro sono ancora. Se questo è un modo più
semplice di affrontare il virus, allora ben venga che mi succhino fino
all’ultima goccia di sangue! Comunque vadano le cose, non
sarei mai capace di fare qualcosa di più utile. Adesso
va’, torna da Cole, parti, va’ a casa, riposati. Te
lo meriti-.
Lo avevo guardato allungo, sconvolta, a bocca
aperta e gola asciutta. Non riuscivo a credere alle mie orecchie.
-Ora, per cortesia, saresti così
gentile da…- aveva indicato il pannello di controllo,
spogliandosi dell’armatura e rientrando nella vasca,
approfittando del fatto che fossi voltata.
Come un fantasma, ero andata verso i comandi e
avevo inserito nuovamente la password, confermando il processo di
riempimento. Alex, rinchiuso tra le pareti di vetro, era rimasto
immobile, fissandomi dall’interno della sua cella. Con un
semplice clic, avevo riattivato le sonde e gli aghi che erano tornati a
penetragli la carne. Un po’ ne aveva sofferto, ma tutto
quello che gli avevo appena sentito pronunciare continuava a
martellarmi le tempie. Il nostro legame mi suggeriva di interpretare le
sue parole nel modo inverso. Quello che avevo di fronte era
terribilmente incoerente con l’Alex Mercer al quale avevo
stretto la mano.
“Comunque
vadano le cose, non sarei mai capace di fare qualcosa di più
utile.”
“Che
mi succhino fino all’ultima goccia di sangue!”
“Non
me ne andrò da qui, se è quello che
pensi.”
“Sono stanco di combattere.”
Mentiva.
Mentiva spudoratamente.
Angolo
d’Autrice:
Ok, raga! Ci
siamo! Mancano 2 capitoli alla conclusione di questa storia, un altro,
e l'epilogo.
Sono felice di
notare (ma proprio felice felice, visto che siamo in termini di bugie
<.<) che la Saphira87
è scomparsa! °A° Ma come?! Era la
ultrà più accanita!
In compenso,
sia io che Emily ringraziamo renault
e SnowDra1609
per i commenti.
Aprendo una
piccola parentesi qui, adesso, seduta stante, ci tenevo ad informarvi
di due cose: il capitolo che avete appena letto è lungo 10
pagine! XD E vi meritereste un premio! Come seconda cosa, il capitolo
che avete appena letto è un colossale flashback di Emily
che, nella sua stanza il giorno della partenza, ripensa a tutto
ciò che è successo (in modo un po’
riassuntivo, fatta eccezione per l’ultima parte e nel dialogo
con Mercer). Ve ne sarete senza dubbio accorti dalla struttura
imperfetto-trapassato prossimo che ho usato nei momenti in cui Emily
racconta di sé, con qualche piccola svista dove i trapassati
prossimi tramutano magicamente in passati remoti! XD Se leggete molti
libri, sapete a cosa mi riferisco.
Ulteriori
chiarimenti?
Naaaah! Almeno
per ora non me ne viene in mente nessuno! XD
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