Osservo Tari che sorseggia la sua
birra mentre si guarda
intorno con occhi curiosi. Fa uno strano effetto vederla in questo
contesto, in
mezzo a gente così rumorosa ed espansiva – lei,
così riservata e timida – ma,
anche se ha l’aria leggermente spaesata, sembra trovarcisi
bene. E poi devo
ammettere che questa tonalità di verde le dona molto. Fa
sembrare verdi anche i
suoi occhi e si sposa bene con la sua carnagione chiara.
Scruta pensosa la superficie rovinata
del tavolo, prendendo
piccoli sorsi dalla cannuccia.
Sorrido fra me e me. Quanta gente al
mondo, a parte Bill, è
in grado di bere della birra con una cannuccia?
La risposta è fin troppo
ovvia.
Alla fine tutta
quell’urgenza che sembrava esserci nel suo
tono al telefono era solo inutile apprensione: ha chiamato Michelle per
chiederle se poteva passare a lasciare dei documenti da parte dei Leila
e lei
le ha detto che c’ero io in casa e che poteva tranquillamente
dare tutto a me.
Piccolo dettaglio: io in casa non c’ero, per via del
sequestro subito da tre noti
soggetti poco raccomandabili, quindi quando lei ha suonato e nessuno le
ha
risposto, ha subito pensato al peggio.
A dire la verità, mi
veniva da ridere, al telefono, mentre
mi raccontava tutto questo, perché quasi già
immaginavo lei che chiama i pompieri,
il pronto soccorso e chissà che altro, per poi scoprire che
in casa in realtà
non c’era nessuno. Sarebbe stato divertente, ma poi chi la
sentiva Michelle,
con la sua preziosa porta made in Paris
sfondata e scardinata? Alla fine abbiamo deciso di incontrarci a
metà strada
per quei documenti, e tra una chiacchiera e l’altra, ci siamo
infilati in
questo pub.
Ad un tratto Tari solleva gli occhi
ed arrossisce con un
sorriso imbarazzato, accorgendosi di essere osservata. Le sorrido in
risposta,
portandomi il bicchiere alle labbra.
È incredibile come mi sia
bastato poco per migliorare di
netto il mio umore, non appena mi sono allontanato da
quell’orrendo strip club.
Erano anni che non mettevo piede in questo pub ed avevo dimenticato
quanto
fosse calda e accogliente la sua atmosfera. Michelle preferisce locali
di
classe, l’unica volta che l’ho portata in un pub
come questo aveva quasi schifo
a sedersi, e da allora non gliel’ho più nemmeno
proposto.
Ma è bello essere di nuovo
qui, è come un tuffo nel passato,
un’immersione nei ricordi, quando tutto era semplice e non
dovevo preoccuparmi
di cosa indossavo, di cosa mangiavo o come mi comportavo. Quando io ero
ancora
io e non lo sconosciuto che sono diventato.
Ma cosa mi è successo, in
questi anni?
Mi guardo intorno ed è
come se fossi tornato sul sentiero
principale dopo aver percorso un lungo tratto di deviazione. Passo in
rassegna
i volti ignoti eppure familiari di uomini, donne, ragazzi e ragazze,
gente
comune che, dopo una giornata di studio o lavoro, viene qui a godersi
qualche
ora di meritato svago. Nessuno di loro veste Gucci, nessuno ha una
Porsche
parcheggiata qui fuori, nessuno ha bisogno di milioni per divertirsi,
per
godersi la vita. Sono felici così, perché non
hanno tutto, ma quanto basta.
Mi lascio sfuggire un sospiro
abbacchiato.
“Va tutto bene?”
mi chiede Tari, premurosa, sporgendosi un
po’ in avanti, e nel farlo posa una mano sulla mia.
“Sì,
tranquilla,” la rassicuro. “Stavo solo…
riflettendo.”
Abbasso lo sguardo sulla sua mano, ma
lei la ritrae all’istante
e si ricompone in fretta, tornando a concentrarsi sul tavolo, le guance
rosse.
Sorrido dei suoi modi impacciati e
scuoto la testa. Non so
cosa ci faccio qui con lei, a brindare a quello che avrebbe dovuto
essere il
mio addio al celibato (e che invece si è trasformato in un
epocale disastro),
ma so che sto bene.
Tari sembra farsi piccola piccola
nella sua sedia, esile e
delicata, goffa come suo solito, ma così adorabile e
deliziosa, e io mi
riscopro a pensare che… mi piace.
Tari mi piace.
Non so perché questo
pensiero mi sconvolga tanto. In fondo
lo sapevo già da un pezzo… Mi è
piaciuta fin da subito, anche se era così
strana, o forse proprio per quello. Non è mai stato un
mistero che io la
trovassi simpatica. E poi, perché stupirsi? È
anche normale pensare una cosa
simile. Dopotutto è una ragazza molto dolce, intelligente e
simpatica, carina,
sebbene in un bizzarro modo tutto suo, e poi… beh, non ne ho
conosciute molte
di persone così semplici e alla mano, negli ultimi anni.
Insomma, voglio dire… Che
male c’è se mi piace?
Che male c’è se
sono qui con lei a sorseggiare birra e fare
quattro chiacchiere in tutta rilassatezza? È
senz’altro un modo decisamente più
intelligente di trascorrere una serata, piuttosto che inorridire
davanti ad una
schiera di volgari spogliarelliste siliconate. E più
divertente.
“Oggi ho visto la versione
definitiva dell’abito da sposa
della signorina Keller,” esordisce Tari ad un tratto,
riscuotendomi. “Lo trovo
magnifico, molto lineare ma sontuoso… Sarete incredibili,
all’altare!”
Lo dice con entusiasmo, ma il suo
sguardo sembra appannato,
probabilmente per via dell’alcol. A me non va di parlare di
abiti da sposa, né
di altari, e ancor meno di Michelle.
Non adesso, per favore. Ho bisogno di
relax.
“Sì, penso di
sì.” Rispondo vago, e bevo un altro sorso.
È
la seconda birra della sera e ancora non mi sento nemmeno un
po’ brillo, anche
se credo che vorrei esserlo.
Tari si spinge gli occhiali sul naso
mentre con l’altra mano
stringe il proprio bicchiere.
“Sa, sono convinta che il
suo sarà uno dei matrimoni più
belli che vedrò in tutta la mia carriera.”
Perché insiste?
Perché dobbiamo per forza parlare di questo?
“Lei è un tipo
molto dolce e paziente,” prosegue lei,
imperterrita. “Sono certa che sarà un ottimo
padre, un giorno.”
Tari ha questo potere innato: riesce
a tirare fuori gli
argomenti più spinosi ed imbarazzanti e a parlarne in
completa disinvoltura,
senza rendersi conto del disagio che provocano. È
così ingenua, a volte, che
proprio non so come possa essere l’assistente di un blocco di
rigido
pragmatismo come Leila.
Mi volto all’altra parte,
fingendo di osservare un gruppo di
uomini che gioca a freccette in un angolo della sala.
“No, non credo.”
Ammetto a malincuore.
Questa volta non ne voglio parlare
sul serio. Il fatto è che
è un tasto piuttosto delicato e non mi va di toccarlo
adesso. Io e Michelle ci
siamo ritrovati a parlare di bambini, una volta, qualche mese fa, e lei
è stata
cristallina in merito: niente figli. Non vuole seccature inutili che ci
sarebbero d’intralcio per il lavoro e che non avremmo il
tempo di accudire a
dovere.
Personalmente ho sempre pensato che
avrei avuto dei bambini.
Non mi dispiacerebbe fare il papà, ma effettivamente la tesi
di Michelle ha
molti punti validi, e forse, anche senza contare i vari tour e impegni
ufficiali in giro per il mondo, non sono molto portato per questo ruolo.
Torno a guardare in avanti e scopro
che Tari mi sta
osservando.
“Non le piacerebbe avere
dei bambini?” mi chiede, senza
nascondere un certo stupore.
“Io e Michelle lavoriamo
molto,” rispondo, forzando un
sorriso. “Siamo spesso fuori casa dalla mattina alla
sera… Sarebbe molto
complicato.”
Lei batte le ciglia bionde e non
demorde:
“La mia domanda era
un’altra, però.” Mi fa notare
gentilmente.
La guardo negli occhi e quasi mi
sorprendo a scoprirla così
seria e schietta. Non credevo, ma sa imporsi, quando vuole. Anche se
avrei
preferito che si impuntasse su qualche altra cosa. Tutto, ma non questo.
“Non ti ho ancora
ringraziata per avermi salvato dagli
inquietanti abissi della serata con quei tre.”
Tari inarca le sopracciglia. Sono
bionde e naturali,
leggermente più scure dei capelli, e probabilmente Bill le
consiglierebbe di
sistemarsele, ma personalmente trovo che stia bene così.
È carina, Tari, in
fondo, se la guardi con attenzione. Sono graziose le piccole e pallide
efelidi
che le punteggiano il naso e gli occhiali danno ai suoi occhi un
po’ di risalto
di cui pecca l’assenza di trucco. E, no, decisamente non
è una per cui ci si
girerebbe in strada, ma a suo modo sa affascinare.
Non che io mi senta in qualche modo
affascinato da lei. Sono
fidanzato.
“Era proprio così terribile?” mi domanda
intanto Tari, apparentemente
interessata.
Io mi porto una mano alla fronte con
fare grave.
“Non puoi immaginare cosa sono in grado di architettare quei
pazzi.”
“Personalmente i suoi amici
mi piacciono molto.” Replica
lei, in tono incolore. Quante possibilità ci sono che dica
sul serio?
Irrisorie, credo.
“Davvero?”
Lei annuisce con una carte veemenza.
“Sono molto… genuini.” Afferma.
“Lei, soprattutto, mi sembra il più ordinario
di tutti. Cioè, ordinario in senso tutto positivo, voglio
dire.” aggiunge in
fretta, rossa come un pomodoro. “Non intendevo certo che non
è speciale. Non
che io la trovi speciale.” Farfuglia, sempre più
rossa e adorabilmente
imbarazzata. “O meglio, sì, ma...
ecco…” Mi guarda disperata, annaspando tra le
sue stesse parole, e io non posso che sorriderle comprensivo.
Sento qualcosa di caldo sciogliersi
dentro di me. È una
sensazione strana, che non conosco, ma che mi riscopro a gradire. Forse
è
l’alcol che inizia a fare effetto.
Strano, però,
perché l’ho sempre retto bene.
“Tari, respira! Tranquilla,
non ti accuserò certo di
molestie sessuali per un paio di complimenti.”
“Pyydän sinulta
anteeksi.” Farfuglia lei, in quella sua strampalata lingua
dai suoni ancora più
strampalati.
“Ok. Qualunque cosa tu
abbia detto.”
“Le ho domandato
scusa.” pigola. Sembra una bambina da
quanto è imbarazzata.
“Ammetto che il finlandese
mi affascina.” Rifletto io, come
nulla fosse. “Ha tutti quei suoni arzigogolati e
duri… dimmi qualcos’altro!”
“Che cosa?” mi
chiede allora lei, battendo le ciglia. Io
scrollo le spalle.
“Non so, quello che vuoi tu.”
Tari sembra pensarci su. Resta
assorta per un po’, sondando
il fondo del suo bicchiere come se là sotto possa trovare un
suggerimento, poi
a un tratto mi guarda, illuminata:
“Oman
taivaan tänne
loin. Anna minun päästä pois.”
Ehm… sì.
“Per caso questo simpatico
groviglio significa ‘Che ore
sono?’?” tiro a indovinare.
Tari scuote la testa e sorride.
“A dire la
verità è una poesia.” Mi rivela, gli
occhi che le
brillano. “O meglio, una canzone. Una delle più
belle che siano mai state
scritte, almeno per me.”
“E che cosa significa?”
L’ombra di
un’emozione anima i suoi lineamenti in modo quasi
impercettibile.
Quasi.
“Ho creato qui il mio paradiso personale. Lasciami andare
via.” Recita, e la
sua voce sembra rapita dalle sue stesse parole. Parole che mi entrano
in testa
e risuonano in modo strano – doloroso?
– scuotendomi dentro.
“Di chi
è?”
“Kuolema Tekee Taiteilijan, dei Nightwish.”
Ammetto di essere poco ferrato su
questo gruppo, ma una cosa
la so: qualche anno fa erano una band metal piuttosto famosa.
Metal.
Una band metal.
Tari.
Faccio fatica a metabolizzare il
concetto.
“I Nightwish?”
esclamo basito. Quasi mi vergogno di questo
stupore che sa di sciocco pregiudizio, ma proprio non me
l’aspettavo.
“Li conosce?” fa lei, speranzosa.
“Non molto, ma… i
Nightwish? Tu?”
Tari mette su il broncio:
“Che c’è di strano?”
“Niente.” Rispondo subito. “È
una sorpresa, tutto qui. Mi sa che Bill ha
bisogno di ascoltare un po’ della tua musica. Magari impara
qualcosa.”
“Signor
Schäfer!” sbotta lei, tutta indignata, e io proprio
non riesco a trattenere una risata.
“Beh, è vero. Non dico che sia un incapace,
ma… insomma, bellissimo testo,
punto.”
“Se avesse detto qualcosa
di diverso, mi sarebbe toccato
abbassare l’opinione che ho di lei.” mi avverte
Tari, ed è quasi una minaccia.
“Ah
sì?” Adesso tocca a me fare gli indovinelli.
“La vuoi
sentire un’altra poesia?”
Lei accoglie volentieri la sfida:
“Sentiamo.”
“Come posso essere perduto? Nel
ricordo,
io vivo di nuovo. E come posso biasimarti, se è me stesso
che non riesco a
perdonare?”
“The Unforgiven III,
Metallica.” Risponde lei
immediatamente, sicura, senza la minima esitazione.
Forse l’ho sottovalutata.
“Te l’ho fatta facile. Vediamo se sai questa: sono una porta girevole, ho già visto
tutto questo, ricomincerò da
capo, ma non posso iniziare finché non avrò visto
la fine.”
Tari ci pensa un attimo, ma alla fine
le tocca arrendersi:
“Passo.”
“End Over End, Foo Fighters.”
Lei inclina la testa di lato e
arriccia un po’ le labbra.
“Bel testo, ma non sono il
mio genere.”
“E quale sarebbe il tuo
genere, sentiamo?”
“Qualcosa più tipo: ho
dato inizio a
qualcosa, ti ho costretto verso una certa direzione, ed era chiaro che
tu non
ci dovessi andare. Capelli pettinati e separati, tipico me…”
“Tipico me. Ho dato inizio a
qualcosa, e
ora non sono troppo sicuro.” Termino al posto suo
una frase che conosco
molto bene, ma che avevo dimenticato, e pensarci adesso mi
dà una sensazione
strana, quasi di disagio. “Non amo particolarmente gli
Smiths, ma ammetto che
questa mi piace abbastanza.”
“Non è certo una
delle migliori, in quanto a base musicale.”
Conviene lei. “Ce ne sarebbero un paio che dovrebbe
ascoltare. Penso le
piacerebbero.”
All’improvviso mi rendo
conto di quello che sta accadendo: una
conversazione sulla musica. Sto avendo una conversazione decente sulla
musica con
una ragazza.
Da quanto non accadeva?
Michelle e io stiamo insieme da un
anno circa e ci
conosciamo da poco più. L’ultima volta che abbiamo
parlato di musica in modo
semiserio è stato, se non sbaglio, a quella festa delle
Pussycat Dolls che ha
aiutato a organizzare, la conversazione era stata all’incirca
così:
“Amore,
sei in
ritardo!”
“Avevo un concerto, Michelle, ricordi?”
“Ma
che cosa ti sei
messo? Vuoi farmi fare una figuraccia!”
“Non ho avuto tempo di andare a casa a cercare qualcosa di
meglio.”
“Ah,
lasciamo stare.
Vieni, ti voglio presentare le artiste della serata.”
“Artiste?!
Michelle,
quelle sono pornostar che fanno finta di cantare. L’arte
è un’altra cosa.”
“Oh,
per l’amore del
cielo! Saltiamo la solita diatriba sui nostri gusti musicali, per
cortesia.”
Quella volta ho evitato di replicare
perché non mi era
sembrato il caso di intavolare una faida qualitativa tra Pussycat Dolls
e
Metallica nel bel mezzo di un party dedicato a quelle che sarebbero
state le
indiscutibili perdenti.
“Penso proprio che
darò una seria possibilità agli
Smiths.”
Comunico a Tari. “Ho proprio voglia di qualche bella
novità.”
Le sue guance sono deliziosamente
rosate. Se ne sta lì e mi
guarda senza più parlare, e mi sembra improvvisamente un
po’ malinconica.
Piccola,
assurda,
buffissima Tari…
“Le posso fare una domanda
invadente che sicuramente farei
meglio a tenermi per me?” mi chiede a un tratto.
“Posso avvalermi della
facoltà di non rispondere?”
Lei annuisce.
“La considererei comunque
una risposta esauriente.”
“Allora spara
pure.”
Tari si morde convulsamente il
labbro. La sua indole
discreta sta visibilmente lottando contro uno slancio di
curiosità e penso
proprio che stia per fare la fine delle Pussycat Dolls contro i
Metallica.
“Ha mai pensato di lasciare
i Tokio Hotel?”
La domanda delicata suona strana in
mezzo al chiacchiericcio
vivace del pub.
Sento le mie labbra distendersi in un
sorriso comprensivo.
In un certo senso, posso dire di essermelo aspettato. Non so come
mai… ce
l’aveva come scritto in faccia.
Suppongo sia una di quelle occasioni
in cui una bugia
potrebbe essere condonata e giustificata dalla necessità
diplomatica. Potrei
mentire. Dovrei, forse…
No, non penso che lo farò,
dopotutto.
Mento sempre, a chiunque. Per una
volta posso semplicemente
dire la verità. Una volta soltanto.
“Ci ho pensato diverse
volte.”
Tari, diversamente da qual che mi ero
figurato, non sembra
sconvolta né compassionevole. Mi sorride e basta, in un modo
saccente che mi fa
pensare che, come io avevo previsto proprio quella domanda, anche lei
abbia
previsto proprio questa risposta, e non ne sia affatto rimasta delusa.
“A questo punto mi dovresti
chiedere cosa mi ha sempre
spinto a rimanere.”
Lei sembra genuinamente perplessa.
“Nessuno che abbia avuto
modo di conoscere lei e i suoi
amici e vedervi insieme potrebbe mai fare una domanda così
inutile.”
Qualcosa si blocca tra la mia gola e
lo sterno. Non so bene
cosa sia, ma provo un improvviso moto di affetto verso i tre
squilibrati che
stasera mi hanno regalato questo aborto di addio al celibato da cui
sono così
felicemente scappato.
È difficile avere a che
fare con tre idioti simili. È
difficile per me, molto spesso, attutire gli attriti che i loro
caratteri
rumorosi ed esuberanti creano con la mia introversione patologica.
Non oso immaginare, però,
quanto debba essere difficile per
loro sopportare uno scorbutico lunatico come me.
Lo fanno e basta. Lo faccio. Lo
facciamo.
Siamo cresciuti insieme, che diamine.
Ci siamo
cresciuti
l’un l’altro.
Beh, a parte Bill… lui non
crescerà mai. Ma lui raramente fa
testo, in ogni caso.
Sollevo lo sguardo su Tari, commosso
dalle riflessioni che
mi ha inconsapevolmente suscitato. Lei ricambia con occhi languidi, e
quando
dico languidi, non intendo in senso seducente: sembra che non si senta
del
tutto bene.
“Tari.. che
succede?” chiedo, un po’ preoccupato.
Lei si porta una mano alla fronte,
strizzando gli occhi con
una piccola smorfia.
“Mi sento la testa leggera
come un palloncino.”
“Forse la birra irlandese
è un po’ più forte di quella
tedesca.”
“Lo temo
anch’io.” Rantola lei.
Va bene, forse è ora che
ce ne andiamo di qui. Ci siamo già
trattenuti fin troppo.
“Vieni,” le dico
ridendo, mentre mi alzo e la aiuto a fare
lo stesso. “Ti serve un po’ d’aria
fresca.”
Pago al barista e usciamo, a passo
non proprio stabile. Tari
barcolla al mio fianco come se si fosse ingollata venti vodka pure a
stomaco
vuoto, quando invece ha preso solo una misera birra media.
Fuori è buio, e
l’aria della notte è frizzante e piacevole.
Non so nemmeno che ora sia.
“Äiti,
perché hai
spento la luce?” geme Tari, aggrappata non troppo saldamente
al mio braccio.
Äiti?
Di che diamine sta parlando?
“Sediamoci qui un
momento.” Le dico, sforzandomi di non
ridere. La accompagno verso il muretto che separa lo spiazzo antistante
l’ingresso del pub e il parcheggio e prendo posto accanto a
lei. Sono costretto
a sorreggerla per impedirle di accasciarsi su sé stessa.
È un bel po’ brilla,
poverina.
Sempre stretta al mio braccio, Tari
si appoggia alla mia
spalla con il viso e gli occhiali le si stortano tutti.
“Sei davvero comodo, signor
Schäfer.” Sospira, come se
avesse appena pronunciato la cosa più bella e struggente di
questo mondo. L’alcol
deve proprio averle dato alla testa se le ha addirittura fatto scordare
di
darmi del lei.
Perso nei miei pensieri, sussulto
nell’udire un lieve rumore
nasale. Abbasso lo sguardo e mi accorgo che Tari si è
addormentata. E sta
russando.
“Minä
rakastan sinua.”
Mormora, incosciente, e si abbandona a un sospiro beato.
Qualunque cosa abbia detto, le credo
sulla parola.
Stasera la mia forza di
volontà sta subendo una pressione
notevole, ma giuro che non riderò. Anche perché
se ridessi, lei si
sveglierebbe, e la sua espressione è così serena
e pacifica che mi sentirei un
verme a disturbarla. Non che possiamo restare qui così tutta
la notte, ovvio. Però…
Solo per un po’.
Non c’è niente
di male.
Qualche minuto soltanto…
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A/N:
ok,
non ho scusanti, quindi non sprecherò nemmeno inutili parole
in sproloqui
chilometrici sulla mia inettitudine. Più di un anno per
aggiornare… che
vergogna. Qualcuno nemmeno ci crederà. Ma avevo detto che
non avrei abbandonato
la storia, e quindi eccomi qui, anche se non so quando
riuscirò ad aggiornare
di nuovo. Spero presto. Perdonate la mia incostanza, ma sono finalmente
riuscita a mettermi a lavorare in modo serio a un’idea che
avevo da un po’ per
un libro e quindi mi porta via tanto tempo e, per fortuna e sfortuna, a
seconda
dei punti di vista, anche tanta inspirazione.
Non so se qualcuno si ricorda ancora
di questa storia e, se
fosse, non vi potrei biasimare… mea culpa, lo so. Se
però, o coraggiosi
lettori, qualcuno di voi avesse ancora memoria di queste antiche
vicende e
volesse comunque lasciare un commento di bentornato (o un inno ai
miracoli, che
dir si voglia), lo apprezzerò moltissimo. (ah, prima che qualcuno lo chieda: la frase in finlandese dell'ultimaq parte ve la tradurrò a suo tempo, quando sarà il momento ;) ) J
Grazie a tutti!
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