17.07.2008
Sono passati quasi quindici anni da quel giorno,
dal giorno in cui mi
hai tradita. Sono passati quasi quindici anni dal giorno in cui mi
hanno
rinchiusa tra quattro mura bianche senza nemmeno la consolazione di un
crocifisso. O di un prete. Ma il cappellano dell’ospedale si
era rifiutato di
venire da me dopo i primi colloqui, secondo lui non ero malata.
Ed aveva ragione, io non sono mai stata malata, eri
tu, bastardo, che continuavi a
perseguitarmi anche lì,
anche senza l’utilizzo di televisori, radio e giornali che mi
erano preclusi:
ma io vedevo tuoi segni ovunque, tu
eri ovunque, proprio come diceva la Bibbia.
Lo dissi al cappellano e lui non volle
più venire da me, disse – appunto – che non ero malata, ero
un’indemoniata.
Stupido
prete.
Lui non capiva, esattamente come non capiva
nessuno, Eddie.
Nemmeno tu hai capito, probabilmente,
perché continui a comportarti
come un uomo quando sappiamo benissimo che non sei solo questo. Questo
mondo ti
sta corrompendo, ti sei circondato di peccatori senza morale, mio Dio,
drogati,
punk, omosessuali…
Ma ho seguito il tuo primo consiglio, sono stata
attenta ad ogni
dettaglio. Ci ho messo quasi dieci anni per convincerli, ma alla fine
ci sono
riuscita.
Complimenti
signorina Kelly, lei
ce l’ha fatta, è completamente guarita, raramente
abbiamo riscontrato una
regressione tale nella sindrome di De Clérambault e blah
blah blah.
Ho smesso di ascoltare quel pomposo pallone
gonfiato in camice bianco
immediatamente dopo i complimenti, mi sono dovuta mordere la lingua a
sangue
per non urlare di gioia in faccia a quell’idiota.
Invece mi sono finta mite, arrendevole, grata.
Come mi volevano
loro.
Ho giocato al loro gioco, stando alle loro regole,
ed ho vinto. Sono
fuori, niente più medicine e ronde e infermiere stronze. Il
laccio è
caduto.
Però non so dove sono i nostri bambini,
me li hanno portati via mentre
ero in ospedale per darli in adozione: io, io che sono la
loro madre, secondo loro non sarei stata in
grado di
occuparmene.
Non hanno voluto dirmi dove sono, da chi sono stati
adottati, se stanno
bene.
Non ho mai capito perché non li hanno
piuttosto affidati a te, ma
probabilmente non hai voluto, vero? Perché sei un bugiardo
ed hai buttato via
loro esattamente come hai fatto con me.
Ma non può finire così, non
dopo quello che c’è stato tra noi, non dopo
le notti insonni e i sogni e la musica che hai suonato, lo so, solo per me.
Questa
sera sarò il tuo Getsemani
e finalmente saremo di nuovo insieme.
17.04.1994
Eddie
Vedder aveva creduto di
essere pronto.
Quando
il successo lo aveva raggiunto
e praticamente sepolto aveva quasi ventisette anni, era un uomo adulto,
insomma.
Eddie
Vedder aveva cominciato a
vivere da solo che non aveva ancora sedici anni, pagava le bollette per
conto
suo e non mancava un affitto, era tornato a vivere con sua madre solo
per poter
anche finire il liceo. Non aveva smesso di lavorare, solo che a quel
punto lo
faceva soprattutto per dare qualche agio in più a se stesso
e ai suoi fratelli
minori.
Quando
il successo gli era
arrivato addosso credeva che sarebbe stato semplice maneggiarlo, in
fondo aveva
visto di peggio: mai provato a lavorare
in un drugstore fino alle cinque del mattino per essere poi
puntualmente in
classe alle otto?
Insomma,
aveva vissuto parecchio
per farsi sconvolgere da tanto poco. Ma questo, appunto, lo credeva
lui.
Quando
il successo, quello vero,
quello grosso e urlante, l’aveva raggiunto, Eddie Vedder ne
era rimasto
stupito. Semplicemente quello. Un po’ perché non
se ne aspettava tanto, un po’
perché davanti agli occhi continuavano a passargli in parata
immagini di Bruce
Springsteen e Neil Young e Jim Morrison e Bono Vox e mille altri e non
riusciva
a trovare in se stesso la loro stessa naturalezza, la loro
tranquillità. Il loro
coraggio, forse.
Eddie
credeva sarebbe stato
felice una volta che il disco fosse uscito, a lui piaceva suonare e
cantare su
un palco, gli piaceva sentir urlare ragazzi come lui, guardarli pogare
e
strusciarsi e sentire la nostalgia di giorni nemmeno troppo lontani. La musica era quello, suonarla solo nel
chiuso di uno studio era inutile, andava vissuta.
Ma
il successo aveva troppe facce
che non aveva considerato.
Il
successo era anche un tubo
catodico che ti risucchiava, un microfono nel quale pretendevano tu non
cantassi ma parlassi, era la faccia
di un tizio che ti guardava con sufficienza per poi farti domande
stupide.
Era
la folla che si accalcava
sotto il palco, certo, e quello andava bene. Ma era anche la folla che
ti
circondava in strada mentre andavi a prendere un caffè,
quasi volesse
mangiarti.
La
folla dei concerti aveva un
volto, ne aveva tantissimi e tutti diversi, erano maschi ed erano
femmine ed
erano capelli lunghi e corti, lui riusciva sempre a vederli, aveva
imparato a
guardarli, a cercare i loro occhi e scoprirsi nelle loro pupille. In
strada non
era così: quella folla aveva un volto solo, una voce sola,
era un corpo unico,
era un gigante di carne che cercava il suo Pollicino. Eddie riusciva a
vedere
solo una grande bocca rossa che gli urlava addosso frasi senza senso e
senza
costrutto, frasi in cui il soggetto era sempre un Eddie
Eddie Eddie ripetuto allo stremo, tanto che quel nome non gli
sembrava quasi più il suo. Lo
stavano
mangiando.
Non
era proprio sempre stato
così. Quando avevano cominciato – quando
avevano venduto poco più dei quarantamila dischi che
avrebbero permesso loro di
inciderne un altro – era tutto diverso, MTV
non li aveva ancora scoperti, Rolling
Stone non li aveva ancora scoperti. C’erano riviste
interessate e tv locali,
anche, ovvio, ma tutto era rimasto decisamente underground. Non se ne
chiacchierava troppo oltre le live house, quello era il punto, ed a
loro stava
benissimo anche così.
Allora i fans non facevano paura, non erano ancora
un corpo unico con
mille braccia pronte a strapparti la carne. La tua.
Eddie
si fermava sempre a parlare
con un po’ di ragazzi dopo i concerti, o per strada, o ai
festival. Era
divertente, era bello ascoltarli ed ascoltarsi, sedersi con loro a
prendere una
birra e pensare che andava tutto bene, lui andava bene sul serio, una
volta
tanto. Era bello vederli felici per qualcosa che aveva fatto lui.
Leggeva
ogni singola lettera che
veniva indirizzata al loro neonato fanclub – che
poi era semplicemente il solito magazzino in cui provavano
– e
cercava di rispondere a tutti nel miglior modo possibile.
Perché quei ragazzi
sembravano fidarsi di lui, sembravano sentire quello che sentiva lui e
allora
non poteva lasciarli soli. Sarebbe stato
meno solo anche lui.
Eddie
non ricordava esattamente
quando tutto era cambiato. Il fatto era fosse successo praticamente da
un
giorno all’altro, un giorno suonavano in una live house da
cinquecento persone,
il giorno dopo in sale da cinquemila.
E poi erano stati i cinquantamila del Lollapalooza.
E
volevano loro. Urlavano il loro
nome, il suo nome, tutti insieme. In quel
momento non aveva realizzato davvero cosa sarebbe successo poi, cosa si
stava
muovendo sotto di lui; in quel momento, quando cinquantamila braccia si
erano tese
verso di lui incitandolo a lanciarsi, a fidarsi di loro, lui
l’aveva fatto. Si
era lanciato, si era fatto accogliere da quegli sconosciuti che avevano
continuato ad urlare e a cantare e a sorreggerlo fino a riportarlo sul
palco
perché cantasse ancora la sua follia e la loro.
Ed era stato bellissimo.
L’adrenalina
in circolo gli aveva
impedito di pensare linearmente, gli aveva impedito di guardare davvero
ciò che
stava vedendo e che non avrebbe più visto per anni dopo quel
concerto: aveva
sentito le loro braccia, le loro mani, le loro carni unirsi alla sua,
erano
vivi ed era vivo lui. I cinquantamila del Lollapalooza non erano ancora
diventati un indistinto fiume di carne e sudore senza nome che
reclamava il suo
sangue.
Ma
allora, nell’estate del
millenovecentonovantadue, Eddie ancora si sentiva uno della fossa: avrebbe continuato a sentirsi
così per molto tempo, le avrebbe addirittura prese dai
buttafuori al posto di
qualche incauto fan, ma tutto sarebbe finito entro pochi anni.
Perché
poi era arrivata lei.
Lei era una fan. Lei
era
giovanissima, lei aveva un mucchio
di
problemi e nessuno con cui parlarne. Lei,
però, non ci stava con la testa. E non se n'era accorto
nessuno. Non se n'era
accorto Eddie: l'aveva tratta dal mucchio, come nel mucchio aveva
pescato la
sua lettera e l’aveva letta, riletta e si era sentito male
per lei. Gli dispiaceva davvero.
Così
era cominciata quella
piccola corrispondenza apparentemente innocua.
In
realtà Eddie aveva archiviato
in fretta quella lettera, così come le numerose altre che
erano seguite, perché,
con l’aumento delle vendite e delle posizioni in classifica,
diventava dura
star dietro a tutto. Venivano sballottati come palle da bowling da un
lato
all’altro della Nazione, da un capo all’altro del
mondo, e non sempre era
divertente. E non era divertente perché non riuscivano a
capire, ma nessuno si
prendeva la briga di spiegar loro cosa stesse succedendo.
State andando forte siete in cima al mondo i
ragazzi vi adorano un
altro scatto per il prossimo numero un’altra domanda per i
nostri lettori.
Ma
quante domande avevano da
fare? Quante foto da scattare? Le immagini non trasmettevano musica, ma
loro
erano musicisti. Perché non li lasciavano suonare e cantare
e basta?
Dovete farvi conoscere, se non sanno che facce
avete come vi
riconosceranno?
Dalla
musica.
Le radio hanno fatto il loro tempo, MTV
è il futuro.
Ma
io non ce l’ho MTV.
Il resto del mondo sì.
Era
un mondo senza senso quello.
Ma
andava bene lo stesso, doveva
andare bene, l’avevano scelto loro, l’aveva deciso
lui che voleva cantare,
diventare un musicista. ‘Fanculo
tutto il
resto, giusto?
Potevano
farcela, potevano
resistere, stava andando tutto bene.
Intanto
le cose cambiavano però.
Intanto le luci cominciarono a non spegnersi più, i
microfoni a non
allontanarsi mai.
Durante
il primissimo stadio del
gruppo, Jeff e Eddie avevano cominciato a comporre e a dipingere
insieme: si
erano scoperti diversissimi ed affini, e quell’apparente
controsenso era stato
il terreno creativo che aveva nutrito un’amicizia –
e, per un certo tempo, un attaccamento quasi
infantile da parte di
Eddie – che li avrebbe accompagnati nel corso della
loro esistenza, tra gli
alti e bassi della vita e le asperità dei loro caratteri.
Era
musica che non facevano
ascoltare a nessuno, erano tele che tenevano per loro,
perché era tutto
rovesciato: il silenzio delle notti invernali di Seattle era diventato
la tela su
cui dipingevano le note lunghe e distorte che gli scorrevano nelle
vene, senza
senso e senza ragione, un flusso di coscienza che mutava nel colore di
una
melodia.
Registravano
tutto su nastri
vergini che poi nascondevano tra le pieghe dei borsoni che si portavano
in
tour, o tra gli scatoloni del magazzino-sala prove le cui pareti
tappezzarono
di disegni e polaroid; pochi tratti veloci e nervosi a ridare forma al
viso
spigoloso di Pete Townshed, spruzzi di blu e bianco e verde a ricreare
l’oceano
capriccioso di San Diego e del Messico, pennellate corpose e brunite,
quasi
senza sfumature, per il calvario di uno skater i cui sogni di colore
erano
stati inchiodati ad una croce: questi i frutti delle loro notti
insonni, tra i
fumi acidi di acrilici, oli e diossido di cromo.
Poi
non c’era più stato tempo,
non c’era più stato silenzio da riempire, solo
rumore da coprire con altro
rumore.
Eddie
non era abituato a quei
frastuoni, era abituato al respiro dell’oceano, era abituato
a coprire i rumori
con la musica. Era sempre stato così, fin da quando era
bambino: aveva nove
anni quando aveva scoperto che il tuono della voce di Roger Daltrey
poteva
diventare il perfetto silenzio in cui ripararsi dalla
quotidianità assordante e
litigiosa della sua famiglia.
Ma quando è la musica stessa a dare
origine al rumore, dove ci si può
rifugiare?
Eddie
non lo sapeva e nessuno del
gruppo, nemmeno Jeff, poteva aiutarlo. Neppure Beth ci riusciva sempre,
persino
lei diventava rumore da zittire scavando il fondo di una bottiglia. Non stava andando poi così bene.
Era
il millenovecentonovantatre
quando decisero che avrebbero dato un taglio al superfluo e quindi
niente più
immagini di troppo, niente più fotogrammi a far da cornice
alle loro note.
Niente di niente.
Era
il millenovecentonovantatre
quando Eddie decise che voleva darci un taglio, che, oltre ai capelli,
voleva
far cadere quella fama di cui non capiva i corollari.
Era
il millenovecentonovantatre
quando incontrò due persone che, loro e suo malgrado, si
erano legate a filo
doppio alla sua esistenza.
Incontrò prima Kurt.
In
realtà, quel backstage degli MTV
Music Award del
millenovecentonovantatre, non era stata la loro prima occasione di
conoscersi.
Ma Cobain lo odiava. Eddie sapeva benissimo cosa il cantante dei
Nirvana
pensasse di lui e, nonostante le rassicurazioni di chiunque, tutto quel
rumore
che lo circondava gli impediva di trovare una valida ragione per dargli
torto.
Poi
però, in quei microscopici
corridoi illuminati male, si erano incrociati. Potevano far finta di
niente,
fingere di non vedersi, persino cominciare a litigare dal vivo,
finalmente.
Invece
si erano guardati in
faccia per la prima volta e si erano visti davvero. Kurt si era tinto i
capelli, lo aveva fatto da solo mischiando chissà quanti
colori e sostanze e
non si riusciva a capire cosa avesse sulla testa; Eddie sulla testa
aveva un
caschetto militare di quelli d’acciaio, pesante e compatto.
Kurt stava cercando
di far sciogliere completamente il marcio che aveva in testa, Eddie di
trattenere quel che poteva esserci di buono, evitare che esplodesse
senza
preavviso.
Kurt
e Eddie si erano guardati in
faccia ed avevano visto riflessa nell’altro
l’immagine della loro stessa paura.
Semplicemente quello. Non era divertente.
Poi incontrò Lui.
Pete
Townshed allora aveva quasi
cinquant’anni, era un uomo adulto, un vecchio rocker con cui
il tempo non era
stato particolarmente clemente e non era mai stato una persona facile
con cui
trattare: in fondo se lo ricordavano tutti quello che aveva fatto a
Woodstock.
Ma se uno stronzo qualsiasi, ubriaco fradicio, ti sale sul palco mentre
stai
suonando davanti a cinquecentomila persone tentando di rubarti la
scena, non
c’è messaggio di pace che tenga, ti viene voglia
di spaccare la chitarra in
testa all’idiota in questione. E così aveva
fatto.
Pete
Townshed ovviamente non
poteva saperlo, ma era uno degli uomini che avevano segnato
maggiormente la
crescita di Eddie, facendone quello che era: il bambino che pure era
stato
aveva riascoltato in loop Quadrophenia
fino a cancellare i solchi del vinile. Poi il nastro della cassetta.
Eddie era una creatura di Townshed, Jimmy in carne e sangue.
Quando
Eddie riuscì finalmente ad
incontrare l’uomo che era stato il suo silenzio,
però, non era più
semplicemente la ferita aperta di
cui
aveva parlato Cameron Crowe su Rolling
Stone, era qualcosa di peggio. La ferita si era ulteriormente
slabbrata, si
stava infettando, marciva. Eddie si sentiva marcire da vivo.
Ma
Pete Townshed lo sentì
cantare, lo vide cantare, ed accettò
d’incontrarlo, stoicamente pronto a
sopportare l’adulazione dell’ennesimo fanboy:
quello che ricevette fu
probabilmente il più bel complimento un uomo potesse
ricevere, ma anche il più
grande insulto ad un rocker della sua statura.
“Grazie, mi ha salvato la vita, lei
è stato il mio silenzio.”
Alla
fine di un’intera serata
spesa in chiacchiere piuttosto che a inseguire fiumi di alcol, Pete
Townshed
era rimasto fedele al suo carattere di vecchio rocker inglese e aveva
lasciato
sfogare il ragazzo ancora un po’ prima di zittirlo con un
gesto secco della
mano. Che si era poi tramutato in un ceffone da manuale.
Dire
Eddie ne fosse rimasto
scioccato è poco, ma non fu solo la sorpresa ad impedirgli
di rispondere al
colpo: era Pete Townshed che
l’aveva
appena picchiato, in realtà sul momento stava persino per
ringraziare per
riflesso condizionato.
“Ora
tu la pianti di dire
stronzate, ragazzino, e mi stai a
sentire. Non azzardarti mai più a sputare su quello che hai
tra le mani, perché
è quello che ho anch’io, è quello che
avrà domani un altro ragazzino che vuole
farsi ascoltare. Lascia perdere i corollari, lascia perdere la tv, la
stampa,
gli stronzi che non capiscono un cazzo e vorrebbero dirti dove devi
andare:
solo la musica può dirtelo, ormai ti ha scelto e sei
fregato. Puoi solo
seguirla e vedere dove ti porta, quindi mettiti scarpe comode e corri,
o cammina,
quello che ti pare, ma vai avanti. Quello che tu e i tuoi compagni
state
facendo è troppo bello ed importante perché ti
permetta di tirarti indietro,
quindi cerca un modo per starci dentro, uno qualsiasi, ma sognati di
poter
mollare adesso. La musica è un padrone severo, ma
è l’unica dittatura che vale
la pena di assecondare, fidati.”
Eddie
non avrebbe mai più
dimenticato quelle parole ed il bruciore alla guancia che si era
trasformato
improvvisamente nell’impronta di una carezza. Le avrebbe
sempre portate con sé
come sprone e consolazione in ogni momento della sua esistenza di uomo
e
musicista, erano state la lezione di vita che nessuno dei suoi due
padri si era
mai preoccupato di dargli, e le serbò con cura nella testa e
tra le pagine
macchiate della sua agenda.
Era
il millenovecentonovantatre e
il mondo girava ancora troppo velocemente per i suoi gusti, ma si diede
un’altra possibilità, la diede a se stesso e ai
suoi compagni.
Jeff,
soprattutto, non lo dava a
vedere, ma era tremendamente preoccupato per Eddie, non gli piaceva
quello che
stava succedendo al cantante. Lui era stato un artista, lo era ancora,
la sua
spiccata sensibilità per il colore gli aveva sempre fatto
cogliere le sfumature
più sottili: e gli occhi di Eddie stavano cambiando, avevano
ormai il colore
della pioggia.
Era il colore di Seattle che si era mangiato Andy e
che stava mangiando
Layne, e Cobain.
Non
voleva si mangiasse anche
Eddie.
Ma
il cantante si ostinava a non
voler capire che quel piccolo passo avanti utile a separarlo dalla fossa l’aveva già
fatto, anche suo
malgrado: se sei su un palco a cantare puoi solo diminuire quanto
più possibile
la distanza che ti separa dal pubblico, ma lo scarto ci sarà
sempre. Fosse solo
perché guardi in una direzione diversa rispetto a tutti gli
altri.
Eddie,
però, si era attaccato con
le unghie e con i denti alla sua vecchia vita e non voleva saperne di
vedere
quello scarto, quello spazietto che si era aperto tra lui e la sua fossa. E continuava a leggere tutte
le lettere che arrivavano, e a rispondere, quasi sempre con qualcosa di
più di
due righe di circostanza.
Nessuno
si era accorto subito del
suo disagio, nemmeno Beth: dal primo, decisivo scatto in classifica di Ten, Eddie era sembrato perennemente a
disagio nei suoi stessi vestiti. Eddie,
in fondo, era sempre stato un po’ a disagio nella sua stessa
pelle.
Poi
però, lentamente, quel
disagio, quella rabbia che tramutava in rime e vocalizzi, si era
trasformato in
sospetto, rancore. Paura, forse.
Eddie
non aveva mostrato subito
agli altri le lettere di Maddie.
L’aveva chiamata così, la prima volta che le aveva
risposto, Madeleine gli era
sembrato un nome
inutilmente complicato da portare, soprattutto a diciotto anni.
E
dunque Maddie: solo che lui non
immaginava fosse matta sul serio.
Non
immaginava, soprattutto,
stesse già impazzendo lui e, il dolore che tutti quei
ragazzi così
sfacciatamente gli sbattevano in faccia chiedendogli risposte, fungeva
solo da
spinta finale. Solo pochi colpetti e
sarebbe inesorabilmente caduto.
Madeleine
Kelly rischiò di essere
quell’ultima spinta.
Eddie
ricominciò a non guardare
più la folla urlante sotto il palco. Ricominciò
ad essere nervoso davanti al
microfono, a cercare ossessivamente Jeff o Mike o Stone, persino Dave
con cui
pure era sempre ai ferri corti, durante gli assoli. Le sue incursioni
tra il
pubblico diventarono sempre più rare e veloci: non si fidava più.
Eddie
non sapeva quando era
successo, o come, o perché, ma era successo.
Le
lettere che riceveva da quella
ragazzina di Grayland erano sempre state un po’ strane, un
po’ infantili e
sgrammaticate, ma nulla di eccessivo o allarmante: si sentiva sola, la
sua
famiglia l’aveva abbandonata, aveva un figlio appena nato,
era costretta a
lavorare per un cattolicissimo stronzo che la trattava come una
sgualdrina, se
non erano problemi quelli, chi poteva dire di averne?
Ma
ad un certo punto, quelle
lettere carine e tristi e sconclusionate, erano cambiate in qualcosa di
diverso. Il cambiamento era stato sottile, strisciante, non se
n’era accorto
subito o avrebbe troncato la cosa sul nascere, ovviamente. Ma aveva
decisamente
altri problemi a cui badare, le strane lettere di una ragazzina di
periferia,
per quanto potesse spiacergli per lei, non potevano essere considerate
una
priorità. A volte non riusciva neppure a leggerle tutte o
andavano
semplicemente perse nella marea di missive che giungevano ogni mese in
casella
postale.
Poi
però erano cominciate le
velate accuse. Un po’ se le aspettava, tutti i ragazzi a cui
scriveva, dopo un
po’, lo avevano accusato di essersi montato la testa e
venduto o chissà cosa. E
solo perché magari non aveva risposto ad una lettera o
l’aveva fatto con troppo
ritardo.
Le
accuse di Maddie, però, erano
di natura diversa: non sembrava entrarci la musica, cioè.
Eddie non era
religioso e lo sapevano tutti, ma Maddie aveva cominciato a scrivergli
dei
passi del Vangelo, a chiedere a lui – a
lui! – di spiegarle meglio alcune storie della
Bibbia, ché il parroco di
Grayland non era granché bravo e che avrebbe dovuto
sceglierli meglio.
All’inizio aveva pensato ad un errore, ad uno scherzo,
perfino.
Poi Maddie aveva smesso di chiamarlo Eddie. Ed era
precipitato
nell’incubo.
In
un incubo fatto di guardie del
corpo e muri sempre più alti e spessi, di occhiate furtive
alle spalle, di
sospetti ed angosce.
Certi
giorni aveva paura persino
di mettere il naso fuori di casa, altri rimaneva a dormire in studio
pur di non
uscire una volta di troppo. Altri non riusciva a stare tra quattro
mura, aveva
bisogno di aria, di uscire, di nascondersi altrove, perché
gli occhi di Maddie
– che erano diventati
tutt’uno con quelli
delle telecamere, erano ormai fusi a quelli di chiunque incrociasse per
strada,
senza distinzione di sesso – se li sentiva addosso
ovunque, sembravano
spiarlo in ogni momento.
Beth
aveva tentato di tirarlo via
anche a forza la prima volta che l’aveva trovato rannicchiato
tra la lavatrice
e l’asciugatrice; l’aveva trovato così,
accucciato con le ginocchia al petto e
le mani strette ad un posacenere di vetro a fumare una sigaretta dietro
l’altra, gli occhi rossi e sgranati fissi nel vuoto, seduto
sul freddo
pavimento della lavanderia.
“Qui non possono raggiungermi, almeno qui
dentro non possono vedermi.”
Doveva
farli smettere, tutti
quanti.
Litigò
con Beth e con Jeff e con
tutti nel gruppo, litigò con chiunque la casa discografica
tentò di mandargli
per aggiustare le cose. Non voleva ascoltare nessuno né
essere ascoltato,
voleva solo seguire il consiglio di Townshed senza impazzire: la musica
l’avrebbe seguita e servita per sempre, ma alle sue
condizioni. Lui non era fatto per la
velocità, non poteva
correre.
Seppe
di aver fatto la scelta
giusta – di essersi unito al gruppo
giusto – quando, una volta calmatesi le acque, si
ritrovò davanti Stone,
arrabbiato come l’aveva visto poche volte da che lo
conosceva.
Perché
lui e Jeff avevano
parlato, ne avevano parlato ben prima della sua scena madre, e
sì, erano
d’accordo con lui, le cose stavano andando troppo
velocemente, non avevano
quasi più tempo per fare musica e, cazzo, loro erano
musicisti, se non
riuscivano nemmeno a comporre, allora che senso avevano? Mike non era
molto
contento di quel nuovo corso, ma si sarebbe adattato, a lui bastava gli
lasciassero la sua chitarra e un faretto dozzinale a scaldarlo davanti
ad un
pubblico, uno qualunque: perché lui voleva solo suonare.
Era
stato più difficile con Dave,
a lui quella storia non andava né su né
giù, a lui piacevano le feste, gli
piacevano i riflettori, gli piaceva la fama: era sempre stato
l’unico, tra
loro, ad aver sempre approfittato a piene mani dei vantaggi della
popolarità e
non voleva rinunciarci. Ma Dave era un ragazzino con la fissa delle
donne e
delle armi: poteva capire chi preferiva
colpire con le note e portarsi a letto una chitarra, oltre alla
scontata noiosa fidanzata del liceo?
Quante volte nella storia della musica era successo
che un gruppo sulla
cresta dell’onda decidesse di ritirarsi in buon ordine tra le
retrovie?
Quante volte nella storia della musica era successo
un gruppo sulla
cresta dell’onda si guardasse indietro a quando suonava per
pochi dollari in
brutti locali e non capisse perché, cambiando semplicemente
locale ma non
musica, quei pochi dollari erano diventati improvvisamente troppi?
Era
il
millenovecentonovantaquattro, però, e la storia della musica
era entrata in
un’epoca delirante, aveva deviato su strade che poco o nulla
avevano a che fare
con le note.
Era
il
millenovecentonovantaquattro e Kurt Cobain aveva prima tentato il
suicidio sui
pendii di Roma, per poi riuscirci un mese dopo nella serra di casa sua,
sulle
colline di Seattle.
Era
il millenovecentonovantaquattro
e la musica era stata intossicata per sempre.
Era
il
millenovecentonovantaquattro e Madeleine Kelly, non avendo ricevuto
risposta
alle tante lettere mandate in quell’anno al suo Salvatore,
aveva deciso di
fargli visita di persona, rischiando di uccidere in un colpo solo se
stessa e quel
che rimaneva della sanità mentale di un santino di carne e
sangue.
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