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Autore: Angeline Farewell    03/09/2010    1 recensioni
Una stalker psicopatica ha funestato i primi anni della carriera di Eddie Vedder arrivando a tentare il suicidio lanciandosi con l'auto contro i cancelli della sua casa di Seattle qualche mese dopo il ritrovamento del cadavere di Cobain. La cronaca storica finisce così, della donna non si saprà più nulla. O Forse no.
WARNING: Minor Character Death.
[...]Madeleine era sempre stata una ragazza chiusa, talmente timida da sembrare praticamente tonta – e forse un po’ lo era davvero – e senza particolari attrattive se non, appunto, quella di essere una ragazza, una femmina adolescente. E a Grayland era già tantissimo. Era una cittadina orribile, Grayland, grigia come suggeriva il nome, nemmeno il verde dei campi e del bosco che la circondava riusciva ad emergere nell’appiattimento
triste di quel microscopico agglomerato urbano. Ed era piovosa, cupa, povera. Piccola soprattutto, troppo per contenere qualunque cosa: meno di mille anime incastrate tra un pezzo ferroso d’oceano e i campi, nemmeno la statale arrivava in quel buco.
La 101 si fermava ad Aberdeen, proseguiva per Raymond, ma nessuno aveva mai pensato fosse necessario collegare Grayland al resto dello stato, come se nemmeno fosse parte
Genere: Drammatico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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17.07.2008

Sono passati quasi quindici anni da quel giorno, dal giorno in cui mi hai tradita. Sono passati quasi quindici anni dal giorno in cui mi hanno rinchiusa tra quattro mura bianche senza nemmeno la consolazione di un crocifisso. O di un prete. Ma il cappellano dell’ospedale si era rifiutato di venire da me dopo i primi colloqui, secondo lui non ero malata.

Ed aveva ragione, io non sono mai stata malata, eri tu, bastardo, che continuavi a perseguitarmi anche lì, anche senza l’utilizzo di televisori, radio e giornali che mi erano preclusi: ma io vedevo tuoi segni ovunque, tu eri ovunque, proprio come diceva la Bibbia.

Lo dissi al cappellano e lui non volle più venire da me, disse – appunto – che non ero malata, ero un’indemoniata.

Stupido prete.

Lui non capiva, esattamente come non capiva nessuno, Eddie.

Nemmeno tu hai capito, probabilmente, perché continui a comportarti come un uomo quando sappiamo benissimo che non sei solo questo. Questo mondo ti sta corrompendo, ti sei circondato di peccatori senza morale, mio Dio, drogati, punk, omosessuali…

Ma ho seguito il tuo primo consiglio, sono stata attenta ad ogni dettaglio. Ci ho messo quasi dieci anni per convincerli, ma alla fine ci sono riuscita.

Complimenti signorina Kelly, lei ce l’ha fatta, è completamente guarita, raramente abbiamo riscontrato una regressione tale nella sindrome di De Clérambault e blah blah blah.

Ho smesso di ascoltare quel pomposo pallone gonfiato in camice bianco immediatamente dopo i complimenti, mi sono dovuta mordere la lingua a sangue per non urlare di gioia in faccia a quell’idiota.

Invece mi sono finta mite, arrendevole, grata. Come mi volevano loro.

Ho giocato al loro gioco, stando alle loro regole, ed ho vinto. Sono fuori, niente più medicine e ronde e infermiere stronze. Il laccio è caduto.

Però non so dove sono i nostri bambini, me li hanno portati via mentre ero in ospedale per darli in adozione: io, io che sono la loro madre, secondo loro non sarei stata in grado di occuparmene.

Non hanno voluto dirmi dove sono, da chi sono stati adottati, se stanno bene.

Non ho mai capito perché non li hanno piuttosto affidati a te, ma probabilmente non hai voluto, vero? Perché sei un bugiardo ed hai buttato via loro esattamente come hai fatto con me.

Ma non può finire così, non dopo quello che c’è stato tra noi, non dopo le notti insonni e i sogni e la musica che hai suonato, lo so, solo per me.

Questa sera sarò il tuo Getsemani e finalmente saremo di nuovo insieme.


17.04.1994

Eddie Vedder aveva creduto di essere pronto.

Quando il successo lo aveva raggiunto e praticamente sepolto aveva quasi ventisette anni, era un uomo adulto, insomma.

Eddie Vedder aveva cominciato a vivere da solo che non aveva ancora sedici anni, pagava le bollette per conto suo e non mancava un affitto, era tornato a vivere con sua madre solo per poter anche finire il liceo. Non aveva smesso di lavorare, solo che a quel punto lo faceva soprattutto per dare qualche agio in più a se stesso e ai suoi fratelli minori.

Quando il successo gli era arrivato addosso credeva che sarebbe stato semplice maneggiarlo, in fondo aveva visto di peggio: mai provato a lavorare in un drugstore fino alle cinque del mattino per essere poi puntualmente in classe alle otto?

Insomma, aveva vissuto parecchio per farsi sconvolgere da tanto poco. Ma questo, appunto, lo credeva lui.

Quando il successo, quello vero, quello grosso e urlante, l’aveva raggiunto, Eddie Vedder ne era rimasto stupito. Semplicemente quello. Un po’ perché non se ne aspettava tanto, un po’ perché davanti agli occhi continuavano a passargli in parata immagini di Bruce Springsteen e Neil Young e Jim Morrison e Bono Vox e mille altri e non riusciva a trovare in se stesso la loro stessa naturalezza, la loro tranquillità. Il loro coraggio, forse.

Eddie credeva sarebbe stato felice una volta che il disco fosse uscito, a lui piaceva suonare e cantare su un palco, gli piaceva sentir urlare ragazzi come lui, guardarli pogare e strusciarsi e sentire la nostalgia di giorni nemmeno troppo lontani. La musica era quello, suonarla solo nel chiuso di uno studio era inutile, andava vissuta.

Ma il successo aveva troppe facce che non aveva considerato.

Il successo era anche un tubo catodico che ti risucchiava, un microfono nel quale pretendevano tu non cantassi ma parlassi, era la faccia di un tizio che ti guardava con sufficienza per poi farti domande stupide.

Era la folla che si accalcava sotto il palco, certo, e quello andava bene. Ma era anche la folla che ti circondava in strada mentre andavi a prendere un caffè, quasi volesse mangiarti.

La folla dei concerti aveva un volto, ne aveva tantissimi e tutti diversi, erano maschi ed erano femmine ed erano capelli lunghi e corti, lui riusciva sempre a vederli, aveva imparato a guardarli, a cercare i loro occhi e scoprirsi nelle loro pupille. In strada non era così: quella folla aveva un volto solo, una voce sola, era un corpo unico, era un gigante di carne che cercava il suo Pollicino. Eddie riusciva a vedere solo una grande bocca rossa che gli urlava addosso frasi senza senso e senza costrutto, frasi in cui il soggetto era sempre un Eddie Eddie Eddie ripetuto allo stremo, tanto che quel nome non gli sembrava quasi più il suo. Lo stavano mangiando.

Non era proprio sempre stato così. Quando avevano cominciato – quando avevano venduto poco più dei quarantamila dischi che avrebbero permesso loro di inciderne un altro – era tutto diverso, MTV non li aveva ancora scoperti, Rolling Stone non li aveva ancora scoperti. C’erano riviste interessate e tv locali, anche, ovvio, ma tutto era rimasto decisamente underground. Non se ne chiacchierava troppo oltre le live house, quello era il punto, ed a loro stava benissimo anche così.

Allora i fans non facevano paura, non erano ancora un corpo unico con mille braccia pronte a strapparti la carne. La tua.

Eddie si fermava sempre a parlare con un po’ di ragazzi dopo i concerti, o per strada, o ai festival. Era divertente, era bello ascoltarli ed ascoltarsi, sedersi con loro a prendere una birra e pensare che andava tutto bene, lui andava bene sul serio, una volta tanto. Era bello vederli felici per qualcosa che aveva fatto lui.

Leggeva ogni singola lettera che veniva indirizzata al loro neonato fanclub – che poi era semplicemente il solito magazzino in cui provavano – e cercava di rispondere a tutti nel miglior modo possibile. Perché quei ragazzi sembravano fidarsi di lui, sembravano sentire quello che sentiva lui e allora non poteva lasciarli soli. Sarebbe stato meno solo anche lui.  

Eddie non ricordava esattamente quando tutto era cambiato. Il fatto era fosse successo praticamente da un giorno all’altro, un giorno suonavano in una live house da cinquecento persone, il giorno dopo in sale da cinquemila.

E poi erano stati i cinquantamila del Lollapalooza.

E volevano loro. Urlavano il loro nome, il suo nome, tutti insieme. In quel momento non aveva realizzato davvero cosa sarebbe successo poi, cosa si stava muovendo sotto di lui; in quel momento, quando cinquantamila braccia si erano tese verso di lui incitandolo a lanciarsi, a fidarsi di loro, lui l’aveva fatto. Si era lanciato, si era fatto accogliere da quegli sconosciuti che avevano continuato ad urlare e a cantare e a sorreggerlo fino a riportarlo sul palco perché cantasse ancora la sua follia e la loro.

Ed era stato bellissimo.

L’adrenalina in circolo gli aveva impedito di pensare linearmente, gli aveva impedito di guardare davvero ciò che stava vedendo e che non avrebbe più visto per anni dopo quel concerto: aveva sentito le loro braccia, le loro mani, le loro carni unirsi alla sua, erano vivi ed era vivo lui. I cinquantamila del Lollapalooza non erano ancora diventati un indistinto fiume di carne e sudore senza nome che reclamava il suo sangue.

Ma allora, nell’estate del millenovecentonovantadue, Eddie ancora si sentiva uno della fossa: avrebbe continuato a sentirsi così per molto tempo, le avrebbe addirittura prese dai buttafuori al posto di qualche incauto fan, ma tutto sarebbe finito entro pochi anni.

Perché poi era arrivata lei.

Lei era una fan. Lei era giovanissima, lei aveva un mucchio di problemi e nessuno con cui parlarne. Lei, però, non ci stava con la testa. E non se n'era accorto nessuno. Non se n'era accorto Eddie: l'aveva tratta dal mucchio, come nel mucchio aveva pescato la sua lettera e l’aveva letta, riletta e si era sentito male per lei. Gli dispiaceva davvero.

Così era cominciata quella piccola corrispondenza apparentemente innocua.

In realtà Eddie aveva archiviato in fretta quella lettera, così come le numerose altre che erano seguite, perché, con l’aumento delle vendite e delle posizioni in classifica, diventava dura star dietro a tutto. Venivano sballottati come palle da bowling da un lato all’altro della Nazione, da un capo all’altro del mondo, e non sempre era divertente. E non era divertente perché non riuscivano a capire, ma nessuno si prendeva la briga di spiegar loro cosa stesse succedendo.

State andando forte siete in cima al mondo i ragazzi vi adorano un altro scatto per il prossimo numero un’altra domanda per i nostri lettori.

Ma quante domande avevano da fare? Quante foto da scattare? Le immagini non trasmettevano musica, ma loro erano musicisti. Perché non li lasciavano suonare e cantare e basta?

Dovete farvi conoscere, se non sanno che facce avete come vi riconosceranno?

Dalla musica.

Le radio hanno fatto il loro tempo, MTV è il futuro.

Ma io non ce l’ho MTV.

Il resto del mondo sì.

Era un mondo senza senso quello.

Ma andava bene lo stesso, doveva andare bene, l’avevano scelto loro, l’aveva deciso lui che voleva cantare, diventare un musicista. ‘Fanculo tutto il resto, giusto?

Potevano farcela, potevano resistere, stava andando tutto bene.

Intanto le cose cambiavano però. Intanto le luci cominciarono a non spegnersi più, i microfoni a non allontanarsi mai.

Durante il primissimo stadio del gruppo, Jeff e Eddie avevano cominciato a comporre e a dipingere insieme: si erano scoperti diversissimi ed affini, e quell’apparente controsenso era stato il terreno creativo che aveva nutrito un’amicizia – e, per un certo tempo, un attaccamento quasi infantile da parte di Eddie – che li avrebbe accompagnati nel corso della loro esistenza, tra gli alti e bassi della vita e le asperità dei loro caratteri.

Era musica che non facevano ascoltare a nessuno, erano tele che tenevano per loro, perché era tutto rovesciato: il silenzio delle notti invernali di Seattle era diventato la tela su cui dipingevano le note lunghe e distorte che gli scorrevano nelle vene, senza senso e senza ragione, un flusso di coscienza che mutava nel colore di una melodia.

Registravano tutto su nastri vergini che poi nascondevano tra le pieghe dei borsoni che si portavano in tour, o tra gli scatoloni del magazzino-sala prove le cui pareti tappezzarono di disegni e polaroid; pochi tratti veloci e nervosi a ridare forma al viso spigoloso di Pete Townshed, spruzzi di blu e bianco e verde a ricreare l’oceano capriccioso di San Diego e del Messico, pennellate corpose e brunite, quasi senza sfumature, per il calvario di uno skater i cui sogni di colore erano stati inchiodati ad una croce: questi i frutti delle loro notti insonni, tra i fumi acidi di acrilici, oli e diossido di cromo.

Poi non c’era più stato tempo, non c’era più stato silenzio da riempire, solo rumore da coprire con altro rumore.

Eddie non era abituato a quei frastuoni, era abituato al respiro dell’oceano, era abituato a coprire i rumori con la musica. Era sempre stato così, fin da quando era bambino: aveva nove anni quando aveva scoperto che il tuono della voce di Roger Daltrey poteva diventare il perfetto silenzio in cui ripararsi dalla quotidianità assordante e litigiosa della sua famiglia.

Ma quando è la musica stessa a dare origine al rumore, dove ci si può rifugiare?

Eddie non lo sapeva e nessuno del gruppo, nemmeno Jeff, poteva aiutarlo. Neppure Beth ci riusciva sempre, persino lei diventava rumore da zittire scavando il fondo di una bottiglia. Non stava andando poi così bene.

Era il millenovecentonovantatre quando decisero che avrebbero dato un taglio al superfluo e quindi niente più immagini di troppo, niente più fotogrammi a far da cornice alle loro note. Niente di niente.

Era il millenovecentonovantatre quando Eddie decise che voleva darci un taglio, che, oltre ai capelli, voleva far cadere quella fama di cui non capiva i corollari.

Era il millenovecentonovantatre quando incontrò due persone che, loro e suo malgrado, si erano legate a filo doppio alla sua esistenza.

Incontrò prima Kurt.

In realtà, quel backstage degli MTV Music Award del millenovecentonovantatre, non era stata la loro prima occasione di conoscersi. Ma Cobain lo odiava. Eddie sapeva benissimo cosa il cantante dei Nirvana pensasse di lui e, nonostante le rassicurazioni di chiunque, tutto quel rumore che lo circondava gli impediva di trovare una valida ragione per dargli torto.

Poi però, in quei microscopici corridoi illuminati male, si erano incrociati. Potevano far finta di niente, fingere di non vedersi, persino cominciare a litigare dal vivo, finalmente.

Invece si erano guardati in faccia per la prima volta e si erano visti davvero. Kurt si era tinto i capelli, lo aveva fatto da solo mischiando chissà quanti colori e sostanze e non si riusciva a capire cosa avesse sulla testa; Eddie sulla testa aveva un caschetto militare di quelli d’acciaio, pesante e compatto. Kurt stava cercando di far sciogliere completamente il marcio che aveva in testa, Eddie di trattenere quel che poteva esserci di buono, evitare che esplodesse senza preavviso.

Kurt e Eddie si erano guardati in faccia ed avevano visto riflessa nell’altro l’immagine della loro stessa paura. Semplicemente quello. Non era divertente.

Poi incontrò Lui. 

Pete Townshed allora aveva quasi cinquant’anni, era un uomo adulto, un vecchio rocker con cui il tempo non era stato particolarmente clemente e non era mai stato una persona facile con cui trattare: in fondo se lo ricordavano tutti quello che aveva fatto a Woodstock. Ma se uno stronzo qualsiasi, ubriaco fradicio, ti sale sul palco mentre stai suonando davanti a cinquecentomila persone tentando di rubarti la scena, non c’è messaggio di pace che tenga, ti viene voglia di spaccare la chitarra in testa all’idiota in questione.  E così aveva fatto.

Pete Townshed ovviamente non poteva saperlo, ma era uno degli uomini che avevano segnato maggiormente la crescita di Eddie, facendone quello che era: il bambino che pure era stato aveva riascoltato in loop Quadrophenia fino a cancellare i solchi del vinile. Poi il nastro della cassetta.

Eddie era una creatura di Townshed, Jimmy in carne e sangue.

Quando Eddie riuscì finalmente ad incontrare l’uomo che era stato il suo silenzio, però, non era più semplicemente la ferita aperta di cui aveva parlato Cameron Crowe su Rolling Stone, era qualcosa di peggio. La ferita si era ulteriormente slabbrata, si stava infettando, marciva. Eddie si sentiva marcire da vivo.

Ma Pete Townshed lo sentì cantare, lo vide cantare, ed accettò d’incontrarlo, stoicamente pronto a sopportare l’adulazione dell’ennesimo fanboy: quello che ricevette fu probabilmente il più bel complimento un uomo potesse ricevere, ma anche il più grande insulto ad un rocker della sua statura.

“Grazie, mi ha salvato la vita, lei è stato il mio silenzio.”

Alla fine di un’intera serata spesa in chiacchiere piuttosto che a inseguire fiumi di alcol, Pete Townshed era rimasto fedele al suo carattere di vecchio rocker inglese e aveva lasciato sfogare il ragazzo ancora un po’ prima di zittirlo con un gesto secco della mano. Che si era poi tramutato in un ceffone da manuale.

Dire Eddie ne fosse rimasto scioccato è poco, ma non fu solo la sorpresa ad impedirgli di rispondere al colpo: era Pete Townshed che l’aveva appena picchiato, in realtà sul momento stava persino per ringraziare per riflesso condizionato.

“Ora tu la pianti di dire stronzate, ragazzino, e mi stai a sentire. Non azzardarti mai più a sputare su quello che hai tra le mani, perché è quello che ho anch’io, è quello che avrà domani un altro ragazzino che vuole farsi ascoltare. Lascia perdere i corollari, lascia perdere la tv, la stampa, gli stronzi che non capiscono un cazzo e vorrebbero dirti dove devi andare: solo la musica può dirtelo, ormai ti ha scelto e sei fregato. Puoi solo seguirla e vedere dove ti porta, quindi mettiti scarpe comode e corri, o cammina, quello che ti pare, ma vai avanti. Quello che tu e i tuoi compagni state facendo è troppo bello ed importante perché ti permetta di tirarti indietro, quindi cerca un modo per starci dentro, uno qualsiasi, ma sognati di poter mollare adesso. La musica è un padrone severo, ma è l’unica dittatura che vale la pena di assecondare, fidati.”

Eddie non avrebbe mai più dimenticato quelle parole ed il bruciore alla guancia che si era trasformato improvvisamente nell’impronta di una carezza. Le avrebbe sempre portate con sé come sprone e consolazione in ogni momento della sua esistenza di uomo e musicista, erano state la lezione di vita che nessuno dei suoi due padri si era mai preoccupato di dargli, e le serbò con cura nella testa e tra le pagine macchiate della sua agenda.

Era il millenovecentonovantatre e il mondo girava ancora troppo velocemente per i suoi gusti, ma si diede un’altra possibilità, la diede a se stesso e ai suoi compagni.

Jeff, soprattutto, non lo dava a vedere, ma era tremendamente preoccupato per Eddie, non gli piaceva quello che stava succedendo al cantante. Lui era stato un artista, lo era ancora, la sua spiccata sensibilità per il colore gli aveva sempre fatto cogliere le sfumature più sottili: e gli occhi di Eddie stavano cambiando, avevano ormai il colore della pioggia.

Era il colore di Seattle che si era mangiato Andy e che stava mangiando Layne, e Cobain.

Non voleva si mangiasse anche Eddie.

Ma il cantante si ostinava a non voler capire che quel piccolo passo avanti utile a separarlo dalla fossa l’aveva già fatto, anche suo malgrado: se sei su un palco a cantare puoi solo diminuire quanto più possibile la distanza che ti separa dal pubblico, ma lo scarto ci sarà sempre. Fosse solo perché guardi in una direzione diversa rispetto a tutti gli altri.

Eddie, però, si era attaccato con le unghie e con i denti alla sua vecchia vita e non voleva saperne di vedere quello scarto, quello spazietto che si era aperto tra lui e la sua fossa. E continuava a leggere tutte le lettere che arrivavano, e a rispondere, quasi sempre con qualcosa di più di due righe di circostanza.

Nessuno si era accorto subito del suo disagio, nemmeno Beth: dal primo, decisivo scatto in classifica di Ten, Eddie era sembrato perennemente a disagio nei suoi stessi vestiti. Eddie, in fondo, era sempre stato un po’ a disagio nella sua stessa pelle.

Poi però, lentamente, quel disagio, quella rabbia che tramutava in rime e vocalizzi, si era trasformato in sospetto, rancore. Paura, forse.

Eddie non aveva mostrato subito agli altri le lettere di Maddie. L’aveva chiamata così, la prima volta che le aveva risposto, Madeleine gli era sembrato un nome inutilmente complicato da portare, soprattutto a diciotto anni.

E dunque Maddie: solo che lui non immaginava fosse matta sul serio.

Non immaginava, soprattutto, stesse già impazzendo lui e, il dolore che tutti quei ragazzi così sfacciatamente gli sbattevano in faccia chiedendogli risposte, fungeva solo da spinta finale. Solo pochi colpetti e sarebbe inesorabilmente caduto.

Madeleine Kelly rischiò di essere quell’ultima spinta.

Eddie ricominciò a non guardare più la folla urlante sotto il palco. Ricominciò ad essere nervoso davanti al microfono, a cercare ossessivamente Jeff o Mike o Stone, persino Dave con cui pure era sempre ai ferri corti, durante gli assoli. Le sue incursioni tra il pubblico diventarono sempre più rare e veloci: non si fidava più.

Eddie non sapeva quando era successo, o come, o perché, ma era successo.

Le lettere che riceveva da quella ragazzina di Grayland erano sempre state un po’ strane, un po’ infantili e sgrammaticate, ma nulla di eccessivo o allarmante: si sentiva sola, la sua famiglia l’aveva abbandonata, aveva un figlio appena nato, era costretta a lavorare per un cattolicissimo stronzo che la trattava come una sgualdrina, se non erano problemi quelli, chi poteva dire di averne?

Ma ad un certo punto, quelle lettere carine e tristi e sconclusionate, erano cambiate in qualcosa di diverso. Il cambiamento era stato sottile, strisciante, non se n’era accorto subito o avrebbe troncato la cosa sul nascere, ovviamente. Ma aveva decisamente altri problemi a cui badare, le strane lettere di una ragazzina di periferia, per quanto potesse spiacergli per lei, non potevano essere considerate una priorità. A volte non riusciva neppure a leggerle tutte o andavano semplicemente perse nella marea di missive che giungevano ogni mese in casella postale.

Poi però erano cominciate le velate accuse. Un po’ se le aspettava, tutti i ragazzi a cui scriveva, dopo un po’, lo avevano accusato di essersi montato la testa e venduto o chissà cosa. E solo perché magari non aveva risposto ad una lettera o l’aveva fatto con troppo ritardo.

Le accuse di Maddie, però, erano di natura diversa: non sembrava entrarci la musica, cioè. Eddie non era religioso e lo sapevano tutti, ma Maddie aveva cominciato a scrivergli dei passi del Vangelo, a chiedere a lui – a lui! – di spiegarle meglio alcune storie della Bibbia, ché il parroco di Grayland non era granché bravo e che avrebbe dovuto sceglierli meglio. All’inizio aveva pensato ad un errore, ad uno scherzo, perfino.

Poi Maddie aveva smesso di chiamarlo Eddie. Ed era precipitato nell’incubo.

In un incubo fatto di guardie del corpo e muri sempre più alti e spessi, di occhiate furtive alle spalle, di sospetti ed angosce.

Certi giorni aveva paura persino di mettere il naso fuori di casa, altri rimaneva a dormire in studio pur di non uscire una volta di troppo. Altri non riusciva a stare tra quattro mura, aveva bisogno di aria, di uscire, di nascondersi altrove, perché gli occhi di Maddie – che erano diventati tutt’uno con quelli delle telecamere, erano ormai fusi a quelli di chiunque incrociasse per strada, senza distinzione di sesso – se li sentiva addosso ovunque, sembravano spiarlo in ogni momento.

Beth aveva tentato di tirarlo via anche a forza la prima volta che l’aveva trovato rannicchiato tra la lavatrice e l’asciugatrice; l’aveva trovato così, accucciato con le ginocchia al petto e le mani strette ad un posacenere di vetro a fumare una sigaretta dietro l’altra, gli occhi rossi e sgranati fissi nel vuoto, seduto sul freddo pavimento della lavanderia.

“Qui non possono raggiungermi, almeno qui dentro non possono vedermi.”

Doveva farli smettere, tutti quanti.

Litigò con Beth e con Jeff e con tutti nel gruppo, litigò con chiunque la casa discografica tentò di mandargli per aggiustare le cose. Non voleva ascoltare nessuno né essere ascoltato, voleva solo seguire il consiglio di Townshed senza impazzire: la musica l’avrebbe seguita e servita per sempre, ma alle sue condizioni. Lui non era fatto per la velocità, non poteva correre.

Seppe di aver fatto la scelta giusta – di essersi unito al gruppo giusto – quando, una volta calmatesi le acque, si ritrovò davanti Stone, arrabbiato come l’aveva visto poche volte da che lo conosceva.  

Perché lui e Jeff avevano parlato, ne avevano parlato ben prima della sua scena madre, e sì, erano d’accordo con lui, le cose stavano andando troppo velocemente, non avevano quasi più tempo per fare musica e, cazzo, loro erano musicisti, se non riuscivano nemmeno a comporre, allora che senso avevano? Mike non era molto contento di quel nuovo corso, ma si sarebbe adattato, a lui bastava gli lasciassero la sua chitarra e un faretto dozzinale a scaldarlo davanti ad un pubblico, uno qualunque: perché lui voleva solo suonare.

Era stato più difficile con Dave, a lui quella storia non andava né su né giù, a lui piacevano le feste, gli piacevano i riflettori, gli piaceva la fama: era sempre stato l’unico, tra loro, ad aver sempre approfittato a piene mani dei vantaggi della popolarità e non voleva rinunciarci. Ma Dave era un ragazzino con la fissa delle donne e delle armi: poteva capire chi preferiva colpire con le note e portarsi a letto una chitarra, oltre alla scontata noiosa fidanzata del liceo?

Quante volte nella storia della musica era successo che un gruppo sulla cresta dell’onda decidesse di ritirarsi in buon ordine tra le retrovie?

Quante volte nella storia della musica era successo un gruppo sulla cresta dell’onda si guardasse indietro a quando suonava per pochi dollari in brutti locali e non capisse perché, cambiando semplicemente locale ma non musica, quei pochi dollari erano diventati improvvisamente troppi?

Era il millenovecentonovantaquattro, però, e la storia della musica era entrata in un’epoca delirante, aveva deviato su strade che poco o nulla avevano a che fare con le note.

Era il millenovecentonovantaquattro e Kurt Cobain aveva prima tentato il suicidio sui pendii di Roma, per poi riuscirci un mese dopo nella serra di casa sua, sulle colline di Seattle.

Era il millenovecentonovantaquattro e la musica era stata intossicata per sempre.

Era il millenovecentonovantaquattro e Madeleine Kelly, non avendo ricevuto risposta alle tante lettere mandate in quell’anno al suo Salvatore, aveva deciso di fargli visita di persona, rischiando di uccidere in un colpo solo se stessa e quel che rimaneva della sanità mentale di un santino di carne e sangue.

   
 
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