17.07.2008
Che
a Los Angeles il freddo e
l’inverno non arrivino è un luogo comune, una
leggenda metropolitana tra quelle
più facilmente sfatabili, ma che nell’immaginario
collettivo tendono a
radicarsi come una bella metafora della vita: perché Los
Angeles è la città
degli angeli e gli angeli vivono in una perpetua e ricca estate di sole
e
miele, The City of Angels è sinonimo di Hollywood e non sta
bene far
raffreddare le stelle.
Che
Los Angeles sia solo una
città come tante – solo
più grande e
caotica e puzzolente di tante altre – e che
Hollywood fosse nata come una
cittadina-satellite di poveracci, in pochi se lo ricordavano, o
volevano
ricordarlo.
A
Los Angeles arriva il caldo
vero però, perché il deserto è dietro
l’angolo e a volte sembrerebbe voler
mangiare la città.
Il
diciassette luglio del
duemilaotto, il caldo ed il sole di Los Angeles non erano dunque nulla
di
anomalo, solo una bella cornice per le spiagge infinite di una costa
color
crema baciata dalla risacca di un oceano insolitamente dolce. Tanto da
farci
giocare i bambini, magari insegnar loro a nuotare o montare su una
tavola corta
e colorata.
Eddie
aveva imparato a nuotare su
spiagge simili a quella, giocando a rincorrere onde come quelle che ora
sua
figlia si divertiva a evitare e inseguire ridendo. Aveva appena
compiuto
quattro anni ed era la bambina più bella del mondo, sarebbe
sempre stata la
bambina più bella del mondo per qualcuno che veniva definito
icona e santino di
un’epoca capricciosa come la risacca dell’oceano:
Eddie Vedder in quel momento
era solo un padre come tanti che guarda la sua primogenita giocare con
le onde,
che poggia tenero la mano sulla pancia rotonda della sua compagna che
sfoglia
tranquilla una rivista.
Il
diciassette luglio del duemilaotto
era un giorno nato sotto i migliori auspici, perché era
estate, il sole
splendeva sulla Città degli Angeli, entro qualche mese
George Bush sarebbe
stato definitivamente sfanculato e uno scricciolo con gli occhi enormi
ed un
costumino rosa gli era appena caracollato addosso. Piantandogli il
gelato alla
fragola che teneva in mano direttamente nell’ombelico.
Vivian
Gossard aveva poco più di
un anno e tutta l’energia dei poppanti che si sono da poco
liberati del
pannolino e delle costrizioni del box, così come la
strafottenza di chi può
altamente fregarsene delle apparenze, protetta dal’alibi
dell’età
dell’innocenza o di quello che è.
“Vivi,
tesoro, lo zio Ed ora ti
compra un altro gelato, eh? Che i vicini ci guardano e non vorrei
finire come
Michael Jackson. Stone, di’ ma che t’è
saltato in mente, non è troppo piccola
per mangiare un gelato così?”
Il
chitarrista ciabattava ancora
a qualche metro con aria noncurante. Gli occhiali da vista leggermente
ambrati
e i capelli corti e brizzolati lo facevano sembrare un ragioniere in
vacanza
piuttosto che una rockstar da sessanta milioni di dischi: come gli
altri – o forse più
degli altri – nella band,
Stone Gossard era invecchiato in modo pacato e coerente, mettendo su
qualche
chilo dopo i quaranta, fregandosene degli spruzzi bianchi tra i capelli
e delle
montature orrende che riusciva a scegliere per correggere la sua
miopia. Da
ragazzo sembrava un nerd capellone, da adulto il contabile di una
società di
computer e, se qualcuno lo stava degnando di uno sguardo, era solo per
capire perché un bravo
padre di famiglia come
lui si accompagnasse ad un vecchio arnese palesemente tinto e ricoperto
di
tatuaggi.
Non che un tipo simile fosse uno spettacolo anomalo
sulle spiagge
californiane: era l’accostamento che straniva.
“La
vizio un po’ visto che sua
madre non c’è oggi. Ciao Jill.”
Stone
aveva recuperato sua figlia
- che tentava ancora di saltare addosso allo zio
Ed per recuperare la sua pallina di gelato - ed aveva preso a
ripulirla da quello che si era nel mentre spalmata sulla faccia, sulle
braccia,
ovunque.
Mike,
l’arnese tinto, si era
intanto sistemato al sole mite di quel primo
mattino di metà estate sperando di liberarsi da quel pallore
malaticcio che lo
seguiva da qualche giorno, in vista della serata.
Magari avrebbe dovuto dar retta a Duff e farsi una
lampada?
Ma
gli unici ritocchi estetici
che concepiva erano le cicatrici colorate con cui si faceva scolpire
periodicamente, o le tinte sgargianti che vestiva sulla testa: per
l’evento
della serata aveva optato per un classico
biondo fotonico.
“Jeff
ha detto che non viene
stamattina, si è svegliato prima dell’alba per
andare all’Hollenbeck, ma Dori
dovrebbe raggiungerci più tardi.”
Nessuno
gli aveva fatto quella
domanda, ma Mike sapeva che sarebbe arrivata, sapeva che Ed avrebbe
chiesto:
avevano un bel dire ognuno avesse la propria vita fuori dal gruppo e
blah blah
blah, la verità era non riuscissero effettivamente a
scollarsi quando erano in
tour o quando facevano musica, il che voleva dire sempre.
E
Eddie non prendeva bene le
separazioni. Ogni piccolo hiatus del gruppo – tecnicamente si
separavano alla
fine di ogni tour – era una sorta di prova del nove, una
prova di resistenza: chi avrebbe chiamato per
primo? E perché
non lo cercavano?
Sindrome
da abbandono, ecco di
cosa soffriva Eddie Vedder. Altro che sindrome della prima donna,
magari
l’avesse avuta; almeno si sarebbero risparmiati un decennio a
fuggire dalle
telecamere senza riuscire comunque a sottrarsi ai doveri che derivavano
dalla
fama.
Ma
quella era una specie di
riunione di famiglia allargata,
perché Ed aveva ovviamente con sé Jill
– di
nuovo ripiena - e
Olivia, Stone era
con Vivian, Matt e la sua famiglia sarebbero arrivati di lì
a poco – ma con due figli quasi
adolescenti, il
batterista aveva decisamente più problemi di loro per
convincerli a seguirlo in
spiaggia di mattina presto – e la sua Ashley e la
piccola Aussie li
avrebbero raggiunti entro un’ora al massimo. Dai
cinque di partenza, si erano trasformati in un esercito.
E
a Mike stava benissimo, così
come – era sicuro – stava bene a tutti gli altri.
Nessuno di loro era fatto per
la solitudine e nessuno di loro avrebbe scommesso un solo centesimo,
agli
inizi, sulla sopravvivenza tanto del gruppo, come di alcuni di loro.
Ovviamente,
i componenti del
gruppo in lista, erano stati proprio lui e Eddie. Per diverse ragioni,
ma ce
l’avevano scritto in faccia che non avevano
granché voglia di durare: o almeno,
Mike non se ne preoccupava, e Eddie probabilmente non ne era
semplicemente in
grado.
Mike
era della scuola Young: meglio bruciare che
sparire lentamente.
E, cazzo, se aveva seguito il consiglio! Aveva bevuto come una spugna,
scopato
come se non ci fosse un domani, spinto sull’ago come fosse
l’acceleratore della
vita, pensando stupidamente di avere tutto sotto controllo, di poter
smettere
quando voleva.
Poi
Cobain era morto e il mostro
che gli stava mangiando la pancia si era risvegliato e troppe altre
cose erano
successe una dietro l’altra.
Mike
si era ritrovato in un
centro di riabilitazione quasi senza accorgersene, ma fece il bravo
ragazzo e
s’impegnò con tutto se stesso per uscirne pulito.
E in fondo, quei quasi dodici
mesi non furono tanto male, tolte le crisi d’astinenza, e il
vomito, la diarrea
che spesso non riusciva nemmeno a trattenere, e la puzza schifosa del
suo
stesso sudore nonostante le docce continue.
In
quei dodici mesi Mike scoprì
di avere un sacco di amici, cosa che la siringa gli aveva completamente
fatto
dimenticare. Stone lo chiamava praticamente tutti i giorni, per i primi
mesi
aveva ricevuto anche tre o quattro telefonate al giorno dai suoi
compagni di
band e sapeva di poter chiamare ad ogni ora del giorno e della notte:
avevano
sempre risposto.
Mike
scoprì che la dipendenza gli
aveva fatto persino dimenticare della sua chitarra, perché
fu proprio in quel
centro di riabilitazione che – quando
Stone gli riportò la sua bellissima vecchia rossa
– riprese a suonare e
comporre davvero, anche solo per se stesso. Persino Eddie – che aveva maledetto gli eccessi di Dave come
una disgrazia. Ma che era sempre stato indulgente con lui,
chissà perché -
lo aveva chiamato spesso, era andato a trovarlo quando avevano permesso
le
visite, lo aveva abbracciato talmente stretto che aveva avuto paura gli
spezzasse le costole, perché Ed era sempre stato uno
sportivo ed un ragazzetto
stranamente forte, mentre Mike era sempre stato un mucchietto
d’ossa, ed in
quel momento pure in crisi d’astinenza da anfetamine e vodka.
Quando
era ritornato a Seattle
aveva i capelli corti e del colore giusto, aveva messo su almeno dieci
chili ed
aveva in tasca una marea di note e voglia di ritornare in studio con i
suoi
amici: perché era stato lontano dodici mesi, ma non si era
mai sentito più
protetto, amato e vicino ai suoi compagni.
Gli
stessi che ora stavano
discutendo animatamente della serata – ma
quando era arrivato Matt? – lanciando a Mike
pallette di sabbia per
attirare la sua attenzione.
“Mike,
ma che fai dormi?”
“Lasciatemi
in pace, Aussie ieri
notte non ne voleva sapere di addormentarsi, sono stravolto!”
“Oh,
ma povero papino!”
Jeff
Ament aveva quarantacinque
anni ed era un musicista di successo.
Jeff
Ament aveva quarantacinque
anni, era un musicista di successo ed un accanito skater, un ottimo
skater.
Jeff
Ament, però, era anche in
ritardo per il sound-check previsto dopo pranzo, e qualcuno
avrebbe preteso la sua testa.
Si
stiracchiò di nuovo tra le
lenzuola sfatte mentre dalla stanza da bagno Pandora canticchiava sotto
la
doccia una canzonetta popolare, di quelle che i contadini del Montana
cantavano
durante il raccolto a metà del novecento:
così imparava a portarsi a letto un’insegnate
secchiona.
Ridacchiò
guardando di nuovo
l’orologio e pensando che sì, era proprio
l’ora di alzarsi e fare una doccia,
che la giornata stava per cominciare solo in quel momento, nonostante
le
quattro ore passate a fare skate con i ragazzi
dell’Hollenbeck – un paio
di quindicenni lo avevano
addirittura avvicinato, timidissimi, chiedendogli l’autografo
sulle tavole
– e il piacevolissimo bentornato
con
cui l’aveva salutato la sua compagna, perché non
si dice mai di no ad una
scopata post-prandiale.
Il
sound-check sarebbe andato
benissimo, lo sapeva già, quelle canzoni le conoscevano a
menadito, Mike si era
persino allenato per ricreare un paio di mulinelli alla Townshed e
– nemmeno a dirlo. Per quel
nanerottolo
tatuato sembrava le chitarre si piegassero ad eseguire docilmente
qualunque
cosa – gli venivano benissimo, lo stesso Pete si
era congratulato con lui
per non essersi fratturato il pollice destro nemmeno una volta. Al
contrario di
Eddie, che ancora lo prendevano per il culo tutti quanti per quella
volta che
era riuscito quasi a spezzarselo, provandoci: ma
quello non doveva saperlo nessuno, si vergognava più di
quella corsa
al pronto soccorso che della visita alla reception di un albergo con le
chiappe
al vento.
Piluccò
con poca convinzione
qualche chicco d’uva dal cesto di benvenuto ancora nudo come
un verme prima di
dirigersi un po’ sbilenco verso la doccia.
“Dori,
fammi spazio, se non esco
da qui dentro entro venti minuti non avremo mai dei figli!”
Il
Pavillion era già pronto,
tirato a lucido per l’evento della serata.
Erano appena le tre del pomeriggio, mancavano quasi sei ore allo
spettacolo ed
i rodies e i tecnici si affannavano correndo come formichine operose
sistemando
amplificatori, jack e strumentazioni, mettendo in sicurezza transenne e
parapetti. Gi ultimi ritocchi erano sempre i più complicati
e fastidiosi.
Andy
e Wayne guardavano i loro
colleghi dall’alto di un’impalcatura del soffitto
mentre davano le ultime
rifiniture all’illuminazione stroboscopica che avrebbe fatto
da contorno
all’uscita delle star della serata. Erano stanchi e stufi
marci di avvitare e
controllare lampadine e neon colorati, ma il lavoro è lavoro
e, una volta
finito tutto, magari sarebbero riusciti a godersi lo spettacolo da una
visuale
privilegiata, alla faccia del parterre di VIP.
Non
era poi così male lavorare
come tecnici per l’UCLA, l’università
pagava meglio delle solite sale da
concerto ed era decisamente più elastica con il personale.
Lo era un po’ meno
lavorare per le stazioni televisive, ma in California – e soprattutto a Los Angeles - dovevi
fartene una ragione o non
lavoravi per niente.
Wayne
aveva i capelli abbastanza
bianchi da aver visto passare di tutto in quel palazzetto, da Marley
alle finali
dell’NBA, e quella sera avrebbe visto un branco di matricole
leccare il culo a
due vecchi inglesi artritici ed abbastanza onesti da essere per quello
stesso
motivo profondamente antipatici. Possibile che in quella cazzo di VH1
avessero
la fissa per i britannici? Tre speciali, nove gruppi e solo tre di
questi
americani: perché,
l’America non aveva prodotto
della buona musica da onorare?
Onorassero i Beach Boys e i Grateful Dead,
piuttosto.
Andy
la vedeva diversamente, ma
era giovane e ne aveva di musica da ascoltare e vedere
prima di poter discutere con il vecchio Wayne.
Intanto
erano anche cominciati i
sound-checks e i primi musicisti facevano capolino dalle quinte,
ovviamente
vestiti in modo che un qualunque stilista avrebbe definito
semplicemente
atroce, ma che al vecchio tecnico sembrava persino accettabile: almeno non avevano rifilato fighette, per la
serata.
Andy,
che era giovane, quei gruppi li
conosceva, soprattutto alcuni, e si
sarebbe sicuramente divertito quella sera ad ascoltarli,
così come tutti i
trentenni che sarebbero stati in sala insieme ai vecchi ragazzi come
lui.
Mancavano
poco meno di sei ore e
le luci si sarebbero accese davvero, tutte insieme.
Pete
gironzolava per i backstages
come un padre nervoso controllando che i suoi bambini fossero tutti
pronti e in
buona salute: lui nemmeno voleva farla
quella serata.
Pete
Townshed si sentiva vecchio
per quella vita, vecchio per fare musica in quel
modo, soprattutto, ed era sempre stato troppo onesto e troppo
puntiglioso per
anelare a qualcosa di meno della perfezione: e a sessantatre anni
suonati, se
avesse fatto una scivolata sulle ginocchia gli sarebbe di sicuro
partito un
menisco, se non entrambi. Sai che ridere.
Se
aveva accettato era stato per
Roger, che ancora ci teneva a cantare davanti ad un pubblico, e per
quel
pizzico di vanità che non guasta: in fondo erano tutti
lì per onorare due
vecchi inglesi messi pure abbastanza male da sentirli tutti, gli anni
che
avevano addosso.
Alcuni
di quei ragazzi – uomini, santo
cielo, avevano tutti superato
abbondantemente i trent’anni. Erano uomini, era lui ad essere
vecchio. –
che lo guardavano adoranti nemmeno li conosceva, non aveva minimamente
idea di
cosa suonassero e probabilmente nemmeno gli sarebbe piaciuto saperlo.
Tirò un
sospiro di sollievo occhieggiando Eddie in un angolo che chiacchierava
animatamente con O’Brien e Penn, rideva, era rilassato. Erano
tutti parecchio
rilassati. Meglio così: era contento di non dover
più rifilare ceffoni a quella
specie di figlio putativo che a trent’anni suonati ancora si
ritrovava paranoie
da adolescente brufoloso, perché, se non fosse riuscito a
farsi capire dopo la
prima sberla, sarebbe passato direttamente alla chitarra. Pete Townshed non aveva mai preteso di essere un
padre affettuoso.
Li
aveva raggiunti invitandoli a
spostarsi verso il lato del palco, lo spettacolo stava per cominciare e
Grohl avrebbe
attaccato a breve con Young man blues:
il conto alla rovescia era partito.
Pete
poteva anche dirsi soddisfatto,
perché la serata stava andando da Dio e solo la presenza di
Keith e John
avrebbe potuto renderla perfetta, ma nessuno dei due aveva avuto la
pazienza di
aspettare e diventare davvero vecchio. Peggio
per loro.
I
Foo Fighters avevano suonato alla
grande, così come i Flaming Lips e sugli altri meglio
glissare, purtroppo non
era riuscito ad avere l’ultima parola su tutto. Ma tutto
sommato non poteva
lamentarsi, nessuno aveva fatto davvero schifo da farlo vergognare di
aver
scritto quelle canzoni, il che era già una gran cosa.
Però stavano per entrare in scena i suoi
ragazzi.
Roger,
al suo fianco, era
parecchio nervoso, come sempre capitava prima di una serata, fosse o
meno lui a
dover cantare. E poi, guardare Eddie sul palco era un po’
come rivedere se
stessi quasi trent’anni prima, il ragazzo – uomo!
Aveva passato i quaranta, per Dio: possibile fosse tanto vecchio da
considerare
troppo giovane il resto del mondo? – non aveva mai
fatto mistero di essere
un fedele di Daltrey e ne riproduceva le movenze eccessive ogni volta
che ne
aveva occasione.
Alla
prima nota di Love Reign O’er Me
aveva trattenuto il
respiro, Jimmy aveva allacciato le
mani al microfono ed aveva cominciato a piangere sulla sua
identità violata e
finalmente ritrovata. Eddie ringhiava di dolore e felicità,
la sua era
un’epifania violenta come una tempesta tropicale, Mike e
Stone si erano fatti
vento amplificando il tuono dei colpi combinati di Jeff e Matt: era un
uragano
e sembrava davvero di essere bagnati da una pioggia che lavava e
purificava,
mettendo a nudo un’identità da sempre posseduta.
Poi
era successo qualcosa.
Il
gruppo non aveva perso una
nota, l’orchestra di archi aveva continuato a suonare, ma
Eddie aveva smesso di
cantare. Era rimasto fermo, impalato davanti all’asta del
microfono, per
qualche secondo, con un’espressione vagamente perplessa e la
bocca aperta a
cercare un suono che non usciva.
Pete
aveva strabuzzato gli occhi
preoccupato, cercando di vedere, di capire quel che stava succedendo.
Poi
l’aveva visto cadere giù e le urla del pubblico
avevano sostituito quelle di
una sirena triste e della musica e la confusione aveva impedito a
chiunque
persino di preoccuparsi di un uomo con i capelli rossi e gli occhi
nocciola che
rideva e piangeva appollaiato più in alto di tutti, su un
trespolo d’acciaio
che era diventato la sua nuvola ed il suo Paradiso, finchè
non aveva lasciato
cader giù sul pubblico il suo fucile e poi se stessa, una
Maddalena finalmente
in pace pronta a raggiungere il suo Salvatore.
Madeleine Kelly non era sopravvissuta
all’impatto con le poltroncine in
plastica del Pavillion, si era
spezzata la schiena in più punti morendo sul colpo a soli
trentacinque anni.
Nessuno era riuscito a capire come fosse riuscita a
farsi passare per
Andy Kinney, per un uomo, senza destare sospetti, né come
fosse riuscita a
farsi assumere come tecnico. Ma, soprattutto, come fosse riuscita a far
passare
inosservato un fucile.
A discolpa delle risorse umane
dell’ufficio assunzioni dell’UCLA, c’era da dire i suoi documenti
sembrassero
effettivamente veri, così come il suo camuffamento: gli anni
di manicomio
dovevano aver dato il colpo di grazia ad un’avvenenza che in
fondo non aveva
mai posseduto.
Il fucile risultò acquistato
regolarmente su internet con il solito
documento falso appena due mesi prima, appena pochi mesi dopo la fine
del suo
internamento.
Il servizio di sicurezza della struttura fu
duramente messo sotto
accusa per palese negligenza nei controlli e all’inchiesta
del LAPD si affiancò
quella interna del campus.
Harper Moon Margaret Vedder nacque il ventitre
settembre del
duemilaotto senza particolari complicazioni nonostante sua madre avesse
rischiato un aborto spontaneo appena un paio di mesi prima. Ma stava
bene, un
meraviglioso angioletto con gli occhi verdi della mamma e le guance
paffute e
rosee del suo papà.
Che aveva ripreso a scrivere non potendo
più cantare, almeno non
ancora: ma Eddie non era fatto per correre e conosceva il piacere
profondo che
solo una passeggiata – per quanto lunga
– può dare. E, per quella Luna che lo guardava
curiosa, sarebbe tornato ad
intonare la più dolce delle ninnananne.
Eddie Vedder non poteva – e
non voleva -
più permettersi di avere
paura.
End.
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