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Autore: Angeline Farewell    03/09/2010    1 recensioni
Una stalker psicopatica ha funestato i primi anni della carriera di Eddie Vedder arrivando a tentare il suicidio lanciandosi con l'auto contro i cancelli della sua casa di Seattle qualche mese dopo il ritrovamento del cadavere di Cobain. La cronaca storica finisce così, della donna non si saprà più nulla. O Forse no.
WARNING: Minor Character Death.
[...]Madeleine era sempre stata una ragazza chiusa, talmente timida da sembrare praticamente tonta – e forse un po’ lo era davvero – e senza particolari attrattive se non, appunto, quella di essere una ragazza, una femmina adolescente. E a Grayland era già tantissimo. Era una cittadina orribile, Grayland, grigia come suggeriva il nome, nemmeno il verde dei campi e del bosco che la circondava riusciva ad emergere nell’appiattimento
triste di quel microscopico agglomerato urbano. Ed era piovosa, cupa, povera. Piccola soprattutto, troppo per contenere qualunque cosa: meno di mille anime incastrate tra un pezzo ferroso d’oceano e i campi, nemmeno la statale arrivava in quel buco.
La 101 si fermava ad Aberdeen, proseguiva per Raymond, ma nessuno aveva mai pensato fosse necessario collegare Grayland al resto dello stato, come se nemmeno fosse parte
Genere: Drammatico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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17.07.2008

Che a Los Angeles il freddo e l’inverno non arrivino è un luogo comune, una leggenda metropolitana tra quelle più facilmente sfatabili, ma che nell’immaginario collettivo tendono a radicarsi come una bella metafora della vita: perché Los Angeles è la città degli angeli e gli angeli vivono in una perpetua e ricca estate di sole e miele, The City of Angels è sinonimo di Hollywood e non sta bene far raffreddare le stelle.

Che Los Angeles sia solo una città come tante – solo più grande e caotica e puzzolente di tante altre – e che Hollywood fosse nata come una cittadina-satellite di poveracci, in pochi se lo ricordavano, o volevano ricordarlo.

A Los Angeles arriva il caldo vero però, perché il deserto è dietro l’angolo e a volte sembrerebbe voler mangiare la città.

Il diciassette luglio del duemilaotto, il caldo ed il sole di Los Angeles non erano dunque nulla di anomalo, solo una bella cornice per le spiagge infinite di una costa color crema baciata dalla risacca di un oceano insolitamente dolce. Tanto da farci giocare i bambini, magari insegnar loro a nuotare o montare su una tavola corta e colorata.

Eddie aveva imparato a nuotare su spiagge simili a quella, giocando a rincorrere onde come quelle che ora sua figlia si divertiva a evitare e inseguire ridendo. Aveva appena compiuto quattro anni ed era la bambina più bella del mondo, sarebbe sempre stata la bambina più bella del mondo per qualcuno che veniva definito icona e santino di un’epoca capricciosa come la risacca dell’oceano: Eddie Vedder in quel momento era solo un padre come tanti che guarda la sua primogenita giocare con le onde, che poggia tenero la mano sulla pancia rotonda della sua compagna che sfoglia tranquilla una rivista.

Il diciassette luglio del duemilaotto era un giorno nato sotto i migliori auspici, perché era estate, il sole splendeva sulla Città degli Angeli, entro qualche mese George Bush sarebbe stato definitivamente sfanculato e uno scricciolo con gli occhi enormi ed un costumino rosa gli era appena caracollato addosso. Piantandogli il gelato alla fragola che teneva in mano direttamente nell’ombelico.

Vivian Gossard aveva poco più di un anno e tutta l’energia dei poppanti che si sono da poco liberati del pannolino e delle costrizioni del box, così come la strafottenza di chi può altamente fregarsene delle apparenze, protetta dal’alibi dell’età dell’innocenza o di quello che è.

“Vivi, tesoro, lo zio Ed ora ti compra un altro gelato, eh? Che i vicini ci guardano e non vorrei finire come Michael Jackson. Stone, di’ ma che t’è saltato in mente, non è troppo piccola per mangiare un gelato così?”

Il chitarrista ciabattava ancora a qualche metro con aria noncurante. Gli occhiali da vista leggermente ambrati e i capelli corti e brizzolati lo facevano sembrare un ragioniere in vacanza piuttosto che una rockstar da sessanta milioni di dischi: come gli altri – o forse più degli altri – nella band, Stone Gossard era invecchiato in modo pacato e coerente, mettendo su qualche chilo dopo i quaranta, fregandosene degli spruzzi bianchi tra i capelli e delle montature orrende che riusciva a scegliere per correggere la sua miopia. Da ragazzo sembrava un nerd capellone, da adulto il contabile di una società di computer e, se qualcuno lo stava degnando di uno sguardo, era solo per capire perché un bravo padre di famiglia come lui si accompagnasse ad un vecchio arnese palesemente tinto e ricoperto di tatuaggi.

Non che un tipo simile fosse uno spettacolo anomalo sulle spiagge californiane: era l’accostamento che straniva.

“La vizio un po’ visto che sua madre non c’è oggi. Ciao Jill.”

Stone aveva recuperato sua figlia - che tentava ancora di saltare addosso allo zio Ed per recuperare la sua pallina di gelato - ed aveva preso a ripulirla da quello che si era nel mentre spalmata sulla faccia, sulle braccia, ovunque.

Mike, l’arnese tinto, si era intanto sistemato al sole mite di quel primo mattino di metà estate sperando di liberarsi da quel pallore malaticcio che lo seguiva da qualche giorno, in vista della serata.

Magari avrebbe dovuto dar retta a Duff e farsi una lampada?

Ma gli unici ritocchi estetici che concepiva erano le cicatrici colorate con cui si faceva scolpire periodicamente, o le tinte sgargianti che vestiva sulla testa: per l’evento della serata aveva optato per un classico biondo fotonico.

“Jeff ha detto che non viene stamattina, si è svegliato prima dell’alba per andare all’Hollenbeck, ma Dori dovrebbe raggiungerci più tardi.”

Nessuno gli aveva fatto quella domanda, ma Mike sapeva che sarebbe arrivata, sapeva che Ed avrebbe chiesto: avevano un bel dire ognuno avesse la propria vita fuori dal gruppo e blah blah blah, la verità era non riuscissero effettivamente a scollarsi quando erano in tour o quando facevano musica, il che voleva dire sempre.

E Eddie non prendeva bene le separazioni. Ogni piccolo hiatus del gruppo – tecnicamente si separavano alla fine di ogni tour – era una sorta di prova del nove, una prova di resistenza: chi avrebbe chiamato per primo? E perché non lo cercavano?

Sindrome da abbandono, ecco di cosa soffriva Eddie Vedder. Altro che sindrome della prima donna, magari l’avesse avuta; almeno si sarebbero risparmiati un decennio a fuggire dalle telecamere senza riuscire comunque a sottrarsi ai doveri che derivavano dalla fama.

Ma quella era una specie di riunione di famiglia allargata, perché Ed aveva ovviamente con sé Jill – di nuovo ripiena -  e Olivia, Stone era con Vivian, Matt e la sua famiglia sarebbero arrivati di lì a poco – ma con due figli quasi adolescenti, il batterista aveva decisamente più problemi di loro per convincerli a seguirlo in spiaggia di mattina presto – e la sua Ashley e la piccola Aussie li avrebbero raggiunti entro un’ora al massimo. Dai cinque di partenza, si erano trasformati in un esercito.

E a Mike stava benissimo, così come – era sicuro – stava bene a tutti gli altri. Nessuno di loro era fatto per la solitudine e nessuno di loro avrebbe scommesso un solo centesimo, agli inizi, sulla sopravvivenza tanto del gruppo, come di alcuni di loro.

Ovviamente, i componenti del gruppo in lista, erano stati proprio lui e Eddie. Per diverse ragioni, ma ce l’avevano scritto in faccia che non avevano granché voglia di durare: o almeno, Mike non se ne preoccupava, e Eddie probabilmente non ne era semplicemente in grado.

Mike era della scuola Young: meglio bruciare che sparire lentamente. E, cazzo, se aveva seguito il consiglio! Aveva bevuto come una spugna, scopato come se non ci fosse un domani, spinto sull’ago come fosse l’acceleratore della vita, pensando stupidamente di avere tutto sotto controllo, di poter smettere quando voleva.

Poi Cobain era morto e il mostro che gli stava mangiando la pancia si era risvegliato e troppe altre cose erano successe una dietro l’altra.

Mike si era ritrovato in un centro di riabilitazione quasi senza accorgersene, ma fece il bravo ragazzo e s’impegnò con tutto se stesso per uscirne pulito. E in fondo, quei quasi dodici mesi non furono tanto male, tolte le crisi d’astinenza, e il vomito, la diarrea che spesso non riusciva nemmeno a trattenere, e la puzza schifosa del suo stesso sudore nonostante le docce continue.

In quei dodici mesi Mike scoprì di avere un sacco di amici, cosa che la siringa gli aveva completamente fatto dimenticare. Stone lo chiamava praticamente tutti i giorni, per i primi mesi aveva ricevuto anche tre o quattro telefonate al giorno dai suoi compagni di band e sapeva di poter chiamare ad ogni ora del giorno e della notte: avevano sempre risposto.

Mike scoprì che la dipendenza gli aveva fatto persino dimenticare della sua chitarra, perché fu proprio in quel centro di riabilitazione che – quando Stone gli riportò la sua bellissima vecchia rossa – riprese a suonare e comporre davvero, anche solo per se stesso. Persino Eddie – che aveva maledetto gli eccessi di Dave come una disgrazia. Ma che era sempre stato indulgente con lui, chissà perché - lo aveva chiamato spesso, era andato a trovarlo quando avevano permesso le visite, lo aveva abbracciato talmente stretto che aveva avuto paura gli spezzasse le costole, perché Ed era sempre stato uno sportivo ed un ragazzetto stranamente forte, mentre Mike era sempre stato un mucchietto d’ossa, ed in quel momento pure in crisi d’astinenza da anfetamine e vodka.

Quando era ritornato a Seattle aveva i capelli corti e del colore giusto, aveva messo su almeno dieci chili ed aveva in tasca una marea di note e voglia di ritornare in studio con i suoi amici: perché era stato lontano dodici mesi, ma non si era mai sentito più protetto, amato e vicino ai suoi compagni.

Gli stessi che ora stavano discutendo animatamente della serata – ma quando era arrivato Matt? – lanciando a Mike pallette di sabbia per attirare la sua attenzione.

“Mike, ma che fai dormi?”

“Lasciatemi in pace, Aussie ieri notte non ne voleva sapere di addormentarsi, sono stravolto!”

“Oh, ma povero papino!”

 

Jeff Ament aveva quarantacinque anni ed era un musicista di successo.

Jeff Ament aveva quarantacinque anni, era un musicista di successo ed un accanito skater, un ottimo skater.

Jeff Ament, però, era anche in ritardo per il sound-check previsto dopo pranzo, e qualcuno avrebbe preteso la sua testa.

Si stiracchiò di nuovo tra le lenzuola sfatte mentre dalla stanza da bagno Pandora canticchiava sotto la doccia una canzonetta popolare, di quelle che i contadini del Montana cantavano durante il raccolto a metà del novecento: così imparava a portarsi a letto un’insegnate secchiona.

Ridacchiò guardando di nuovo l’orologio e pensando che sì, era proprio l’ora di alzarsi e fare una doccia, che la giornata stava per cominciare solo in quel momento, nonostante le quattro ore passate a fare skate con i ragazzi dell’Hollenbeck – un paio di quindicenni lo avevano addirittura avvicinato, timidissimi, chiedendogli l’autografo sulle tavole – e il piacevolissimo bentornato con cui l’aveva salutato la sua compagna, perché non si dice mai di no ad una scopata post-prandiale.

Il sound-check sarebbe andato benissimo, lo sapeva già, quelle canzoni le conoscevano a menadito, Mike si era persino allenato per ricreare un paio di mulinelli alla Townshed e – nemmeno a dirlo. Per quel nanerottolo tatuato sembrava le chitarre si piegassero ad eseguire docilmente qualunque cosa – gli venivano benissimo, lo stesso Pete si era congratulato con lui per non essersi fratturato il pollice destro nemmeno una volta. Al contrario di Eddie, che ancora lo prendevano per il culo tutti quanti per quella volta che era riuscito quasi a spezzarselo, provandoci: ma quello non doveva saperlo nessuno, si vergognava più di quella corsa al pronto soccorso che della visita alla reception di un albergo con le chiappe al vento.

Piluccò con poca convinzione qualche chicco d’uva dal cesto di benvenuto ancora nudo come un verme prima di dirigersi un po’ sbilenco verso la doccia.

“Dori, fammi spazio, se non esco da qui dentro entro venti minuti non avremo mai dei figli!”

 

Il Pavillion era già pronto, tirato a lucido per l’evento della serata. Erano appena le tre del pomeriggio, mancavano quasi sei ore allo spettacolo ed i rodies e i tecnici si affannavano correndo come formichine operose sistemando amplificatori, jack e strumentazioni, mettendo in sicurezza transenne e parapetti. Gi ultimi ritocchi erano sempre i più complicati e fastidiosi.

Andy e Wayne guardavano i loro colleghi dall’alto di un’impalcatura del soffitto mentre davano le ultime rifiniture all’illuminazione stroboscopica che avrebbe fatto da contorno all’uscita delle star della serata. Erano stanchi e stufi marci di avvitare e controllare lampadine e neon colorati, ma il lavoro è lavoro e, una volta finito tutto, magari sarebbero riusciti a godersi lo spettacolo da una visuale privilegiata, alla faccia del parterre di VIP.

Non era poi così male lavorare come tecnici per l’UCLA, l’università pagava meglio delle solite sale da concerto ed era decisamente più elastica con il personale. Lo era un po’ meno lavorare per le stazioni televisive, ma in California – e soprattutto a Los Angeles - dovevi fartene una ragione o non lavoravi per niente.

Wayne aveva i capelli abbastanza bianchi da aver visto passare di tutto in quel palazzetto, da Marley alle finali dell’NBA, e quella sera avrebbe visto un branco di matricole leccare il culo a due vecchi inglesi artritici ed abbastanza onesti da essere per quello stesso motivo profondamente antipatici. Possibile che in quella cazzo di VH1 avessero la fissa per i britannici? Tre speciali, nove gruppi e solo tre di questi americani: perché, l’America non aveva prodotto della buona musica da onorare?

Onorassero i Beach Boys e i Grateful Dead, piuttosto.

Andy la vedeva diversamente, ma era giovane e ne aveva di musica da ascoltare e vedere prima di poter discutere con il vecchio Wayne.

Intanto erano anche cominciati i sound-checks e i primi musicisti facevano capolino dalle quinte, ovviamente vestiti in modo che un qualunque stilista avrebbe definito semplicemente atroce, ma che al vecchio tecnico sembrava persino accettabile: almeno non avevano rifilato fighette, per la serata.

Andy, che era giovane, quei gruppi li conosceva, soprattutto alcuni, e si sarebbe sicuramente divertito quella sera ad ascoltarli, così come tutti i trentenni che sarebbero stati in sala insieme ai vecchi ragazzi come lui.

Mancavano poco meno di sei ore e le luci si sarebbero accese davvero, tutte insieme.

 

Pete gironzolava per i backstages come un padre nervoso controllando che i suoi bambini fossero tutti pronti e in buona salute: lui nemmeno voleva farla quella serata.

Pete Townshed si sentiva vecchio per quella vita, vecchio per fare musica in quel modo, soprattutto, ed era sempre stato troppo onesto e troppo puntiglioso per anelare a qualcosa di meno della perfezione: e a sessantatre anni suonati, se avesse fatto una scivolata sulle ginocchia gli sarebbe di sicuro partito un menisco, se non entrambi. Sai che ridere.

Se aveva accettato era stato per Roger, che ancora ci teneva a cantare davanti ad un pubblico, e per quel pizzico di vanità che non guasta: in fondo erano tutti lì per onorare due vecchi inglesi messi pure abbastanza male da sentirli tutti, gli anni che avevano addosso.

Alcuni di quei ragazzi – uomini, santo cielo, avevano tutti superato abbondantemente i trent’anni. Erano uomini, era lui ad essere vecchio. – che lo guardavano adoranti nemmeno li conosceva, non aveva minimamente idea di cosa suonassero e probabilmente nemmeno gli sarebbe piaciuto saperlo. Tirò un sospiro di sollievo occhieggiando Eddie in un angolo che chiacchierava animatamente con O’Brien e Penn, rideva, era rilassato. Erano tutti parecchio rilassati. Meglio così: era contento di non dover più rifilare ceffoni a quella specie di figlio putativo che a trent’anni suonati ancora si ritrovava paranoie da adolescente brufoloso, perché, se non fosse riuscito a farsi capire dopo la prima sberla, sarebbe passato direttamente alla chitarra. Pete Townshed non aveva mai preteso di essere un padre affettuoso.

Li aveva raggiunti invitandoli a spostarsi verso il lato del palco, lo spettacolo stava per cominciare e Grohl avrebbe attaccato a breve con Young man blues: il conto alla rovescia era partito.

Pete poteva anche dirsi soddisfatto, perché la serata stava andando da Dio e solo la presenza di Keith e John avrebbe potuto renderla perfetta, ma nessuno dei due aveva avuto la pazienza di aspettare e diventare davvero vecchio. Peggio per loro.

I Foo Fighters avevano suonato alla grande, così come i Flaming Lips e sugli altri meglio glissare, purtroppo non era riuscito ad avere l’ultima parola su tutto. Ma tutto sommato non poteva lamentarsi, nessuno aveva fatto davvero schifo da farlo vergognare di aver scritto quelle canzoni, il che era già una gran cosa.

Però stavano per entrare in scena i suoi ragazzi.

Roger, al suo fianco, era parecchio nervoso, come sempre capitava prima di una serata, fosse o meno lui a dover cantare. E poi, guardare Eddie sul palco era un po’ come rivedere se stessi quasi trent’anni prima, il ragazzo – uomo! Aveva passato i quaranta, per Dio: possibile fosse tanto vecchio da considerare troppo giovane il resto del mondo? – non aveva mai fatto mistero di essere un fedele di Daltrey e ne riproduceva le movenze eccessive ogni volta che ne aveva occasione.

Alla prima nota di Love Reign O’er Me aveva trattenuto il respiro, Jimmy aveva allacciato le mani al microfono ed aveva cominciato a piangere sulla sua identità violata e finalmente ritrovata. Eddie ringhiava di dolore e felicità, la sua era un’epifania violenta come una tempesta tropicale, Mike e Stone si erano fatti vento amplificando il tuono dei colpi combinati di Jeff e Matt: era un uragano e sembrava davvero di essere bagnati da una pioggia che lavava e purificava, mettendo a nudo un’identità da sempre posseduta.

Poi era successo qualcosa.

Il gruppo non aveva perso una nota, l’orchestra di archi aveva continuato a suonare, ma Eddie aveva smesso di cantare. Era rimasto fermo, impalato davanti all’asta del microfono, per qualche secondo, con un’espressione vagamente perplessa e la bocca aperta a cercare un suono che non usciva.

Pete aveva strabuzzato gli occhi preoccupato, cercando di vedere, di capire quel che stava succedendo. Poi l’aveva visto cadere giù e le urla del pubblico avevano sostituito quelle di una sirena triste e della musica e la confusione aveva impedito a chiunque persino di preoccuparsi di un uomo con i capelli rossi e gli occhi nocciola che rideva e piangeva appollaiato più in alto di tutti, su un trespolo d’acciaio che era diventato la sua nuvola ed il suo Paradiso, finchè non aveva lasciato cader giù sul pubblico il suo fucile e poi se stessa, una Maddalena finalmente in pace pronta a raggiungere il suo Salvatore.

 

Madeleine Kelly non era sopravvissuta all’impatto con le poltroncine in plastica del Pavillion, si era spezzata la schiena in più punti morendo sul colpo a soli trentacinque anni.

Nessuno era riuscito a capire come fosse riuscita a farsi passare per Andy Kinney, per un uomo, senza destare sospetti, né come fosse riuscita a farsi assumere come tecnico. Ma, soprattutto, come fosse riuscita a far passare inosservato un fucile.

A discolpa delle risorse umane dell’ufficio assunzioni dell’UCLA, c’era da dire i suoi documenti sembrassero effettivamente veri, così come il suo camuffamento: gli anni di manicomio dovevano aver dato il colpo di grazia ad un’avvenenza che in fondo non aveva mai posseduto.

Il fucile risultò acquistato regolarmente su internet con il solito documento falso appena due mesi prima, appena pochi mesi dopo la fine del suo internamento.

Il servizio di sicurezza della struttura fu duramente messo sotto accusa per palese negligenza nei controlli e all’inchiesta del LAPD si affiancò quella interna del campus.

Harper Moon Margaret Vedder nacque il ventitre settembre del duemilaotto senza particolari complicazioni nonostante sua madre avesse rischiato un aborto spontaneo appena un paio di mesi prima. Ma stava bene, un meraviglioso angioletto con gli occhi verdi della mamma e le guance paffute e rosee del suo papà.

Che aveva ripreso a scrivere non potendo più cantare, almeno non ancora: ma Eddie non era fatto per correre e conosceva il piacere profondo che solo una passeggiata – per quanto lunga – può dare. E, per quella Luna che lo guardava curiosa, sarebbe tornato ad intonare la più dolce delle ninnananne.  

Eddie Vedder non poteva – e non voleva -  più permettersi di avere paura.

End.

   
 
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