Lentamente muore.
“Va
bene, Jevanni. Puoi andare.”
Una
frase secca, lapidaria. Un atono susseguirsi di parole piatte. Sempre uguali.
Come un mare monocorde senza increspature. Come un oceano sconfinato chiuso in
una boccia di vetro.
La
porta si chiude, con uno scatto quasi inudibile dell’ossequioso sottoposto, schiavo dell’abitudine, incancrenita, ormai,
come una necrosi del cervello, lasciando il miglior detective al mondo solo con
le sue aeree ed effimere testimonianze di ardita ingegneria inutile.
L’ambiente
è un open-space enorme, probabilmente un attico, completamente finestrato, in
un trionfo di illusoria libertà blindata, in cui il prigioniero scruti il mondo
senza che l’abisso possa osservare lui *.
Il
tramonto infiamma di lingue cremisi l’enorme L composta di carte sovrapposte,
consumate dall’usura certosina delle sue mani precise nel corso dei dieci e più
anni che lo separano dal giorno in cui l’uomo eclettico e reazionario,
anarchico e ribelle, oppose se stesso alla furia della sete martirizzante di
una folle Giustizia terrena.
Nate
si ferma, incuriosito da un’ombra bizzarra, che si annulla e si inanella
nell’alabastro purissimo delle sue dita. Il Sole, alle sue spalle, lentamente muore in un tripudio inesorabile di
oro e vermiglio.
Muore
ogni sera, ma ogni volta con un funerale di vesti diverse!
La
figura virile si gira in un fruscio morbido di tessuti ricercati **, unico
vezzo che, insieme ai balocchi, egli si conceda.
Si
avvicina alle grandi vetrate e si lascia annegare dai colori gridati del cielo,
come dipinti d’Olandese ispirato ***, bevendone con gli occhi d’onice buia il
caldo calore. Sembra cancellato il colore sempre
uguale dei vestiti, il nero dei suoi occhi ed il candido
bianco dei suoi capelli, quasi il corpo di giovane vecchio
trentenne si ricoprisse non più di apatica razionalità algida, ma s’infiammasse
di passione, come il sorriso
di chi si ami infiamma gli occhi e fa battere il
cuore!
Il
suo cuore, il cuore freddo della Terra, il cuore della Giustizia vera, il più
puro, il più solo! Nessuno che ne abbia la chiave. Nessuno, al mondo, che
conosca il suo nome.
Come
moderno e fatale Quasimodo, Nate osserva tutto da lontano senza porre domande sugli argomenti che non conosce,
dacché è in grado di trovar da solo le soluzioni, rispondendo soltanto quando lo si interpelli sulle innumerevoli
problematiche che nessuno conosce
al pari di lui!
Non
c’è spontaneità nei suoi gesti senza sbagli,
senza sorrisi,
senza emozioni. Nella sua gabbia, il genio, prigioniero della sua
lanterna, si macera nella noia.
Non
è più con lui chi rovesciava i tavoli per
esprimere con veemenza il proprio punto di vista, con l’emozione della giovane età, rischiando fatalmente la certezza per
l’incertezza.
Non
è più con lui chi rinunciava a nutrirsi di sonno per leggere, viaggiare, mettersi in gioco in prima persona, fuggendo anche
ai consigli sensati.
Nate,
nel profondo dell’animo suo, lentamente sta morendo e lo sa bene, come una musica meravigliosa
che prosegua ad libitum, sfumando prima
i cori aggraziati, poi gli archi lirici, poi i fiati brillanti, fino ad esser
composto dalle sole, profonde percussioni, come battito cardiaco forte di
gioventù, ma appannato dalla noia.
Eppure,
Nate non se ne rammarica.
Non
rinnega il
lavoro della sua vita, non svilisce il proprio ego, perché,
ricoprendo quel ruolo, ha rinunciato ad inseguire un sogno di normalità che non ha mai né bramato, né
richiesto.
Per
lui, ben più fatale della fatica di respirare, è l’imperativo di vincere!
Perché chi non finisce il gioco è
solo un perdente.
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