“Oltre
a voler portarmi avanti più che posso con questa fic vorrei
dedicarmi un po' ad Olive&
An Arrow,
che continuerò a postare senza pause e, anzi, a breve dovrei
pubblicare il prossimo capitolo” questo lo scrissi
nell'undicesimo capitolo di I'm
Only Me When I'm With You...
un mese fa. Sono imperdonabile, un caso disperato, un muflone.
Ecco,
sì, io sono un muflone. Ora, insultatemi pure.
Oltre
tutto, questo capitolo che giunge dopo due mesi e dico due
mesi (e
mezzo -.-) di ritardo non è nemmeno lungo o particolarmente
interessante... o bello... o curioso. Si approfondisce semplicemente
il carattere di Joe e una piccola scenetta tra Liv e Nick, e Nicholas
e Jodie. Un capitolo tranquillo.
Wow.
Grazie
per aver commentato in dieci
lo
scorso capitolo! *ç* Non me lo merito, ora vi risponderò
tramite posta privata. Grazie mille per il supporto!
So
che è scorretto chiedervi una cosa simile dopo così
tanto ritardo (*si colpisce da sola alla Dobby*) ma vi vorrei
cortesemente chiedere, per favore, di passare nell'ultimo capitolo di
I'm
Only Me When I'm With You
e magari lasciare un commentino, anche piccolissimo, una sola parola,
una lettera, un punto, qualcosa. A quella storia sono seriamente
molto affezionata e anche dando il meglio vedo che i risultati non
sono dei migliori. Ditemi anche se fa schifo così posso
migliorare... Il link è il seguente →
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=612176
Grazie
dell'attenzione. Finalmente ecco il capitolo.
Chapter
6}
«Liv,
cosa ci puoi dire su Joe Jonas?»
«Qualcosa
più di ciò che già sapete? Beh, vi dico chiaro e
tondo che era la persona più stronza che si possa mai
incontrare. Dico sul serio. Era un bastardo».
Nicholas
continuò a tamponarsi il naso grondante di sangue per tutto il
tragitto sino a casa, lanciando delle occhiata ad intermittenza a
Joe, il volto duro e sprezzante, gli occhi pieni di rabbia inchiodati
sulla strada, le mani che stringevano il volante talmente forte da
far diventare le nocche bianche.
Scostò
lo sguardo e guardò fuori il paesaggio cittadino, così
sconosciuto ed eppure così familiare. New York era tutta
uguale, per come la pensava. Non era altro che un ripetersi di bar,
negozi, edifici in cemento troppo alti, fast-food e kebab.
Sarebbe
rimasta sempre così, lo sapeva. Anonima per i newyorchesi e
terribilmente affascinante per i turisti.
Per
lui sarebbe rimasta per sempre la città che aveva coronato la
sua adolescenza da dimenticare.
«Glazie»,
mormorò improvvisamente, voltandosi lentamente verso il
fratello, senza sorridere.
Vide
la stretta di Joe farsi ancora più forte mentre aspettava
invano che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Proprio
quando stava abbandonando ogni speranza e si stava di nuovo per
chiudere in se sé stesso lo sentì parlare.
«Sei
solo un idiota», ringhiò Joseph, senza fissarlo. «Mi
spieghi che cazzo ci facevi la sera nel Bronx, eh? Stupido.»
Nick
incassò il colpo senza ribattere, stringendosi nelle spalle.
«Io...
Stavo accombagnando un'amica». Si poteva chiamare Olive amica?
Liv non aveva amici, Liv era sola, non voleva sentirsi amata, parte
di un gruppo, lei sarebbe rimasta per sempre sola con sé
stessa.
«Chi,
quella?
Credevo fosse solamente una puttana», continuò Joe,
sibilando. «Lasciala perdere e sta' lontano dal Bronx,
specialmente la notte, mi hai capito bene?».
Nick
non rispose e continuò a guardarlo, confuso.
«Pecché?».
«Porca
miseria, Nicholas, quel pugno non ti è servito a niente, eh?!
Il Bronx non è un posto per poppanti, devi stargli lontano,
potresti farti male sul serio la prossima volta».
«No,
io bolevo
solo sapele...»,
balbettò Nick, abbassando lo sguardo.
«Cosa?».
«Pecché
ti intelessa
che io ci bada
o meno».
Joseph
inchiodò improvvisamente, accostando al lato della strada
mentre un'intera fila di macchine dietro di loro imprecava contro di
lui mentre gli sfilavano accanto.
«Come
hai detto?», domandò.
«Pecché
ti intelessa
che io vada o meno nel Blonx...
Insomma, noi, tu... Non...».
«Smettila
di balbettare», lo aggredì Joe, e Nick si zittì
all'improvviso. «Perché mi interessa? Vuoi sapere
perché? Beh, prima di tutto non
mi
interessa, l'unica cosa che voglio evitare è di doverti venire
a recuperare in ospedale, o per strada, o Dio solo sa dove! Non mi
interessa niente di te, Nicholas, men che meno che tu ti faccia male
o meno. Ma sinceramente se morissi l'atmosfera casalinga non sarebbe
più la stessa e...», si zittì, scuotendo il capo.
«E?».
«Senti,
a te non ti deve interessare un cazzo di quello che voglio io, fai
come ti dico e basta», ringhiò, premendo l'acceleratore
e partendo di nuovo, ricevendo una lunghissima serie di suonate di
clacson dietro di sé.
Nick
si passò una mano tra i ricci, continuando a tamponarsi il
naso che non accennava a smettere di sanguinare. Pregò con
tutto sé stesso che non fosse rotto. Non ora che faceva parte
di una band e doveva anche cantare; la voce nasale era l'ultima cosa
che gli serviva al momento.
Joe
non parlò per i dieci minuti seguenti, troppo impegnato a far
passare la rabbia.
«A
questo punto credo sarebbe meglio se ti portassi al pronto soccorso»,
sbuffò scocciato, tirando fuori dalla tasca esterna della
propria giacca il cellulare. «Scrivo a mamma e papà che
stiamo andando lì».
«No,
non ce n'è bisobgno»,
ribatté debolmente Nicholas, tentando di suonare convincente.
«Tu
fai come ti dico io», ringhiò Joe. «Finirai per
morire dissanguato in quest'auto».
«Non
cledo
sia necessario».
«Tu
non credi necessarie un sacco di cose. Tra queste rientra avere una
vita», mormorò Joe talmente a bassa voce che Nick non lo
sentì.
«Hai
detto qualcosa?», domandò il diciottenne, vedendolo
muovere le labbra.
«Bestemmiavo»,
mentì velocemente Joe. Vide con l'angolo di un occhio Nick
annuire piano. Non era vero. Se c'era una cosa che Joseph non aveva
mai fatto era bestemmiare, tra i tanti peccati che aveva commesso –
tra infrangere il voto di rimanere casto sino al matrimonio, le
bugie, le droghe che aveva assunto, tutte le sbornie che si era preso
– quello non rientrava nella categoria. Era cambiato, questo
era innegabile, ma era comunque cresciuto in una famiglia dedita alla
chiesa, con i genitori che avevano insegnato a tutti i loro figli ad
avere rispetto di Dio.
Joe
in Dio non ci credeva più. Quando era un ragazzino sì,
era perfettamente convinto della sua esistenza, ma dopo aver visto
interi quartieri gremiti di poveri, mezzi morti di fame, dopo aver
visto la crudeltà di alcune persone non credeva che esistesse.
Se ci fosse stato non sarebbero esistite le guerre nel mondo, o la
crudeltà, o la fame.
God
is Death,
era una delle canzoni che aveva scritto lui per la sua band, ma alla
fine mai proposta. Più ci pensava, mentre la scriveva, e più
si rendeva conto che non era una canzone hard-rock, ma più da
ritmi leggeri. E, tra l'altro, ridendo si era detto che conteneva
troppe parole per una canzone della sua band.
Dio
era morto. Dio non esisteva. Il mondo si era costruito, e viveva,
solo a causa – o grazie? - delle scelte che si fanno.
Il
mondo faceva schifo.
Scrisse
il messaggio, velocemente, a sua madre, dicendo che Nick era
inciampato e cadendo aveva sbattuto il naso contro un marciapiede e
che voleva portarlo al pronto soccorso per un controllo, poi lanciò
il cellulare sul sedile posteriore e deviò strada, infilandosi
in una scorciatoia per arrivare prima in ospedale.
Nick
si sentiva come quando gli avevano diagnosticato il diabete e lo
stavano portando in ospedale, in macchina con lui c'era sua madre,
Kevin e Joe. Quello era stato l'ultimo giorno per molti anni in cui
il ventunenne aveva dimostrato che per lui Nicholas era importante:
si era seduto accanto a lui e l'aveva abbracciato per qualche
secondo, troppo pochi, e gli aveva mormorato nell'orecchio un “ti
voglio bene” che forse si era lasciato scappare per errore.
Dopo,
non gli aveva parlato per due settimane.
«Joe?»,
domandò piano, mentre il fratello maggiore entrava nel
parcheggio del pronto soccorso e accostava.
«Sì?»,
domandò scocciato l'altro, la portiera già aperta, un
vento leggero che gli scompigliava i capelli.
Ti
voglio bene,
avrebbe voluto dire. Con tutto sé stesso, ma aveva paura. Nick
Jonas viveva nella paura.
«Niente»,
mormorò, facendo alzare gli occhi al cielo al maggiore e
chiudere la portiera sbattendola troppo forte.
Questa
ragazza occhi cielo, questa ragazza ha un'idea, e partorire tra
le stelle, un giorno quando sarà libera e fiera di sé.
{Ragazza
occhi cielo; Loredana Errore}
Olive
chiuse l'anta del proprio armadietto e vi si appoggiò con le
spalle, passandosi una mano sul viso con aria stanca. Era tornata a
casa troppo tardi la sera prima e i postumi da sbornia continuavano a
farsi sentire.
Scosse
il capo e si mise in cammino verso l'aula di letteratura mentre
intorno a lei sfilavano i vari studenti troppo intenti a pensare alle
loro vite per badare a lei. A Liv andava bene così.
La
classe era semivuota e i pochi che c'erano erano appoggiati alle
finestre con una sigaretta tra le labbra che ispiravano il fumo e poi
espiravano guardando il cortile scolastico, un piccolo quadrato di
terra con un albero e due cespugli.
Si
sedette al suo posto, all'ultima fila centrale, la schiena
abbandonata sullo schienale scomodo, i gomiti poggiati sul banco e la
testa tra le mani. Si ripromise che non avrebbe bevuto per almeno le
prossime tre settimane. Una promessa che, lo sapeva, non avrebbe
mantenuto.
Il
trillo della campanella le fece pulsare le tempie, aggredendola
intensamente, facendola mugugnare di dolore. Troppa tequila, si
disse, la prossima volta meglio una birra. O due.
Pian
piano l'onda di studenti entrò nella classe e con loro anche
la professoressa Armstrong.
Olive
non si alzò e non le diede il buongiorno come il resto della
classe e rimase seduta, un solo occhio aperto che teneva d'occhio la
porta nella speranza di vedere Nicholas e guardare come stava.
Era
sicura che non fosse nulla di grave, ma, si diceva, se si fosse
infortunato da impedirgli di cantare sarebbe stato un problema in
quel momento, non con la band che stava per avere i suoi inizi.
Girovagando
la notte precedente, quando era ancora quasi del tutto sobria, era
passata davanti a un magazzino con un cartello attaccato sulla porta
principale la scritta “Affittasi”; sotto un numero di
telefono. La zona era abbastanza appartata, il locale dall'esterno
abbastanza grande e adatto a quello che cercavano, ciò che la
preoccupava era il prezzo dell'affitto. Era sicura che con soli sette
componenti un affitto di un intero locale non si sarebbe potuto
pagare poco.
Ci
avrebbe pensato una volta chiamato il proprietario.
Nick
entrò nel momento stesso in cui formulò quel pensiero;
Liv lo guardò con aria indagatrice: aveva un occhio
leggermente livido e sul naso un cerotto nasale.
Il
ragazzo la salutò incerto e lei ricambiò rigida,
alzando la testa e notando che tutta la classe, compresa al
professoressa, li stava guardando.
«Volete
scattarci una fotografia o vi sta bene così?», chiese
irritata, lanciando uno sguardo gelido all'espressione di pura
incredulità di una ragazza seduta di fronte a loro.
Questa
si voltò, facendole il verso, facendo ridacchiare qualche
compagno qua e là per la classe.
La
Armstrong segnò il nome di Nicholas come presente ed inizio a
spiegare la teoria shakespeariana, richiamando a sé
l'attenzione – anche se falsa – dei suoi studenti.
«Come
stai?», domandò Liv a Nick mentre questi si chinava a
prendere il proprio libro di letteratura, il tono a metà tra
il rigido e il preoccupato.
«Bene,
grazie», rispose lui, la voce assolutamente normale. «Non
è niente».
«Speriamo
sia come dici», ringhiò Olive. «Non dovevi
assolutamente accompagnarmi.»
«Ma...
ti saresti trovata sola», balbettò lui, perplesso di
fronte a questo improvviso cambiamento di umore.
«Sono
in parte responsabile di ciò che ti accaduto». Non lo
disse come se si sentisse in colpa, ma era una semplice
constatazione.
«Olive...
io ho diciotto anni, sono il solo ad essere responsabile delle mie
azioni».
Liv
lo fissò un istante: aveva un ricciolo ribelle che gli era
calato lungo la fronte, il volto che traspariva sicurezza. Per
qualche istante Liv si sentì in pace, tranquilla con sé
stessa.
«Beh,
non dovrà accadere mai più», sbottò, prima
di aprire il proprio quaderno con gesto secco e iniziare a prendere
appunti.
Nick
la fissò un secondo, un piccolo sorriso che gli incrinava le
labbra, poi la imitò.
Se
solo avessi le parole, te lo direi anche se mi farebbe male se
io sapessi cosa dire io lo farei
{Una
canzone d'amore; 883}
Jodie
si arrampicò sul palco dell'auditorium scolastico, ascoltando
Nick che suonava, il capo chino sulla tastiera e gli occhi chiusi.
Erano note incerte, evidentemente era la prima volta che provava a
suonarle.
Rimase
in silenzio a guardarlo, scostandosi un riccio moro dagli occhi
castani quando questi le scivolò lungo il viso. Non voleva
disturbarlo. Solo quando Nicholas smise di suonare si avvicinò,
piano.
«Ciao,
Nick», disse, con un sorriso, facendolo trasalire per la
sorpresa.
«Jodie,
ciao», disse, voltandosi a guardarla negli occhi.
Solo
allora la riccia notò il lieve livido sotto l'occhio destro e
un cerotto nasale.
«Cosa
ti sei fatto?», domandò preoccupata, accennando
all'occhio con l'indice.
«Oh...
niente, io... un... Liv... Niente», balbettò, muovendo
concitatamente le mani.
«Uhm,
molto chiaro, sì», ridacchiò la sedicenne,
mostrando un gran sorriso.
«Non
è stato niente», le assicurò allora lui.
«Beh,
sono contenta... Ti fa male?».
«No»,
rispose prontamente lui. Solo quando ci penso, aggiunse
mentalmente.
«Bene».
«Sì».
Rimasero
in un silenzio sospeso, guardandosi di tanto in tanto, imbarazzati.
«Avevi
bisogno di qualcosa?», domandò il ragazzo, a un certo
punto.
«Volevo
solo salutarti», ripiegò Jodie.
«Capito».
Rimasero
ancora in silenzio.
«È
una nuova canzone?», chiese la ragazza. «Quella che stavi
suonando prima».
«Oh,
sì, solo qualche arrangiamento, niente di che...», disse
Nick, tamburellando le dita sui tasti neri e bianchi del pianoforte.
Jodie
prese uno sgabello lì vicino e si sedette accanto a Nicholas.
«Posso
ascoltarla?», chiese dolcemente.
Il
diciottenne la guardò negli occhi, poi annuì, calando
le mani agili sulla tastiera.
Continua...
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