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Autore: Maggie_Lullaby    29/12/2010    12 recensioni
Olive Monroe ha diciotto anni e da quando è nata vive nel Bronx, con una madre menefreghista, un padre assente e quattro fratelli a cui badare. Affoga i suoi dispiaceri nell'alcool, senza sapere che combinare della sua vita.
Poi, una sera, un'illuminazione, spontanea, come un fulmine a ciel sereno, un'idea che potrebbe cambiare totalmente la sua vita.
Nick Jonas è un diciottenne all'ultimo anno di liceo, chiuso in se stesso, senza nessuno con cui parlare, sempre chino sui suoi spartiti. Sì, perché lui scrive, scrive musica. Scrive vita. Scrive amore.
Joe Jonas è il cantante di una band hard rock della scuola, frequenta solo i membri del suo gruppo e a casa è assente, lontano. Vuole allontanarsi dal suo fratellino sfigato e dal maggiore pacifista.
Kevin Jonas va all'università, e sogna di rivedere a casa l'armonia di una volta. Ma, mentre aspetta, suona la chitarra.
Una storia d'amore, ma non l'amore che intendiamo noi. L'amore per una sola, unica, perfetta parte della vita di tutti noi...
La Musica.
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Joe Jonas, Kevin Jonas, Nick Jonas, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Oltre a voler portarmi avanti più che posso con questa fic vorrei dedicarmi un po' ad Olive& An Arrow, che continuerò a postare senza pause e, anzi, a breve dovrei pubblicare il prossimo capitolo” questo lo scrissi nell'undicesimo capitolo di I'm Only Me When I'm With You... un mese fa. Sono imperdonabile, un caso disperato, un muflone. Ecco, sì, io sono un muflone. Ora, insultatemi pure.

Oltre tutto, questo capitolo che giunge dopo due mesi e dico due mesi (e mezzo -.-) di ritardo non è nemmeno lungo o particolarmente interessante... o bello... o curioso. Si approfondisce semplicemente il carattere di Joe e una piccola scenetta tra Liv e Nick, e Nicholas e Jodie. Un capitolo tranquillo.

Wow.

Grazie per aver commentato in dieci lo scorso capitolo! *ç* Non me lo merito, ora vi risponderò tramite posta privata. Grazie mille per il supporto!

So che è scorretto chiedervi una cosa simile dopo così tanto ritardo (*si colpisce da sola alla Dobby*) ma vi vorrei cortesemente chiedere, per favore, di passare nell'ultimo capitolo di I'm Only Me When I'm With You e magari lasciare un commentino, anche piccolissimo, una sola parola, una lettera, un punto, qualcosa. A quella storia sono seriamente molto affezionata e anche dando il meglio vedo che i risultati non sono dei migliori. Ditemi anche se fa schifo così posso migliorare... Il link è il seguente → http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=612176

Grazie dell'attenzione. Finalmente ecco il capitolo.

Chapter 6}

 

«Liv, cosa ci puoi dire su Joe Jonas?»

«Qualcosa più di ciò che già sapete? Beh, vi dico chiaro e tondo che era la persona più stronza che si possa mai incontrare. Dico sul serio. Era un bastardo».

Nicholas continuò a tamponarsi il naso grondante di sangue per tutto il tragitto sino a casa, lanciando delle occhiata ad intermittenza a Joe, il volto duro e sprezzante, gli occhi pieni di rabbia inchiodati sulla strada, le mani che stringevano il volante talmente forte da far diventare le nocche bianche.

Scostò lo sguardo e guardò fuori il paesaggio cittadino, così sconosciuto ed eppure così familiare. New York era tutta uguale, per come la pensava. Non era altro che un ripetersi di bar, negozi, edifici in cemento troppo alti, fast-food e kebab.

Sarebbe rimasta sempre così, lo sapeva. Anonima per i newyorchesi e terribilmente affascinante per i turisti.

Per lui sarebbe rimasta per sempre la città che aveva coronato la sua adolescenza da dimenticare.

«Glazie», mormorò improvvisamente, voltandosi lentamente verso il fratello, senza sorridere.

Vide la stretta di Joe farsi ancora più forte mentre aspettava invano che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.

Proprio quando stava abbandonando ogni speranza e si stava di nuovo per chiudere in se sé stesso lo sentì parlare.

«Sei solo un idiota», ringhiò Joseph, senza fissarlo. «Mi spieghi che cazzo ci facevi la sera nel Bronx, eh? Stupido

Nick incassò il colpo senza ribattere, stringendosi nelle spalle.

«Io... Stavo accombagnando un'amica». Si poteva chiamare Olive amica? Liv non aveva amici, Liv era sola, non voleva sentirsi amata, parte di un gruppo, lei sarebbe rimasta per sempre sola con sé stessa.

«Chi, quella? Credevo fosse solamente una puttana», continuò Joe, sibilando. «Lasciala perdere e sta' lontano dal Bronx, specialmente la notte, mi hai capito bene?».

Nick non rispose e continuò a guardarlo, confuso.

«Pecché?».

«Porca miseria, Nicholas, quel pugno non ti è servito a niente, eh?! Il Bronx non è un posto per poppanti, devi stargli lontano, potresti farti male sul serio la prossima volta».

«No, io bolevo solo sapele...», balbettò Nick, abbassando lo sguardo.

«Cosa?».

«Pecché ti intelessa che io ci bada o meno».

Joseph inchiodò improvvisamente, accostando al lato della strada mentre un'intera fila di macchine dietro di loro imprecava contro di lui mentre gli sfilavano accanto.

«Come hai detto?», domandò.

«Pecché ti intelessa che io vada o meno nel Blonx... Insomma, noi, tu... Non...».

«Smettila di balbettare», lo aggredì Joe, e Nick si zittì all'improvviso. «Perché mi interessa? Vuoi sapere perché? Beh, prima di tutto non mi interessa, l'unica cosa che voglio evitare è di doverti venire a recuperare in ospedale, o per strada, o Dio solo sa dove! Non mi interessa niente di te, Nicholas, men che meno che tu ti faccia male o meno. Ma sinceramente se morissi l'atmosfera casalinga non sarebbe più la stessa e...», si zittì, scuotendo il capo.

«E?».

«Senti, a te non ti deve interessare un cazzo di quello che voglio io, fai come ti dico e basta», ringhiò, premendo l'acceleratore e partendo di nuovo, ricevendo una lunghissima serie di suonate di clacson dietro di sé.

Nick si passò una mano tra i ricci, continuando a tamponarsi il naso che non accennava a smettere di sanguinare. Pregò con tutto sé stesso che non fosse rotto. Non ora che faceva parte di una band e doveva anche cantare; la voce nasale era l'ultima cosa che gli serviva al momento.

Joe non parlò per i dieci minuti seguenti, troppo impegnato a far passare la rabbia.

«A questo punto credo sarebbe meglio se ti portassi al pronto soccorso», sbuffò scocciato, tirando fuori dalla tasca esterna della propria giacca il cellulare. «Scrivo a mamma e papà che stiamo andando lì».

«No, non ce n'è bisobgno», ribatté debolmente Nicholas, tentando di suonare convincente.

«Tu fai come ti dico io», ringhiò Joe. «Finirai per morire dissanguato in quest'auto».

«Non cledo sia necessario».

«Tu non credi necessarie un sacco di cose. Tra queste rientra avere una vita», mormorò Joe talmente a bassa voce che Nick non lo sentì.

«Hai detto qualcosa?», domandò il diciottenne, vedendolo muovere le labbra.

«Bestemmiavo», mentì velocemente Joe. Vide con l'angolo di un occhio Nick annuire piano. Non era vero. Se c'era una cosa che Joseph non aveva mai fatto era bestemmiare, tra i tanti peccati che aveva commesso – tra infrangere il voto di rimanere casto sino al matrimonio, le bugie, le droghe che aveva assunto, tutte le sbornie che si era preso – quello non rientrava nella categoria. Era cambiato, questo era innegabile, ma era comunque cresciuto in una famiglia dedita alla chiesa, con i genitori che avevano insegnato a tutti i loro figli ad avere rispetto di Dio.

Joe in Dio non ci credeva più. Quando era un ragazzino sì, era perfettamente convinto della sua esistenza, ma dopo aver visto interi quartieri gremiti di poveri, mezzi morti di fame, dopo aver visto la crudeltà di alcune persone non credeva che esistesse. Se ci fosse stato non sarebbero esistite le guerre nel mondo, o la crudeltà, o la fame.

God is Death, era una delle canzoni che aveva scritto lui per la sua band, ma alla fine mai proposta. Più ci pensava, mentre la scriveva, e più si rendeva conto che non era una canzone hard-rock, ma più da ritmi leggeri. E, tra l'altro, ridendo si era detto che conteneva troppe parole per una canzone della sua band.

Dio era morto. Dio non esisteva. Il mondo si era costruito, e viveva, solo a causa – o grazie? - delle scelte che si fanno.

Il mondo faceva schifo.

Scrisse il messaggio, velocemente, a sua madre, dicendo che Nick era inciampato e cadendo aveva sbattuto il naso contro un marciapiede e che voleva portarlo al pronto soccorso per un controllo, poi lanciò il cellulare sul sedile posteriore e deviò strada, infilandosi in una scorciatoia per arrivare prima in ospedale.

Nick si sentiva come quando gli avevano diagnosticato il diabete e lo stavano portando in ospedale, in macchina con lui c'era sua madre, Kevin e Joe. Quello era stato l'ultimo giorno per molti anni in cui il ventunenne aveva dimostrato che per lui Nicholas era importante: si era seduto accanto a lui e l'aveva abbracciato per qualche secondo, troppo pochi, e gli aveva mormorato nell'orecchio un “ti voglio bene” che forse si era lasciato scappare per errore.

Dopo, non gli aveva parlato per due settimane.

«Joe?», domandò piano, mentre il fratello maggiore entrava nel parcheggio del pronto soccorso e accostava.

«Sì?», domandò scocciato l'altro, la portiera già aperta, un vento leggero che gli scompigliava i capelli.

Ti voglio bene, avrebbe voluto dire. Con tutto sé stesso, ma aveva paura. Nick Jonas viveva nella paura.

«Niente», mormorò, facendo alzare gli occhi al cielo al maggiore e chiudere la portiera sbattendola troppo forte.


Questa ragazza occhi cielo,
questa ragazza ha un'idea,
e partorire tra le stelle,
un giorno quando sarà
libera e fiera di sé.

{Ragazza occhi cielo; Loredana Errore}


Olive chiuse l'anta del proprio armadietto e vi si appoggiò con le spalle, passandosi una mano sul viso con aria stanca. Era tornata a casa troppo tardi la sera prima e i postumi da sbornia continuavano a farsi sentire.

Scosse il capo e si mise in cammino verso l'aula di letteratura mentre intorno a lei sfilavano i vari studenti troppo intenti a pensare alle loro vite per badare a lei. A Liv andava bene così.

La classe era semivuota e i pochi che c'erano erano appoggiati alle finestre con una sigaretta tra le labbra che ispiravano il fumo e poi espiravano guardando il cortile scolastico, un piccolo quadrato di terra con un albero e due cespugli.

Si sedette al suo posto, all'ultima fila centrale, la schiena abbandonata sullo schienale scomodo, i gomiti poggiati sul banco e la testa tra le mani. Si ripromise che non avrebbe bevuto per almeno le prossime tre settimane. Una promessa che, lo sapeva, non avrebbe mantenuto.

Il trillo della campanella le fece pulsare le tempie, aggredendola intensamente, facendola mugugnare di dolore. Troppa tequila, si disse, la prossima volta meglio una birra. O due.

Pian piano l'onda di studenti entrò nella classe e con loro anche la professoressa Armstrong.

Olive non si alzò e non le diede il buongiorno come il resto della classe e rimase seduta, un solo occhio aperto che teneva d'occhio la porta nella speranza di vedere Nicholas e guardare come stava.

Era sicura che non fosse nulla di grave, ma, si diceva, se si fosse infortunato da impedirgli di cantare sarebbe stato un problema in quel momento, non con la band che stava per avere i suoi inizi.

Girovagando la notte precedente, quando era ancora quasi del tutto sobria, era passata davanti a un magazzino con un cartello attaccato sulla porta principale la scritta “Affittasi”; sotto un numero di telefono. La zona era abbastanza appartata, il locale dall'esterno abbastanza grande e adatto a quello che cercavano, ciò che la preoccupava era il prezzo dell'affitto. Era sicura che con soli sette componenti un affitto di un intero locale non si sarebbe potuto pagare poco.

Ci avrebbe pensato una volta chiamato il proprietario.

Nick entrò nel momento stesso in cui formulò quel pensiero; Liv lo guardò con aria indagatrice: aveva un occhio leggermente livido e sul naso un cerotto nasale.

Il ragazzo la salutò incerto e lei ricambiò rigida, alzando la testa e notando che tutta la classe, compresa al professoressa, li stava guardando.

«Volete scattarci una fotografia o vi sta bene così?», chiese irritata, lanciando uno sguardo gelido all'espressione di pura incredulità di una ragazza seduta di fronte a loro.

Questa si voltò, facendole il verso, facendo ridacchiare qualche compagno qua e là per la classe.

La Armstrong segnò il nome di Nicholas come presente ed inizio a spiegare la teoria shakespeariana, richiamando a sé l'attenzione – anche se falsa – dei suoi studenti.

«Come stai?», domandò Liv a Nick mentre questi si chinava a prendere il proprio libro di letteratura, il tono a metà tra il rigido e il preoccupato.

«Bene, grazie», rispose lui, la voce assolutamente normale. «Non è niente».

«Speriamo sia come dici», ringhiò Olive. «Non dovevi assolutamente accompagnarmi.»

«Ma... ti saresti trovata sola», balbettò lui, perplesso di fronte a questo improvviso cambiamento di umore.

«Sono in parte responsabile di ciò che ti accaduto». Non lo disse come se si sentisse in colpa, ma era una semplice constatazione.

«Olive... io ho diciotto anni, sono il solo ad essere responsabile delle mie azioni».

Liv lo fissò un istante: aveva un ricciolo ribelle che gli era calato lungo la fronte, il volto che traspariva sicurezza. Per qualche istante Liv si sentì in pace, tranquilla con sé stessa.

«Beh, non dovrà accadere mai più», sbottò, prima di aprire il proprio quaderno con gesto secco e iniziare a prendere appunti.

Nick la fissò un secondo, un piccolo sorriso che gli incrinava le labbra, poi la imitò.


Se solo avessi le parole,
te lo direi
anche se mi farebbe male
se io sapessi cosa dire
io lo farei

{Una canzone d'amore; 883}


Jodie si arrampicò sul palco dell'auditorium scolastico, ascoltando Nick che suonava, il capo chino sulla tastiera e gli occhi chiusi. Erano note incerte, evidentemente era la prima volta che provava a suonarle.

Rimase in silenzio a guardarlo, scostandosi un riccio moro dagli occhi castani quando questi le scivolò lungo il viso. Non voleva disturbarlo. Solo quando Nicholas smise di suonare si avvicinò, piano.

«Ciao, Nick», disse, con un sorriso, facendolo trasalire per la sorpresa.

«Jodie, ciao», disse, voltandosi a guardarla negli occhi.

Solo allora la riccia notò il lieve livido sotto l'occhio destro e un cerotto nasale.

«Cosa ti sei fatto?», domandò preoccupata, accennando all'occhio con l'indice.

«Oh... niente, io... un... Liv... Niente», balbettò, muovendo concitatamente le mani.

«Uhm, molto chiaro, sì», ridacchiò la sedicenne, mostrando un gran sorriso.

«Non è stato niente», le assicurò allora lui.

«Beh, sono contenta... Ti fa male?».

«No», rispose prontamente lui. Solo quando ci penso, aggiunse mentalmente.

«Bene».

«Sì».

Rimasero in un silenzio sospeso, guardandosi di tanto in tanto, imbarazzati.

«Avevi bisogno di qualcosa?», domandò il ragazzo, a un certo punto.

«Volevo solo salutarti», ripiegò Jodie.

«Capito».

Rimasero ancora in silenzio.

«È una nuova canzone?», chiese la ragazza. «Quella che stavi suonando prima».

«Oh, sì, solo qualche arrangiamento, niente di che...», disse Nick, tamburellando le dita sui tasti neri e bianchi del pianoforte.

Jodie prese uno sgabello lì vicino e si sedette accanto a Nicholas.

«Posso ascoltarla?», chiese dolcemente.

Il diciottenne la guardò negli occhi, poi annuì, calando le mani agili sulla tastiera.


Continua...

  
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