23/12/1822 – Lettera al mio
amato
Colonia.
Oggi,
in qualche
parte del mondo, è il compleanno di qualcuno. Forse il tuo.
Scrivo
su un tavolo
minuto che non mi è mai appartenuto, e che per caso
s’è trovato in questa
stanza dove sommariamente soggiorno. Il letto è a due posti,
ed è strano
addormentarsi da sola in questo vasto spazio, con coperte calde e
morbidi
cuscini che nella notte prendono forme umane, ma non mi abbracciano. O,
almeno,
non lo fanno come lo facevi tu.
Al
nostro addio, ci
siamo detti che nessuna distanza avrebbe potuto dividere i nostri
cuori. L’uno
nell’altro, mano nella mano, sangue che scorre in due vene di
due corpi
diversi, ma che – disgrazia! – è lo
stesso, condiviso come una caramella fra
due bambini. Ogni goccia mia ha sapore di te.
Oggi
mi sono
tagliata. Un piccolo graffio sull’indice, sottile. Colpa del
gatto. Ed è
sgorgato un po’ di sangue, sai? Ma non sapeva di te. Era
aspro, acido, era solo
mio, era qualcosa d’estraneo a ciò che ero
abituata a condividere.
Posso
aspettare.
Posso aspettare di sentire di nuovo quella dolcezza scivolare fra il
liquido
rosso, e avvolgermi del suo incantevole odore. Ma intanto…
ogni giorno senza di
te – senza te con me – è come un
coltello che va a recidere sempre la stessa
ferita, e apre cascate acidule da cui non vorrei mai attingere vita.
La
sedia da dove ora
ti scrivo è un semplice sgabello in legno, la parte
superiore rivestita di un
cuscino duro e ruvido al tatto, color panna. Odio quel giallognolo che
mischiano dappertutto, è un colore così obsoleto!
Rivoglio la mia stanza
acquamarina, quella che condividevo con te. E rivoglio quello specchio
sottile
in cui apparivo così fantastica, come lo eri tu quando mi
sedevi al fianco e mi
carezzavi la schiena, dolcemente, un ricordo cui per ora non desidero
rimembrare. Altrimenti finirei per disperarmi ancora.
Qua
lo specchio è un
enorme lastrone posto in fronte alla scrivania, e ogni volta che alzo
lo
sguardo dalla pergamena vedo il mio volto deturpato dalla solitudine.
Le guance
incavate sotto il naso, che seguono lunghe curve fino ai bordi delle
labbra,
perennemente rivolti al basso. Gli zigomi sembrano ancora
più appuntiti di come
lo sono di solito, e il viso è gonfio, gonfio di dolore e
della cioccolata che
mangio. Divoro tutto, perché ho paura che la mia bocca,
nell’astiosa brama di
muoversi, cerchi altre lingue cui concatenarsi. Che pensiero stupido.
Sono solo
golosa. Golosa di qualcosa che s’avvicini al sapore del tuo
collo, delle tue
labbra, del tuo corpo…
I
miei stessi capelli sono
spenti. Vorrei che ci fossi tu a pettinarmeli; perché,
ricordi? Ti dicevo che
erano troppo lunghi, ma tu non volevi che li tagliassi, e allora mi
venivi alle
spalle, mi toglievi delicatamente la spazzola dalle mani e prendevi a
lisciarmeli fino in fondo alla schiena. Eri così leggero che
quasi non sentivo
il tuo tocco, e i nodi restavano lì dov’erano
perché temevi di farmi male, eseguendo
più pressione del dovuto. Nodi che creavano un groviglio
imbarazzante, invero,
però quanto mi mancano, ora!
Posso
aspettare a lungo,
forse per sempre… e chiedermi quanto durerà
questo maledetto viaggio lontano da
te. Non ho nemmeno un ritratto che riassuma i tratti del tuo volto. Non
ho
avuto il tempo di fartelo. Deplorevole, non credi? È che ho
paura di uccidere
la tua bellezza, se solo cercassi di riprodurla con le mie mani
grossolane,
poco gentili. Tuttora ho paura, di cosa non so.
Mi
sento come una
margherita: m’ama, m’amerà ancora,
davvero m’ama ancora? E intanto sfiorisco.
Deliziosa, mi ritroverai che sarò solo un gambo! Un tuo
bacio, solo uno, e
sboccerò di nuovo. È una promessa.
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