“Sereno” per un challenge a squadre
per il quale la mia partecipazione conterà quanto quella di
una
formica in una gara di tiro alla fune, ma tant'è. Lo prendo
come un
incentivo a sgomberare vecchie trame, come questa, che mi restava sul
gozzo dai tempi de Il
ferito nella terra.
Vivere in una fine
“We
have left all the
rest behind, one after another.
It seems almost like a
dream that has slowly faded.”
“Not to me”, said
Frodo.
“To me it feels more
like falling asleep again.”
JRRT
Per la seconda volta nella sua vita,
Anna si svegliò in una casa vuota. Suo padre se n'era
andato. D'ni
se n'era andata. Gehn se n'era andato. Lei rimaneva. E tutte le
conclusioni che si era lasciata precariamente alle spalle, senza mai
tempo per guardarsi indietro, tornarono a salutarla accalcandosi
negli spazi della Fenditura. Avrebbe avuto bisogno di una cascata
d'acqua per lavare tutta quella distruzione che le si stringeva
addosso, pesante come polvere nei polmoni, ma il cielo rimaneva terso
e immobile nei colori tenui del primo mattino, quindi Anna si mise in
ginocchio sulla terra e pianse la sua cascata d'acqua.
“Aitrus”, mormorò la sera,
esausta. “Nostro figlio se n'è andato. Dove ho
sbagliato?”
Aveva tutto il tempo del mondo, ora:
era rimasta sola sotto un unico cielo azzurro.
Pianse tutte le sue lacrime per Gehn,
anche se ogni mattina, intrecciandosi i capelli, si raccontava che è
sceso con la mappa di suo padre ed è al sicuro. D'ni
è la sua casa
e lo proteggerà, gli parlerà come avrei fatto io,
gli farà capire.
Finite quelle, pianse tutte quelle che aveva nascosto a se stessa
durante gli ultimi anni con Gehn, quelli di insulti e silenzi e
recriminazioni per cui un'abitante di superficie non aveva diritto di
essere sua madre. Avrebbe dovuto capire che presto le avrebbe
preferito le rovine, ma lo vedeva ancora come un bambino. Era ancora
un bambino. Infine, ancora a ritroso, pianse tutte quelle che aveva
sempre saputo di avere in corpo ma che aveva dovuto nascondere al
figlio ancora troppo piccolo per poter vedere la mamma in lacrime. Le
premevano ancora in gola.
Si era chiesta se proprio quel
mostrarsi forte non avesse cementato in Gehn l'idea del suo
personalissimo peccato originale. Col passare dei giorni e delle
settimane, però, tutto scivolava via perdendo importanza,
perché
svegliandosi ogni mattina sola, di fronte a un deserto assolato e
identico, Anna aveva formulato il pensiero di essere giunta a una
fine. Era una sensazione fragile, come se, nel tuffarsi, si fosse
trovata ferma a mezz'aria, sbilanciata e senza possibilità
di
tornare in piedi, ma sempre lontana da terra.
Provò ad accettare quello stato.
“Amore mio”, mormorò un giorno,
sentendosi vecchia e stanca, ma incredibilmente leggera nel dare
fiato a quell'idea. “Verso niente, ricominciamo.”
Bada, è figlio tuo quant'è figlio
mio e te lo affido. Ma trattamelo bene. Dagli un bacio in fronte da
parte della sua mamma. Non mancava di salutare
così il vulcano,
quando i commerci o qualche tocco di manutenzione la portavano fuori
dagli spazi protetti di casa. Il sorriso forzato che si stampava in
volto in quelle occasioni mise radici fino a presentarsi, non
richiesto, fin da prima di salire gli ultimi scalini.
Prese i fili più colorati e ricamò
luci azzurre e acqua arancione sulle coperte del suo bambino.
Affondò
le dita nella creta e vi plasmò un portacandela che
l'accompagnasse
nella notte (i simboli con cui lo decorò venivano dalla sua
infanzia: non ricordava il loro significato, ma confidava che
gliel'avrebbero raccontato, un giorno). Sentì la schiena
lamentarsi
per gli otri d'acqua da portare in cantina, ora che era rimasta sola.
Ma ne acquistò due in meno dalla carovana, meno sementi,
meno carne
essiccata; con i soldi avanzati poté permettersi pigmenti e
carta.
Sedette all'ombra del vulcano e seguì con occhi socchiusi il
trasformarsi dell'unica nuvola all'orizzonte.
“È una buona casa, per una fine”,
disse, passando le mani sugli incavi che disegnavano sul muro fiori e
uccelli. “Non trovi?”
Le carovane portavano con sé la
civiltà. Le loro merci parlavano di insediamenti e fattorie;
il
chiacchiericcio dei mercanti riferiva di balli, ma anche di dottori e
fornai. Anna si era chiesta se i suoi ricami e i suoi intagli
sarebbero bastati a comprarle un passaggio, se sarebbe stato
più
consono dedicare l'ultima parte della sua vita a cercare di cucire
dei rapporti con la sua gente, quegli uomini di cui serbava solo
ricordi offuscati dell'infanzia. Ti'ana la narratrice, che si era
innamorata tre miglia sottoterra e aveva visto un lago tingersi di
luce, si era opposta: non avrebbero avuto orecchie per le sue storie
e l'avrebbero sommersa con le loro.
Portò le mani al petto, cullando i
ricordi. Dietro ai suoi occhi vivevano ancora i giardini di Neref con
le loro promesse di altri mondi, i pinnacoli intarsiati di K'veer, la
meraviglia a stento trattenuta nel porre piede nelle biblioteche di
J'taeri e poi Vamen, il traffico di Ashem'en che andava e veniva dal
nulla, Ae'gura tutta come un sogno scintillante. Non poteva venir
costretta da vicoli e tetti. La terra riarsa era l'unico suolo su cui
quelle memorie potessero crescere senza venir soffocate dal
quotidiano e non poteva esserci altro sipario che l'aria vuota,
immensa e spazzata dal vento.
Scoprì che la calma della sua fine
risuonava negli spazi; che lì, in quella casa, era possibile
restare
in piedi e inspirare a fondo con le Ere alle spalle e una quieta
solitudine davanti.
Era una figlia del deserto. Sarebbe
rimasta al deserto.
Si sedette sul bordo di roccia della
Fenditura e intonò una nenia della buona notte, assumendo i
gesti
che ricordava da Tasera, con parole più antiche della patria
di suo
padre e di tutti i popoli che si affannavano su quelle terre.
“Mi hai consegnato la storia più
grande”, si confidò quando la canzone fu finita e
in cielo si
accendevano vivide le prime stelle. “La tramando al vento,
agli
sterpi, alla linea blu dell'orizzonte.”
C'era una volta una ragazza che scoprì
infiniti mondi. Il suo tocco alieno li fece avvizzire e dovette
tornare a casa portando nel cuore le sole memorie rimaste di tutti
quei cieli. Era un cuore grande abbastanza da contenerle tutte.
C'era una volta una donna che camminava
portando con sé la responsabilità di due uomini,
un ragazzo e una
civiltà, ma che se anche avesse potuto non avrebbe taciuto
le parole
di grazia e pietà che della sua colpa avevano costituito
l'ultimo
innesco.
C'era una volta una vecchia signora che
viveva col deserto. Le rocce erano le sue ossa, il cielo limpido il
suo respiro. Esisteva nel Tutto, pronta a tornare ad esso senza
rimpianti.
L'aria sopra di lei – dentro di lei –
era serena.
“Mio caro”, iniziò al termine dei
lavori quotidiani, come le era consueto. “Oggi è
stata una buona
giornata. Ho ricalcolato il passo dell'elica per il generatore e
dovrebbe risultare fattibile anche considerando il regresso. La
frittata di cipolle è stata un successo. Il nostro arazzo
conta due
righe in più e...”
...se vado avanti così finirò a
suddividere in cinque e multipli di cinque anche le mele. Niente note
stavolta, credo...? Si ambienta nei primi mesi dei cinque anni che
Anna passa da sola alla Cleft, da quando Gehn scappa di casa a quando
torna e le scodella Atrus (facendole il più grande favore
della sua
vita, direi).
Se ho scordato di annotare qualcosa ne
parliamo su forum, ché tanto lo so che in queste pagine
restiam fra conoscenti e amici XD Come
so anche che, se ho cannato i riferimenti a muzzo nel quarto
paragrafo, qualcuuuno come un falchetto me li corregge X3
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