Un oscuro angelo_4
ATTO IV: LONDRA
› INGHILTERRA, 1888
METAMORPHOSE
[1]
Volgi lo sguardo al
cielo e osservi, attento;
torni poi a
guardare
la foglia, scoprendo
che il bruco
è divenuto farfalla.
Le
nuvole in quel cielo plumbeo, grigie e sfilacciate, minacciavano
un’insistente
pioggia, esattamente come nella stragrande maggioranza dei giorni
passati. Il
tempo non era affatto cambiato durante il lungo viaggio che lui,
signore della
tenuta di Beul an latha
[2],
aveva affrontato; solo di rado qualche timido raggio di sole filtrava
attraverso le coltri di nubi, rischiarando il paesaggio prima di venir
inghiottito ancora una volta.
Aveva preso quella decisione senza
avvertire nessuno, tanto meno il figlio o il suo caro amico.
All’insaputa di
tutti, domestici inclusi, aveva preparato lui stesso un bagaglio
leggero e
ordinato all’anziano cocchiere, che serviva la sua famiglia
da parecchi anni,
d’accompagnarlo in quella lontana traversata. Indossato un
pesante soprabito e
un cilindro, poi, aveva preso il vecchio bastone da passeggio che era
appartenuto a suo nonno ed era salito in carrozza, partendo alla volta
di
Londra. Se fosse stato più coscienzioso, avrebbe di sicuro
evitato il viaggio;
ma le parole che Sir William aveva pronunziato non avevano fatto altro
che
vorticargli insistentemente nella testa, non permettendogli di
conservare
quella poca pace che aveva nell’animo. E mentre i pensieri si
perdevano, lui
continuava a guardare con distratta svogliatezza fuori da quella
carrozza: quei
pochi cittadini presenti fra le strade avevano quasi tutti
un’aria divertita e
assorta, vivacità dovuta probabilmente anche al clima mite
nonostante fosse
autunno.
Si meravigliò non poco di
come fosse cambiata
Londra dall’ultima volta che l’aveva visitata; quei
piccoli negozietti che
ricordava sembravano aver acquisito un nome altolocato, come se
fossero
un marchio di garanzia per chi, nobile o borghese che fosse, ne
acquistava le
merci in esposizione. Signori e dame camminavano quasi fianco a fianco
con
piccoli orfanelli, sebbene né gli uni né gli
altri prestassero una reale
attenzione a tale vicinanza. Sembrava tutto nuovo, per lui. Era
attento
ad ogni minimo particolare, ad ogni più piccolo cambiamento
che si sarebbe
potuto scorgere. E la cosa lo turbava ed emozionava al tempo stesso; si
sentiva come un bambino che, per la prima volta, veniva
accompagnato dai
genitori
a vedere un nuovo mondo. Avrebbe voluto toccare tutto con mano,
comprare tutto
ciò che poteva permettersi. In quegli anni di
auto-reclusione nella sua stessa
casa, si era negato le bellezze che il mondo avrebbe con
così tanta cura potuto
offrirgli. Ma, ormai, era troppo tardi per recuperare. Ben si rendeva
conto
della sua situazione, non doveva dimenticarlo. Era come uno schiavo;
uno
schiavo lasciato però libero d’agire come meglio
credeva, purché lo facesse nei
limiti delle condizioni a cui era legato.
Forse furono proprio quei pensieri a
farlo sospirare affranto, tanto che si ritrovò a sporgersi
per aprire la
piccola finestrella che consentiva di parlare al cocchiere.
«Ferma la carrozza da
qualche parte, Hamish», esordì, dovendo fare un
piccolo colpo di tosse per non
rendere la voce troppo rauca o stridula. «Ho voglia di fare
due passi».
In risposta sentì prima il
nitrito
dei cavalli, forse simbolo che l’anziano aveva dato un
ennesimo strattone alle
briglie. «È sicuro, Milord?»
domandò lui, la voce ovattata dai tasselli di
legno che li dividevano. «Non credo sia il caso, date le
vostre condizioni».
«Portami lungo le rive del
Tamigi»,
continuò tranquillo il Lord, come ripensando alla loro
destinazione, senza
prestargli la minima attenzione. «Portami lungo il Tamigi e
ferma la carrozza,
per favore».
Sebbene il volto del cocchiere
avesse assunto un’espressione preoccupata e
tutt’altro che accondiscendente,
lui non contestò oltre, limitandosi semplicemente ad
eseguire gli ordini del
suo signore. S’udì il nitrito dei cavalli, che
aumentarono la loro andatura
dopo uno schiocco; il nobil uomo s’adagiò
nuovamente contro lo schienale dalla
morbida imbottitura, abbassando le palpebre per concentrarsi unicamente
sul
suono degli zoccoli sull’acciottolato. Voleva pensare che non
esistesse
nient’altro all’infuori di quello, voleva cercare
di cancellare tutto il resto
e fissare la sua mente solo su quel rumore familiare che in passato
l’aveva
accompagnato per lunghe ore. Gli era persino sembrato di riascoltare i
suoni
della foresta, il richiamo della pernice bianca o quel suono simile ad
un
uggiolio che emetteva la volpe rincorsa dai cani.
Non si accorse neppure che avevano
oltrepassato quei quartieri in cui si trovavano da parecchio tempo,
ridestandosi da quel suo bizzarro dormiveglia solo quando
sentì l’anziano
cocchiere annunciare il loro arrivo. Rialzò piano le
palpebre e gettò
un’occhiata fuori, ritrovandosi ad osservare le piccole
imbarcazioni ivi presenti
e lo specchio argentato che il fiume sembrava essere in quel momento.
Un’innocua pioggerellina aveva cominciato a riversarsi dalle
nuvole, creando
piccole onde e increspature quando toccavano quella superficie che
l’uomo stava
osservando. Non era ancora sceso dalla carrozza, ma aveva stretto una
mano
intorno al bastone come se si apprestasse ad impugnarlo per raggiungere
la
strada. Pochi attimi dopo, difatti, aprì la porticina che lo
separava
dall’esterno, respirando a pieni polmoni quell’aria
pura e fresca d’umidità che
non sentiva da tempo. Sorrise, forse inconsciamente; era la
libertà, quella?
«Ti ringrazio,
Hamish», disse
infine, voltandosi verso il cocchiere per rivolgere lui quel sorriso.
Mai come
in quel momento si sentiva vivo, l’uomo d’un tempo,
come se avesse subito una
regressione o una metamorfosi; e forse ciò era dovuto a quel
senso di benessere
che sembrava avvertire nell’aria.
«L’aspetto qui,
Milord», fece
pacatamente l’uomo, togliendosi la coppola che indossava per
chinare referenziale
il capo. «La prego solo di non restare troppo tempo sotto
questa pioggia. Non
fa affatto bene alla sua salute».
«Mio buon Hamish, sono solo
poche
gocce», rispose lui, per la prima volta dopo tanto tempo
quasi in tono
scherzoso. «Non aggraverà di certo la mia salute
passeggiare un po’».
L’anziano cocchiere
sospirò, sospiro
che sembrava rassegnato
e che sapeva di
tempi lontani. «Anche in questo siete diventato simile al
vostro compianto
padre, Milord», esordì lui con veemenza.
«La testardaggine non vi manca».
«E non è stata
forse questa mia
testardaggine a condurmi dove sono adesso, Hamish?»
domandò in risposta,
incamminandosi senza attendere una possibile replica. Come si era
prefissato
voleva godersi quegli attimi, voleva pensare che tutte le cose a cui
era andato
incontro non fossero mai accadute. Desiderava credere che quel lungo
periodo
che lo vincolava a quel patto di sangue si sarebbe concluso, che presto
avrebbe
ripreso il normale andazzo della sua vita senza più doversi
preoccupare di
nulla o del possibile regresso della sua malattia che per anni
l’aveva
logorato; bramava un ritorno ai tempi andati, ai tempi in cui suo
figlio
contava più di qualunque altra cosa; ardeva dalla voglia di
passare ogni attimo
della sua restante vita a far ciò che si era negato, senza
dover ostinarsi a
ricercare colui che, per lui, era divenuto una droga. Perché
era ciò che era,
anche se cercava di convincersi che non lo fosse.
Scosse la testa per
scacciare quei pensieri, sforzandosi ancora una volta di sorridere con
rinnovata tranquillità; in quel momento voleva solo far
finta d’esser lì per
suo capriccio, vivere l’illusione di trovarsi a Londra per lo
stesso motivo che
spingeva nobili come lui a recarvisi. Puro e semplice svago, un modo
come un
altro per passare il tempo.
Nemmeno tenne il conto delle ore che
se ne andarono nel vagare fra quei Café o quei negozi sulle
rive del Tamigi, né
tanto meno si fece problemi per la pioggerella che picchiettava
insistente sul
cilindro che gli copriva il capo. Si inoltrò nei vicoli, si
fermò alle vetrine
dei negozi di balocchi; rise persino ad una piccola rappresentazione di
marionette, probabilmente messa su per attirare un discreto pubblico al
circo
recentemente arrivato in città. Nessun londinese sembrava
preoccuparsi di
nulla, anzi: rare erano le persone che si guardavano intorno con aria
attenta,
forse temendo quel killer che la stessa Scotland Yard aveva
ribattezzato Jack
lo Squartatore.
Ne sapeva poco, di lui, il Lord.
Tutto ciò di cui era venuto a conoscenza l’aveva
letto sui giornali che il suo
amico e fratello Seamus McDougal aveva portato; e probabilmente fu
proprio il
nuovo pensiero su quell’assassino a fargli ricordare il reale
motivo per cui si
trovava lì e a farlo tornare sui suoi passi, così
da raggiungere nuovamente la
carrozza e partire alla volta del West End
[3]
,
dove l’abitazione che era la sua meta stanziava poco distante
da quei
distretti, apparendo quasi come una casa desolata che metteva
soggezione. E fu proprio quella che provò quando
gli si presentò dinanzi agli occhi quell’enorme
villa patronale, circondata da
un vasto giardino avvolto dal buio. Aveva congedato il cocchiere
dicendogli che
non sarebbe occorso attenderlo lì fuori al freddo, visto che
sarebbe tornato
solo a mattina inoltrata; non contava di certo di far così
tardi, ma,
conoscendo il nobile che l’aveva invitato a raggiungerlo fin
lì, prima
dell’alba non gli sarebbe di certo stato concesso
d’andarsene. Seppur avesse
dovuto fare i conti con la riluttanza dell’anziano uomo -
sempre stato, da quel
che ricordava, parecchio diffidente su tutto -, era riuscito a
tranquillizzarlo
e a convincerlo ad andar via senza preoccuparsi di nulla. Era un uomo
adulto,
sapeva ciò che faceva. Ma era da più
d’una decina di minuti che si trovava lì
fuori, quasi non avesse il coraggio d’entrare.
Brividi gelidi correvano lungo la
sua schiena, come se, in qualche modo, il suo corpo volesse metterlo in
guardia; in guardia da cosa, però, non ne era a conoscenza.
E, quando infine
prese una decisione, la porta che fino a quel momento aveva osservato
s’aprì
con un sinistro cigolio, facendolo quasi trasalire. Avrebbe anche
strillato se
non avesse avuto un minimo di contegno. Si ritrovò
istintivamente a deglutire,
accorgendosi solo in un secondo momento di dover abbassare lo sguardo
per
guardare in viso colui che era venuto ad aprirgli. Era un uomo molto
basso e
tarchiato, con degli spessi occhiali a nascondergli gli occhi piccoli e
stretti; dall’abbigliamento che indossava, poi, si sarebbe
potuto dire un
maggiordomo composto e d’aspetto ordinario. Fu persino certo
che lo stesse
scrutando con attenzione, quando le iridi d’entrambi
s’incontrarono.
«Sir William vi stava
aspettando,
Lord Dellinton», asserì formale, senza la
benché minima sfumatura nella voce.
«Prego, mi segua», e, detto questo, si fece da
parte per far accomodare l’uomo
nell’ingresso, richiudendo poi la pesante porta
d’ebano che produsse lo stesso
identico suono di quando era stata aperta.
Con il cuore in gola il signore di
Beul an latha si ritrovò a seguire quel suo cicerone,
azzardandosi di tanto in
tanto ad osservare di sottecchi l’arredamento. Pochi erano i
quadri appesi alle
pareti, più che altro vecchi affreschi risalenti ad epoche
ormai lontane;
antichi candelabri da parete rilucevano quasi sinistramente alla luce
del
doppiere che il maggiordomo reggeva - e che, tra l’altro, non
gli aveva
minimamente visto prendere -, sebbene sembrassero spenti da molti anni
a causa
dello stato della cera delle candele.
Oltrepassarono solo una grande
finestra dalle ante chiuse, le cui tende che non le nascondevano del
tutto
lasciavano intravedere parzialmente il giardino che circondava la
villa. Si
riusciva a scorgere ben poco data la scarsa luce ma, anche in quel
modo,
sembrava ben tenuto. «Da questa parte, prego», si
fece sentire, ancora una
volta, la voce atona del maggiordomo, distraendolo da quelle sue
contemplazioni.
Quando svoltarono l’angolo,
una
piacevole musica gli giunse armoniosa alle orecchie; fu quasi certo che
si
trattasse della Sonata in Re maggiore
[4]
di
Mozart, riproduzione indubbiamente fedele a quella del grande maestro.
Le note
erano chiare e concise, come se colui che stava dando vita a quella
melodia
fosse il reale compositore. Ipotesi che, naturalmente,
scartò subito, ma che
restò ancorata nella sua mente per tutto il tragitto che
separò lui e il suo
accompagnatore da quella che scoprì, in seguito, essere la
sala musica.
«Siamo arrivati, Lord
Dellinton»,
annunciò l’uomo, accostandosi alle due grandi
porte in legno d’ebano per
spalancarle quasi con grazia. Appena la debole luce proveniente dal
salone
inondò il corridoio, la musica cessò, rivelando
mille volti e occhi che
osservavano adesso nella loro direzione. Alcune donne dai visi nascosti
da
maschere e voluminosi ventagli avevano interrotto la loro ciarliera
conversazione, portando la loro più completa attenzione su
quel nuovo arrivato.
Persino gli uomini, di cui si riuscivano a malapena a scorgere gli
occhi a
causa delle nere maschere che anch’essi indossavano,
sembravano meravigliati e
seccati al tempo stesso da quell’ospite per loro inaspettato.
Chi non sembrava
per nulla sorpreso o infastidito era un giovane dal taglio corto e
sbarazzino,
che si era invece distinto regalandogli un sorriso. Aveva
anch’egli il viso nascosto,
e ciò rendeva la curva delle sue labbra ancor più
invitante e carnosa. Era
seduto su uno sgabello di legno, esattamente dietro ad un lucente piano
smaltato di nero; era dunque lui l’artefice di quella
melodia, melodia che era
quasi riuscita ad incantare il nobile come nessuna aveva mai fatto.
Forse
nemmeno quella suonata dallo stesso Mozart.
Quel fanciullo sconosciuto
allontanò
le mani dai tasti bianchi e neri, sfilandosi la maschera con un unico
movimento
fluido. Due occhi perfetti, tendenti quasi ad ambrato che ben
conosceva,
squadrarono con bislacco divertimento l’espressione che si
era dipinta sul
volto del nobil uomo, sorridendogli ancora una volta bonario.
«Lord Dellinton, devo
supporre»,
esordì con voce squillante, ma non per questo fastidiosa.
«Mo bhràthair
[5]
William
mi ha parlato molto di lei. Ne ha parlato a tutti
noi»,
soggiunse, enfatizzando soprattutto le ultime
parole. E forse fu
a quel punto che i precedenti timori dell’uomo si
manifestarono all’improvviso.
Era entrato da solo nella tana del lupo: aveva lasciato che quel suo
carceriere
tessesse con abilità quella tela, cadendovi preda.
Il Lord si sentì la gola
secca, resistendo
all’impulso d’indietreggiare e scappare. Avrebbe
solo reso la loro caccia più
eccitante, poiché sapeva cos’erano quegli esseri.
Gli sguardi che avvertiva su
di sé erano quasi famelici, o forse era solo lui ad avere
quell’impressione;
occultati alla vista com’erano, non avrebbe mai saputo dire
cosa nascondessero
realmente quegli occhi che l’osservavano. Cercò
quindi di dimostrarsi
tranquillo, azzardandosi persino a chinare cordialmente il capo.
«Sono onorato
di tutto quest’interesse nei miei riguardi,
davvero», rispose, con
l’intonazione più naturale che riuscì a
trovare nonostante la nota incrinata
che lui stesso sentì. «Ma devo ammetterlo,
dinanzi ad una tale bellezza che mi
mostrate, mi sento quasi fuori luogo».
Stava tergiversando, certo, ma in
qualche modo, a quelle parole, sentì una risata provenire da
un gruppo di dame
accomodate su un divanetto poco distante e si voltò,
incontrando due profondi
occhi d’un celeste cristallino.
«Un ospite davvero divertente,
non
c’è che dire», esordì colei
che aveva riso, chinando di poco il ventaglio
piumato per lasciar intravedere le labbra rosse e carnose.
«Questa volta la
scelta è stata sicuramente migliore delle
precedenti».
Il viso di lei aveva lineamenti
delicati ma decisi, quasi austeri, e i biondi capelli che glielo
incorniciavano
ricadevano delicati sullo stretto corpetto color panna che indossava e
che
metteva in risalto il suo corpo longilineo; pizzi e broccato rendevano
armonioso quell’abito, anch’esso d’un
tenue e spento colore. Aveva concesso un
sorriso al nobile, la donna, e nel farlo sembrava aver sciolto
l’iniziale
tensione che, fino a quel momento, aveva regnato in quella sala.
«Si accomodi
con noi sino al ritorno del nostro amato William, Lord
Dellinton», esordì
ancora una volta lei, con tono caldo e sensuale.
«Arthur ci delizierà con
la sua musica mentre attendiamo. Vedrà, le
piacerà da morire».
Il Lord deglutì
e, seppur riluttante
dopo le ultime parole udite, mentre andava ad accomodarsi su uno dei
piccoli divani
presenti, il basso e armonioso chiacchiericcio che era stato interrotto
riprese, quasi simile ad una bassa nenia che accompagnava ogni nota che
aleggiava
lieve. Cominciò a guardarsi intorno, leccandosi le labbra
che
sentiva secche, con tutta la discrezione possibile; mentre la sua
attenzione vagava
sui volti cinerei ed immoti che sotto quella luce soffusa acquisivano
sinistri
toni, i suoi pensieri continuavano a correre veloci, mulinando
nella
sua mente
come fiocchi di neve. Era giunto sin lì poiché
richiesto e desideroso di farla finita, ma colui che aveva
espresso tale desiderio non si era nemmeno degnato
d’attenderlo in casa. E ora
era lì fuori, chissà dove e a fare
chissà cosa, mentre lui aveva preso posto su
quel divano di velluto rosso, circondato da esseri che era stato ben
attento a
non catalogare umani. Quell’aspetto che possedevano, le
movenze con cui
compivano anche il più minimo gesto; no, quelle creature
erano esattamente
quelle che aveva pensato al principio: vampiri. Creature che
ammaliavano,
sconvolgevano e conducevano alla perdizione.
Con quei pensieri nella mente, non
osò nemmeno toccare i pregiati calici che, di tanto in
tanto, qualche domestico
s’apprestava a portare - ironicamente, a dir suo - su un
vassoio d’argento.
Osservava gli ospiti consumare i beveraggi, tuttavia: osservava quei
loro
sorrisi accondiscendenti, quel loro far oscillare con lentezza il
bicchiere;
ascoltava il limpido suono delle loro voci e delle loro risate
smaliziate,
tonalità diverse che andavano talvolta confondendosi
cristalline con le note
create dal pianoforte. Fece persino fatica ad accorgersi che la Re
maggiore era
divenuta la Sonata in Sol maggiore
[6],
tanto che si era perso in quelle sue osservazioni.
Si ridestò solo quando
sentì un
morbido peso prender posto accanto a sé e una carezza su una
guancia, che per
poco non lo fece trasalire per la freddezza. Stupì persino
se stesso per il suo
voltarsi lentamente, incontrando un paio d’occhi
d’un verde così intenso che
stentò quasi a credere che un colore simile esistesse. La
donna che aveva dinanzi
era giovanissima, forse poco più che ventenne; non indossava
più la maschera, e
ciò permetteva di distinguere maggiormente ogni lineamento
del viso. Pallida
come tutti i presenti, sembrava però esser
l’emblema più assoluto
d’un’innocenza dannata. Nel guardarla con
attenzione, difatti, l’uomo si rese
conto di non aver dinanzi a sé una donna, ma una ragazzina
poco più che
tredicenne; i seni erano ancora acerbi, il corpo non aveva acquisito la
forma
aggraziata e lussuriosa d’una giovane donna. Ma
l’aspetto con cui si mostrava
la faceva apparire più grande, conferendole una
sensualità che non le
apparteneva. E il pensiero di quanti anni potesse realmente avere
quella
creatura che stava osservando colpì la mente del nobile come
una folgore. In
nome di Dio, dov’era capitato?
«Sembra annoiato e in ansia,
Milord»,
la ragazza finalmente parlò, arrotondando il suono delle
consonanti con un
forte accento francese. «La nostra compagnia non vi
è gradita, forse?»
Deglutì più volte,
lui, quasi non
sapesse come poterle rispondere. Fece guizzare nuovamente gli occhi
scuri su
quella gracile figura, corrugando le sopracciglia per dar vita ad
un’espressione quasi addolorata; dimostrava pochi anni meno
di suo figlio, buon
Dio. Si sforzò di restare ancora una volta calmo,
concentrando la sua
attenzione sulla musica che sentiva ancora aleggiare. Quello, forse,
l’avrebbe
anche aiutato a distrarsi. «In realtà non vorrei
arrecare disturbo, piccola
miss», le rispose cortese, usando un tono quasi paterno.
«Non ho nessun diritto
di privarvi del vostro riposo».
Quando lei rise innocente e in modo
genuino, la cosa lo colpì parecchio, forse più di
quando gli afferrò un braccio
per stringerselo al petto. Sussultò un po’,
l’uomo, al freddo contatto che
s’avvertiva nonostante il velo dei vestiti, e non
poté far altro che sentirsi
peggio nel constatare che quel corpo non sarebbe mai cresciuto.
«È stato William a
parlarle della
nostra
natura, non è così?» chiese
ingenuamente lei, guardandolo con quei suoi occhi
profondi. Aveva dato un suono e una pronuncia diversa alla maggior
parte delle
parole, quasi si divertisse ad utilizzare il suo accento straniero.
Lord Dellinton annuì, non
riuscendo ad intavolare
un vero e proprio discorso.
Ad ogni
domanda che gli veniva posta, rispondeva esattamente allo stesso modo,
buttando
lì giusto qualche parola sconnessa quando se ne richiedeva
l’occasione; sebbene
quelle creature della notte fossero a conoscenza del fatto che lui
sapeva, non
avevano ancora provveduto ad eliminarlo. E forse era proprio questo a
metterlo
in guardia e a renderlo maggiormente sospettoso, attento ad ogni minima
mossa
che vedeva compiersi.
In realtà era raro che si
muovessero
o, se lo facevano, lui stentava semplicemente ad accorgersene. Persino
i movimenti delle mani del giovane di nome Arthur, che fino a
quel
momento aveva suonato ininterrottamente, sembravano quasi invisibili ai
suoi
occhi umani. Ma fu proprio in quel mentre che il ragazzo si
fermò, alzando di
scatto il viso per puntarlo sulla porta, come un cane che aveva appena
fiutato
la sua preda. E così fecero gli altri, subito dopo; una
marea di sguardi si
spostò in quella direzione, esattamente come quando era
giunto il nobil uomo
sin lì. Il primo ad entrare da quella soglia fu un distinto
gentiluomo, munito
semplicemente d’un bastone da passeggio: gettava nella sala
sguardi un po’
spaesati, quasi non capisse il motivo di quelle attenzioni su di
sé; qualche
attimo dopo fu il turno di una dama, di entrare, amorevolmente a
braccetto con
un giovane dalla lunga capigliatura dorata. Proprio lui,
invitò quel nuovo
arrivato a farsi avanti, sussurrando qualche parola - probabilmente di
conforto
- all’orecchio della donna. Quello sguardo ambrato si
soffermò poi sul volto
del signore di Beul an latha e, riconoscendolo, gli regalò
un ampio sorriso che
sembrò quasi risplendere in quel luogo di luce soffusa.
Lasciò andare la donna
richiudendosi
la porta alle spalle, invitando ancora una volta entrambi a farsi
avanti per
arrivare quasi al centro della sala. «Coraggio, non siate
timidi», li esortò,
quasi in tono divertito. «Ho invitato voi e la vostra dama
per festeggiare, Sir
Scott. Senza la vostra presenza la festa non ci sarebbe».
Un piccolo mormorio ilare, molto
simile ad una lieve risata, corse fra i presenti a quelle parole. Solo
Lord
Dellinton assisteva quasi allibito alla scena, come se non comprendesse
a pieno
ciò che stava accadendo o che sarebbe presto accaduto. Non
si rilassò nemmeno
quando vide la donna sorridere e l’uomo ricambiare il
sorriso, quasi vago e
sparuto, come se non si rendesse realmente conto di dove si trovava.
«Lei è stato troppo
gentile, Sir
William», replicò cordiale, e fu il suo turno di
prendere a braccetto la dama,
che sembrava far vagare semplicemente lo sguardo senza pronunciar
parola.
«L’abbiamo vista al club solo rare volte, e non
abbiamo potuto dialogare come
si conveniva. Questa serata sarà un’ottima
occasione per farlo».
«Una
ghiotta occasione», lo
corresse con falso tono di rimprovero, sempre con quel suo solito
sorriso
bonario. «Ma accomodatevi, prego. Le faccio
conoscere
i restanti
ospiti».
I minuti che passarono andarono
avanti così, tra scambi di convenevoli e saluti
referenziali; William non aveva
degnato il signore di Beul an latha nemmeno
d’un’attenzione, se si escludeva
quell’unica occhiata che gli aveva rivolto
quand’era entrato. Aveva bensì
interagito con gli ospiti, parlato con quello che aveva scoperto essere
il
fratello. Ma nemmeno per un attimo era sembrato interessarsi a lui,
nemmeno
quando uno di quegli ospiti che aveva portato prese posto accanto a lui
e alla
ragazzina che ancora stringeva il suo braccio.
Lord Dellinton aveva quindi deciso
d’intrattenere una conversazione con quell’uomo,
che sembrava dal canto suo non
curarsi affatto di come la sua accompagnatrice stava sollazzandosi.
Parlava e
parlava, perdendosi in discorsi che decantavano l’arte e la
musica d’un paese o
d’un altro; farneticava di argomenti
d’attualità, bofonchiando
sull’inettitudine della polizia londinese e su come quei
crimini sanguinosi
passassero tranquillamente sotto il loro naso. E faceva finta
d’ascoltare e
d’esser interessato, il nobil uomo, annuendo di tanto in
tanto. Anzi, non
potendo più soffrire altro, dopo un’interminabile
sproloquio decise d’alzarsi,
lasciandolo in compagnia della ragazzina che pendeva letteralmente
dalle sue
labbra. Fece per uscire da quella stanza
quando un urlo agghiacciante lo richiamò, facendolo voltare
di scatto; proprio
dove poco prima era accomodato, quell’uomo che corrispondeva
al nome di Scott
giaceva mezzo disteso sul divano, con la ragazzina seduta a cavalcioni
sulle
sue gambe. Vista da occhi estranei sarebbe potuta essere fraintesa,
quella
situazione. Ma per lui, che conosceva il vero aspetto di quelle
creature, fu
come fare i conti con tutto quello che fino a quel momento non aveva
voluto
vedere. La ragazzina aveva affondato le piccole zanne nel collo di quel
mal
capitato, e ciò che si sentiva, oltre gli strilli della
donna,
era quell’intenso
succhiare e deglutire senza sosta.
Lord
Dellinton si portò una mano alla
bocca,
reprimendo l’impulso di dare di
stomaco; si
costrinse invece a
guardare, come se volesse imprimersi quella scena nella mente. Quella
fanciulla, in quel momento, gli era apparsa per ciò che era
in
realtà: un semplice mostro che si nutriva degli sventurati
esseri umani che si ritrovavano sul suo cammino. E trattenne un conato
di vomito quando lei, con un gemito alto e compiaciuto,
sollevò
di scatto la testa e schiuse le labbra, ripulendosi sensualmente il
sangue che colava da esse con la punta della lingua.
«Sono desolato, signori», si fece
sentire William, sovrastando tutto quel baccano con fare
divertito.
«Temo che la nostra piccola Juliette abbiamo deciso
d’anticipare i
festeggiamenti».
Si levò una nuova risata, a
quelle
parole. «Dunque possiamo cominciare con
l’antipasto?» replicò un uomo che si
trovava poco lontano da lui, attendendo fremente una risposta.
William atteggiò giusto il
viso ad
un’espressione tranquilla e impassibile, sbattendo con
lentezza, per ben due
volte, le palpebre, quasi come se volesse accennare a qualcosa. Una
nuova
risata, più cristallina della precedente,
serpeggiò nella stanza quando il
ragazzo seduto al piano s’alzò, avvicinandosi al
fratello per cingergli i
fianchi con le braccia.
«Sei sicuro di non volerne un
po’,
mo bhràthair?» il suo fu più un
mormorio che una vera e propria domanda, e
strofinò di poco il viso contro il suo collo prima
d’adocchiare di sfuggita il
Lord. Gli sorrise, snudando le zanne; con le stesse carezzò
la pelle del
maggiore, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi scuri che
sembravano
squadrarlo.
William piegò il capo di
lato, alzando un braccio per intrecciare le dita fra i capelli di
Arthur.
«Questo è per voi, adesso. Solo per
voi», replicò, poggiandogli poi l’altra
mano su un braccio per farsi lasciare, allontanandosi poi da lui per
far
schioccare appena le dita; fu un attimo, e le urla della donna
ripresero più
forti mentre lei tentava di scappare.
Gli ospiti che erano
apparsi così normali al signore di Beul an latha, stavano
mostrando adesso i
loro veri volti - mutando, avrebbe osato dire -, avventandosi senza
pietà su
quei corpi che martoriavano in più punti: c’era
chi alzava le gonne per
azzannare una coscia, chi si accontentava più semplicemente
del collo; chi,
invece, sembrava tranquillamente assorto ad incidere un esile polso,
lasciandolo stillare goccia per goccia. Intingeva un dito, lo portava
alle
labbra; lasciava che il viso si trasfigurasse in una maschera di puro
piacere,
compiendo quel rito a poco a poco. E il Lord era rimasto impalato
accanto alla
soglia, con la schiena contro la porta mentre osservava quel massacro
di carne
e sangue. Gli occhi azzurri sembravano ingigantiti dalla paura e,
forse, anche
da un qualcosa di molto simile all’eccitazione della caccia.
Erano anni che non
provava più quella sensazione e, il provarla per la scena a
cui stava
assistendo, gli fece storcere il viso per l’indignazione.
Quand’era diventato
così?
Fu solo a quel punto che il suo
carceriere gli si avvicinò, prendendolo per una mano per
esortarlo ad
allontanarsi da lì e ad avvicinarsi al banchetto.
«A te non faranno nulla, non
temere», mormorò con tono dolce e comprensivo,
quasi stesse parlando ad un
bambino. «Puniscono solo i malvagi».
«Tu sei folle, un sadico
pazzo»,
replicò immediatamente l’uomo, sconvolto e ad
occhi sbarrati. Ma riuscì solo a farlo ridere,
sentendo le sue mani sulle spalle.
«Erano complici
d’un omicidio e andavano
puniti, mio sciocco amante. E l’omicidio è sempre
un errore», gli mormorò divertito, alzandogli il
viso per fargli vedere meglio
la scena che entrambi avevano dinanzi. I volti degli uomini e
delle donne
lì presenti erano divenuti quasi simili a quelli di una
statua di marmo bianco,
solo di rado vedeva le labbra di costoro macchiate del vermiglio colore
del
sangue. Ancora una risata si levò dalla gola
di William, che si strinse maggiormente all’uomo per
continuare a sussurrare al
suo orecchio: «Fosti tu stesso a dirmi tali parole».
[1]
Prima
parte di una
doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 29 dicembre del
2005, rilasciata
insieme a “Planetarium”.
Potrebbe indicare metaforicamente il cambiamento di pensiero
che sta avvenendo nella mente del protagonista, così come
potrebbe indicare il
cambiamento vero e proprio che viene messo in atto dai vampiri presenti
nella
villa.
[2]
Non
si può definire
esattamente come nome d’un territorio patronale.
In realtà significa “Alba” in gaelico
scozzese.
[3]
E’
il principale distretto di shopping e divertimento, ed
è incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno dei 32
distretti di Londra
che paradossalmente ha anche lo status di città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar
Square, mentre Oxford Street è
una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.
[4]
Fu
composta ed eseguita a Londra nel
1765,
ed è la quarta sinfonia dell’allora giovane
Mozart.
Si
apre con un Allegro per variare poi con un Andante e concludersi con un
Presto.
[5]
Mio
fratello, gaelico
scozzese.
I primi tre pronomi possessivi causano lenizione alla parola
“bràthair” (Fratello), alla quale si
aggiunge, appunto, l’ “H”.
[6]
Venne
composta tra l’estate e l’autunno del 1774, e fa
parte delle sei sonate per
pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in Re maggiore, anch’essa si suddivide in tre
tempi.
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