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Autore: My Pride    26/03/2011    2 recensioni
Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo che il bruco è divenuto farfalla.

In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published» indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Scena Drammatica al contest «The Thousand and One Nights» indetto da Prior.Incantatio ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Un oscuro angelo_4
ATTO IV: LONDRA › INGHILTERRA, 1888
METAMORPHOSE
[1]

Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo
che il bruco è divenuto farfalla.

    Le nuvole in quel cielo plumbeo, grigie e sfilacciate, minacciavano un’insistente pioggia, esattamente come nella stragrande maggioranza dei giorni passati. Il tempo non era affatto cambiato durante il lungo viaggio che lui, signore della tenuta di Beul an latha [2], aveva affrontato; solo di rado qualche timido raggio di sole filtrava attraverso le coltri di nubi, rischiarando il paesaggio prima di venir inghiottito ancora una volta.
    Aveva preso quella decisione senza avvertire nessuno, tanto meno il figlio o il suo caro amico. All’insaputa di tutti, domestici inclusi, aveva preparato lui stesso un bagaglio leggero e ordinato all’anziano cocchiere, che serviva la sua famiglia da parecchi anni, d’accompagnarlo in quella lontana traversata. Indossato un pesante soprabito e un cilindro, poi, aveva preso il vecchio bastone da passeggio che era appartenuto a suo nonno ed era salito in carrozza, partendo alla volta di Londra. Se fosse stato più coscienzioso, avrebbe di sicuro evitato il viaggio; ma le parole che Sir William aveva pronunziato non avevano fatto altro che vorticargli insistentemente nella testa, non permettendogli di conservare quella poca pace che aveva nell’animo. E mentre i pensieri si perdevano, lui continuava a guardare con distratta svogliatezza fuori da quella carrozza: quei pochi cittadini presenti fra le strade avevano quasi tutti un’aria divertita e assorta, vivacità dovuta probabilmente anche al clima mite nonostante fosse autunno.
    Si meravigliò non poco di come fosse cambiata Londra dall’ultima volta che l’aveva visitata; quei piccoli negozietti che ricordava sembravano aver acquisito un nome altolocato, come se fossero un marchio di garanzia per chi, nobile o borghese che fosse, ne acquistava le merci in esposizione. Signori e dame camminavano quasi fianco a fianco con piccoli orfanelli, sebbene né gli uni né gli altri prestassero una reale attenzione a tale vicinanza. Sembrava tutto nuovo, per lui. Era attento ad ogni minimo particolare, ad ogni più piccolo cambiamento che si sarebbe potuto scorgere. E la cosa lo turbava ed emozionava al tempo stesso; si sentiva come un bambino che, per la prima volta, veniva accompagnato dai genitori a vedere un nuovo mondo. Avrebbe voluto toccare tutto con mano, comprare tutto ciò che poteva permettersi. In quegli anni di auto-reclusione nella sua stessa casa, si era negato le bellezze che il mondo avrebbe con così tanta cura potuto offrirgli. Ma, ormai, era troppo tardi per recuperare. Ben si rendeva conto della sua situazione, non doveva dimenticarlo. Era come uno schiavo; uno schiavo lasciato però libero d’agire come meglio credeva, purché lo facesse nei limiti delle condizioni a cui era legato.
    Forse furono proprio quei pensieri a farlo sospirare affranto, tanto che si ritrovò a sporgersi per aprire la piccola finestrella che consentiva di parlare al cocchiere. «Ferma la carrozza da qualche parte, Hamish», esordì, dovendo fare un piccolo colpo di tosse per non rendere la voce troppo rauca o stridula. «Ho voglia di fare due passi».
    In risposta sentì prima il nitrito dei cavalli, forse simbolo che l’anziano aveva dato un ennesimo strattone alle briglie. «È sicuro, Milord?» domandò lui, la voce ovattata dai tasselli di legno che li dividevano. «Non credo sia il caso, date le vostre condizioni».
    «Portami lungo le rive del Tamigi», continuò tranquillo il Lord, come ripensando alla loro destinazione, senza prestargli la minima attenzione. «Portami lungo il Tamigi e ferma la carrozza, per favore».
    Sebbene il volto del cocchiere avesse assunto un’espressione preoccupata e tutt’altro che accondiscendente, lui non contestò oltre, limitandosi semplicemente ad eseguire gli ordini del suo signore. S’udì il nitrito dei cavalli, che aumentarono la loro andatura dopo uno schiocco; il nobil uomo s’adagiò nuovamente contro lo schienale dalla morbida imbottitura, abbassando le palpebre per concentrarsi unicamente sul suono degli zoccoli sull’acciottolato. Voleva pensare che non esistesse nient’altro all’infuori di quello, voleva cercare di cancellare tutto il resto e fissare la sua mente solo su quel rumore familiare che in passato l’aveva accompagnato per lunghe ore. Gli era persino sembrato di riascoltare i suoni della foresta, il richiamo della pernice bianca o quel suono simile ad un uggiolio che emetteva la volpe rincorsa dai cani.
    Non si accorse neppure che avevano oltrepassato quei quartieri in cui si trovavano da parecchio tempo, ridestandosi da quel suo bizzarro dormiveglia solo quando sentì l’anziano cocchiere annunciare il loro arrivo. Rialzò piano le palpebre e gettò un’occhiata fuori, ritrovandosi ad osservare le piccole imbarcazioni ivi presenti e lo specchio argentato che il fiume sembrava essere in quel momento. Un’innocua pioggerellina aveva cominciato a riversarsi dalle nuvole, creando piccole onde e increspature quando toccavano quella superficie che l’uomo stava osservando. Non era ancora sceso dalla carrozza, ma aveva stretto una mano intorno al bastone come se si apprestasse ad impugnarlo per raggiungere la strada. Pochi attimi dopo, difatti, aprì la porticina che lo separava dall’esterno, respirando a pieni polmoni quell’aria pura e fresca d’umidità che non sentiva da tempo. Sorrise, forse inconsciamente; era la libertà, quella?
    «Ti ringrazio, Hamish», disse infine, voltandosi verso il cocchiere per rivolgere lui quel sorriso. Mai come in quel momento si sentiva vivo, l’uomo d’un tempo, come se avesse subito una regressione o una metamorfosi; e forse ciò era dovuto a quel senso di benessere che sembrava avvertire nell’aria.
    «L’aspetto qui, Milord», fece pacatamente l’uomo, togliendosi la coppola che indossava per chinare referenziale il capo. «La prego solo di non restare troppo tempo sotto questa pioggia. Non fa affatto bene alla sua salute».
    «Mio buon Hamish, sono solo poche gocce», rispose lui, per la prima volta dopo tanto tempo quasi in tono scherzoso. «Non aggraverà di certo la mia salute passeggiare un po’».
    L’anziano cocchiere sospirò, sospiro che sembrava rassegnato e che sapeva di tempi lontani. «Anche in questo siete diventato simile al vostro compianto padre, Milord», esordì lui con veemenza. «La testardaggine non vi manca».
    «E non è stata forse questa mia testardaggine a condurmi dove sono adesso, Hamish?» domandò in risposta, incamminandosi senza attendere una possibile replica. Come si era prefissato voleva godersi quegli attimi, voleva pensare che tutte le cose a cui era andato incontro non fossero mai accadute. Desiderava credere che quel lungo periodo che lo vincolava a quel patto di sangue si sarebbe concluso, che presto avrebbe ripreso il normale andazzo della sua vita senza più doversi preoccupare di nulla o del possibile regresso della sua malattia che per anni l’aveva logorato; bramava un ritorno ai tempi andati, ai tempi in cui suo figlio contava più di qualunque altra cosa; ardeva dalla voglia di passare ogni attimo della sua restante vita a far ciò che si era negato, senza dover ostinarsi a ricercare colui che, per lui, era divenuto una droga. Perché era ciò che era, anche se cercava di convincersi che non lo fosse.
    Scosse la testa per scacciare quei pensieri, sforzandosi ancora una volta di sorridere con rinnovata tranquillità; in quel momento voleva solo far finta d’esser lì per suo capriccio, vivere l’illusione di trovarsi a Londra per lo stesso motivo che spingeva nobili come lui a recarvisi. Puro e semplice svago, un modo come un altro per passare il tempo.
    Nemmeno tenne il conto delle ore che se ne andarono nel vagare fra quei Café o quei negozi sulle rive del Tamigi, né tanto meno si fece problemi per la pioggerella che picchiettava insistente sul cilindro che gli copriva il capo. Si inoltrò nei vicoli, si fermò alle vetrine dei negozi di balocchi; rise persino ad una piccola rappresentazione di marionette, probabilmente messa su per attirare un discreto pubblico al circo recentemente arrivato in città. Nessun londinese sembrava preoccuparsi di nulla, anzi: rare erano le persone che si guardavano intorno con aria attenta, forse temendo quel killer che la stessa Scotland Yard aveva ribattezzato Jack lo Squartatore.
    Ne sapeva poco, di lui, il Lord. Tutto ciò di cui era venuto a conoscenza l’aveva letto sui giornali che il suo amico e fratello Seamus McDougal aveva portato; e probabilmente fu proprio il nuovo pensiero su quell’assassino a fargli ricordare il reale motivo per cui si trovava lì e a farlo tornare sui suoi passi, così da raggiungere nuovamente la carrozza e partire alla volta del West End
[3] , dove l’abitazione che era la sua meta stanziava poco distante da quei distretti, apparendo quasi come una casa desolata che metteva soggezione. E fu proprio quella che provò quando gli si presentò dinanzi agli occhi quell’enorme villa patronale, circondata da un vasto giardino avvolto dal buio. Aveva congedato il cocchiere dicendogli che non sarebbe occorso attenderlo lì fuori al freddo, visto che sarebbe tornato solo a mattina inoltrata; non contava di certo di far così tardi, ma, conoscendo il nobile che l’aveva invitato a raggiungerlo fin lì, prima dell’alba non gli sarebbe di certo stato concesso d’andarsene. Seppur avesse dovuto fare i conti con la riluttanza dell’anziano uomo - sempre stato, da quel che ricordava, parecchio diffidente su tutto -, era riuscito a tranquillizzarlo e a convincerlo ad andar via senza preoccuparsi di nulla. Era un uomo adulto, sapeva ciò che faceva. Ma era da più d’una decina di minuti che si trovava lì fuori, quasi non avesse il coraggio d’entrare.
    Brividi gelidi correvano lungo la sua schiena, come se, in qualche modo, il suo corpo volesse metterlo in guardia; in guardia da cosa, però, non ne era a conoscenza. E, quando infine prese una decisione, la porta che fino a quel momento aveva osservato s’aprì con un sinistro cigolio, facendolo quasi trasalire. Avrebbe anche strillato se non avesse avuto un minimo di contegno. Si ritrovò istintivamente a deglutire, accorgendosi solo in un secondo momento di dover abbassare lo sguardo per guardare in viso colui che era venuto ad aprirgli. Era un uomo molto basso e tarchiato, con degli spessi occhiali a nascondergli gli occhi piccoli e stretti; dall’abbigliamento che indossava, poi, si sarebbe potuto dire un maggiordomo composto e d’aspetto ordinario. Fu persino certo che lo stesse scrutando con attenzione, quando le iridi d’entrambi s’incontrarono.
    «Sir William vi stava aspettando, Lord Dellinton», asserì formale, senza la benché minima sfumatura nella voce. «Prego, mi segua», e, detto questo, si fece da parte per far accomodare l’uomo nell’ingresso, richiudendo poi la pesante porta d’ebano che produsse lo stesso identico suono di quando era stata aperta.
    Con il cuore in gola il signore di Beul an latha si ritrovò a seguire quel suo cicerone, azzardandosi di tanto in tanto ad osservare di sottecchi l’arredamento. Pochi erano i quadri appesi alle pareti, più che altro vecchi affreschi risalenti ad epoche ormai lontane; antichi candelabri da parete rilucevano quasi sinistramente alla luce del doppiere che il maggiordomo reggeva - e che, tra l’altro, non gli aveva minimamente visto prendere -, sebbene sembrassero spenti da molti anni a causa dello stato della cera delle candele.
    Oltrepassarono solo una grande finestra dalle ante chiuse, le cui tende che non le nascondevano del tutto lasciavano intravedere parzialmente il giardino che circondava la villa. Si riusciva a scorgere ben poco data la scarsa luce ma, anche in quel modo, sembrava ben tenuto. «Da questa parte, prego», si fece sentire, ancora una volta, la voce atona del maggiordomo, distraendolo da quelle sue contemplazioni.
    Quando svoltarono l’angolo, una piacevole musica gli giunse armoniosa alle orecchie; fu quasi certo che si trattasse della Sonata in Re maggiore
[4] di Mozart, riproduzione indubbiamente fedele a quella del grande maestro. Le note erano chiare e concise, come se colui che stava dando vita a quella melodia fosse il reale compositore. Ipotesi che, naturalmente, scartò subito, ma che restò ancorata nella sua mente per tutto il tragitto che separò lui e il suo accompagnatore da quella che scoprì, in seguito, essere la sala musica.
    «Siamo arrivati, Lord Dellinton», annunciò l’uomo, accostandosi alle due grandi porte in legno d’ebano per spalancarle quasi con grazia. Appena la debole luce proveniente dal salone inondò il corridoio, la musica cessò, rivelando mille volti e occhi che osservavano adesso nella loro direzione. Alcune donne dai visi nascosti da maschere e voluminosi ventagli avevano interrotto la loro ciarliera conversazione, portando la loro più completa attenzione su quel nuovo arrivato. Persino gli uomini, di cui si riuscivano a malapena a scorgere gli occhi a causa delle nere maschere che anch’essi indossavano, sembravano meravigliati e seccati al tempo stesso da quell’ospite per loro inaspettato. Chi non sembrava per nulla sorpreso o infastidito era un giovane dal taglio corto e sbarazzino, che si era invece distinto regalandogli un sorriso. Aveva anch’egli il viso nascosto, e ciò rendeva la curva delle sue labbra ancor più invitante e carnosa. Era seduto su uno sgabello di legno, esattamente dietro ad un lucente piano smaltato di nero; era dunque lui l’artefice di quella melodia, melodia che era quasi riuscita ad incantare il nobile come nessuna aveva mai fatto. Forse nemmeno quella suonata dallo stesso Mozart.
    Quel fanciullo sconosciuto allontanò le mani dai tasti bianchi e neri, sfilandosi la maschera con un unico movimento fluido. Due occhi perfetti, tendenti quasi ad ambrato che ben conosceva, squadrarono con bislacco divertimento l’espressione che si era dipinta sul volto del nobil uomo, sorridendogli ancora una volta bonario.
    «Lord Dellinton, devo supporre», esordì con voce squillante, ma non per questo fastidiosa. «Mo bhràthair
[5] William mi ha parlato molto di lei. Ne ha parlato a tutti noi», soggiunse, enfatizzando soprattutto le ultime parole. E forse fu a quel punto che i precedenti timori dell’uomo si manifestarono all’improvviso. Era entrato da solo nella tana del lupo: aveva lasciato che quel suo carceriere tessesse con abilità quella  tela, cadendovi preda.
    Il Lord si sentì la gola secca, resistendo all’impulso d’indietreggiare e scappare. Avrebbe solo reso la loro caccia più eccitante, poiché sapeva cos’erano quegli esseri. Gli sguardi che avvertiva su di sé erano quasi famelici, o forse era solo lui ad avere quell’impressione; occultati alla vista com’erano, non avrebbe mai saputo dire cosa nascondessero realmente quegli occhi che l’osservavano. Cercò quindi di dimostrarsi tranquillo, azzardandosi persino a chinare cordialmente il capo. «Sono onorato di tutto quest’interesse nei miei riguardi, davvero», rispose, con l’intonazione più naturale che riuscì a trovare nonostante la nota incrinata che lui stesso sentì. «Ma devo ammetterlo, dinanzi ad una tale bellezza che mi mostrate, mi sento quasi fuori luogo».
    Stava tergiversando, certo, ma in qualche modo, a quelle parole, sentì una risata provenire da un gruppo di dame accomodate su un divanetto poco distante e si voltò, incontrando due profondi occhi d’un celeste cristallino.
    «Un ospite davvero divertente, non c’è che dire», esordì colei che aveva riso, chinando di poco il ventaglio piumato per lasciar intravedere le labbra rosse e carnose. «Questa volta la scelta è stata sicuramente migliore delle precedenti».
    Il viso di lei aveva lineamenti delicati ma decisi, quasi austeri, e i biondi capelli che glielo incorniciavano ricadevano delicati sullo stretto corpetto color panna che indossava e che metteva in risalto il suo corpo longilineo; pizzi e broccato rendevano armonioso quell’abito, anch’esso d’un tenue e spento colore. Aveva concesso un sorriso al nobile, la donna, e nel farlo sembrava aver sciolto l’iniziale tensione che, fino a quel momento, aveva regnato in quella sala. «Si accomodi con noi sino al ritorno del nostro amato William, Lord Dellinton», esordì ancora una volta lei, con tono caldo e sensuale. «Arthur ci delizierà con la sua musica mentre attendiamo. Vedrà, le piacerà da morire».
    Il Lord deglutì e, seppur riluttante dopo le ultime parole udite, mentre andava ad accomodarsi su uno dei piccoli divani presenti, il basso e armonioso chiacchiericcio che era stato interrotto riprese, quasi simile ad una bassa nenia che accompagnava ogni nota che aleggiava lieve. Cominciò a guardarsi intorno, leccandosi le labbra che sentiva secche, con tutta la discrezione possibile; mentre la sua attenzione vagava sui volti cinerei ed immoti che sotto quella luce soffusa acquisivano sinistri toni, i suoi pensieri continuavano a correre veloci, mulinando nella sua mente come fiocchi di neve. Era giunto sin lì poiché richiesto e desideroso di farla finita, ma colui che aveva espresso tale desiderio non si era nemmeno degnato d’attenderlo in casa. E ora era lì fuori, chissà dove e a fare chissà cosa, mentre lui aveva preso posto su quel divano di velluto rosso, circondato da esseri che era stato ben attento a non catalogare umani. Quell’aspetto che possedevano, le movenze con cui compivano anche il più minimo gesto; no, quelle creature erano esattamente quelle che aveva pensato al principio: vampiri. Creature che ammaliavano, sconvolgevano e conducevano alla perdizione.
    Con quei pensieri nella mente, non osò nemmeno toccare i pregiati calici che, di tanto in tanto, qualche domestico s’apprestava a portare - ironicamente, a dir suo - su un vassoio d’argento. Osservava gli ospiti consumare i beveraggi, tuttavia: osservava quei loro sorrisi accondiscendenti, quel loro far oscillare con lentezza il bicchiere; ascoltava il limpido suono delle loro voci e delle loro risate smaliziate, tonalità diverse che andavano talvolta confondendosi cristalline con le note create dal pianoforte. Fece persino fatica ad accorgersi che la Re maggiore era divenuta la Sonata in Sol maggiore
[6], tanto che si era perso in quelle sue osservazioni.
    Si ridestò solo quando sentì un morbido peso prender posto accanto a sé e una carezza su una guancia, che per poco non lo fece trasalire per la freddezza. Stupì persino se stesso per il suo voltarsi lentamente, incontrando un paio d’occhi d’un verde così intenso che stentò quasi a credere che un colore simile esistesse. La donna che aveva dinanzi era giovanissima, forse poco più che ventenne; non indossava più la maschera, e ciò permetteva di distinguere maggiormente ogni lineamento del viso. Pallida come tutti i presenti, sembrava però esser l’emblema più assoluto d’un’innocenza dannata. Nel guardarla con attenzione, difatti, l’uomo si rese conto di non aver dinanzi a sé una donna, ma una ragazzina poco più che tredicenne; i seni erano ancora acerbi, il corpo non aveva acquisito la forma aggraziata e lussuriosa d’una giovane donna. Ma l’aspetto con cui si mostrava la faceva apparire più grande, conferendole una sensualità che non le apparteneva. E il pensiero di quanti anni potesse realmente avere quella creatura che stava osservando colpì la mente del nobile come una folgore. In nome di Dio, dov’era capitato?
    «Sembra annoiato e in ansia, Milord», la ragazza finalmente parlò, arrotondando il suono delle consonanti con un forte accento francese. «La nostra compagnia non vi è gradita, forse?»
    Deglutì più volte, lui, quasi non sapesse come poterle rispondere. Fece guizzare nuovamente gli occhi scuri su quella gracile figura, corrugando le sopracciglia per dar vita ad un’espressione quasi addolorata; dimostrava pochi anni meno di suo figlio, buon Dio. Si sforzò di restare ancora una volta calmo, concentrando la sua attenzione sulla musica che sentiva ancora aleggiare. Quello, forse, l’avrebbe anche aiutato a distrarsi. «In realtà non vorrei arrecare disturbo, piccola miss», le rispose cortese, usando un tono quasi paterno. «Non ho nessun diritto di privarvi del vostro riposo».
    Quando lei rise innocente e in modo genuino, la cosa lo colpì parecchio, forse più di quando gli afferrò un braccio per stringerselo al petto. Sussultò un po’, l’uomo, al freddo contatto che s’avvertiva nonostante il velo dei vestiti, e non poté far altro che sentirsi peggio nel constatare che quel corpo non sarebbe mai cresciuto.
    «È stato William a parlarle della nostra natura, non è così?» chiese ingenuamente lei, guardandolo con quei suoi occhi profondi. Aveva dato un suono e una pronuncia diversa alla maggior parte delle parole, quasi si divertisse ad utilizzare il suo accento straniero.
    Lord Dellinton annuì, non riuscendo ad intavolare un vero e proprio discorso. Ad ogni domanda che gli veniva posta, rispondeva esattamente allo stesso modo, buttando lì giusto qualche parola sconnessa quando se ne richiedeva l’occasione; sebbene quelle creature della notte fossero a conoscenza del fatto che lui sapeva, non avevano ancora provveduto ad eliminarlo. E forse era proprio questo a metterlo in guardia e a renderlo maggiormente sospettoso, attento ad ogni minima mossa che vedeva compiersi.
    In realtà era raro che si muovessero o, se lo facevano, lui stentava semplicemente ad accorgersene. Persino i movimenti delle mani del giovane di nome Arthur, che fino a quel momento aveva suonato ininterrottamente, sembravano quasi invisibili ai suoi occhi umani. Ma fu proprio in quel mentre che il ragazzo si fermò, alzando di scatto il viso per puntarlo sulla porta, come un cane che aveva appena fiutato la sua preda. E così fecero gli altri, subito dopo; una marea di sguardi si spostò in quella direzione, esattamente come quando era giunto il nobil uomo sin lì. Il primo ad entrare da quella soglia fu un distinto gentiluomo, munito semplicemente d’un bastone da passeggio: gettava nella sala sguardi un po’ spaesati, quasi non capisse il motivo di quelle attenzioni su di sé; qualche attimo dopo fu il turno di una dama, di entrare, amorevolmente a braccetto con un giovane dalla lunga capigliatura dorata. Proprio lui, invitò quel nuovo arrivato a farsi avanti, sussurrando qualche parola - probabilmente di conforto - all’orecchio della donna. Quello sguardo ambrato si soffermò poi sul volto del signore di Beul an latha e, riconoscendolo, gli regalò un ampio sorriso che sembrò quasi risplendere in quel luogo di luce soffusa.
    Lasciò andare la donna richiudendosi la porta alle spalle, invitando ancora una volta entrambi a farsi avanti per arrivare quasi al centro della sala. «Coraggio, non siate timidi», li esortò, quasi in tono divertito. «Ho invitato voi e la vostra dama per festeggiare, Sir Scott. Senza la vostra presenza la festa non ci sarebbe».
    Un piccolo mormorio ilare, molto simile ad una lieve risata, corse fra i presenti a quelle parole. Solo Lord Dellinton assisteva quasi allibito alla scena, come se non comprendesse a pieno ciò che stava accadendo o che sarebbe presto accaduto. Non si rilassò nemmeno quando vide la donna sorridere e l’uomo ricambiare il sorriso, quasi vago e sparuto, come se non si rendesse realmente conto di dove si trovava.
    «Lei è stato troppo gentile, Sir William», replicò cordiale, e fu il suo turno di prendere a braccetto la dama, che sembrava far vagare semplicemente lo sguardo senza pronunciar parola. «L’abbiamo vista al club solo rare volte, e non abbiamo potuto dialogare come si conveniva. Questa serata sarà un’ottima occasione per farlo».
    «Una ghiotta occasione», lo corresse con falso tono di rimprovero, sempre con quel suo solito sorriso bonario. «Ma accomodatevi, prego. Le faccio conoscere i restanti ospiti».
    I minuti che passarono andarono avanti così, tra scambi di convenevoli e saluti referenziali; William non aveva degnato il signore di Beul an latha nemmeno d’un’attenzione, se si escludeva quell’unica occhiata che gli aveva rivolto quand’era entrato. Aveva bensì interagito con gli ospiti, parlato con quello che aveva scoperto essere il fratello. Ma nemmeno per un attimo era sembrato interessarsi a lui, nemmeno quando uno di quegli ospiti che aveva portato prese posto accanto a lui e alla ragazzina che ancora stringeva il suo braccio.
    Lord Dellinton aveva quindi deciso d’intrattenere una conversazione con quell’uomo, che sembrava dal canto suo non curarsi affatto di come la sua accompagnatrice stava sollazzandosi. Parlava e parlava, perdendosi in discorsi che decantavano l’arte e la musica d’un paese o d’un altro; farneticava di argomenti d’attualità, bofonchiando sull’inettitudine della polizia londinese e su come quei crimini sanguinosi passassero tranquillamente sotto il loro naso. E faceva finta d’ascoltare e d’esser interessato, il nobil uomo, annuendo di tanto in tanto. Anzi, non potendo più soffrire altro, dopo un’interminabile sproloquio decise d’alzarsi, lasciandolo in compagnia della ragazzina che pendeva letteralmente dalle sue labbra. Fece per uscire da quella stanza quando un urlo agghiacciante lo richiamò, facendolo voltare di scatto; proprio dove poco prima era accomodato, quell’uomo che corrispondeva al nome di Scott giaceva mezzo disteso sul divano, con la ragazzina seduta a cavalcioni sulle sue gambe. Vista da occhi estranei sarebbe potuta essere fraintesa, quella situazione. Ma per lui, che conosceva il vero aspetto di quelle creature, fu come fare i conti con tutto quello che fino a quel momento non aveva voluto vedere. La ragazzina aveva affondato le piccole zanne nel collo di quel mal capitato, e ciò che si sentiva, oltre gli strilli della donna, era quell’intenso succhiare e deglutire senza sosta.
    Lord Dellinton
si portò una mano alla bocca, reprimendo l’impulso di dare di stomaco; si costrinse invece a guardare, come se volesse imprimersi quella scena nella mente. Quella fanciulla, in quel momento, gli era apparsa per ciò che era in realtà: un semplice mostro che si nutriva degli sventurati esseri umani che si ritrovavano sul suo cammino. E trattenne un conato di vomito quando lei, con un gemito alto e compiaciuto, sollevò di scatto la testa e schiuse le labbra, ripulendosi sensualmente il sangue che colava da esse con la punta della lingua.
  «Sono desolato, signori», si fece sentire William, sovrastando tutto quel baccano con fare divertito. «Temo che la nostra piccola Juliette abbiamo deciso d’anticipare i festeggiamenti».
    Si levò una nuova risata, a quelle parole. «Dunque possiamo cominciare con l’antipasto?» replicò un uomo che si trovava poco lontano da lui, attendendo fremente una risposta.
    William atteggiò giusto il viso ad un’espressione tranquilla e impassibile, sbattendo con lentezza, per ben due volte, le palpebre, quasi come se volesse accennare a qualcosa. Una nuova risata, più cristallina della precedente, serpeggiò nella stanza quando il ragazzo seduto al piano s’alzò, avvicinandosi al fratello per cingergli i fianchi con le braccia.
    «Sei sicuro di non volerne un po’, mo bhràthair?» il suo fu più un mormorio che una vera e propria domanda, e strofinò di poco il viso contro il suo collo prima d’adocchiare di sfuggita il Lord. Gli sorrise, snudando le zanne; con le stesse carezzò la pelle del maggiore, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi scuri che sembravano squadrarlo.
    William piegò il capo di lato, alzando un braccio per intrecciare le dita fra i capelli di Arthur. «Questo è per voi, adesso. Solo per voi», replicò, poggiandogli poi l’altra mano su un braccio per farsi lasciare, allontanandosi poi da lui per far schioccare appena le dita; fu un attimo, e le urla della donna ripresero più forti mentre lei tentava di scappare.
    Gli ospiti che erano apparsi così normali al signore di Beul an latha, stavano mostrando adesso i loro veri volti - mutando, avrebbe osato dire -, avventandosi senza pietà su quei corpi che martoriavano in più punti: c’era chi alzava le gonne per azzannare una coscia, chi si accontentava più semplicemente del collo; chi, invece, sembrava tranquillamente assorto ad incidere un esile polso, lasciandolo stillare goccia per goccia. Intingeva un dito, lo portava alle labbra; lasciava che il viso si trasfigurasse in una maschera di puro piacere, compiendo quel rito a poco a poco. E il Lord era rimasto impalato accanto alla soglia, con la schiena contro la porta mentre osservava quel massacro di carne e sangue. Gli occhi azzurri sembravano ingigantiti dalla paura e, forse, anche da un qualcosa di molto simile all’eccitazione della caccia. Erano anni che non provava più quella sensazione e, il provarla per la scena a cui stava assistendo, gli fece storcere il viso per l’indignazione. Quand’era diventato così?
    Fu solo a quel punto che il suo carceriere gli si avvicinò, prendendolo per una mano per esortarlo ad allontanarsi da lì e ad avvicinarsi al banchetto. «A te non faranno nulla, non temere», mormorò con tono dolce e comprensivo, quasi stesse parlando ad un bambino. «Puniscono solo i malvagi».
    «Tu sei folle, un sadico pazzo», replicò immediatamente l’uomo, sconvolto e ad occhi sbarrati. Ma riuscì solo a farlo ridere, sentendo le sue mani sulle spalle.
    «Erano complici d’un omicidio e andavano puniti, mio sciocco amante. E l’omicidio è sempre un errore», gli mormorò divertito, alzandogli il viso per fargli vedere meglio la scena che entrambi avevano dinanzi. I volti degli uomini e delle donne lì presenti erano divenuti quasi simili a quelli di una statua di marmo bianco, solo di rado vedeva le labbra di costoro macchiate del vermiglio colore del sangue. Ancora una risata si levò dalla gola di William, che si strinse maggiormente all’uomo per continuare a sussurrare al suo orecchio: «Fosti tu stesso a dirmi tali parole».




[1] Prima parte di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 29 dicembre del 2005, rilasciata insieme a “Planetarium”.
Potrebbe indicare metaforicamente il cambiamento di pensiero che sta avvenendo nella mente del protagonista, così come potrebbe indicare il cambiamento vero e proprio che viene messo in atto dai vampiri presenti nella villa.

[2] Non si può definire esattamente come nome d’un territorio patronale.
In realtà significa “Alba” in gaelico scozzese.

[3] E’ il principale distretto di shopping e divertimento, ed è incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno dei 32 distretti di Londra che paradossalmente ha anche lo status di città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar Square, mentre Oxford Street è una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.

[4] Fu composta ed eseguita a Londra nel 1765, ed è la quarta sinfonia dell’allora giovane Mozart.
Si apre con un Allegro per variare poi con un Andante e concludersi con un Presto.

[5] Mio fratello, gaelico scozzese.
I primi tre pronomi possessivi causano lenizione alla parola “bràthair” (Fratello), alla quale si aggiunge, appunto, l’ “H”.

[6] Venne composta tra l’estate e l’autunno del 1774, e fa parte delle sei sonate per pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in Re maggiore, anch’essa si suddivide in tre tempi.



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