Under a bloody sky_2
ATTO II
CHIACCHIERE TRA VECCHI
COMPARI
Era
stato rincorrendo pensieri su pensieri che avevo cominciato a
camminare,
tralasciando almeno per quella sera il mio nutrimento. Avrei potuto
benissimo
stare un paio di giorni senza sangue, dunque il problema, per me, non
esisteva
affatto. Farmene uno sarebbe stato alquanto stupido, in
realtà.
Mi infilai le mani nelle tasche
dei jeans e mi avviai verso il piccolo parcheggio davanti alla tavola
calda,
concentrandomi sul suono che le mie nike producevano
sull’asfalto bagnato.
Quello scalpiccio divenne ben presto l’unico rumore che
sentii, sebbene
captassi ciò che mi succedeva intorno solo ed unicamente con
l’olfatto: sentivo
l’umido sentore della terra e dell’erba giungere da
ovest; lo smog confuso con
l’odore della pioggia, proveniente dalle auto che
percorrevano la statale non
molto distante; riuscivo persino a percepire, man mano che avanzavo e
mi
avvicinavo ai viali poco alberati, l’odore di grasso e di
frittura che
avvolgeva l’area intorno ad altre tavole calde e locali.
Sembrava andare tutto normalmente,
esattamente come le altre notti. Ma l’incontro con quel
ragazzo era riuscito a
farmi comprendere, almeno in parte, cosa significasse
quell’inquietudine che
avevo avvertito prima del suo arrivo. Probabilmente avrei dovuto
prendere sul
serio le sue parole e cominciare ad investigare, se non volevo
realmente che
qualche cacciatore sulle tracce di quest’assassino giungesse
fino a noi. Più
continuavamo a tenerci nascosti più era un bene, e non
potevo quindi permettere
che un folle lupo solitario ci esponesse in quel modo ai pericoli.
Cominciai a guardarmi intorno
distrattamente, superando la 596a della South Road mentre catturavo
al contempo le luci dei lampioni e dei fari delle auto che mi
superavano. Mi
tenevo sul marciapiede, gettando solo di tanto in tanto delle occhiate
ai
guidatori delle auto quando mi passavano accanto. Giunsi fino alla 540a
e sorpassai due puttane al bivio, facendo finta di non sentirle mentre
mettevano in mostra la mercanzia rivolgendosi agli uomini che si
fermavano con
le loro belle automobiline. Quando vedevano un uomo erano peggio degli
avvoltoi, riuscivo a fiutare l’odore della loro lussuria come
se la stessi
assaporando sulla lingua, ma dovevo ammettere che come carne da bara non
sarebbero state affatto male. O almeno a detta di molti altri vampiri.
Mi recai svelta a casa, che
distava da lì giusto un altro paio d’isolati. In
realtà era ironico chiamare
quel monolocale completamente spoglio “casa”, visto
che sarebbe anche potuto
essere catalogato come da vendere data la mia poca presenza e la scarsa
mobilia. Se non si contava il grande paravento scuro che divideva
l’ubicazione
del mio feretro dal resto del monolocale o il mio feretro stesso, quel
che era
presente era un grande armadio in legno massello posto sulla sinistra,
esattamente poco lontano da una larga finestra che, in precedenza,
avevo
inchiodato con delle assi e nascosto con delle pesanti tende per
evitare che la
luce del sole filtrasse durante il giorno. Oltre a quello
c’era un divano
letto, che usavo in occasioni
speciali, e uno schermo al plasma da
sessanta pollici che avevo comprato solo per capriccio. Non ero
propriamente un
tipo materiale, ma gli oggetti mortali mi attraevano come la falena
alla
fiamma. Riguardo i vestiti di quel secolo, invece, dovevo ancora farci
il
callo. Jeans e felpe erano comodi, ma spesso mi mancavano pizzi e
merletti dei
tempi andati. Quel che non rimpiangevo affatto era il bustino.
Chissà perché,
eh?
Aprii la porta del monolocale
quando lo raggiunsi, ma mi misi subito in allerta nel momento esatto in
cui mi
arrivò alle narici un odore sconosciuto.
All’interno ero sicura che non ci
fosse nessuno, mortale o immortale che fosse. Non sentivo il palpito di
nessuno
cuore, e nemmeno quel sentore di morte e putrefazione che spesso
caratterizzava
molti di noi. Era rimasta solo una debole scia d’un odore
denso e quasi
dolciastro, troppo confusa per capire a chi o cosa appartenesse
realmente.
Entrai con circospezione,
richiudendomi silenziosamente la porta alle spalle prima di scrutare in
quella
penombra e scoprire che l’unica cosa che era stata profanata
era la mia bara,
ben visibile da dove mi trovavo a causa del paravento caduto. Quel
qualcuno che
si era introdotto in casa l’aveva scoperchiata e ne aveva
sfregiato con strani
simboli il legno d’ebano, lacerando persino, senza alcuna
ragione, il rosso
velluto all’interno.
Quella notte stava prendendo
pieghe sempre più strane, e non riuscivo nemmeno a capire
cosa avesse provato a
cercare quell’intruso o cosa avesse provato a fare. Ma forse
stavo lasciandomi
suggestionare un po’ troppo, e probabilmente s’era
trattato d’un comune ladro
che, in cerca di denaro o altro, non trovando nulla aveva sfogato la
sua rabbia
sul mio giaciglio. E allora perché non rubare il televisore,
che da solo
avrebbe potuto fruttare abbastanza dollari? La cosa non aveva il
benché minimo
senso, ma non ne me curai poi molto. Perché mai avrei dovuto
temere un comune
ladro visto quel che ero?
Fu però con una piccola
smorfia di
disappunto che mi chinai a raccogliere il coperchio del mio feretro,
esaminandolo prima di scuotere il capo. Un gran bel lavoro vandalico,
senza
alcun ombra di dubbio. Gettai poi uno sguardo al cataletto stesso,
richiudendolo subito. Quello scempio aveva rovinato ancor
più una serata già
iniziata male.
Quel che volevo capire adesso era
chi mai fosse stato, e fu per quel motivo che socchiusi gli occhi ed
inspirai
più a fondo l’odore che aleggiava in casa, non
riuscendo a dargli una vera e
propria catalogazione. Escludendo umani, vampiri e licantropi, restava
solo
chissà quale creatura capace di attraversare le pareti, dato
che la serratura non
era stata forzata e che la finestra era sigillata.
Sbuffai. Non era il momento per il
sarcasmo, quello.
Perché diavolo avessi accettato
quell’incarico, veniva da chiedersi. Non era stata
propriamente la
preoccupazione per la mia razza a spingermi ad accontentare la
richiesta di
quel ragazzo, ma forse più semplicemente il fatto che, da un
po’ di tempo a
quella parte, quella mia vita quasi immortale stava perdendo il fascino
che
aveva avuto all’inizio. Mi stavo più che altro
confondendo con la massa, divenendo
sempre più schiava di quella società
industrializzata. Probabilmente speravo
che l’investigare in quel caso, fianco a fianco con degli
esseri umani per
nulla comuni, avrebbe riportato quel pizzico di pepe che ormai da un
paio di
secoli mancava nella mia esistenza. Per quelli come me era sempre un
po’
difficile ambientarsi e adattarsi ai nuovi stili di vita. Succedeva
quasi ogni
cent’anni o poco più.
Uscii nuovamente di casa senza
richiudere nemmeno la porta a chiave, cominciando a tormentarmi con le
zanne il
labbro inferiore e con una parvenza di nervosismo dipinta in viso.
Mancava
mezz’ora o più all’alba, non mi ero
nutrita per niente e la mia bara era stata
praticamente ridotta a brandelli. Non avrei potuto chiedere di meglio,
e la mia
era ironia.
Mi ritrovai in strada e risalii il
lungo marciapiede che costeggiava i palazzi, sentendo qualche lieve ed
incerto
cinguettio provenire dai radi alberi lì presenti. Nel cielo
volteggiava ancora
qualche pipistrello solitario, ma l’imminente arrivo del
giorno era ormai una
certezza. Mi affrettai dunque ad incamminarmi, giungendo a destinazione
in men
che non si dica.
Ero quasi in periferia, dove si
riuscivano a scorgere le poche villette presenti in
quell’angolo di St. Louis.
L’erba era umida di rugiada, e anziché
l’odore di smog serpeggiava nell’aria il
piacevole sentore che caratterizzava la notte poco prima
dell’alba, molto più
percettibile grazie alla più comune presenza di spazi verdi.
Non persi altro tempo a rimuginare
su quei pensieri o a perdermi fra quei profumi, andando dritta verso
una di
quelle villette. Aprii il cancelletto e attraversai il cortile,
bussando al
campanello. In realtà sarei potuta entrare in qualsiasi
momento, avendo avuto
tempo addietro il consenso di varcare quella soglia, ma la persona che
era
andato a trovare meritava un piccolo trattamento di favore,
per non
parlare del suo essere famoso per il suo trastullarsi da solo o con
qualcuno in
qualsiasi ora del giorno o della notte. Difatti venne ad aprirmi in
mutande,
senza nemmeno chiedere chi fosse visto che l’aveva
sicuramente intuito ancor
prima di vedermi.
«Sappi che la tua puzza mi
ha interrotto proprio sul più bello, sanguisuga»,
mi salutò così, con tono
sarcastico e anche un po’ rauco.
Ma non gli badai, sollevando
appena un angolo della bocca in un mezzo sorrisino prima di
appioppargli una
pacca sulla spalla destra, entrando tranquillamente come se mi trovassi
a casa
mia. L’interno era appestato come al solito da un odore come
di cane bagnato,
ma ormai il mio naso se n’era assuefatto. Oltre a quello,
però, non c’era
nessun altro odore, specialmente d’esponenti del gentil sesso
come me. Il che
stava a significare una sola cosa, e quasi mi ritrovai a sorridere
maggiormente.
«Non dire cazzate»,
replicai
ironica, voltandomi appena verso di lui che aveva appena richiuso la
porta. «Più
di una sega non ho interrotto».
A quelle mie parole dilatò di
poco
gli occhi, facendo una finta faccia scandalizzata. Secondo lui le signorine
non avrebbero dovuto parlare in quel modo. Beh, con me aveva ormai
quasi perso
tutte le speranze. Difatti subito dopo lasciò perdere e
sbuffò, sgranchendosi
appena il collo. «Serata fiacca oggi, e allora?»
ribatté scontroso. «Piuttosto...
perché sei qui, sanguisuga?»
«Ho forse bisogno
d’un motivo per
venire a trovare un amico?»
replicai, fingendomi innocente come la più
illibata delle fanciulle e sfoderando un nuovo sorriso in cui lasciai
ben
intravedere la punta delle zanne.
Lo vidi sollevare un sopracciglio.
«Direi di sì, visto che le poche volte in cui ti
fai viva - perdona
l’espressione - è sempre perché ti
serve qualcosa», rispose con fare ovvio. «E
poi è quasi l’alba, mia dolce sanguisuga, non
credo che tu non te ne sia resa
conto».
Alzai entrambe le mani in segno di
resa, osservando distrattamente l’arredamento spartano del
salotto in cui ci
trovavamo. «Hai colto immediatamente nel segno, sacco di
pulci».
Lui era l’unico che poteva
permettersi di parlarmi con tutta quella scioltezza. Non
c’era quasi nessuno,
difatti, che considerassi degno di farlo. Sebbene lui, Nathan, fosse un
licantropo, era il solo che sentivo più vicino. Quasi amico,
avrei potuto
aggiungere. Ed il motivo era che gli ero debitrice, visto che mi aveva
donato
il suo sangue per salvarmi. Avrebbe potuto andarsene e lasciarmi al mio
destino, quella lontana notte in cui mi aveva trovato moribonda, ma non
l’aveva
fatto e aveva deciso d’aiutarmi nonostante non fosse
obbligato a farlo a causa
delle nostre nature così diverse. E dovevo ammettere che,
anche a distanza
d’anni, mi sentivo ancora in debito con lui. Che razza di
vampiro ero.
Fu un suo lungo sospiro a
distogliermi da quei miei pensieri. «Avanti,
parla», fece schietto. «Che cosa
ti serve, stavolta?»
Lo guardai con assoluta
serietà. «Hai
ancora quella vecchia bara che ti lasciai cinque anni fa?»
Lui sbatté le palpebre,
probabilmente non capendo. «E’ in
cantina», rispose perplesso. «Perché me
lo
chiedi di punto in bianco?»
Non badai a quel suo quesito,
limitandomi ad annuire quasi pensosa. «Per oggi mi ospiterai
tu, allora», dissi
fra me e me, bloccando tempestivamente una sua protesta appena con
un’alzata di
mano. «Quando mi sveglierò, poi, ti
spiegherò tutto».
Per nulla contento, sbuffò.
«Se
non mi dirai tutto per filo e per segno, sanguisuga, questa
è la volta buona
che quel tuo cuore te lo riduco in poltiglia»,
commentò con falso tono
minaccioso, dato che quelle parole le ripeteva di continuo ma non aveva
ancora
mai attuato quei suoi propositi. Un po’ perché,
sebbene non l’avrebbe mai
ammesso, ero una sua cara amica, un po’ perché era
talmente gentiluomo che non
si sarebbe mai permesso di alzare le mani su una donna. A quanto
sembrava la
cavalleria non era ancora morta, per lui.
In risposta agitai semplicemente
una mano con non curanza, volendolo accontentare solo con
quell’unico gesto. «Lo
farò, stai tranquillo. Noi vampiri manteniamo sempre la parola
data».
«Che marea di
cazzate»,
ribatté
immediatamente, quasi in tono ironico. «Che non bisogna
fidarsi di voi lo sanno
bene anche i muri. E adesso, mia cara, vedi di filare di sotto. Vorrei
riposare
ancora un po’ anch’io, se non ti spiace».
«Ho un ultimo favore da
chiederti»,
feci, avvicinandomi a lui per osservarlo con attenzione. E per farlo
dovetti
alzare lo sguardo, visto che mi superava di parecchi centimetri buoni.
I suoi
occhi marroni avevano quel riflesso dorato tipico del periodo che
precedeva la
luna piena. Quel che colpiva di lui era che, pur non essendo un tipo
atletico o
sportivo, aveva comunque il fisico asciutto. Il suo viso non era
né bello né
brutto, e anche se aveva la fronte sporgente e gli zigomi troppo
pronunciati,
era un uomo che veniva sempre cercato dalle donne. Se mi avessero
chiesto che
lavoro facesse avrei prontamente risposto escort.
«Non mi piace affatto quello
sguardo», disse sulla difensiva, affrettandosi a distogliere
gli occhi dai
miei. «Sembra simile a quello d’un
depravato».
«Ci sei vicino»,
replicai sarcastica,
afferrandogli con facilità un braccio per tenergli ferma la
mano
con una delle mie, poggiando invece l’altra poco
più su del polso. «Solo un
sorso, Nathan. Poi puoi dormire o masturbarti quanto ti
pare».
Non oppose resistenza, ma lo vidi
digrignare i denti e socchiudere appena le palpebre. «Avrei
dovuto immaginarlo»,
sibilò inviperito. «Ma guai a te se tenti di
sedurmi per portarmi a letto. Per
quanto tu sia bella non rientri nel mio prototipo di donna
ideale».
Nel sentire le sue parole non
potei evitarmi di ridere, chinandomi a leccargli il polso, esattamente
dove
sentivo la vena palpitare invitante. «I maschi non mi
interessano più di tanto,
e tu non saresti nemmeno il mio tipo, ad esser sincera»,
ribattei
semplicemente, snudando le zanne per affondarle nella sua carne
morbida.
Mi giunse alle orecchie il gemito
doloroso di Nathan, ma lo ignorai per iniziare invece a succhiare e a
deglutire
con vigore, sentendo quella piacevole sensazione di forza convergere in
me. Smisi
di bere molto presto, forse anche più di quanto fossi
abituata a fare.
Solitamente la mia vittima mi implorava di smettere ancor prima che mi
fermassi. Nathan invece non aveva proferito parola, gemiti e rantoli
esclusi.
Non appena allontanai le labbra
lui ritirò il braccio, osservandosi il punto che avevo morso
con aria
disgustata. Lo coprì poi con una mano, guardandomi e
assottigliando le
palpebre. «Vedi di non farci l’abitudine,
sanguisuga», mi sbottò contro,
bofonchiando qualcosa fra sé e sé mentre
s’allontanava in direzione del divano
letto. Quel che disse lo sentii benissimo ma soprassedetti, limitandomi
a
leccarmi le labbra prima di stringermi nelle spalle. L’unica
cosa positiva di
quella serata era stata sicuramente la conclusione.
Presi la strada che conduceva alla
cantina ed aprii la porta, scendendo le scale a due a due come se
stessi
scivolando sull’acqua. Scrutai in ogni anfratto, spostando
mobili e ferri
vecchi alla ricerca della mia bara. Una volta trovata ci soffiai un
po’ su per
liberarla almeno in parte dallo strato di polvere che la ricopriva,
carezzando
il coperchio con appena due dita. Era un feretro molto più
rudimentale e
scomodo di quello che avevo avuto nel mio monolocale, ma si poteva dire
che mi
aveva accompagnato nel corso della mia esistenza.
Tolsi la copertura lasciandola
lì
accanto, scavalcando i bordi della bara per sedermi sul duro fondo di
legno.
Sporgendomi recuperai poi il coperchio, stendendomi mentre lo
richiudevo sopra
di me. Il buio mi avvolse, e quel senso di abbandono del proprio io
prese
possesso di me come ogni qual volta chiudevo gli occhi.
Non era propriamente sonno, quello
in cui noi vampiri cadevamo, ma più un annullamento
dell’essere, una sorta di
limbo in cui non esistevano né giorno né notte,
né bene né male, solo noi
stessi e quel potere che la sera ci animava. Senza quello e la nostra
essenza o
la nostra ragione, quel che restava era solo un involucro vuoto di
carne e
muscoli, un cadavere mantenuto in bello stato. Quando giungeva la notte
il
nostro corpo tornava a muoversi, sebbene, almeno io, mi svegliassi come
se
fossi rimasta in apnea più di quanto concessomi. E lo stesso
accadde quella
sera quando riaprii gli occhi nell’oscurità, tanto
che ci misi un po’ a
ricordare tutto con nitidezza e ad alzare il coperchio per mettermi a
sedere.
Mi sgranchii appena il collo e mi
rialzai in piedi, muovendomi in quell’oscurità che
avvolgeva la cantina con
estrema facilità. Risalii le scale e sbucai nuovamente nel
soggiorno, dove
aleggiava un intenso odore di bacon. Lo accompagnava anche quello della
frittura, simbolo che Nathan stava preparando la propria cena. Quando
giunsi
nella piccola cucina, difatti, lo trovai ai fornelli, intento a
rigirare il suo
cibo nella padella.
Senza voltarsi, essendosi accorto
di me, mi indicò con un cenno della mano il tavolo, e io mi
accomodai
tranquilla ed attesi. Quando lui posò tutto a tavola si
sedette a sua volta,
spronandomi a spiegargli cosa mi avesse spinto fin lì prima
dell’alba. Gli
raccontai tutto con gran dovizia di particolari, proprio
com’ero solita fare,
partendo dall’incontro con quel ragazzo e della discussione
che avevamo avuto
prima d’arrivare all’infrazione avvenuta nel mio
monolocale. Lui mi ascoltò
attento e senza interrompermi, assumendo poi un’espressione
alquanto pensosa
quando conclusi. Aveva unito le dita a cupola e si era accomodato
contro lo
schienale della sedia, con lo sguardo fisso dinnanzi a sé.
«Allora, fammi capire
bene»,
esordì infine con un tono abbastanza scettico. «Un
ragazzino, per di più
facente probabilmente parte d’uno di quei reparti
d’investigazione
sovrannaturale, ti ha chiesto d’aiutarlo con un caso... e tu
hai accettato?» mi
guardò con un sopracciglio inarcato prima di continuare.
«Tu,
miss “non
voglio avere niente a che fare con i problemi del genere
umano”?»
Non diedi alcun peso alle sue
parole, agitando con fare svogliato una mano prima di poggiare il viso
sul
dorso della mano dell’altra. «L’ho fatto
solo perché sono coinvolti uno o più
vampiri», ci tenni a precisargli. «Solo e
unicamente per questo. Altrimenti col
cazzo che accettavo».
«Inventatene
un’altra»,
ribatté
sarcastico. «Di un po’, non è che in fin
dei conti sei preoccupata per le
possibili conseguenze?»
Lo guardai a zanne scoperte nel
sentire quelle parole, alzandomi in piedi per osservarlo
dall’alto in basso. «Non
è un problema mio, perché dovrei essere
preoccupata?»
Per un po’ di tempo lui non
rispose, limitandosi a mettersi comodo e ad impugnare le posate. Diede
giusto
un morso al bacon, riempiendosi il bicchiere con la sua birra scura. Fu
solo a
quel punto che mi guardò, facendo spallucce. «Hai
accettato, no? Questo
dimostra che un minimo di preoccupazione ce l’hai»,
prese il bicchiere e se lo
rigirò in mano, abbassando gli occhi per vedere il liquido
oscillare al suo
interno. «E poi questa è una cattiva
pubblicità, per voi. Già non fate una
bella vita, dover poi temere d’essere esposti a causa di
certi squilibrati non
dev’essere un gran bell’affare».
A quel dire restai interdetta, ma
cercai di non dimostrarlo. «Cazzate», sbottai,
volendo negare l’evidenza. Mi
allontanai dal tavolo dando le spalle a Nathan, avviandomi in direzione
dell’ingresso. Ma mi fermai a metà strada,
fissando un punto indefinito. «Ehi,
sacco di pulci», lo chiamai, continuando solo quando sentii
il suo sguardo su
di me. «Vedi di fare attenzione quando esci, la
notte».
Dopo qualche attimo di
imbarazzante silenzio, mi giunse una sua lieve risata.
«Cos’è, sei preoccupata
per me, sanguisuga?» mi chiese ironico. «Lo sai che
so badare a me stesso. Non
mi diventare sentimentale, adesso. Non ti si addice».
Mi voltai appena verso di lui,
sollevando un angolo della bocca in un piccolo sorriso. «Tu
tieni a mente il
consiglio», ribattei semplicemente, riprendendo ad
incamminarmi verso la porta
e, dopo averla aperta, feci un rapido cenno di saluto a Nathan.
«Stammi bene,
amico», soggiunsi, uscendo e lasciandolo infine solo con la
sua cena.
Quella che era calata era la mia
notte, ed era appena cominciata.
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