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Autore: My Pride    22/04/2011    2 recensioni
«Quanto sei disposta a spingerti oltre con questa storia?»
«Quel che basta per capire cosa sta succedendo»
«Lo dico per il tuo bene, chica, lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per farlo. Non hai nulla a che vedere con tutto questo»
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'St. Louis ~ Bloody Nights'
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Under a bloody sky_2 ATTO II
CHIACCHIERE TRA VECCHI COMPARI
 
    Era stato rincorrendo pensieri su pensieri che avevo cominciato a camminare, tralasciando almeno per quella sera il mio nutrimento. Avrei potuto benissimo stare un paio di giorni senza sangue, dunque il problema, per me, non esisteva affatto. Farmene uno sarebbe stato alquanto stupido, in realtà.
    Mi infilai le mani nelle tasche dei jeans e mi avviai verso il piccolo parcheggio davanti alla tavola calda, concentrandomi sul suono che le mie nike producevano sull’asfalto bagnato. Quello scalpiccio divenne ben presto l’unico rumore che sentii, sebbene captassi ciò che mi succedeva intorno solo ed unicamente con l’olfatto: sentivo l’umido sentore della terra e dell’erba giungere da ovest; lo smog confuso con l’odore della pioggia, proveniente dalle auto che percorrevano la statale non molto distante; riuscivo persino a percepire, man mano che avanzavo e mi avvicinavo ai viali poco alberati, l’odore di grasso e di frittura che avvolgeva l’area intorno ad altre tavole calde e locali.
    Sembrava andare tutto normalmente, esattamente come le altre notti. Ma l’incontro con quel ragazzo era riuscito a farmi comprendere, almeno in parte, cosa significasse quell’inquietudine che avevo avvertito prima del suo arrivo. Probabilmente avrei dovuto prendere sul serio le sue parole e cominciare ad investigare, se non volevo realmente che qualche cacciatore sulle tracce di quest’assassino giungesse fino a noi. Più continuavamo a tenerci nascosti più era un bene, e non potevo quindi permettere che un folle lupo solitario ci esponesse in quel modo ai pericoli.
    Cominciai a guardarmi intorno distrattamente, superando la 596a della South Road mentre catturavo al contempo le luci dei lampioni e dei fari delle auto che mi superavano. Mi tenevo sul marciapiede, gettando solo di tanto in tanto delle occhiate ai guidatori delle auto quando mi passavano accanto. Giunsi fino alla 540a e sorpassai due puttane al bivio, facendo finta di non sentirle mentre mettevano in mostra la mercanzia rivolgendosi agli uomini che si fermavano con le loro belle automobiline. Quando vedevano un uomo erano peggio degli avvoltoi, riuscivo a fiutare l’odore della loro lussuria come se la stessi assaporando sulla lingua, ma dovevo ammettere che come carne da bara non sarebbero state affatto male. O almeno a detta di molti altri vampiri.
    Mi recai svelta a casa, che distava da lì giusto un altro paio d’isolati. In realtà era ironico chiamare quel monolocale completamente spoglio “casa”, visto che sarebbe anche potuto essere catalogato come da vendere data la mia poca presenza e la scarsa mobilia. Se non si contava il grande paravento scuro che divideva l’ubicazione del mio feretro dal resto del monolocale o il mio feretro stesso, quel che era presente era un grande armadio in legno massello posto sulla sinistra, esattamente poco lontano da una larga finestra che, in precedenza, avevo inchiodato con delle assi e nascosto con delle pesanti tende per evitare che la luce del sole filtrasse durante il giorno. Oltre a quello c’era un divano letto, che usavo in occasioni speciali, e uno schermo al plasma da sessanta pollici che avevo comprato solo per capriccio. Non ero propriamente un tipo materiale, ma gli oggetti mortali mi attraevano come la falena alla fiamma. Riguardo i vestiti di quel secolo, invece, dovevo ancora farci il callo. Jeans e felpe erano comodi, ma spesso mi mancavano pizzi e merletti dei tempi andati. Quel che non rimpiangevo affatto era il bustino. Chissà perché, eh?
    Aprii la porta del monolocale quando lo raggiunsi, ma mi misi subito in allerta nel momento esatto in cui mi arrivò alle narici un odore sconosciuto. All’interno ero sicura che non ci fosse nessuno, mortale o immortale che fosse. Non sentivo il palpito di nessuno cuore, e nemmeno quel sentore di morte e putrefazione che spesso caratterizzava molti di noi. Era rimasta solo una debole scia d’un odore denso e quasi dolciastro, troppo confusa per capire a chi o cosa appartenesse realmente.
    Entrai con circospezione, richiudendomi silenziosamente la porta alle spalle prima di scrutare in quella penombra e scoprire che l’unica cosa che era stata profanata era la mia bara, ben visibile da dove mi trovavo a causa del paravento caduto. Quel qualcuno che si era introdotto in casa l’aveva scoperchiata e ne aveva sfregiato con strani simboli il legno d’ebano, lacerando persino, senza alcuna ragione, il rosso velluto all’interno.
    Quella notte stava prendendo pieghe sempre più strane, e non riuscivo nemmeno a capire cosa avesse provato a cercare quell’intruso o cosa avesse provato a fare. Ma forse stavo lasciandomi suggestionare un po’ troppo, e probabilmente s’era trattato d’un comune ladro che, in cerca di denaro o altro, non trovando nulla aveva sfogato la sua rabbia sul mio giaciglio. E allora perché non rubare il televisore, che da solo avrebbe potuto fruttare abbastanza dollari? La cosa non aveva il benché minimo senso, ma non ne me curai poi molto. Perché mai avrei dovuto temere un comune ladro visto quel che ero?
    Fu però con una piccola smorfia di disappunto che mi chinai a raccogliere il coperchio del mio feretro, esaminandolo prima di scuotere il capo. Un gran bel lavoro vandalico, senza alcun ombra di dubbio. Gettai poi uno sguardo al cataletto stesso, richiudendolo subito. Quello scempio aveva rovinato ancor più una serata già iniziata male.
    Quel che volevo capire adesso era chi mai fosse stato, e fu per quel motivo che socchiusi gli occhi ed inspirai più a fondo l’odore che aleggiava in casa, non riuscendo a dargli una vera e propria catalogazione. Escludendo umani, vampiri e licantropi, restava solo chissà quale creatura capace di attraversare le pareti, dato che la serratura non era stata forzata e che la finestra era sigillata.
    Sbuffai. Non era il momento per il sarcasmo, quello. Perché diavolo avessi accettato quell’incarico, veniva da chiedersi. Non era stata propriamente la preoccupazione per la mia razza a spingermi ad accontentare la richiesta di quel ragazzo, ma forse più semplicemente il fatto che, da un po’ di tempo a quella parte, quella mia vita quasi immortale stava perdendo il fascino che aveva avuto all’inizio. Mi stavo più che altro confondendo con la massa, divenendo sempre più schiava di quella società industrializzata. Probabilmente speravo che l’investigare in quel caso, fianco a fianco con degli esseri umani per nulla comuni, avrebbe riportato quel pizzico di pepe che ormai da un paio di secoli mancava nella mia esistenza. Per quelli come me era sempre un po’ difficile ambientarsi e adattarsi ai nuovi stili di vita. Succedeva quasi ogni cent’anni o poco più.
    Uscii nuovamente di casa senza richiudere nemmeno la porta a chiave, cominciando a tormentarmi con le zanne il labbro inferiore e con una parvenza di nervosismo dipinta in viso. Mancava mezz’ora o più all’alba, non mi ero nutrita per niente e la mia bara era stata praticamente ridotta a brandelli. Non avrei potuto chiedere di meglio, e la mia era ironia.
    Mi ritrovai in strada e risalii il lungo marciapiede che costeggiava i palazzi, sentendo qualche lieve ed incerto cinguettio provenire dai radi alberi lì presenti. Nel cielo volteggiava ancora qualche pipistrello solitario, ma l’imminente arrivo del giorno era ormai una certezza. Mi affrettai dunque ad incamminarmi, giungendo a destinazione in men che non si dica.
    Ero quasi in periferia, dove si riuscivano a scorgere le poche villette presenti in quell’angolo di St. Louis. L’erba era umida di rugiada, e anziché l’odore di smog serpeggiava nell’aria il piacevole sentore che caratterizzava la notte poco prima dell’alba, molto più percettibile grazie alla più comune presenza di spazi verdi.
    Non persi altro tempo a rimuginare su quei pensieri o a perdermi fra quei profumi, andando dritta verso una di quelle villette. Aprii il cancelletto e attraversai il cortile, bussando al campanello. In realtà sarei potuta entrare in qualsiasi momento, avendo avuto tempo addietro il consenso di varcare quella soglia, ma la persona che era andato a trovare meritava un piccolo trattamento di favore, per non parlare del suo essere famoso per il suo trastullarsi da solo o con qualcuno in qualsiasi ora del giorno o della notte. Difatti venne ad aprirmi in mutande, senza nemmeno chiedere chi fosse visto che l’aveva sicuramente intuito ancor prima di vedermi.
    «Sappi che la tua puzza mi ha interrotto proprio sul più bello, sanguisuga», mi salutò così, con tono sarcastico e anche un po’ rauco. Ma non gli badai, sollevando appena un angolo della bocca in un mezzo sorrisino prima di appioppargli una pacca sulla spalla destra, entrando tranquillamente come se mi trovassi a casa mia. L’interno era appestato come al solito da un odore come di cane bagnato, ma ormai il mio naso se n’era assuefatto. Oltre a quello, però, non c’era nessun altro odore, specialmente d’esponenti del gentil sesso come me. Il che stava a significare una sola cosa, e quasi mi ritrovai a sorridere maggiormente.
    «Non dire cazzate», replicai ironica, voltandomi appena verso di lui che aveva appena richiuso la porta. «Più di una sega non ho interrotto».
    A quelle mie parole dilatò di poco gli occhi, facendo una finta faccia scandalizzata. Secondo lui le signorine non avrebbero dovuto parlare in quel modo. Beh, con me aveva ormai quasi perso tutte le speranze. Difatti subito dopo lasciò perdere e sbuffò, sgranchendosi appena il collo. «Serata fiacca oggi, e allora?» ribatté scontroso. «Piuttosto... perché sei qui, sanguisuga?»
    «Ho forse bisogno d’un motivo per venire a trovare un amico?» replicai, fingendomi innocente come la più illibata delle fanciulle e sfoderando un nuovo sorriso in cui lasciai ben intravedere la punta delle zanne.
  Lo vidi sollevare un sopracciglio. «Direi di sì, visto che le poche volte in cui ti fai viva - perdona l’espressione - è sempre perché ti serve qualcosa», rispose con fare ovvio. «E poi è quasi l’alba, mia dolce sanguisuga, non credo che tu non te ne sia resa conto».
    Alzai entrambe le mani in segno di resa, osservando distrattamente l’arredamento spartano del salotto in cui ci trovavamo. «Hai colto immediatamente nel segno, sacco di pulci».
    Lui era l’unico che poteva permettersi di parlarmi con tutta quella scioltezza. Non c’era quasi nessuno, difatti, che considerassi degno di farlo. Sebbene lui, Nathan, fosse un licantropo, era il solo che sentivo più vicino. Quasi amico, avrei potuto aggiungere. Ed il motivo era che gli ero debitrice, visto che mi aveva donato il suo sangue per salvarmi. Avrebbe potuto andarsene e lasciarmi al mio destino, quella lontana notte in cui mi aveva trovato moribonda, ma non l’aveva fatto e aveva deciso d’aiutarmi nonostante non fosse obbligato a farlo a causa delle nostre nature così diverse. E dovevo ammettere che, anche a distanza d’anni, mi sentivo ancora in debito con lui. Che razza di vampiro ero.
    Fu un suo lungo sospiro a distogliermi da quei miei pensieri. «Avanti, parla», fece schietto. «Che cosa ti serve, stavolta?»
    Lo guardai con assoluta serietà. «Hai ancora quella vecchia bara che ti lasciai cinque anni fa?»
    Lui sbatté le palpebre, probabilmente non capendo. «E’ in cantina», rispose perplesso. «Perché me lo chiedi di punto in bianco?»
    Non badai a quel suo quesito, limitandomi ad annuire quasi pensosa. «Per oggi mi ospiterai tu, allora», dissi fra me e me, bloccando tempestivamente una sua protesta appena con un’alzata di mano. «Quando mi sveglierò, poi, ti spiegherò tutto».
    Per nulla contento, sbuffò. «Se non mi dirai tutto per filo e per segno, sanguisuga, questa è la volta buona che quel tuo cuore te lo riduco in poltiglia», commentò con falso tono minaccioso, dato che quelle parole le ripeteva di continuo ma non aveva ancora mai attuato quei suoi propositi. Un po’ perché, sebbene non l’avrebbe mai ammesso, ero una sua cara amica, un po’ perché era talmente gentiluomo che non si sarebbe mai permesso di alzare le mani su una donna. A quanto sembrava la cavalleria non era ancora morta, per lui.
    In risposta agitai semplicemente una mano con non curanza, volendolo accontentare solo con quell’unico gesto. «Lo farò, stai tranquillo. Noi vampiri manteniamo sempre la parola data».
    «Che marea di cazzate», ribatté immediatamente, quasi in tono ironico. «Che non bisogna fidarsi di voi lo sanno bene anche i muri. E adesso, mia cara, vedi di filare di sotto. Vorrei riposare ancora un po’ anch’io, se non ti spiace».
    «Ho un ultimo favore da chiederti», feci, avvicinandomi a lui per osservarlo con attenzione. E per farlo dovetti alzare lo sguardo, visto che mi superava di parecchi centimetri buoni. I suoi occhi marroni avevano quel riflesso dorato tipico del periodo che precedeva la luna piena. Quel che colpiva di lui era che, pur non essendo un tipo atletico o sportivo, aveva comunque il fisico asciutto. Il suo viso non era né bello né brutto, e anche se aveva la fronte sporgente e gli zigomi troppo pronunciati, era un uomo che veniva sempre cercato dalle donne. Se mi avessero chiesto che lavoro facesse avrei prontamente risposto escort. 
    «Non mi piace affatto quello sguardo», disse sulla difensiva, affrettandosi a distogliere gli occhi dai miei. «Sembra simile a quello d’un depravato».
    «Ci sei vicino», replicai sarcastica, afferrandogli con facilità un braccio per tenergli ferma la mano con una delle mie, poggiando invece l’altra poco più su del polso. «Solo un sorso, Nathan. Poi puoi dormire o masturbarti quanto ti pare».
    Non oppose resistenza, ma lo vidi digrignare i denti e socchiudere appena le palpebre. «Avrei dovuto immaginarlo», sibilò inviperito. «Ma guai a te se tenti di sedurmi per portarmi a letto. Per quanto tu sia bella non rientri nel mio prototipo di donna ideale».
    Nel sentire le sue parole non potei evitarmi di ridere, chinandomi a leccargli il polso, esattamente dove sentivo la vena palpitare invitante. «I maschi non mi interessano più di tanto, e tu non saresti nemmeno il mio tipo, ad esser sincera», ribattei semplicemente, snudando le zanne per affondarle nella sua carne morbida.
    Mi giunse alle orecchie il gemito doloroso di Nathan, ma lo ignorai per iniziare invece a succhiare e a deglutire con vigore, sentendo quella piacevole sensazione di forza convergere in me. Smisi di bere molto presto, forse anche più di quanto fossi abituata a fare. Solitamente la mia vittima mi implorava di smettere ancor prima che mi fermassi. Nathan invece non aveva proferito parola, gemiti e rantoli esclusi.
    Non appena allontanai le labbra lui ritirò il braccio, osservandosi il punto che avevo morso con aria disgustata. Lo coprì poi con una mano, guardandomi e assottigliando le palpebre. «Vedi di non farci l’abitudine, sanguisuga», mi sbottò contro, bofonchiando qualcosa fra sé e sé mentre s’allontanava in direzione del divano letto. Quel che disse lo sentii benissimo ma soprassedetti, limitandomi a leccarmi le labbra prima di stringermi nelle spalle. L’unica cosa positiva di quella serata era stata sicuramente la conclusione.
    Presi la strada che conduceva alla cantina ed aprii la porta, scendendo le scale a due a due come se stessi scivolando sull’acqua. Scrutai in ogni anfratto, spostando mobili e ferri vecchi alla ricerca della mia bara. Una volta trovata ci soffiai un po’ su per liberarla almeno in parte dallo strato di polvere che la ricopriva, carezzando il coperchio con appena due dita. Era un feretro molto più rudimentale e scomodo di quello che avevo avuto nel mio monolocale, ma si poteva dire che mi aveva accompagnato nel corso della mia esistenza.
    Tolsi la copertura lasciandola lì accanto, scavalcando i bordi della bara per sedermi sul duro fondo di legno. Sporgendomi recuperai poi il coperchio, stendendomi mentre lo richiudevo sopra di me. Il buio mi avvolse, e quel senso di abbandono del proprio io prese possesso di me come ogni qual volta chiudevo gli occhi.
    Non era propriamente sonno, quello in cui noi vampiri cadevamo, ma più un annullamento dell’essere, una sorta di limbo in cui non esistevano né giorno né notte, né bene né male, solo noi stessi e quel potere che la sera ci animava. Senza quello e la nostra essenza o la nostra ragione, quel che restava era solo un involucro vuoto di carne e muscoli, un cadavere mantenuto in bello stato. Quando giungeva la notte il nostro corpo tornava a muoversi, sebbene, almeno io, mi svegliassi come se fossi rimasta in apnea più di quanto concessomi. E lo stesso accadde quella sera quando riaprii gli occhi nell’oscurità, tanto che ci misi un po’ a ricordare tutto con nitidezza e ad alzare il coperchio per mettermi a sedere.
    Mi sgranchii appena il collo e mi rialzai in piedi, muovendomi in quell’oscurità che avvolgeva la cantina con estrema facilità. Risalii le scale e sbucai nuovamente nel soggiorno, dove aleggiava un intenso odore di bacon. Lo accompagnava anche quello della frittura, simbolo che Nathan stava preparando la propria cena. Quando giunsi nella piccola cucina, difatti, lo trovai ai fornelli, intento a rigirare il suo cibo nella padella.
    Senza voltarsi, essendosi accorto di me, mi indicò con un cenno della mano il tavolo, e io mi accomodai tranquilla ed attesi. Quando lui posò tutto a tavola si sedette a sua volta, spronandomi a spiegargli cosa mi avesse spinto fin lì prima dell’alba. Gli raccontai tutto con gran dovizia di particolari, proprio com’ero solita fare, partendo dall’incontro con quel ragazzo e della discussione che avevamo avuto prima d’arrivare all’infrazione avvenuta nel mio monolocale. Lui mi ascoltò attento e senza interrompermi, assumendo poi un’espressione alquanto pensosa quando conclusi. Aveva unito le dita a cupola e si era accomodato contro lo schienale della sedia, con lo sguardo fisso dinnanzi a sé.
    «Allora, fammi capire bene», esordì infine con un tono abbastanza scettico. «Un ragazzino, per di più facente probabilmente parte d’uno di quei reparti d’investigazione sovrannaturale, ti ha chiesto d’aiutarlo con un caso... e tu hai accettato?» mi guardò con un sopracciglio inarcato prima di continuare. «Tu, miss “non voglio avere niente a che fare con i problemi del genere umano”?»
    Non diedi alcun peso alle sue parole, agitando con fare svogliato una mano prima di poggiare il viso sul dorso della mano dell’altra. «L’ho fatto solo perché sono coinvolti uno o più vampiri», ci tenni a precisargli. «Solo e unicamente per questo. Altrimenti col cazzo che accettavo».
    «Inventatene un’altra», ribatté sarcastico. «Di un po’, non è che in fin dei conti sei preoccupata per le possibili conseguenze?»
    Lo guardai a zanne scoperte nel sentire quelle parole, alzandomi in piedi per osservarlo dall’alto in basso. «Non è un problema mio, perché dovrei essere preoccupata?»
    Per un po’ di tempo lui non rispose, limitandosi a mettersi comodo e ad impugnare le posate. Diede giusto un morso al bacon, riempiendosi il bicchiere con la sua birra scura. Fu solo a quel punto che mi guardò, facendo spallucce. «Hai accettato, no? Questo dimostra che un minimo di preoccupazione ce l’hai», prese il bicchiere e se lo rigirò in mano, abbassando gli occhi per vedere il liquido oscillare al suo interno. «E poi questa è una cattiva pubblicità, per voi. Già non fate una bella vita, dover poi temere d’essere esposti a causa di certi squilibrati non dev’essere un gran bell’affare».
    A quel dire restai interdetta, ma cercai di non dimostrarlo. «Cazzate», sbottai, volendo negare l’evidenza. Mi allontanai dal tavolo dando le spalle a Nathan, avviandomi in direzione dell’ingresso. Ma mi fermai a metà strada, fissando un punto indefinito. «Ehi, sacco di pulci», lo chiamai, continuando solo quando sentii il suo sguardo su di me. «Vedi di fare attenzione quando esci, la notte».
    Dopo qualche attimo di imbarazzante silenzio, mi giunse una sua lieve risata. «Cos’è, sei preoccupata per me, sanguisuga?» mi chiese ironico. «Lo sai che so badare a me stesso. Non mi diventare sentimentale, adesso. Non ti si addice».
    Mi voltai appena verso di lui, sollevando un angolo della bocca in un piccolo sorriso. «Tu tieni a mente il consiglio», ribattei semplicemente, riprendendo ad incamminarmi verso la porta e, dopo averla aperta, feci un rapido cenno di saluto a Nathan. «Stammi bene, amico», soggiunsi, uscendo e lasciandolo infine solo con la sua cena.
    Quella che era calata era la mia notte, ed era appena cominciata.



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